COREOGRAFIA (XI, p. 392)
Il termine (che nasce in Italia con l'Algarotti, ma è già in uso in Francia dal 1740) fu usato nel senso sostanzialmente esatto ma etimologicamente improprio di "concezione" e d'"invenzione" della danza. Questo fu sempre, ed è, infatti, la c.: da un lato il momento creativo di un'arte - la danza - che si sviluppa contemporaneamente nel tempo e nello spazio, e si serve, come "materiale", del corpo di uno o più ballerini in movimento; dall'altro, la struttura di ogni esempio compiuto di quest'arte, e cioè l'insieme organico di idee che stanno alla base di ogni sviluppo lineare e plastico di una particolare danza o di uno spettacolo di danza. La c. quindi è un'attività, un'arte teatrale, ma anche il prodotto di quest'attività e di quest'arte nel suo aspetto strutturale.
Protagonista assoluto di questo momento creativo è il coreografo; e, per quanto riguarda il prodotto teatrale dell'invenzione o della composizione - e cioè un qualsiasi tipo di balletto - il coreografo ne è il primo, vero, unico, autore. Anche se un balletto si presenta, pertanto, come fatto spettacolare sincretico che unisce in sé varie altri arti - in particolare musica e pittura - è la danza che, ovviamente, ne è la sostanza, ed è la sua c. che ne determina l'identità (oppure, se si vuole, è il coreografo l'artefice del suo successo). In quest'ultimo senso, la storia della c. è anche la storia del balletto e dei suoi stili (v. balletto, in questa Appendice).
Ma il coreografo non è soltanto, rispetto alla danza, quello che il compositore è rispetto alla musica: cioè semplicemente l'autore di una "partitura" - anche se di movimenti e non di suoni. Perché egli è anche, da sempre (e cioè, per quanto riguarda il balletto, circa cinque secoli), l'autore della concezione globale, e non soltanto strettamente coreografica, di uno spettacolo di danza teatrale e della sua messinscena. Il coreografo "pensa" un balletto - sceglie un'idea o un libretto suo o di altri, sceglie la musica, suggerisce lo stile della scena e dei costumi, sceglie i ballerini, assegna le parti - e poi le realizza -, inventa le vere e proprie danze, il succedersi di passi e figure, e cura ogni aspetto della messinscena e dell'allestimento. Il coreografo è quindi sempre autore e regista dello spettacolo di danza. Allo stesso modo la c. finisce con l'identificarsi per estensione analogica nello spettacolo di danza nella sua complessa realtà organizzativa ed estetica.
Alle origini, nel Quattrocento, prima ancora della nascita del vero e proprio balletto, la c. - o meglio i semplici spunti coreografici di una danza di divertimento destinata alle corti - fu sempre opera di maestri di ballo, che erano dunque maestri e coreografi insieme (come Guglielmo Ebreo e Domenico di Piacenza). Anche i primi grandi balletti, concepiti come feste teatrali o conviviali, furono opera di maestri di ballo, che però divennero ricchi e famosi proprio perché coreografi oltreché maestri (come B. Baltazarini da Belgioioso, creatore del "Ballet Comique de la Royne" alla corte francese, nel 1581). Si parlava allora non di c. e di coreografi, ma d'"invenzione" e d'"inventori di balli" (e questi termini continuarono a essere preferiti fino alla fine dell'Ottocento), che spesso erano anche autori del testo e delle musiche, ed erano tutti maestri di ballo professionisti, salvo alcuni nobili estrosi, appassionati di danza (come B. Botta, in Tortona, intorno al 1489) che si cimentavano nella concezione e nella realizzazione di grandi balli con tema e sviluppo unitario. Nonostante fosse praticata ormai da un paio di secoli, la c., come professione vera e propria e non soltanto come attività integrativa, si suole far risalire al 1661, e cioè alla creazione dell'Académie Royale de musique et de danse, diretta da Beauchamps, a Parigi. Con lo sviluppo della tecnica, detta appunto ("accademica", con l'ascesa del virtuosismo e poi del professionismo, la figura del coreografo non s'identificò più tanto in quella del maestro, quanto in quella del primo ballerino con incarico anche d'inventore dei balli. L'accademismo e il virtuosismo portarono nel Settecento e ancor più nell'Ottocento alla preminenza, nella mente e nelle emozioni del pubblico, dei ballerini - o piuttosto delle ballerine - che, invece, sono in realtà gl'interpreti e ben di rado anche gli autori di un balletto. Lo strapotere degl'interpreti fu tale in questi secoli che, ancor oggi - perfino dopo la rivoluzione teatrale dei Ballets Russes di Djagilev che si fondò sulle nuove idee coreografiche di Fokine - ancora oggi si parla di "un balletto della Fracci" o "di Nureev" invece che, per es., "di Cranko" o "di McMillan"; si usa, cioè, per identificare il balletto, il nome dell'interprete anziché quello dell'autore, che è il coreografo. Soltanto alcune eccezionali personalità di coreografi riuscirono a essere accettati dalla cultura ufficiale come grandi artisti autonomi, e non soltanto come qualcosa di un po' di più di un maestro e di molto meno di un grande ballerino: in particolare, G. Angiolini e G. Noverre - artefici del passaggio dal balletto di corte, esornativo e pomposo, al ballo pantomimico o "ballet d'action", stringato e drammatico; e S. Viganò creatore del coreodramma o "teatro danzato", nobile, complesso, di ampio respiro ideologico. Altrimenti, prima dei Ballets Russes (e spesso, in Italia, anche dopo) la c. e il coreografo non sono stati considerati né culturalmente né teatralmente importanti, e questo in gran parte per l'ignoranza da parte del pubblico della natura e della qualità del lavoro coreografico, oscurato dalla fama e dal fascino dei suoi interpreti, e comunque ritenuto subordinato al teatro lirico, più popolare.
Nella realtà della vita teatrale dell'Ottocento, peraltro, c. e coreografi andarono acquistando prestigio e potere in molti paesi, almeno in quelli dove al saldo potere centralizzato faceva riscontro un'organizzazione teatrale ricca e centralizzata, e dove fu possibile la fioritura di grandi scuole nazionali, attorno a personalità come A. Bournouville in Danimarca, M. Petipa e Lev Ivanov in Russia.
Sul piano estetico, l'ascesa del balletto romantico, legato a coreografi geniali come F. Taglioni, e poi J. Perrot e A. St. Leon, attraverso l'elaborazione di una tecnica aerea e raffinata, oppure veloce e terrestre, aprì alla c. le porte del più alto lirismo e del più ampio respiro narrativo, anche scherzoso e comico. Ancora condizionata, in larga misura, dalle esigenze e dalle ambizioni delle grandi danzatrici (che spesso commissionavano le proprie variazioni a un proprio coreografo di fiducia), la c. sette-ottocentesca usò la musica come semplice supporto funzionale. Alle musiche proprie, i coreografi cominciarono a sostituire musiche di altri, già esistenti e popolari, oppure commissionate, tutte generalmente di poco conto, e facilmente modificabili e addirittura intercambiabili. I grandi compositori furono cosi tenuti - o si tennero - lontani dal teatro di danza; quando vi si cimentarono, furono sempre, fino a tutto il secolo scorso, al servizio dei coreografi. Tuttora, l'assenza di buona musica continua a gettare sul balletto ottocentesco un discredito di fondo, specialmente nel nostro paese. Ma questo, in gran parte, è anche uno dei tanti aspetti negativi del nostro modo d'intendere l'arte della c. - e la danza - come arte "minore", rispetto alla musica o alle altre arti. Dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, quando compositori come Delibes, Čajkovskij, poi Stravinskij, e tanti altri lavorarono per il teatro di danza, un balletto - oltre che ("della Fracci" - è stato ed è spesso definito, in Italia, come "di Čajkovskij" e "di Stravinskij" (anziché "di Petipa" o "di Balanchine"), e questo anche quando non siano eseguiti in suite da concerto, ma siano rappresentati in teatro.
Anche all'estero, il vero prestigio della c. e del coreografo, nell'ambito della cultura in senso lato, è legato al lavoro di Fokin, di Nižinshij, di Massine e di Balanchine per i Ballets Russes, dal 1909 al 1929. Da allora un grande coreografo è considerato quasi ovunque alla stregua di un grande compositore o di un grande regista, sia nella c. come attività teatrale autonoma - e cioè nel teatro di danza - sia nella c. come attività integrante di altri generi (commedie e films musicali, opera lirica). Nei grandi teatri d'opera e nelle compagnie di balletto stabili, il coreografo principale è anche spesso il direttore artistico della compagnia, distinto dal maître o ripetitore, che invece ha cura del mantenimento del repertorio e della preparazione tecnica e stilistica dei ballerini.
Non tutti i coreografi lavorano allo stesso modo. C'è chi parte da una musica e ne fissa nella mente la trasposizione coreografica, prima di cominciare le prove di un balletto. C'è invece - e sono i più - che, dopo aver fatto alcune scelte teoriche di fondo, inventano, creano la c. servendosi dei ballerini e lavorando sul loro stesso corpo, dando vita a un rapporto dialettico tra autore e interprete, che in molti casi è determinante. Altri, come M. Cunningham, uno degli esponenti dell'avanguardia americana legata alla modern dance (ma spesso anche coreografi di estrazione accademica come M. Béjart) costruiscono c. del tutto autonome o semplicemente "parallele" rispetto alla musica, senza "danzare la musica", come avviene nella maggioranza dei casi (nei grandi balletti corali e astratti di Balanchine, per es., si ha l'impressione che la c. sia una partitura animata e danzante). È comunque indispensabile che il coreografo sia o sia stato egli stesso ballerino e che conosca perfettamente il tipo di tecnica che intende usare. Ci sono sempre stati relativamente pochi coreografi, in ogni epoca, proprio perché l'aspetto creativo della danza - quale che sia il modo di creare - è legato indissolubilmente alla possibilità di avere a disposizione una compagnia di danza di qualche entità, e per un gran numero di ore. Il che è ben raro e difficile, ovunque.
Fare una c. e poi "montarla", in conclusione, è un po' come se un compositore e direttore d'orchestra, oltre ad avere in mente una complessa partitura, dovesse insegnare a ciascun orchestrale, direttamente e con l'esempio, la sua parte. Una volta creata, una c. è riproducibile, di solito, soltanto da parte del proprio autore, o di un suo stretto collaboratore che ne ricordi perfettamente tutti gli aspetti. Quasi esclusivamente alla memoria cioè, si affida la riproduzione di un balletto e la sua conservazione nel repertorio attraverso i decenni, e i secoli. I vari tipi di notazione della danza (o c. in senso etimologico), da quella di A. Feuillet (1968) ai metodi Laban (o "labanotation") e Benes, nel nostro secolo, implicano tempo e difficoltà notevoli, e comunque non riescono a fissare completamente gli aspetti espressivi, stilistici e registici, che fanno parte integrante di un balletto e della sua coreografia. Quanto al cinema - oggi usatissimo per conservare il repertorio - la sua bidimensionalità appiattisce necessariamente la c. teatrale originale, perché la varietà delle inquadrature e degli obiettivi altera irrimediabilmente i rapporti di reale distanza tra danzatori e pubblico e tra un elemento coreografico o scenografico e l'altro; sicché può essere considerato un sistema di notazione utile, ma pur sempre incompleto e spesso infedele.
Bibl.: Cfr. la voce balletto; inoltre; D. Humphrey, The Art of miking dances, New York 1960; M. Cunningham, Changes: notes on choreography, ivi 1968; D. Humphrey, An Artist first, ivi 1972.