CORNA PELLEGRINI SPANDRE, Giacomo Maria
Nato a Pisogne (Brescia) il 13 sett. 1827 da Giovanni Corna e Giacomina Pellegrini Spandre, in una famiglia ove la tradizionale saldissima religiosità si univa ad un moderno spirito imprenditoriale (sì da divenire fra le più attive della Valcamonica nei settori minerario, siderurgico, serico e bachicolo), il C., che solo nel 1865 aggiunse al paterno il nome dell'estinta famiglia materna, manifestò assai presto la sua vocazione religiosa, entrando in seminario il 22 nov. 1842. Alunno del canonico Pietro Tiboni e condiscepolo di Tito Speri, in seminario respirò e assimilò gli ideali cattolico-liberali allora assai diffusi fra il clero lombardo. Ordinato sacerdote il 16 marzo 1850, dopo alcuni anni di attività pastorale, venne inviato nel 1856 a Roma, all'università Gregoriana, ove ebbe a maestri p. Carlo Passaglia e p. Giovanni Battista Franzelin e come compagni i giovani Bonomelli, Guindani, Parocchi, Vannutelli. Laureatosi in teologia dogmatica nel 1857 e in diritto canonico nel 1858, dopo un breve periodo di insegnamento nel seminario di Brescia, otteneva la prevostura a S. Alessandro di città, proprio nei tormentati giorni della liberazione dall'Austria (13 giugno 1859).
Subito si distingueva per lo slancio con cui soccorreva i feriti di Solferino e San Martino, ammassati nella sua chiesa trasformata in ospedale, ma ancor più per un appello, rivolto nel marzo 1860 insieme con altri sacerdoti bresciani a Vittorio Emanuele II, "unico, leale e sincero vindice dei troppo da lungo tempo conculcati diritti dell'umanità", di cui si esaltavano "la osservanza ferma, leale ed indeclinabile dello Statuto", le "virtù cittadine" e le "libere... istituzioni" (A. Fappani, p. 16).
Questa aperta manifestazione di lealismo patriottico segnava però per il C. lo inizio di una profonda revisione di atteggiamenti: le annessioni di province appartenenti allo Stato pontificio, le conseguenti rivendicazioni temporali avanzate dal papa, la politica laicizzatrice dello Stato italiano, le aspre polemiche entro il mondo cattolico sugli atteggiamenti da assumere verso il nuovo Stato nazionale, cambiarono radicalmente il clima di fiducia in cui tante speranze neoguelfe erano nate e spinsero molti sacerdoti, fra cui il C., a rivedere le proprie posizioni. Nel giugno 1861 la sua appartenenza all'ala intransigente del clero bresciano era ormai un fatto compiuto: nel 1862 egli era addirittura membro della commissione diocesana incaricata di richiamare alla disciplina i preti liberali e passagliani.
Aveva inizio così per il C. un lungo periodo di collaborazione sempre più stretta e costellata di incarichi sempre più delicati con l'energico vescovo Girolamo Verzeri, che lo volle nel 1866 suo provicario generale, nel 1870 arciprete nella cattedrale e infine nel 1875 vescovo titolare di Samaria in partibus infidelium e coadiutore con diritto di successione. L'abilità negli affari materiali che gli veniva forse dall'ambiente familiare, la prudenza e l'equilibrio con cui aveva saputo risolvere spinose questioni come la remissione della scomunica che aveva colpito gli acquirenti dei beni ecclesiastici confiscati, l'esperienza accumulata coadiuvando l'anziano vescovo nell'opera pastorale, le simpatie che ancora godeva fra i liberali per il suo passato patriottico e per il rispetto sempre testimoniato verso l'autorità costituita (che gli valsero nel 1875 una rapida concessione dell'exequatur malgrado la sua fama di intransigente), ma soprattutto la obbedienza e la fedeltà assoluta in ogni frangente dimostrata al papa e alla sua protesta furono indubbiamente i motivi della scelta del Verzeri. Ma anche della stima che gli testimoniarono i pontefici, da Pio IX che personalmente intervenne perché egli, riluttante, accettasse la nomina a coadiutore, a Leone XIII che non solo pensò a lui nel 1893 per il vacante patriarcato di Venezia (pur senza convincerlo ad accettare), ma volle anche, poco dopo, insignirlo dei titoli di prelato domestico, assistente al soglio e conte romano.
Quando il 1° dic. 1883 il C. succedeva al Verzeri, i tratti distintivi del suo episcopato avevano già avuto modo di chiarirsi: suo obiettivo fondamentale era quello di svolgere il suo magistero non esulando, finché possibile, dal terreno pastorale e religioso, rispettando una naturale distinzione di competenze, ma tenacemente rivendicando i propri diritti e le proprie libertà. In questo come in ogni altro campo sua legge prima restava la adesione ad un "indirizzo apertamente romano", la piena conformità cioè alle direttive pontificie, sia quando esse imponevano una intransigente condanna del liberalismo, dei suoi uomini e delle sue istituzioni, sia quando invitavano ad attenuare la protesta e a cercare un incontro a mezza via con le forze moderate, sia infine quando decretavano la lotta senza quartiere contro il modernismo. Esemplari in questo senso le sue molte lettere pastorali che volevano essere trasmissione e commento degli insegnamenti del papa, quasi che il vescovo dovesse essere solo il tramite fra Roma e le comunità locali. Significativo ancor più l'appoggio dato ad organismi come la Pia Unione dei sacerdoti del Cuor di Gesù, il cui fine era, attraverso i vincoli dell'obbedienza e della pratica ascetica, la diffusione nel clero bresciano di sentimenti intransigenti e la distruzione di ogni residua mentalità liberaleggiante. Se queste erano le sue convinzioni fondamentali, egli non mancò però di concedere, là dove gli interessi della Chiesa e della sua autorità non ne soffrissero, libertà di azione e di ricerca, assicurando al cattolicesimo bresciano una originalità di iniziative e di ispirazione che andò poi accentuandosi con i suoi successori. Personalmente portato alla prudenza e alla mediazione, nemico di ogni contrasto che minasse la stabilità dell'edificio ecclesiale non meno che di quello sociale, timoroso di novità troppo spinte e legato ad una visione spesso statica e paternalistica della società, ancorato ad un severo senso dell'autorità (soleva dire che "ogni Autorità viene da Dio, e quindi il rispetto all'Autorità civile riesce a difesa della stessa Autorità nostra": A. Fappani, p. 27), egli non era però insensibile al mutare delle atmosfere e sapeva adattare gli strumenti ai tempi e ai fini.
In questa varia compenetrazione di elementi risiedeva certo la radice dei suo intransigentismo, che fu un saldo ideale se lo spinse a gesti gravi, e che personalmente dovettero costargli: come la lettera di protesta diretta a Leone XIII nel marzo 1889 contro il celebre opuscolo bonomelliano Roma e l'Italia e la realtà delle cose, che auspicava la piena riconciliazione fra Stato e Chiesa, lettera che occasionò il duro intervento papale, la messa all'Indice del libro e la pubblica ritrattazione di Bonomelli. Era certo un contrasto doloroso questo, perché con un amico caro, ma destinato a ripetersi perché fondato su un'antitetica concezione del ruolo del vescovo nella Chiesa e soprattutto su un diverso atteggiarsi ideale verso il liberalismo e lo Stato liberale.
Eppure l'intransigentismo del C. non escludeva un profondo legame con gli ideali nazionali: i non dimenticati giovanili entusiasmi patriottici, la convinzione che "il vescovo cattolico non è mai fazioso, e riconosce, ed onora ogni potere costituito" (A. Fappani, p. 25), lo stesso lento offuscarsi della questione romana lo spinsero, come d'altronde avvenne a molti altri vescovi intransigenti lombardi, a manifestare una sempre più aperta deferenza verso le istituzioni, una sempre maggior sensibilità ai valori nazionali.
La partecipazione accorata al lutto del paese per l'uccisione di Umberto I fu il primo segno di un nuovo corso nei rapporti con l'Italia liberale che il C. attuò con convinzione: così nel 1903, durante un banchetto in onore del vescovo di Trento, egli invocava la Provvidenza perché concedesse a quella diocesi di divenire italiana e nel 1904 riservava cordiali accoglienze al re a Brescia, dopo che per due volte, in passato, si era volutamente assentato dalla città in occasione di visite reali. Nel novembre 1909 infine giungeva, con un gesto non certo usuale per i tempi, a benedire ufficialmente il tricolore di un reggimento italiano, assistendo poi al discorso apertamente irredentista del gen. Asinari di Bernezzo, che Giolitti definì una vera e propria dichiarazione di guerra all'Austria. "Fervido credente nei destini della Patria", si rivelò infine durante la guerra di Libia, invitando la sua diocesi a pregare perché "i sacrifici della grande lotta siano coronati dalla vittoria e dalla gloria e maturino quei frutti che desideriamo" (F. Malgeri, p. 240).
Resta ora da ricordare l'atteggiamento del C. verso le organizzazioni cattoliche, che soprattutto dagli anni '80 si diffusero numerose anche a Brescia. Almeno una iniziale diffidenza verso "questi preti che uscivano di sagrestia e questi laici che vi entravano, questi secolari che parevano... posare talvolta a consiglieri di parroci e vescovi, quasi migliori interpreti del pensiero papale, [verso] certe affermazioni democratiche di alcuni dalle parole e dal tono chiesti a prestito dal socialismo", certamente non mancò, come ricordava anche il suo segretario E. Bongiorni (Commem., p. 13): "soprattuttolo rendeva trepido il timore che lo spirito costituzionale si insinuasse nella Chiesa".
Come "conciliare la nuova atmosfera democratica con il senso tradizionale e severo che il vescovo aveva dell'autorità"? (L. Fossati, p. 146). Ci pensarono il pontefice Leone XIII e gli anticlericali bresciani a fargli mutar parere sull'utilità dei nuovi organismi, che se d'un lato rafforzavano le dighe della fede contro il montante laicismo, permettevano dall'altro di riaffermare la presenza della Chiesa e dei cattolici nella società bresciana, sempre più dominata da Zanardelli e dal suo gruppo liberal-dernocratico-massonico.
Se il C. fu dunque sostenitore sempre più convinto del movimento cattolico, non si discostò per questo dai suoi orientamenti di fondo: volle e incoraggiò la azione cattolica come espressione di un impegno religioso e apostolico e ne valutò gli indirizzi sempre in funzione del bene che essi avrebbero potuto recare alla causa della Chiesa: che al duro intransigentismo di G. Tovini, fautore di una netta contrapposizione fra cattolici e liberali al di là di ogni distinguo, egli abbia preferito alla lunga il più duttile transigentismo di G. Montini e G. M. Longinotti, che invitavano ad accordarsi con gli elementi più moderati del liberalismo bresciano in difesa della religione, della famiglia, della libertà della scuola, non può meravigliare se si pensa che il suo obiettivo primario restava l'affermazione, la penetrazione degli ideali cattolici nella società e nelle istituzioni.
Penetrazione resa possibile non solo dall'impegno prima amministrativo, poi anche politico dei cattolici bresciani, ma soprattutto da una vasta rete di iniziative editoriali, culturali, economiche e sociali volute dal C., perché sentite come diretta emanazione di un credo etico e religioso. Perciò egli salutava nel 1909 il primo deputato cattolico bresciano in partenza per Roma dicendogli: "Si inginocchi, le dò la medesima benedizione che dò ai Parroci" (A. Fappani, p. 49).
Il 21 maggio 1913, dopo quasi un quarantennio di episcopato vissuto sotto tre pontificati, si spegneva a Brescia.
Fonti e Bibl.: Brescia, Archivio vescovile, Carte Riservate, 1860-1913; Ibid., Biblioteca Queriniana, Autografi Manoscritti 810, f. I e II; le carte personali del C., ancora in via di riordino, sono depositate presso la Congregazione dei pp. oblati al santuario delle Grazie in Brescia; lettere sparse sono anche nell'Archivio di Stato di Brescia, Carte Zanardelli e nella Bibl. Ambrosiana di Milano, Carte Capretti e Archivio Bonomelli. Del C. restano moltissime lettere pastorali tutte edite a Brescia e alcune commemorazioni fra cui Elogiofunebre del sommo pontefice Pio papa IX, Brescia 1878 e Discorso per la solenne traslazione della salma di mons. Girolamo nob. Verzeri dal cimitero allacattedrale di Brescia, Brescia 1905. Fra gli scritti d'occasione o rievocativi dedicati al C.: A mons. vescovo G. M. C. P.-Il Circolo universitario Leone XIII, Brescia 1900; F. Badinelli-Bonetti, L'eco disedici anni, Brescia 1900; P. Guerrini, Mons. G. M. C. P. vescovo di Brescia, in Brixia sacra, IV (1913), pp. 170-202; G. Gaggia, Elogio funebreletto nella cattedrale di Brescia il 24 giugno 1913nelle solenni esequie di trigesima, ibid., pp. 203-222; E. Bongiorni, Mons. G. M. C. P. vescovo di Brescia, Commem., 1° ott. 1934 (supplemento al n. 9 del Boll. uffic. della diocesi di Brescia), Brescia 1934; A. Morandini, Le visite pastorali di mons. C. P., in Mem. stor. della diocesi di Brescia, XXIX (1962), 2, pp. 82-95; L. Fossati, S. E. mons. E. Bongiorni e alcuni aspetti del suo tempo, Brescia 1962. Il testo più completo resta comunque A. Fappani, Un vescovo "intransigente". Mons. G. M. C. P. S. e il movim. cattolico bresciano dal 1885 al 1913, Brescia 1964. Sull'ambiente bresciano e l'opera del C.: Mons. Bonomelli e p. G. Piamarta. Un manipolo di lettere ined., Brescia 1943, p. 27; A. Cistellini, G. Tovini, Brescia 1954; F. Fonzi, G. Tovini e i cattolici bresciani del suo tempo, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, IX (1955), pp. 233-248; R. Chiarini, G. Zanardelli e la lotta politica nella provincia italiana: il caso di Brescia (1882-1902), Milano 1976, pp. 34, 95, 100 ss., 139-142, 307-320. Per alcuni giudizi sulla sua figura: G. Spadolini, L'opposiz. cattolica da Porta Pia al '98, Firenze 1954, p. 426; G. Astori, Lo opuscolo di mons. Bonomelli "Roma e l'Italia e la realtà delle cose" (con documenti inediti), in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XV (1961), p. 453; L. Bedeschi, I cattolici ubbidienti, Napoli-Roma 1962, p. 1; F. Fonzi, Crispi e lo "Stato di Milano", Milano 1972, pp. 435, 444-447; F. Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Roma 1970, p. 240; C. Bellò, G. Bonomelli vescovo di povera santa Chiesa, Brescia 1975, pp. 182, 211, 230 s.