CORNAGGIA MEDICI CASTIGLIONI, Carlo Ottavio
Nato a Milano il 6 dic. 1851, da Giovanni Cornaggia Medici e da Luigia Castiglioni, erede di una antica famiglia milanese risalente al XIII secolo, insignita con diploma imperiale del 1744 del titolo marchionale; alla morte della madre, ultima del proprio casato, ne assunse il cognome e il titolo comitale. Laureatosi in giurisprudenza a Pavia nel 1874, sposò il 5 febbr. 1879 Anna Gallarati Scotti (figlia del duca Tommaso Anselmo): dal loro matrimonio sarebbero nati sette figli.
Fin dai primi passi sulla scena politica cittadina, l'orientamento ideale e politico del C. si delineò con notevole chiarezza: fedele per tradizione familiare e convinzione personale al magistero della Chiesa e sensibile quindi alle ragioni della sua protesta, egli era, per altro verso, ugualmente sensibile alle ragioni dello Stato e della politica. Come per buona parte di quella aristocrazia lombarda insieme liberale e cattolica, cui anch'egli apparteneva, per il C. la fede religiosa non escludeva, ma anzi imponeva una piena adesione ai nuovi istituti nazionali e una fattiva partecipazione alle lotte politiche. Tutt'altro che sordo all'eredità di quel cattolicesimo liberale che aveva improntato di sé tanti moderati lombardi e che, ancora dopo la traumatica rottura fra Stato e Chiesa, sopravviveva tenacemente in molti sacerdoti e laici, il C. si riconosceva però più vicino al "conservatorismo nazionale" di S. Jacini, così preoccupato di colmare lo iato fra "paese reale" e "paese legale", di portare le masse cattoliche entro le istituzioni monarchiche, facendone la base portante di una società cristiana e rurale, guidata da una classe dirigente illuminata di grandi proprietari terrieri. Quella classe, insomma, cui anche il C. apparteneva e che aveva sempre costituito d'altronde, nella storia della Lombardia moderna, il ceto di governo. Ma forse, e ancor più, ciò che allontanava il C. dagli esponenti più genuini del cattolicesimo liberale e ne faceva, sin dai primi anni, l'interprete tipico di un nuovo "cattolicesimo conservatore", non era tanto un diverso disegno politico, quanto l'assenza di ogni reale tensione spirituale verso un rinnovamento interiore della Chiesa, verso un ripensamento critico del suo magistero. Allora (e soprattutto più tardi, negli anni del fermento modernistico) egli evitò ogni scontro con l'autorità religiosa sul piano dell'ortodossia e si mostrò scarsamente interessato alle correnti, molto vive in Lombardia, che auspicavano un rinnovamento religioso nel campo speculativo e liturgico: tanto da essere definito a questo riguardo da Sabina di Parravicino Revel "timido e pauroso" (Confessore, Conservatorismo, p. 105).
Ciò che realmente lo appassionava era invece il problema della riconciliazione del mondo cattolico con il nuovo Stato unitario e ancor più quello della sua collocazione all'interno del sistema politico. Prima militando nelle file liberal-moderate milanesi, in particolare operando all'interno dell'Associazione costituzionale e sostenendo il suo organo politico, la Perseveranza, poi (una volta attenuatesi le rigide chiusure del mondo clericale ambrosiano proprie degli anni '70 e '80)dall'interno degli stessi ambienti cattolici e più precisamente dalle colonne della Lega lombarda, il C.volle assumersi il compito di rinvigorire, adattandola ai tempi, l'eredità jaciniana.
Acquistando nel 1888 e cominciando a dirigere personalmente qualche tempo dopo la Lega lombarda, ilquotidiano voluto nel 1886 dall'arcivescovo Nazari di Calabiana e da monsignor Bonomelli quale contraltare all'intransigente Osservatore cattolico, il C. si poneva essenzialmente un obiettivo: vincere le resistenze degli ambienti clericali e fare delle forze cattoliche la struttura portante di una società e di uno Stato cattolici e conservatori. L'autoisolamento, scelto dal mondo intransigente quale forma di protesta contro la logica dei "fatti compiuti", rappresentava al suoi occhi un pericolo gravissimo non solo per la Chiesa, che perdeva così sempre più la propria influenza sulla società civile, ma anche per lo Stato, indebolito dal mancato appoggio di forze naturalmente conservatrici. Per i "cattolici all'acqua di rose" della Lega lombarda, come polemicamente li definiva nel 1895 l'intransigente padre B. Sandri (Fonzi, Crispi, p. 266), il ritorno all'impegno politico e sociale era un'esigenza irrinunciabile: dalle colonne del suo giornale, il C. lo ripeteva con le dovute cautele, ma anche con ostinazione ad ogni scadenza elettorale. Anzi, faceva di più: poiché il non expedit concedeva ai cattolici la partecipazione alla vita amministrativa, anche prima del 1888 aveva cominciato a premere per un impegno diretto a fianco degli elementi più moderati e filocattolici del liberalismo milanese. Nel 1889fondava, a questo scopo, a Milano, un Comitato elettorale conservatore (che sarà poi sostituito nel 1899 dalla Associazione per gli interessi pubblici "Religione e Patria", ancora in attività nel primo dopoguerra), grazie al quale svolgeva un'attiva mediazione fra le due parti in occasione dei comizi comunali. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, il C., entrava nell'amministrazione cittadina nel 1893, grazie ai suffragi dei cattolici conservatori e del patriziato moderato. Restava in Consiglio sino al 1899, distinguendosi durante la giunta Vigoni, anche in qualità di assessore, fra i fautori di un più moderno ed equo assetto tributario di Milano. Nasceva in quegli anni e si consolidava non solo la sua immagine di leader dell'ala moderata e transigente del cattolicesimo milanese, ma anche la sua fama di valente amministratore (pubblico e non), fama che gli valse negli anni a venire la presidenza di innumerevoli opere pie, banche e industrie, oltre che l'elezione in diversi consigli comunali e provinciali.
Non privo di simpatie crispine (come gran parte del moderatismo milanese) quando Crispi parve cercare la via della conciliazione con la Chiesa, il C. venne però ben presto avvicinandosi alle posizioni dell'ala Rudiniana, via via che si inaspriva il contrasto fra l'uomo politico siciliano e lo "Stato di Milano". Sostenitore convinto del governo di Rudinì dopo il '96, non se ne dissociò neppure in occasione delle dure repressioni che nel '98colpirono gli organismi e le associazioni clericali milanesi.
Oppositore dichiarato e via via sempre più duro dell'ala albertariana dell'intransigentismo ambrosiano, segnata da pericolose velleità antimoderate, democratiche e autonomiste, il C. era convinto infatti, forse più che dell'obiettiva correità morale dei clericali nello scoppio dei moti sociali, del danno sempre più grave rappresentato dall'astensionismo cattolico di fronte al dilagante "pericolo rosso". Egli poteva anche difendere, come fece, Albertario in tribunale dalle accuse di sovversivismo, ma non poteva certo rimpiangere il colpo inferto all'organizzazione intransigente dal Rudinì. Troppe cose lo dividevano dal gruppo che guidava l'azione diocesana: educazione, modi, provenienza sociale e idealità erano troppo diversi perché egli potesse condividere la foga polemica, l'ansia di rinnovamento, il sentimento di diversità che animava i Meda, i Mauri, i Molteni, i Necchi, i Vercesi. "L'aspirazione a superare il conflitto fra coscienza religiosa e civile, collaborando lealmente alla vita politica dello Stato liberale pur mantenendosi fedele alla Chiesa e sinceramente devoto, era continuamente presente" (Canavero, Milano, p. 70 e lo spingeva ad operare attivamente perché l'ala clericale del movimento scegliesse infine stabilmente l'accordo con le componenti moderate del mondo liberale. Ma perché questo avvenisse, perché l'ipotesi transigente avesse la prevalenza occorreva da un lato isolare gli uomini che incarnavano con maggior efficacia le tensioni antiliberali e innovatrici dell'intransigentismo e dall'altro evitare ogni aperta rottura con i vertici ecclesiastici e con la base organizzata, senza i quali nessuna azione politica sarebbe stata possibile. Tutto ciò spiega l'estrema cautela del C. verso le autorità religiose, come pure l'appoggio dato a talune iniziative di carattere sociale del cattolicesimo ambrosiano (fu fra i soci fondatori tra l'altro del milanese Segretariato del popolo). Ma spiega anche l'atteggiamento molto duro assunto nel '98, l'avallo dato alla tesi della "congiura rivoluzionaria", come pure la successiva, insistente campagna che venne condotta dalle colonne del suo giornale nel corso del 1900-1901, contro i giovani del movimento della democrazia cristiana. All'alba del nuovo secolo non solo il suo pensiero si era definitivamente delineato, ma per la prima volta sembrava sul punto di concretarsi: è del 1898 infatti il suo progetto di un Partito conservatore cattolico, grazie al quale realizzare l'incontro e la fusione di tutte le forze naturalmente conservatrici e aprire infine la strada all'auspicata conciliazione fra Stato e Chiesa. Fu un'illusione di breve durata: non solo il partito non nacque, ma lo stesso C. si convinse della pericolosità di ogni progetto di partito cattolico. Meglio la strada degli accordi elettorali "caso per caso", piuttosto che spianare la strada alla nascita di quel partito di cui si cominciava a parlare nei primi anni del secolo fra i giovani della nuova guardia democratico-cristiana: un partito di cattolici, ma non cattolico, autonomo e riformatore, interprete delle esigenze di rinnovamento sociale e politico espresse dal mondo cattolico e per ciò stesso non legato al carro dei governi liberali o delle forze conservatrici.
E infatti, alla vigilia della sua elezione (nel novembre 1904) a deputato del IV collegio di Milano (elezione che, in quanto segnò di fatto il tramonto del non expedit, ebbe una risonanza vastissima a livello nazionale e internazionale), parlando al proprio elettorato, egli si esprimeva molto apertamente contro ogni idea di partito di cattolici modernamente organizzato e a favore invece di "un forte partito dell'ordine" clerico-conservatore, attivo essenzialmente sul piano parlamentare. Sostenitore a lungo del voto plurimo e del suffragio limitato, solo tardivamente e con scarsa convinzione il C. avrebbe aderito alla successiva campagna per il suffragio universale e la proporzionale, a conferma di una visione nel complesso conservatrice e tradizionalmente chiusa della vita politica.
Gli anni dal 1904 al 1913 furono, per il C., il periodo di maggior notorietà e di maggior impegno, ma più ancora che sul piano politico, su quello delle responsabilità nel mondo economico, finanziario e della pubblica amministrazione. Quasi che il nucleo più vitale del suo programma si fosse ormai realizzato con la fine dell'astensione, l'ingresso in Parlamento e la riscoperta da parte cattolica dei valori della patria e della lealtà verso la monarchia e le istituzioni liberali, il C. fu negli anni della "dittatura" giolittiana fra gli esponenti certo più noti, ma meno qualificanti e rappresentativi del mondo politico cattolico. Se la fusione nel 1907 della Lega lombarda e dell'Osservatore cattolico in un nuovo organo, L'Unione (poi L'Italia), con Meda direttore e con il C. presidente del consiglio di amministrazione, era il segno dell'incontro delle due anime del cattolicesimo milanese, favorito dal nuovo clima di "conciliazione silenziosa", ma soprattutto dall'ostilità di Pio X per ogni tentazione autonomistica del laicato cattolico sul piano politico, si trattava pur sempre di una convergenza parziale e provvisoria. Mentre altri "cattolici deputati" maturavano infatti lentamente una nuova coscienza di partito, l'integrazione del C. negli ambienti politici ed economici liberali si faceva sempre più marcata. Anticrispino, rudiniano e pellouxiano durante la crisi di fine secolo, il C. non poteva ovviamente concordare con la politica di apertura a sinistra di Giolitti. Il suo debutto alla Camera avvenne dunque nelle file dei conservatori antigiolittiani, vicini alle posizioni di Sonnino. L'ingresso dei radicali nel primo ministero Sonnino e gli orientamenti moderati del "lungo ministero" Giolitti avviarono tuttavia il suo lento avvicinamento alle posizioni della maggioranza governativa. Sopravvissero, certo, i timori per le compiacenze radicalmassoniche di Giolitti, mentre la politica scolastica e tributaria del governo non incontrò sempre la sua approvazione. Fu tra gli oppositori più recisi nel 1911 della nuova svolta a sinistra del ministero Giolitti, e venne avvicinandosi - anche in relazione alla battaglia parlamentare contro il monopolio delle assicurazioni sulla vita - al gruppo conservatore di Salandra restando però nella sostanza allineato con le posizioni governative.
Pur aderendo al gruppo parlamentare cattolico e condividendone talune battaglie (come quelle contro la scuola laica e il divorzio, per la riforma tributaria e l'ammissione dei sindacati bianchi nel Consiglio superiore del lavoro), egli svolse il proprio mandato in modo del tutto personale e indipendente, secondo la logica propria del sistema elettorale vigente, che voleva il deputato responsabile verso i propri elettori, ma svincolato da ogni dipendenza di partito. Nessun collegamento di idee o di programmi venne stabilito con gli altri "cattolici deputati": il C. si mosse così assai spesso in disaccordo con il gruppo, caratterizzandosi per un atteggiamento più marcatamente conservatore e filoministeriale (molto si ironizzò in quegli anni sul suo ministerialismo a tutta prova). Tipico fu il caso della campagna per il suffragio universale, lo scrutinio di lista e la proporzionale, in cui, memore certo dell'antica recisa opposizione ad ogni allargamento del diritto di voto, non seppe celare il proprio dissenso.
Favorevole alla guerra di Libia, il suo lealismo monarchico, la sua collocazione filogovernativa (ma con simpatie salandrine) e la sua politica vieppiù liberalmoderata non lo salvavano nel 1913 dalla sconfitta nelle prime elezioni a suffragio universale: sconfitta propiziata dal "tradimento" dei liberali del Corriere della sera e salutata con qualche compiacimento dalla stessa Civiltà cattolica (che non aveva perdonato al C. le troppe professioni di fede liberale e monarchico-sabauda).
Pur lontano dalle scene parlamentari, egli non cessava comunque di rappresentare un importante punto di riferimento nel panorama politico italiano: la guerra lo vedeva su posizioni di dichiarato neutralismo, al punto non solo di accettare la nomina a membro d'onore del Comitato romano per la tutela degli interessi nazionali, osteggiatissimo dagli interventisti, ma di rivolgersi allo stesso Giolitti perché "il momento è grave e soltanto Lei può preservarci da una jattura, che, a ragione o a torto, temiamo ci sovrasti". "È vivo in me il timore che l'on. Salandra, per cause varie, non resista alla corrente interventista e non ci preservi, mentre ancora è possibile, dalla disgrazia di una guerra" (10 febbr. 1915, in Vigezzi, Da Giolitti, p. 281). L'Italia aspetti, "fidente ed armata; un giorno le legittime sue aspirazioni potranno avverarsi, ma non dimentichi d'essere prudente e leale..." (L'Italia, 25 sett. 1914): così aveva detto a Milano ancora nel settembre 1914, insistendo soprattutto sulla fedeltà dovuta alle alleanze. Ma, entrata in guerra l'Italia, il C. - come, salvo rare eccezioni, tutto il mondo cattolico italiano - finì per aderire alle motivazioni nazionali della guerra. Al conflitto parteciparono i suoi cinque figli maschi: ne perse due, il primogenito Gian Carlo, caduto nel 1917 sull'Ortigara, e l'ultimogenito Gian Giuseppe.
La nascita, nell'immediato dopoguerra, del partito popolare, non lo ebbe certo fra i suoi promotori: come aveva scritto nel gennaio 1914, all'indomani della sconfitta elettorale, i cattolici, "se saranno illuminati e prudenti... non costituiranno un partito politico, che sarebbe cosa assurda in un paese sostanzialmente cattolico..., ma debbono spiegare un programma di libertà per tutti e di rispetto alla religione, che troverà larghe adesioni" (Comaggia, Liberali e cattolici, p. 143). Nel 1919 non aveva mutato opinione, ma il rapido successo del nuovo partito, il bisogno di non perdere i contatti con il mondo politico cattolico lo spingevano ad aderire: nel gennaio la Associazione per gli interessi pubblici "Religione e Patria", di cui era presidente, aderiva al partito popolare ed egli veniva nominato nel Consiglio direttivo della sezione milanese del partito. Ma già nel rinnovo postcongressuale del giugno 1919 il suo nome scompariva: e non era un caso. Il dissenso dalla linea sturziana si era immediatamente palesato, e proprio sul terreno più caro al C., quello dei blocchi elettorali. Alla lista pura, voluta dai popolari milanesi per le elezioni del novembre 1919, egli contrapponeva quella lista aperta che sola poteva perpetuare la tradizionale prassi clerico-moderata, nella quale era sintetizzata tutta la sua linea politica. Le amministrative del 1920, grazie al pressante intervento del cardinal Ferrari, parvero per un momento ricondurre Milano sulla strada voluta dal C., ma la sconfitta del Blocco nazionale, cui l'elettorato cattolico aveva aderito, permise ai popolari ambrosiani di riprendere il cammino interrotto verso una politica autonoma. Il distacco, via via sempre più netto, del C. diveniva dunque un processo irreversibile: non si trattava infatti solo di una differenza di programmi politici o di una diversa valutazione delle opportunità dell'ora, era proprio la sua concezione della lotta politica, così fortemente individualistica, così lontana da ogni logica associativa, da ogni forma di disciplina di partito, a rendere impensabile una stabile collaborazione del C. all'interno del Partito popolare italiano. Egli non poteva adattarsi alle nuove regole di una società politica di massa, dominata dai grandi partiti organizzati, fondata sul suffragio universale, in cui ogni deputato doveva rispondere non al ristretto circolo dei suoi "grandi elettori", ma alla direzione di un partito. Il distacco era dunque inevitabile: le dimissioni dal partito e la successiva fondazione (col concorso di Lodovico Gavazzi e di Gilberto Borromeo), nel maggio 1922, dell'Unione costituzionale italiana erano la conferma che il C. non intendeva discostarsi, pur nella realtà così diversa del dopoguerra, dalla via tradizionale dei blocchi d'ordine.
Lo scopo dell'Unione era infatti quello di promuovere la "solidarietà delle classi e la loro collaborazione, fondata sulla giustizia, per il bene comune, adempiendo ciascuna il compito che le spetta e le si addice, senza fingere di voler delegare al proletariato quei compiti che incombono specialmente alle altre classi" (Ignesti, Centro, p. 199). Alla nuova formazione politica, in cui la devozione filiale alla Chiesa si sposava con uno spiccato lealismo dinastico, non mancò un autorevole incoraggiamento: Achille Ratti, da poco divenuto papa Pio XI, inviava all'amico di un tempo un telegramma d'augurio, la cui autorevolezza non bastava però a richiamare attorno al gruppo altre simpatie che non fossero quelle del mussoliniano Popolo d'Italia odel conservatore Corriere della sera, lieti della nascita di un organismo che minacciava di indebolire dall'interno il popolarismo. Ma se gli avversari potevano guardare con qualche simpatia al nuovo movimento, le gerarchie religiose e gli organi di Azione cattolica non mostrarono di essere sensibili al richiamo: il quotidiano cattolico milanese L'Italia definiva infatti l'Unione una "gonfiatura" e un "aborto", pronosticandone il rapido esaurimento. "Pochi caporali senza soldati": così F. Meda liquidava l'associazione del C., negando che essa potesse rappresentare una concreta minaccia per i popolari. E in effetti il fenomeno rimase circoscritto: neppure il C. pensava d'altronde alla creazione di un vero e proprio partito in concorrenza col partito popolare. La diffidenza verso i partiti di massa ed anche una realistica valutazione delle forze su cui contare, gli facevano considerare l'Unione soprattutto come un punto di coagulo per quanti, dentro e fuori del partito popolare, non condividessero le aperture a sinistra della dirigenza sturziana.
Ciononostante nei suoi primi mesi di vita, l'Unione riscosse ancor meno successo del previsto: conobbe invece un momento di notorietà nella primavera del 1923 quando violenta divampò la polemica fra i cattolici sul tema della collaborazione al governo Mussolini. Mano a mano che il Partito popolare italiano precisava il suo progressivo distacco dal governo, più frequenti si facevano le dimissioni di esponenti cattolico-conservatori. Piccoli nuclei locali clerico-fascisti venivano così formandosi da scissioni a destra del partito popolare e aggregandosi all'Unione del C.: il più importante di questi nuclei era certo quello torinese, legato all'Unione sociale del barone Romano Gianotti. Fu il costituirsi di tali gruppi dissidenti a suggerire al C. la possibilità di un rilancio del suo progetto su più larga scala: l'11 apr. 1923 (alla vigilia del congresso di Torino del partito popolare che avrebbe dovuto pronunciarsi sulla collaborazione con Mussolini" egli lanciava da Roma un appello-programma per una Unione nazionale fra cattolici conservatori e filofascisti. Nel nuovo programma trovavano spazio, oltre ai tradizionali temi confessionali, motivi decisamente nazionalisti (quale il "sano sentimento del confine") in sintonia con il mutato clima politico del paese. Nonostante l'appoggio aperto di Mussolini (e di tutta la sua stampa ufficiale e ufficiosa) e nonostante le simpatie che tale organismo poteva raccogliere in taluni settori dell'episcopato italiano e in Vaticano (dove un nuovo clima si respirava dopo l'elezione di Pio XI), la Unione non riuscì mai a raccogliere larghi suffragi, ben presto messa in ombra dal più forte e rappresentativo Centro nazionale di Cavazzoni, Martire e Mattei Gentili. Dopo aver tenuto il 12 genn. 1924 a Torino il suo primo congresso nazionale (nell'ambito del quale vennero rinnovate le pressioni sul partito popolare, già in grave crisi dopo l'allontanamento di Sturzo, per una stabile collaborazione di governo col fascismo), l'Unione decideva alla fine di settembre dello stesso anno (durante il convegno nazionale dei rappresentanti di sezione) l'adesione al Centro nazionale, sia pur restando associazione autonoma. Da quel momento la sua vicenda finiva di fatto per identificarsi con quella del più ampio gruppo dei dissidenti popolari di destra filofascisti.
L'aperto appoggio al governo Mussolini valse al C. il 18 sett. 1924 quella nomina a senatore, che non aveva avuto da Salandra nel 1915, nonostante le pressioni di autorevoli moderati milanesi (fra cui Ponti e De Capitani d'Arzago). Fra i quarantasei contrari alla riforma elettorale, approvata dal Senato il 12 maggio 1928, con la quale il regime decretava la fine del parlamentarismo liberale, il C. limitò la sua attività politica alla tutela degli interessi religiosi nella scuola, nell'associazionismo giovanile, negli istituti tradizionali. Incondizionatamente favorevole alla conciliazione del 1929, egli esercitò, ancora negli ultimi anni di vita, una certa influenza sugli organismi di Azione cattolica.
Il pur intenso impegno politico non fu però, negli anni della sua maturità, l'occupazione più assorbente: il C. si distinse soprattutto infatti per l'opera prestata nel campo dell'amministrazione pubblica e in più settori della vita economica del paese.
Oltre ad essere stato per molti anni sindaco di Mezzana Bigli (Pavia), fu per oltre un quarantennio presidente del consiglio di amministrazione del collegio "S. Carlo" di Milano. Sotto la giunta Vigoni venne nominato prima (1895) membro del Consiglio degli orfanotrofi e poi (1899) presidente del Consiglio degli istituti ospitalieri, segnando così il ritorno di esponenti cattolici al vertice di alcuni dei più importanti enti assistenziali cittadini. In tempi diversi fu a capo della Provvidenza scolastica, del sanatorio per i tubercolotici poveri, della Fanciullezza abbandonata, dell'ospedale dei bambini, della Cura antirabbica, del Comitato nazionale di diffusione della educazione dei sordomuti. Durante la guerra fu chiamato a far parte (1915) della Commissione provinciale di assistenza e beneficienza pubblica e (1917) del Comitato provinciale per gli orfani di guerra; nel 1914 fu anche eletto consigliere provinciale per il mandamento di Saronno. Nel dopoguerra passò alla direzione centrale dell'Opera nazionale per l'assistenza degli orfani di guerra e della Croce bianca e dal 1919 alla presidenza dei Riformatori e asili infantili della provincia di Milano. Dal 1922 al 1926 fu poi nuovamente consigliere comunale a Milano.
Un ruolo di grande rilievo ebbe anche negli ambienti finanziari, agrari e industriali, cittadini e non: fu membro del comitato direttivo della cattedra ambulante di agricoltura, presidente del Consorzio utenti del fiume Olona, della Società possessori di San Vittore Olona, della Associazione milanese fra proprietari e fittabili e della Società lombarda per imprese fondiarie. Presiedette per vari anni la Banca popolare di Milano e il Piccolo credito bustese, fu nel Consiglio di amministrazione della Cassa di risparmio delle provincie lombarde e fra i maggiori azionisti del Banco ambrosiano. Dal 1906 nel consiglio di amministrazione della Compagnia d'Antivari, presiedette la Società italiana per imprese elettriche Dinamo, la Società anonima del gas di Desio, la Idroelettrica di Cerro al Lambro, la Conservazione legno e distillerie catrame e la Navigazione interna, fu vicepresidente della Tecnomasio italiano Brown Boveri e consigliere delle Assicurazioni a premio fisso contro la grandine e della Industria ceramica nazionale.
Nominato nel 1879 da Leone XIII, su proposta del cugino cardinale E. Borromeo, cameriere segreto di cappa e spada, fu anche cavaliere d'onore e di devozione dell'Ordine di Malta, nonché commissario araldico per la Lombardia e consultore effettivo alla Consulta araldica.
Il C. morì a Milano il 10 apr. 1935.
Fonti e Bibl.: Lettere sparse, ma di notevole interesse sono in Milano, Bibl. Ambrosiana, Arch. Bonomelli e Arch. Gallarati Scotti. Fondamentale per la conoscenza del pensiero e dell'azione politica del C. è la consultazione degli editoriali della Lega lombarda (1886-1907), non ché dei suoi contributi sulla Nuova Antologia (L'astensione dei cattolici dalle urne. 1° dic. 1898, pp. 461-476; Le elezioni amministrative a Milano, 1° nov. 1899, pp. 108-119; Liberali e cattolici, 1° genn. 1914, pp. 138-143), sulla Rass. nazionale (Le alleanze dei partiti conservatori, 16 giugno 1907, pp. 769-774) e su Lo Spettatore (La nuovaenciclica di Pio X e le elezioni politiche, I [1905], pp. 234-239). Per l'evoluzione del suo disegno politico vedi i suoi discorsi elettorali del 1904 (Lega lombarda, 1°novembre), del 1909 (in L. Degli Occhi, Storia politica italiana. Giolitti-Turati-C., Milano 1946, pp. 211-215)e del 1913 (L'Italia, 21 ottobre) e i resoconti parlamentari dei suoi interventi alla Camera (1904-1913) e al Senato (1924-1935). Ricco di notizie sulla famiglia è il suo Famiglia Cornaggia. Cenni genealogici, Milano 1933. Non più di una rapida commemor. è G. Migliori, C. O. C. uomopolitico, esponente del moderatismo, in Diocesi diMilano, XXIII (1972), pp. 146-148. Sui primi anni di vita politica e sul suo ruolo nei fatti di Milano del '98: L. Ambrosoli, Profilo del movimento cattol. milanese nell'Ottocento, in Riv. stor. del socialismo, III (1960), pp. 690-724; F. Fonzi, Crispi e lo "Stato di Milano", Milano 1965, pp. 266-272; A. Canavero, Milano e la crisi difine secolo (1896-1900), Milano 1976. Sul ruolo della Lega lombarda a Milano, vedi A. Maio, La stampa quotidiana cattolica-milanese, Milano 1972, pp. 27-105. Sugli ambienti religiosi e culturali di provenienza, vedi O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La "Rassegna nazionale" dal 1898 al 1908, Bologna 1971, pp. 99, 105, 272-277; N. Raponi, T. Gallarati Scotti tra politica e cultura, Milano 1971, pp. 27-33; C. Marcora, Relazione del duca T. Gallarati Scotti col vescovo di Cremona, GeremiaBonomelli, e con monsignor Achille Ratti, in Aspetti religiosi e culturali della società lombardanegli anni della crisi modernista (1898-1914), Como 1979, pp. 169-210. Sull'elezione del 1904 e l'attività parlamentare, vedi S. Pizzetti, I cattolici milanesi e la fine del "non expedit", in Nuova Riv. stor., LXI (1977), 1-2, pp. 85-115, e H. Ullrich, La classe politica nella crisi di partecipazione dell'Italia giolittiana (1909-1913), Roma 1979, I-III, ad Indicem. Sulle elezioni del 1913 e il neutralismo del C., vedi B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Firenze 1969, pp. 278-281, 296, 300; Id., L'Italia di fronte alla primaguerra mondiale, Milano-Napoli 1966, pp. 480, 590-594. Sul clerico-moderatismo del C. e i suoi legami cogli ambienti finanziari e industriali vedi M. G. Rossi, Movimento cattol. e capitale finanziario: appunti sulla genesi del blocco clerico-moderato, in Studi storici, XIV (1972), pp. 249-289; Id., Le origini del partito cattol., Roma 1977, pp. 255-259, 304-309, 404-405.Un primo inquadramento sulla Destra cattolica negli anni del partito popolare è in G.Ignesti, Centro nazionale (e Unione nazionale), in Diz. stor. del mov. cattolico in Italia 1860-1980, I, 2, Casale Monferrato 1981, pp. 198-207. Per i rapporti fra il C. e il popolarismo vedi L. Degli Occhi, Storia politica, pp. 191-243.Si veda infine S. Pizzetti, C. M., C. O., in Diz. stor. del movim. cattolico, pp. 128-132.