CORNO
Si definisce c. la caratteristica sporgenza del capo di vari mammiferi ungulati (pl. le corna), il materiale cheratinoso osseo di cui questo è formato e, per estensione, ogni oggetto con tale forma (pl. i corni), qualunque sia il materiale utilizzato.
La lavorazione artigianale del c. (soprattutto di bovini, cervidi e, raramente, anche di rinoceronte), testimoniata frequentemente nelle fonti del mondo antico, era generalmente di competenza dei tornitori e di altri artigiani specializzati (eborarii, pectinarii). Il c. veniva ridotto a lastre e a listelli, intagliato e levigato per realizzare archi, recipienti (c. potori, coppe, crateri), strumenti a fiato e a corde, lastre di lanterne, bottoni, manici. Pausania (V, 12) descrive la possibilità di rendere pieghevole il c. ammorbidendolo nell'acqua bollente e riscaldandolo con il fuoco. Combinando diverse procedure di lavorazione era possibile ottenere lastre di c. traslucide. Le indicazioni sull'impiego artistico di tale materiale invece sono rare; colorato, decorato e sovrapposto a fondi forse metallici, esso poteva sostituire la più preziosa tartaruga (Plinio, Nat. Hist., 11, 45, 126; 16, 84, 232ss.).Presumibilmente nel Medioevo, in area europea, si conservarono i metodi di lavorazione del c. in uso in epoca antica, sebbene oggetti in c. siano documentati sporadicamente solo a partire dal sec. 10°; l'aumento della produzione dal sec. 12°-13° è forse dovuto alla penuria dell'avorio.Le notizie relative alle tecniche di lavorazione del c. contenute nelle fonti sono rare. Nel 1100 ca. Teofilo (De diversis artibus, III, 94) descrive un metodo per colorare in rosso c. di cervidi e osso con la robbia (herba rubica dicta) essiccata e bollita in una soluzione e quindi tornire (tornatili opere) oggetti finiti come pomi, c. da caccia e lastre da lanterna. Ulteriori indicazioni sono state tramandate dal c.d. manoscritto di Strasburgo, un testo tardomedievale in lingua alamanna perduto in un incendio nel 1870; due delle ricette riportate sono varianti di un procedimento che permetteva, mediante bollitura in una soluzione di varia composizione, di liquefare schegge di c. e di ottenere una pasta che poteva essere colorata e colata in forme o modellata; una terza ricetta, frammentaria, si riferisce all'ammollimento di lastre di corno. Ricette analoghe per rendere molle e fondere l'avorio e il c. sono contenute in una raccolta conservata a Kassel (Gesamthochschul-Bibl. Kassel-Landesbibl., med. 4° 10, c. 6v; Bosshammer, 1977), risalente al primo quarto del sec. 15°, e nel Trierer Malerbuch, datato alla seconda metà del sec. 15° (Treviri, Stadtbibl., 1957/1491 8°, c. 38v).Data l'esiguità delle indicazioni contenute nelle fonti, le tecniche di lavorazione del c. in epoca medievale sono state desunte prevalentemente dai trattati tecnici ottocenteschi nella convinzione che i procedimenti siano rimasti quasi immutati fin nel 19° secolo. In generale si possono distinguere due tipi principali di lavorazione: nel primo caso il c., liberato dal nucleo osseo, lisciato e levigato con un coltello poteva essere utilizzato, a seconda delle dimensioni e della forma, come c. per inchiostro, da caccia o potorio. Le pareti del c., di diversa durezza, potevano essere incise o intagliate a rilievo piatto con coltelli o compassi e altri strumenti. L'applicazione di eventuali guarnizioni e montature metalliche era poi di competenza dell'orafo. Dal c. potevano essere tagliati segmenti, talvolta utilizzati per la realizzazione di recipienti e scatole di modeste dimensioni, oppure dalla sua punta massiccia venivano ricavati dischi che trovavano impiego come piastrine di rivestimento e pedine da gioco, poi decorate da motivi a compasso o a cerchi concentrici.Nel secondo tipo di lavorazione, più complesso, il materiale subiva diverse manipolazioni prima di essere utilizzato. Per la fabbricazione di pettini, per es., si tagliava dapprima il c. con la sega in sezioni orizzontali, eliminandone la punta; quindi, tramite un'incisione lungo la curvatura interna del c., l'anello esterno veniva liberato dal nucleo osseo, quindi ammorbidito e riscaldato nell'acqua bollente o al fuoco. Il c., appiattito con le pinze e pressato, una volta raffreddato manteneva la forma che gli era stata data. Conservata intera, la guaina di c. poteva fornire lastre di grandi dimensioni che a loro volta, tagliate, piegate e appiattite mediante pressione, potevano essere utilizzate per es. per la realizzazione di cassette. Le qualità termoplastiche del c. permettevano inoltre di saldare insieme le lastre dopo un ulteriore processo di ammorbidimento mediante pressione, oppure di sovrapporle le une alle altre a formare una lastra più consistente, che poteva essere stampata a rilievo con l'ausilio di una matrice metallica; al contrario lastre di c. più spesse potevano essere a loro volta divise in fogli sottili - più o meno trasparenti a seconda del tipo di c. e della lavorazione - impiegati soprattutto per la fabbricazione di lanterne (tabulae in lucernis).La lavorazione del c. (come pure dell'osso e dell'avorio) è attestata per il Medioevo soprattutto nei centri urbani di una certa dimensione: nelle città costiere della Germania settentrionale come Danzica, Schleswig o Lubecca, dove a partire dal sec. 10° sono documentati artigiani del c. (Hornrichter) e fabbricanti di lanterne (Laternmacher); a Venezia, dove a partire dal sec. 13° i fabbricanti di pettini (petteneri) costituivano una corporazione, e a Parigi, dove nel sec. 13° lavoravano il c. gli intagliatori (taillieres ymagiers), i fabbricanti di pettini e di lanterne (pigniers et lanterniers).Il complesso delle opere in c. di epoca medievale conservate consente una chiara valutazione delle molteplici possibilità d'impiego del materiale in ambito profano ed ecclesiastico; i semplici oggetti d'uso quotidiano prevalgono di gran lunga rispetto alle poche opere di spicco. Se il c. compare come elemento integrante in opere d'arte che fanno parte di tesori profani, ciò è dovuto al fatto che a esso si collegavano di norma importanti tradizioni giuridiche oppure al valore apotropaico ritenuto a esso intrinseco. Nei casi in cui il c. veniva adoperato come materiale per la fabbricazione di oggetti liturgici, o nelle rilegature di manoscritti miniati, esso costituiva spesso la sola parte strutturale di oggetti le cui superfici venivano poi generalmente impreziosite dall'aggiunta di montature in metallo, oppure era impiegato come surrogato di materiali più pregiati. Lastre in c. sostituivano talvolta lavori a sbalzo in metallo, mentre i rilievi a stampo in c. hanno a volte sostituito tavole di avorio perdute. Spesso lastre in c. traslucido venivano impiegate al posto delle piccole lastre in cristallo di rocca, di gran lunga più preziose. Nelle legature dei codici le lastre in c. dipinto potevano servire per imitare in modo facile e poco dispendioso lavori a smalto.Tra gli oggetti di uso profano - come pettini, pomi, guarnizioni per cassette, manici di cucchiai e coltelli o impugnature di pugnali, in prevalenza privi di decorazione - deve essere ricordato in particolare il manico di coltello di Savalo (Lille, Mus. des Beaux-Arts), l'unico oggetto del genere a presentare una decorazione figurata eseguita con una sommaria tecnica a incisione. L'impugnatura cilindrica in c. di cervide mostra una figura femminile con un ramo di giglio nella mano sinistra (identificabile forse con l'Ecclesia) rivolta verso una figura maschile con la destra alzata in gesto di acclamazione (che potrebbe rappresentare il potere temporale). In base all'iscrizione "Savalo monac(us) me fecit" e ai confronti stilistici con manoscritti tardi del miniatore Savalo, è stato possibile accertare la provenienza del coltello dall'abbazia di Saint-Amand e datarlo al 1165 circa.Un tipo diverso di lavorazione del c. è testimoniato dal riccio del c.d. pastorale di Erhard (Ratisbona, Diözesanmus. St. Ulrich), appartenuto a un vescovo o a una badessa, realizzato in c. di cervo o di montone, piegato fino ad assumere forma circolare e poi intagliato. Le tracce di chiodi a intervalli regolari sembrano suggerire un originario rivestimento del bastone in foglia di metallo applicata a impressione che doveva ricoprire anche le parti ornamentali e figurative del nucleo in c., costituite da una testa di drago e grappoli d'uva. Paralleli stilistici con la decorazione plastica di edifici di Ratisbona e con motivi riscontrabili in codici miniati della Germania sudorientale rendono verosimile una datazione del pastorale alla seconda metà del 12° secolo.Tra gli oggetti con ornamentazione incisa va menzionata una cassettina-reliquiario cilindrica conservata a Sens (Trésor de la Cathédrale), che è costituita da due anelli in c. decorati a motivi lineari e da base e coperchio formati da sottili lastre di osso o c. di cervide, con il motivo della croce e rosette a compasso. Se dal punto di vista stilistico è difficile stabilire il luogo di provenienza e la datazione del reliquiario, un confronto con pedine da gioco in c. di cervo, quasi identiche, permette di datarlo tra il 12° e il 13° secolo. Dalle lastre pressate di c. si ricavavano, oltre a oggetti di uso quotidiano - tra cui recipienti di modeste dimensioni - calici e patene, il cui uso nelle funzioni liturgiche venne proibito già dal sinodo di Chelsea (787), ma che risultano documentate per l'8° e ancora per il 9° secolo. Quando non si trattava soltanto di inserimenti o rivestimenti in c. su coppe, ma di recipienti interamente in c., la decorazione artistica doveva limitarsi unicamente a guarnizioni in argento e in oro.Nel sec. 15° il c. fu impiegato con una certa frequenza nell'Italia settentrionale. Le opere della bottega veneziana degli Embriachi presentano spesso parti in c., come nel caso di una cassetta nuziale lignea conservata a Princeton (Art Mus., inv. nr. 55-3261), che presenta gli spigoli superiori e inferiori e i piedini rivestiti da fasce in corno. Anche per la produzione di questa bottega valeva tuttavia il principio per cui il c., in quanto materiale non nobile, veniva utilizzato soltanto nelle parti di secondaria importanza e di conseguenza non contribuiva a determinare la qualità artistica dell'oggetto. Ciò valeva anche per le bande a intarsio dai complessi disegni, che venivano realizzate con diversi materiali (varietà di legno, osso colorato e non colorato, c. pigmentato biondo trasparente e bruno cupo).Come accade generalmente nel caso di manufatti d'uso quotidiano, non legati a una funzione particolare, le sottili lastre di c. medievali traslucide si sono conservate in numero ridotto. Trattandosi di materiale non infiammabile, già nel periodo tardoantico esse vennero impiegate non soltanto per schermare la luce in finestre di piccole dimensioni, ma pure come 'invetriatura' per le lanterne, anche se testimonianze concrete di questo uso si hanno soltanto dalla fine del 15° secolo. Uno dei rari esempi di quest'epoca di cui si è potuta fornire una ricostruzione attendibile è la lanterna lignea con invetriatura in c., trovata a Lubecca (Studiensammlung der Lübecker Bodenfunde, Amt für Vor- und Frühgeschichte).Si sono conservate lastre di c. trasparente di reliquiari medievali - utilizzate in sostituzione di più preziose lastre o cilindri in cristallo di rocca - che avevano la funzione di rendere visibile il contenuto dei reliquiari stessi e le cedulae che ne attestavano l'autenticità. Una precoce testimonianza di quest'uso è offerto da una croce-reliquiario forse del sec. 11° (Colonia, Schnütgen-Mus., inv. nr. G 82). Con lo stesso intento vennero impiegate lastre in c. per le aperture di due reliquiari a cofanetto in bronzo dorato, che in origine costituivano un unico reliquiario, appartenenti al Tesoro dei Guelfi (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus., inv. nrr. W 25-26), realizzate nella Bassa Sassonia agli inizi del 13° secolo. Tutte le aperture del lato lungo sono chiuse da una lastra di c. traslucida, piegata a forma di cilindro, mentre le fronti erano delimitate da lastre di c. piatte, tagliate a disco, sostituite in età moderna. Modesti per concezione e per fattura, i due reliquiari sono tipologicamente affini agli ostensori di cristallo o ai reliquiari a cassa, frequenti intorno al 1200 soprattutto nella regione renomosana. Piccole lastre di c. trasparente vennero utilizzate anche in alcuni reliquiari a tavola e a dittico, a chiusura delle cavità in cui venivano conservate le reliquie e la pergamena allegata (per es. Colonia, Schnütgen-Mus., inv. nr. E 216; sec. 13°-14°).Anche in ambito renano e basso-sassone nei secc. 14° e 15° lastre di c. furono impiegate per chiudere le aperture di reliquiari a forma di croce, di edificio o di lanterna.Una notevole importanza hanno le legature di codici con lastre di c., che in genere volevano imitare, avvalendosi di modesti mezzi, gli esemplari di lusso, ricalcandone i temi e l'articolazione strutturale della decorazione.Un esempio di particolare semplicità è costituito dalla coperta anteriore di un manoscritto della Bassa Sassonia, forse proveniente da Hildesheim, dell'inizio del sec. 11° (Wolfenbüttel, Herzog August Bibl., Guelf. 426 Helmst.), in cui quattro lastre di c. levigate senza ulteriori decorazioni - forse in sostituzione di lavori a sbalzo andati perduti - costituiscono la cornice per un rilievo centrale in avorio.Procedimenti tecnici più complessi furono impiegati nel rilievo in c. pressato, databile intorno al 1240, eseguito a Bamberga e collocato al centro della coperta anteriore di un libro delle pericopi proveniente da St. Emmeram di Ratisbona, della fine del sec. 10° (Pommersfelden, Gräflich-Schönbornsche Bibl., 340). Unico nel suo genere sotto l'aspetto tecnico, il rilievo è impresso con l'ausilio di una matrice su una lastra di c., e, considerata l'accurata modellatura e la precisione dei dettagli, sembra essere stato eseguito con uno stampo da sigillo mediante un procedimento combinato di fusione e stampo, malgrado le dimensioni insolite e la forma pressoché quadrata.Si distingue per la combinazione di materiali diversi (c., avorio, metallo, pelle colorata) la rilegatura, aggiunta nel sec. 9° o 10°, all'Evangeliario carolingio di Morienval (Noyon, mus. della cattedrale). Su entrambi i piatti lignei della coperta è applicata, all'interno di una cornice di listelli d'avorio, una lastra di c. di ampie dimensioni, con un'apertura a croce traforata in cui sono inseriti rilievi in avorio e incavi per le reliquie, identificabili da iscrizioni, che permettono di ipotizzarne la provenienza dalla Francia nordoccidentale.Di particolare interesse è inoltre la rilegatura a lastre di c. traslucide del Salterio di Komburg, prodotta in uno scriptorium francone, probabilmente a Bamberga, e databile al 1220-1235 ca. (Stoccarda, Württembergische Landesbibl., Bibl. 2° 46). Sul legno dei piatti di rilegatura del manoscritto sono applicati fogli di pergamena con riquadri miniati poi ricoperti da lastre traslucide di c., a cui si sovrappone una grata costituita da listelli di c. con guarnizioni metalliche. Al posto di queste ultime in altri esemplari si possono trovare sottili bande metalliche; più raramente alle lastre di c. è sovrapposta una cornice con decorazioni incise, fissata da chiodi o da perni in c., per proteggere le miniature della coperta ed evitare danni alle lastre. È rara l'aggiunta di decorazioni in pietre preziose.La produzione di legature con lastre in c. è diffusa per tutto il sec. 13°, mentre per l'epoca successiva si hanno solo testimonianze isolate (legatura del Salterio di Margherita di Norvegia, secondo terzo del sec. 14°; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kupferstichkab., 78.A.8). I principali centri di produzione furono le botteghe della Germania settentrionale, dell'Alto Reno, della Franconia (Salterio di Bamberga; Bamberga, Staatsbibl., Bibl. 48) e della Germania sudorientale, in particolare Ratisbona. Dalla Francia settentrionale proviene un esemplare del sec. 13°, il c.d. breviario del beato Urbano V (Roma, BAV, Vat. lat. 13125). Anche nel caso in cui le coperte in c. sono unite a codici anteriori al 1200, esse costituiscono probabilmente trasformazioni o integrazioni successive, come per es. la rilegatura del piccolo Evangeliario di Bernoardo, del sec. 13° (Hildesheim, Diözesanmus. mit Domschatzkammer, 13), e un messale a Monaco (Bayer. Staastsbibl., Clm 23261). In altri esempi lastre di c. traslucido venivano inserite nelle rilegature solo a copertura del titolo o di scene miniate, come nel caso di un manoscritto fiorentino del 1440 ca., della Scuola di S. Giovanni Evangelista (coll. privata).
Bibl.:
Fonti. - Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XI, a cura di R. König, J. Hopp, München-Zürich 1990, p. 88; XVI, a cura di R. König, J. Hopp, München-Zürich 1991, pp. 144-146; Pausania, Reisen in Griechenland, a cura di F. Eckstein, II, Darmstadt 1989, p. 32; Des Theophilus Presbyter Diversarum artium schedula. Technik des Kunsthandwerks im zehnten Jahrhundert, a cura di W. Theobald, Berlin 1933 (rist. Düsseldorf 1984); Teofilo, De diversis artibus, a cura di C.R. Dodwell, London e altrove 1961, p. 168 (rist. anast. Oxford 1986); Les métiers et corporations de la ville de Paris. XIIIe siècle. Le livre des métiers d'Etienne Boileau, a cura di R. de Lespinasse, F. Bonnardot, Paris 1879; Das Strassburger Manuskript. Handbuch für Maler des Mittelalters, a cura di V. Borradaile, R. Borradaile, München-London 1966 (München 19772, p. 78ss.); G. Bosshammer, Technologische und Farbrezepte des Kasseler Codex medicus 4° 10. Untersuchungen zur Berufssoziologie des mittelalterlichen Laienarztes (Würzburger medizinhistorische Forschungen, 10), Pattensen 1977, pp. 51, 86; P. Seidensticker, Mittelniederdeutsche Mal- und Färberrezepte der Niedersächsischen Staats- und Universitätsbibliothek Göttingen, in Gedenkschrift für Heinrich Wesche, a cura di W. Kramer, U. Schauermann, D. Stellmacher, Neumünster 1979, pp. 287-304.
Letteratura critica. - H. Blümner, Technologie und Terminologie der Gewerbe und Künste bei den Griechen und Römern, I, Leipzig 1875, pp. 357-360; E. Hanausek, Die Technologie der Drechslerkunst. Die Lehre von den Rohstoffen und deren Bedeutung, Wien 1884; L.E. Andés, Die Verarbeitung des Hornes, Elfenbeins, Schildpatts, der Knochen und der Perlmutter. Ein Handbuch, Wien-Pest-Leipzig 1885; S. Beissel, Die Verehrung der Heiligen und ihrer Reliquien in Deutschland im Mittelalter, 2 voll., Freiburg im Brsg. 1890-1892 (rist. Darmstadt 1976, II, p. 89ss.); C.J. von Hefele, H. Leclercq, Histoire des conciles d'après les documents originaux, III, 2, Paris 1910, pp. 995-997; A. Goldschmidt, Die Elfenbeinskulpturen, 4 voll., Berlin 1914-1926 (rist. 1969-1975); O. von Falke, R. Schmidt, G. Swarzenski, Der Welfenschatz. Der Reliquienschatz des Braunschweiger Domes aus dem Besitze des herzoglichen Hauses Braunschweig-Lüneburg, Frankfurt a. M. 1930; G. Schiedlausky, Essen und Trinken. Tafelsitten bis zum Ausgang des Mittelalters, München 1956, p. 45; F. Steenbock, Der kirchliche Prachteinband im frühen Mittelalter von den Anfängen bis zum Beginn der Gotik, Berlin 1965; H. Kohlhaussen, Nürnberger Goldschmiedekunst des Mittelalters und der Dürerzeit 1240-1540, Berlin 1968; V.H. Elbern, H. Reuther, H. Engfer, Der Hildesheimer Domschatz, Hildesheim 1969; Rhein und Maas. Kunst und Kultur 800-1400, cat. (Köln-Bruxelles 1972), 2 voll., Köln 1972-1973; D. Kötzsche, Der Welfenschatz im Berliner Kunstgewerbemuseum, Berlin 1973; Zimelien. Abendländische Handschriften des Mittelalters aus den Sammlungen der Stiftung Preussischer Kulturbesitz, cat. (Berlin 1975-1976), Wiesbaden 1975; Die Zeit der Staufer. Geschichte-Kunst-Kultur, cat., 5 voll., Stuttgart 1977-1979; P. Hardwick, Discovering Horn, Guildford 1981; P.E. Schramm, F. Mütherich, Denkmale der deutschen Könige und Kaiser, I, Ein Beitrag zur Herrschergeschichte von Karl dem Grossen bis Friedrich II. 768-1250 (Veröffentlichungen des Zentralinstituts für Kunstgeschichte in München, 2), München 19812 (1962), p. 93ss.; H. Engelhart, Das Pommersfeldener Hornrelief. Zu einer Bamberger hornverarbeitenden Werkstätte der ersten Hälfte des XIII. Jahrhunderts, in Diversarum artium studia. Beiträge zu Kunstwissenschaft. Festschrift für Heinz Roosen-Runge zum 70. Geburtstag, a cura di H. Engelhart, G. Kempter, Wiesbaden 1982, pp. 33-53; J.M. Fritz, Goldschmiedekunst der Gotik in Mitteleuropa, München 1982; I. Ulbricht, Die Verarbeitung von Knochen, Geweih und Horn im mittelalterlichen Schleswig, Neumünster 1984; A. MacGregor, Bone, Antler, Ivory and Horn. The Technology of Skeletal Materials since the Roman Period, London 1985; Ornamenta Ecclesiae. Kunst und Künstler der Romanik, a cura di A. Legner, cat., 3 voll., Köln 1985; M. Ryan, The Horn-Reliquiary of Tongres/Tongeren: a 12th Century Irish Object, Bulletin des musées royaux d'art et d'histoire 56, 1985, 2, pp. 43-55; A. Legner, Kölnischen Hagiophilie. Die Domreliquienschränke und ihre Nachfolgeschaft in Kölner Kirchen, KölDb 51, 1986, pp. 195-274; F. Wagner, ''Halt veste uns kommen Geste''. Greifenklauen als festliche Trinkgeschirre, Kunst und Antiquitäten 3, 1986, pp. 64-70; H. Engelhart, Die Würzburger Buchmalerei im hohen Mittelalter. Untersuchungen zu einer Gruppe illuminierter Handschriften aus der Werkstatt der Würzburger Dominikanerbibel von 1246 (Quellen und Forschungen zur Geschichte des Bistums und Hochstifts Würzburg, 34, 1), Würzburg 1987, I, pp. 326-331; Regensburger Buchmalerei. Von frühkarolingischer Zeit bis zum Ausgang des Mittelalters, cat. (Regensburg 1987), München 1987, pp. 68, 85-86; V.H. Elbern, Die Goldschmiedekunst im frühen Mittelalter, Darmstadt 1988, p. 83; G. Morello, Die schönsten Stundenbücher aus der Biblioteca Apostolica Vaticana, Zürich 1988, pp. 27-28; M. Burek, Der Fiesole-Altar im Domschatz zu Hildesheim. Untersuchungen der Technologie von Intarsien und Malerei des Quattrocento, Stuttgart 1989; The Carver's Art. Medieval Sculpture in Ivory, Bone, and Horn, a cura di A. St. Clair, E. Parker McLachlan, cat. (Rutgers 1989), New Brunswick 1989; Catalogue of the Celebrated Library of the Late Major J.R. Abbey. The Eleventh and Final Portion, London 1989, pp. 76-81; Ratisbona Sacra. Das Bistum Regensburg im Mittelalter, cat. (Regensburg 1989), München-Zürich 1989, p. 68; Reliquien. Verehrung und Verklärung, a cura di A. Legner, cat., Köln 1989; 800. Jahre Deutscher Orden, cat. (Nürnberg 1990), Gütersloh-München 1990, pp. 90-91; Intellectuels et artistes dans l'Europe carolingienne, IXe-XIe siècles, cat., Auxerre 1990, pp. 168-169; H. Engelhart, s.v. Hornplatteneinband, in Lexikon des gesamten Buchwesens, III, Stuttgart 19912, p. 535.H. Engelhart
Il termine c. definisce per estensione anche i vasi potori e gli strumenti a fiato utilizzati a caccia, nell'esercito, in cerimonie religiose, per giochi, ecc., realizzati con le c. o modellati secondo la loro forma. Talvolta la funzione di c. potorio e di strumento a fiato coesistevano nello stesso oggetto, come nel caso del c. di Ulphus, in origine strumento a fiato, provvisto di un tappo che ne permetteva l'impiego anche come c. potorio (Skjerne, 1931, p. 299).
Testimonianze circa l'uso di c. potori tra le popolazioni nordeuropee si hanno a partire dall'epoca romana; Cesare (De bello Gallico, VI, 28) riporta che le tribù germaniche, come prova di coraggio, andavano a caccia di bisonti e con le c. realizzavano vasi potori decorati in argento (Bruce-Mitford, East, 1983, pp. 380-381). Plinio il Vecchio (Nat. Hist., 11, 45, 126) riferisce che i barbari del Nord impiegavano le c. del bisonte europeo per bere, mentre altri utilizzavano il c. come puntale delle loro lance. Nell'enigma 14 del Libro di Exeter in inglese antico (seconda metà del sec. 10°) sono descritti l'uso e la decorazione dei c. sia come recipienti per bere sia come strumenti a fiato (The Exeter Book, 1934, pp. 102-105); Saxo Grammaticus (1140-1210) fa menzione di c. potori utilizzati durante un banchetto (Gesta Danorum, V, XIV) e come bottino (VIII, XIV, 16). È possibile inoltre che i termini coppa o calice (inglese antico ful e norreno full; Damico, 1984, p. 54; Düwel, 1985, pp. 49-60; Magennis, 1985), ricorrenti nelle fonti, siano usati anche in riferimento ai c. potori.Raffigurazioni di c. si ritrovano nel ricamo di Bayeux (Bayeux, Tapisserie de Bayeux), dove nella scena del banchetto di Harold a Bosham appaiono c. da mensa. Oltre a una funzione pratica, i c. erano destinati a un uso rituale connesso con il symbel - un banchetto solenne durante il quale i convitati sedevano insieme e, in ordine di rango, bevevano birra da una coppa comune - citato (Fell, 1975) in opere in antico sassone (Heiland), in inglese antico (Beowulf, Sogno di Rood, Judith) e in norreno (Edda, Locasennae, Heimisqvitha). I c. potori facevano inoltre parte delle insegne regali; tra gli esempi anglosassoni più significativi di questo ambito vanno annoverate le coppie di c. rinvenute nelle ricche tombe del sec. 7° di Taplow Court nel Buckinghamshire e di Sutton Hoo nel Suffolk (Londra, British Mus.).Negli usi e nelle consuetudini riguardanti il bere nelle occasioni rituali esiste una considerevole coincidenza tra l'ambito germanico e quello celtico. A Hochdorf, lungo la parete sud di una ricca tomba celtica risalente ca. al 500 a.C., si trovavano appesi otto c. di bisonte europeo per uso potorio decorati in oro accanto a un c. più grande in ferro con ornamenti in bronzo e oro (Stuttgart, Württembergisches Landesmus.), un insieme che non si distacca molto dai due grandi c. e dalle sei coppe in legno scabro rinvenuti nel tumulo 1 a Sutton Hoo (Londra, British Mus.).In altri testi - Legge di Hywel Dda, Culwych ac Olwen (Henwae y) Tri Thlws ar Ddeg Ynys Brydain (a oedd yn y Gogledd) - i c. potori compaiono tra i beni dei sovrani britannici (The Law of Hywel Dda, 1986, pp. 40-237; Edel, 1988, pp. 264-265), mentre in ambito irlandese alcuni c. si trovano associati al regno di Leinster (Ó Floinn, 1981).Per la legge gallese il rango dei membri della corte si distingueva per il numero di c. potori posseduti (The Law of Hywel Dda, 1986, p. 19) e nel Book of Rights, testo irlandese della metà del sec. 11°, i c. figurano tra le retribuzioni che i sovrani dovevano ai vassalli (Lebor na Cert, 1962).Anche i c. a fiato ebbero varie funzioni, molte delle quali di tipo cerimoniale. Nel Libro di Exeter (enigma 14) e nel Beowulf (vv. 1423, 2943) è ricordato il suono dei c. durante la battaglia (The Exeter Book, 1934, pp. 102-105; Damico, 1984, p. 167) e l'impiego dei c. da caccia è documentato nella legge gallese (The Law of Hywel Dda, 1986, p. 40); sia in ambito celtico sia tra le popolazioni germaniche infine la distanza a cui poteva essere udito il suono di un c. venne usata come unità di misura (Skjerne, 1931, pp. 297-298; The Law of Hywel Dda, 1986, p. 23).I c. erano apprezzati anche come strumenti musicali: un suonatore di c. appare tra i servitori presenti al banchetto di Guglielmo di Hastings nel già menzionato ricamo di Bayeux molti altri sono presenti anche tra i musici che accompagnano Davide che suona l'arpa nelle miniature del Salterio di s. Agostino e del Salterio Tiberius (Londra, BL, Cott. Vesp. A.I, c. 30v; Cott. Tib. C.VI, c. 30v; Wormald, 1948, tav. 27).In epoca feudale c. a fiato furono spesso donati da signori feudali a balivi e vassalli in occasione della loro investitura (Skjerne, 1931, p. 297) e, sebbene il sinodo di Chelsea del 787 avesse vietato l'uso dei c. come calici eucaristici, in inventari di epoca successiva relativi a tesori di chiese, sia in Inghilterra sia in Irlanda, sono citati alcuni c., probabilmente preziosi doni votivi o reliquiari (Oman, 1944, pp. 21-22; Ó Floinn, 1981, p. 271); tra questi ultimi il reliquiario di Tongres in Belgio, del principio del sec. 12° (Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire, inv. nr. 2958), è stato realizzato in ambito irlandese (Ryan, 1988).I c. sono citati - sebbene di rado - anche nei testamenti e negli inventari inglesi e irlandesi tra i beni delle famiglie, delle grandi proprietà e istituzioni. Generalmente utilizzati soltanto in occasione di grandi festività (Cripps, 1894⁵, pp. 289-292; Oman, 1944, pp. 22-23, 60; Ó Floinn, 1981, p. 272), tali c. potevano essere associati al possesso terriero, come nel caso del c. di Kavanagh (Dublino, Nat. Mus. of Ireland; Ó Floinn, 1981, p. 275). I c. conservati appartengono per lo più a bestiame d'allevamento. Inoltre nelle tombe dei membri dell'aristocrazia celtica e germanica nell'Europa settentrionale e nelle Isole Britanniche a partire da prima dell'età del Ferro romana fino alla fine dell'epoca delle sepolture con corredo si ritrovano le montature in metallo che decoravano i c. (Bruce-Mitford, East, 1983, p. 383, n. 2). L'assenza di testimonianze analoghe per l'area scandinava a partire dall'età del Ferro romana fino al tardo periodo Vendel (550-800), potrebbe essere il riflesso non tanto di un declino nell'uso dei c., quanto piuttosto di una temporanea disponibilità e di un maggiore prestigio dei recipienti in vetro; è possibile inoltre che in questo periodo ai c. ricavati da bestiame d'allevamento non venissero applicate guarnizioni in metallo (Arwidsson, 1945, pp. 163-165). Più raramente venivano impiegate le c. del bisonte nordeuropeo, il cui c., per i pericoli e il coraggio connessi alla caccia dell'animale e soprattutto per la sua capienza, era usato nei brindisi durante le cerimonie; di norma esso è presente solo nelle sepolture eccezionalmente ricche, come testimoniano i casi citati di Sutton Hoo, Taplow e Hochdorf. Occasionalmente si usavano anche c. di altri animali, come quello di capra rinvenuto nella tomba di un giovane principe, al di sotto del duomo di Colonia (Doppelfeld, 1964). I c. potori di epoca precristiana ricavati da c. di ungulati erano decorati sulla punta e sul bordo con montature in metallo, solitamente in bronzo; sui c. di bisonte ritrovati a Taplow e a Sutton Hoo furono applicate lamine in argento dorato con motivi animalistici a incisione (Leeds, 1936, pp. 75-76; Bruce-Mitford, East, 1983, pp. 327-347; Neuman de Vegvar, 1992). I puntali dei c. presentano forme diverse; non sono rari semplici pomelli, sebbene siano anche diffuse le terminazioni a protome animale.Considerevolmente meno diffusi sono i c. in vetro: essendo le tecniche di lavorazione sconosciute in area scandinava e nelle Isole Britanniche essi dovevano avere un carattere di prestigio e si ritrovano infatti in siti archeologici legati a personaggi di alto rango. Si tratta di vetri renani di epoca romana e postromana e di più tarde opere longobarde, con una decorazione a filamenti e occhielli (thread and pointil) analoga a quella che caratterizza altri oggetti in vetro della stessa provenienza (Evison, 1955; 1975). Rari sono infine i c. in metallo. L'esemplare più grande, trovato a Hochdorf nella tomba del principe celtico del periodo Hallstatt, è costituito di segmenti cilindrici in ferro, connessi tra loro da lamine in oro, e presenta una catena pendente in bronzo; la leggera torsione che lo rende simile al c. del bisonte nordeuropeo permette di ipotizzare per quest'opera un uso analogo a quello dei c. veri e propri (Biel, 1985, p. 149). I soli esemplari interamente in oro dell'Europa occidentale, entrambi rinvenuti a Gallehus nello Jutland settentrionale nel 1639 e nel 1734 (Brøndsted, 1954) e oggi perduti, sono noti grazie ad antiche incisioni. Entrambi erano ritorti a imitazione delle c. del bisonte nordeuropeo; fusi in un unico pezzo in oro a 12 carati, presentavano fasce in oro rosso, sbalzate e incise con figure umane e animali. In base a confronti di carattere stilistico con la produzione di oggetti in metallo dello stile di Sösdala vengono datati in genere al 500 circa.I c. potori di epoca tardomedievale si distinguono da quelli più antichi per l'aggiunta di piedini in metallo (da due a quattro) che permettevano di appoggiarli ancora pieni. Tali sostegni, di solito a zampa di animale, sono attaccati a fasce in metallo che cingono la sezione mediana del c. (Cripps, 1894⁵, pp. 289-292; Oman, 1944).In ragione della loro funzione rituale e sociale, i c. furono spesso rappresentati anche con valore simbolico: due c. potori si trovano sull'arco trionfale romano a Carpentras (dip. Vaucluse) al di sopra di due capi barbari catturati (Bruce-Mitford, East, 1983, p. 381, fig. 277), probabilmente quali oggetti rituali, segno dell'identità di gruppo del popolo conquistato. In ambito norvegese esempi analoghi sono scolpiti sui cippi del Gotland a Lillbjärs e a Trängvide, in una serie di figure femminili in argento del periodo svedese-vichingo (esempi da Klinta; Stoccolma, Statens historiska mus.) e sulla croce anglo-norvegese di Gosforth (Cumbria); i c. vengono portati da figure femminili, forse valchirie, probabilmente a rappresentare la coppa dell'oblio offerta agli eroi nel Valhalla. Nell'arte cristiana i c. acquistano un duplice significato; nel citato Salterio Tiberius essi sono sia attributi del sovrano giusto sia simboli di vanità terrena da disprezzare, in risposta forse a Sal. 75 (74), 5: "Non alzare il tuo corno al cielo", oppure alle associazioni rituali precristiane. Il Cristo in trono (c. 18v) tiene un c. con la mano destra e Davide riceve l'unzione da parte di Samuele con l'olio contenuto in un c. (c. 9v); un altro c. fa parte anche delle ricchezze della terra offerte a Cristo dal diavolo (c. 10v; Wormald, 1948, tavv. 25, 7, 9).
Bibl.:
Fonti. - Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, a cura di H. Rackham (The Loeb Classical Library), II, London-Cambridge (MA) 1940; Tacito, The Agricola and the Germania, a cura di H. Mattingly, S.A. Handford (Penguin Classics), Harmondsworth 1970; Aneurin, The Gododdin. The Oldest Scottish Poem, a cura di K.H. Jackson, Edimburgh 1969; The Law of Hywel Dda, a cura di D. Jenkins, Llandysul 1986; The Exeter Book, II, Poems IX-XXXII, a cura di W.S. Mackie (Early English Text Society. Original Series, 194), London 1934; Lebor na Cert. The Book of Rights, a cura di M. Dillon (Irish Text Society, 46), Dublin 1962; Beowulf, a cura di L. Koch, Torino 1987; Saxo Gramaticus, Gesta Danorurm, a cura di J. Olrik, H. Raeder, 2 voll., København 1931-1957.
Letteratura critica. - W.J. Cripps, Old English Plate, London 1894⁵ (1878); M. Cahen, Etudes sur le vocabulaire religieux du vieux-Scandinave. La libation (Collection linguistique, 9), Paris 1921; G. Skjerne, Om Goldhornene [Sui c. d'oro], Musikhistorisk Arkiv 1, 1931, pp. 286-345; E.T. Leeds, Early Anglo-Saxon Art and Archaeology, Oxford 1936; C.C. Oman, English Medieval Drinking Horns, The Connoisseur 133, 1944, pp. 20-23, 60; G. Arwidsson, Två baltiska dryckeshorn från 600=talet [Due c. potori baltici del 600 ca.], Finska Forn minnesforingens Tidskrift 43, 1945, pp. 161-169; F. Wormald, An English Eleventh-Century Psalter with Pictures: British Museum, Cotton MS Tiberius C. VI, Walpole Society 38, 1948, pp. 1-13; J. Petersen, Vikingetidens Redskaper [Strumenti d'epoca vichinga], Oslo 1951, pp. 396-400; J. Broøndsted, Guldhornene. En Oversigt [C. d'oro. Un compendio], Koøbenhavn 1954; V.I. Evison, Anglo-Saxon Finds near Rainham, Essex, with a Study of Glass Drinking Horns, Archaeologia 96, 1955, pp. 159-195; O. Doppelfeld, Das fränkische Knabengrab unter dem Chor des Kölner Domes, Germania 42, 1964, pp. 156-188; D. Ellmers, Zum Trinkgeschirr der Wikingerzeit, Offa 21-22, 1964-1965, pp. 21-43; S. Einarsson, Old English 'beot' and Old Icelandic 'Heitstrenging', in Essential Articles for the Study of Old English, a cura di J.B. Bessinger Jr., S.J. Kahrl, Hamden 1968; D.H. Kennett, Graves with Swords at Little Wilbraham and Linton Heath, Proceedings of the Cambridge Antiquarian Society 63, 1971, pp. 9-26; R. Doht, Das Rauschtrank im germanischen Mythos (Wiener Arbeiten zur germanischen Altertumskunde und Philologie, 3), Wien 1974; V.I. Evison, Germanic Glass Drinking Horns, Journal of Glass Studies 17, 1975, pp. 74-87; C.E. Fell, Old English 'Beor', Leeds Studies in Old English, n.s., 8, 1975, pp. 76-95; P. Bauschatz, The Germanic Ritual Feast, in The Nordic Languages and Modern Linguistics, III, a cura di J.M. Weinstock, Austin 1978, pp. 289-295; R. Ó Floinn, The Kavanagh 'Charter' Horn, in Irish Antiquity. Essays and Studies Presented to Professor M.J. O'Kelly, a cura di D. Ó Corráin, Cork 1981, pp. 271-275; P. Bauschatz, The Well and the Tree. World and Time in Early Germanic Culture, Amherst 1982; R.L.S. Bruce-Mitford, K. East, Drinking Horns, Maplewood Bottles and Burr-Wood Cups, in The Sutton Hoo Ship Burial, III, 1, a cura di A. Care Evans, London 1983, pp. 316-408; H. Damico, Beowulf's Wealhtheow and the Valkyrie Tradition, Madison 1984; J. Biel, Der Keltenfürst von Hochdorf. Methoden und Ergebnisse der Landesarchäologie, cat., Stuttgart 1985, pp. 114ss.; K. Düwel, Das Opferfest von Lade. Quellenkritische Untersuchungen zur Germanischen Religionsgeschichte, Wien 1985; A. MacGregor, Bone, Antler, Ivory and Horn. The Technology of Skeletal Materials since the Roman Period, London 1985; H. Magennis, The Cup as Symbol and Metaphor in Old English Literature, Speculum 60, 1985, pp. 517-536; D. Edel, The Catalogues in 'Culhwch ac Olwen' and Insular Celtic Learning, Bulletin of the Board of Celtic Studies 30, 1988, pp. 253-267; M. Enright, Lady with a Mead-Cup. Ritual, Group Cohesion and Hierarchy in the Germanic Warband, FS 22, 1988, pp. 170-203; M. Ryan, The Irish Horn-Reliquary of Tongres/Tongeren, Belgium, in Keimelia. Studies in Medieval Archaeology in Memory of Tom Delany, a cura di G. MacNiocaill, P.F. Wallace, Galway 1988, pp. 127-142; C. Neuman de Vegvar, The Sutton Hoo Horns as Regalia, in Sutton Hoo: Fifty Years After, a cura di R.T. Farrell, C. Neuman de Vegvar, Oxford (OH) 1992, pp. 63-74.C. Neuman de Vegvar
I c. da caccia e quelli potori costituiscono, anche per l'Europa centrale, il gruppo più cospicuo fra i reperti in c. di epoca medievale conservati. Tali oggetti sono tutti costituiti da c. di varietà diverse di bovini (fra cui bufali, bisonti, uri) che mantengono dimensioni, forma e colore naturali. Il c., generalmente privato dell'osso, veniva semplicemente raschiato e levigato. Le dimensioni e la forma spesso insolite delle c., la loro appartenenza leggendaria a un potente o a un santo (per es., Cornelio o Uberto) e le qualità magiche a esse attribuite (come la facoltà di segnalare la presenza del veleno e, sulla scorta del motivo della cornucopia, di promettere fortuna) le resero particolarmente ricercate anche per collezioni, raccolte di oggetti d'arte e Wunderkammer. In virtù di tali caratteristiche esse, in particolare nel Tardo Medioevo, furono di norma abbellite da guarnizioni in metallo nobile. I c. da caccia presentano per lo più montature alle due estremità, che consentono, mediante occhielli, di montare gli spallacci. Nelle linee generali gli orafi dell'Europa nordoccidentale e centrale conservarono fino alla fine del sec. 14° la tradizione decorativa dell'arte anglosassone-irlandese dell'Alto Medioevo, di cui è esempio il reliquiario irlandese in c. di Tongres, del sec. 12° (Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire, inv. nr. 2958).Un c. da caccia forse di produzione francese degli inizi del sec. 15° (New York, Metropolitan Mus. of Art) è uno dei rari oggetti in c. intagliato; nella sua forma originaria e nel suo colore naturale, esso presenta, sull'apertura e su entrambi i lati di un anello al centro del fusto, sottili elementi in argento; è andata invece perduta l'imboccatura originaria. La superficie del c. è quasi completamente ricoperta da una decorazione piatta con motivi monumentali e, nella zona del fusto, Cristo risorto con cinque apostoli stanti, mentre sul sottile anello centrale del c. si trova un intaglio a rilievo con le scene della Crocifissione con Maria e Giovanni e di Cristo in trono sotto un baldacchino, affiancato da due santi.I c. potori sono testimonianze di antichissime usanze religioso-cultuali. Come recipienti per bere legati a occasioni solenni servivano, fra l'altro, a suggellare brindando accordi conclusi verbalmente. La frequente presenza di raffigurazioni e iscrizioni cristiane non è in contrasto con la loro destinazione profana; questo vale anche per i c. da caccia e per l'impiego dei c. potori come recipienti liturgici offerti ai pellegrini in occasione del Minnetrinken (bibere in nominibus sanctorum).Nel Tardo Medioevo i c. potori venivano dotati di montature, in argento o in rame a sbalzo o a incisione, costituite da fasce fissate alla punta e al bordo del c. e da piedi e coperchi, questi ultimi per lo più perduti. Gran parte dei piedi di questi c., come per es. il c. potorio proveniente da Salisburgo, del 1400 ca. (Firenze, Palazzo Pitti, Mus. degli Argenti, inv. nr. 1/Bg.II), è in forma di artigli o di figure intere di aquile o grifoni; questa circostanza è legata alla tradizione secondo la quale c. di questo tipo erano ritenuti gli artigli del leggendario grifone, da cui deriva anche la loro denominazione di Greifenklauen.L'esempio più significativo di c. potorio è quello dell'imperatore Sigismondo (Esztergom, Bazilika Kincstára, inv. nr. 1964.17.1,2), del 1400 ca., con montatura in argento e smalti, probabilmente realizzato nelle regioni dell'Europa orientale appartenenti all'Ordine Teutonico.H. Engelhart
In area mediterranea e nel mondo islamico il c. viene a identificarsi con il tipo in avorio detto anche olifante (dal fr. antico olifant 'avorio' e successivamente 'c. d'avorio'); sono pervenuti rarissimi esempi in altri materiali, quali il c. vitreo conservato a San Pietroburgo (Ermitage), del sec. 13°, attribuito a officina siriaca, con montatura in argento di lavorazione tedesca della metà del 16° secolo. Il c. in avorio conobbe in ambito bizantino e islamico una certa fortuna, dovuta non solo alla rarità e all'intrinseco esotismo del materiale (la zanna di elefante utilizzata per intero), ma anche al suo valore simbolico e quasi taumaturgico, alimentato e accresciuto nei secoli da numerose leggende. C. da caccia (o da richiamo), più raramente c. potori, decorati a bassorilievo, vennero quindi, in ambito cristiano occidentale, caricati di una valenza sacra e usati per contenere olio santo e persino reliquie, finendo così nei tesori di molte cattedrali europee. Il numero degli esemplari conservati risulta abbastanza ridotto (ca. trenta), ma comunque tale da permettere di istituire dei paragoni e degli accostamenti tra le diverse produzioni.Questi c., considerati generalmente appartenenti alla produzione suntuaria islamica dei secc. 10°-13°, con la quale vengono raffrontati, sono però attribuiti anche al coevo ambito bizantino o bizantineggiante.Nell'insieme della produzione islamica (o di tipo islamico) medievale di oggetti in avorio ('āj), nota per la grande raffinatezza tecnica e formale, gli olifanti costituiscono un gruppo a sé, caratterizzato da una lavorazione piuttosto omogenea e da una decorazione riconducibile a un ridotto tipo di modelli. Delle tre zone di produzione cui è riferibile la quasi totalità dei manufatti in avorio noti (la Spagna omayyade, l'Egitto, prevalentemente nel periodo fatimide, e l'Italia meridionale), gli olifanti vengono attribuiti in gran parte a botteghe di quest'ultima area.La sempre ripetuta, quasi obbligata, divisione in tre zone dello spazio destinato alla decorazione, pur non determinando il programma iconografico, lo colloca e lo limita in spazi ben precisi. Due fasce (in orizzontale) alle due estremità, definite dalla presenza di cerchi metallici cui è fissato il cordone che regge il c. stesso, accolgono generalmente una teoria di animali, variamente atteggiati, entro rotae. Nella zona centrale trova spazio la decorazione più impegnativa e caratterizzante. Si tratta, quasi sempre, di figure di animali, reali e fantastici, all'interno di medaglioni o di cornici, disposte in registri paralleli a quelli delle estremità. In alcuni casi, più rari, le fasce sono disposte ortogonalmente rispetto a quelle dell'imboccatura, come per es. nell'olifante di Firenze (Mus. Naz. del Bargello, inv. nr. 7) e in quello di Brunswick (Herzog Anton Ulrich-Mus.). Una certa ricerca di simmetria, sia pur non assoluta nella disposizione dei diversi animali, si può osservare in quasi tutti i corni. Va notata la mancanza di figure umane, frequenti invece nelle decorazioni dei coevi cofanetti in avorio. Gli oggetti di questo tipo sono accomunati stilisticamente dal rilievo generalmente piatto, stiacciato, senza chiaroscuro, senza traforo, nonché dalla mancanza di colore (almeno negli esemplari noti), che ravviva molta produzione islamica in avorio.Un esempio della tipologia più diffusa, assai noto e studiato, è rappresentato da uno degli olifanti d'avorio di Londra (British Mus., inv. nr. 1923, 12-5, 3). La decorazione, strutturata secondo la consueta sintassi a zone (in questo caso, però, manca la fascia all'imboccatura), presenta singoli animali rigidamente disposti entro rotae intrecciate a modulo continuo, a imitazione di un impaginato tipico dei tessuti islamici e di ispirazione islamica. All'estremità superiore, più svasata, una serie di sei medaglioni circolari con cornice continua a punti racchiude altrettanti animali: due leoni retrospicenti, due grifoni, un grosso volatile con una lunga ed elaborata foglia nel becco, un'aquila rappresentata frontalmente ad ali spiegate. Quattordici rotae abitate, delle stesse dimensioni delle precedenti, unite da una cornice continua liscia ed evidenziate da una decorazione degli spazi di risulta che funge quasi da rimando ottico, riempiono la parte centrale. Contrariamente a quanto avviene generalmente, uno dei medaglioni, quello con una coppia di quadrupedi affrontati e retrospicenti, è di dimensioni maggiori, costituendo, in un certo modo, l'elemento generatore di tutta la sintassi decorativa. Gli animali, assai simili a quelli della fascia superiore e, nel caso dell'aquila araldica, addirittura identici, appartengono al repertorio di ascendenza iranico-islamica: tre grifoni, due serpenti con testa di drago, due coppie di volatili affrontati in atto di abbeverarsi a un elemento nastriforme estremamente stilizzato che richiama però senza possibilità di dubbio una fontana, l'aquila ad ali spiegate, due anatre retrospicenti, due colombi con una foglia nel becco, un gallo anch'esso con una grande ed elaborata foglia nel becco. La scelta di modelli appartenenti al bestiario tipico della tradizione iconografica orientale in genere, iranica in particolare, si rivela nella presenza di foglie pendenti dal becco e nel motivo a goccia allungata inciso all'attaccatura delle zampe, comune nella toreutica sasanide e in opere derivate.I contorni particolarmente netti, quasi ritagliati sul fondo completamente liscio, il rilievo assolutamente piatto in superficie, la mancanza di qualsiasi ricerca di chiaroscuro rimandano ancora a prototipi orientali, mentre il trattamento stilistico degli animali manifesta una parziale adesione ad archetipi occidentali nella attenuata schematizzazione e in qualche accenno quasi naturalistico quale, per es., la diversa resa del piumaggio di alcuni volatili. Nell'insieme questo c. risulta accostabile a quelli di San Pietroburgo (Ermitage, Coll. Basilewski), a quello frammentario di New York (Metropolitan Mus. of Art) e a quello in cui compare anche un elefante (Kuwait, Nat. Mus., inv. nr. Lns 12 I). Sulla datazione, ma soprattutto sulla provenienza dell'olifante del British Mus., come di tutto un gruppo relativamente omogeneo di tali oggetti, la discussione resta ancora aperta. Questa produzione così specifica e specializzata, databile ai secc. 11°-12°, era stata considerata, per caratteri stilistici e compositivi, opera di botteghe dell'Egitto fatimide (909-1171), ossia di una delle zone più attive nella lavorazione dell'avorio in ambito islamico, anche se non erano mancate occasionali attribuzioni alla Siria o addirittura alla Spagna. Dato che nessun esemplare è stato trovato al di fuori dell'Europa, in paesi islamici, si era supposto che tali oggetti fossero stati prodotti in diverse regioni islamizzate, ma solo su precisa committenza occidentale; oppure che fossero stati portati dai luoghi santi, quali contenitori di reliquie, così come accadeva durante tutto il Medioevo per i preziosi tessuti orientali, diffusissimi in tutto l'Occidente. Attualmente, invece, questi olifanti vengono considerati prodotti di botteghe dell'Italia meridionale e della Sicilia normanna, dove lavoravano maestranze molto probabilmente provenienti da paesi islamici e comunque utilizzando prototipi indiscutibilmente orientali. Lo stile fatimide che accomuna molti olifanti (Stoccolma, Statens historiska mus.; Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny) sarebbe dovuto alla volontaria ripetizione di quel repertorio da parte dei laboratori siciliani, o piuttosto, secondo ipotesi sostenute da stringenti parallelismi, pugliesi (Otto-Dorn, 1964; Volbach, 1975; Gabrieli, Scerrato, 1979; Farioli Campanati, 1982). Va ricordato, comunque, che alcune città, quali Amalfi e soprattutto Salerno, erano importanti centri per la lavorazione dell'avorio.Gli stessi olifanti vengono considerati sì prodotti di botteghe dell'Italia meridionale o della Sicilia, ma assimilati piuttosto alla produzione bizantina; elementi bizantini vi risultano in effetti accostati a iconografie e a schemi compositivi islamici. Ma anche la coeva produzione romanica pugliese in pietra, a soggetto prevalentemente animale, avrebbe lasciato una traccia nei c. in cui si rivela una qualche, sia pur rara, plasticità.Un altro olifante, conservato a Parigi (Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny, inv. nr. MR. R. 360), rivela differenze di stile tali da far supporre l'esistenza di diverse scuole, più che di diverse botteghe. Di dimensioni leggermente minori, ripete la composizione dell'olifante del British Mus., con l'aggiunta di una serie di rotae anche all'imboccatura. L'insieme della parte centrale richiama immediatamente l'idea di un continuum, data l'interconnessione tra rota e rota, la presenza di altre figure animali sopra le cornici e soprattutto lo 'sfondamento' di diversi animali fuori dalle cornici stesse. La decorazione appare qui lussureggiante, arricchita in quasi ogni medaglione da elementi animali o vegetali che, creando uno sfondo fittissimo, rimandano all'horror vacui dei rilievi preromanici. In questa densità compositiva si perde, in apparenza, ogni criterio di paratassi, altrove palese. Anche la resa degli animali, assai più sfumata, decisamente meno secca di quella del precedente olifante, fa ascrivere questo prodotto a un'officina che si richiamava a prototipi iconografici e stilistici diversi.Raffigurazioni animali di tipo più occidentaleggiante si trovano anche negli olifanti di Edimburgo (Royal Mus. of Scotland), di Hannover (Kestner-Mus.), di Vienna (Kunsthistorisches Mus.); in quest'ultimo le rotae sono in tre registri, invece dei più consueti cinque; l'attribuzione è a botteghe islamizzanti dell'Italia meridionale del 12° secolo.Il citato olifante di Firenze rivela una composizione parzialmente diversa: la zona centrale presenta, invece dei consueti medaglioni, dieci registri paralleli per il senso della lunghezza, con animali in fila. La stessa tipologia ricorre anche sull'olifante conservato a Brunswick, in cui però i registri di animali di profilo sono alternati a registri con motivi a intreccio di vario tipo (uno è formato da due lunghi serpenti). La disposizione stessa dei sette animali per fila, rappresentati tutti di profilo, quadrupedi e volatili alternati con apparente casualità, alcuni dei quali retrospicenti, non permette alcuna paratassi compositiva. Gli animali, rappresentati senza la minima preoccupazione di verosimiglianza di forme, di proporzioni, di particolari, si stagliano su un fondo completamente liscio, con una densità che porta quasi a incastrarli l'uno nell'altro. La fascia della parte più svasata presenta animali simili in dimensioni maggiori all'interno di ben spaziate rotae. Questo esemplare, della fine del sec. 11°, già attribuito alla produzione dell'Egitto fatimide, viene ora riportato, come gli altri, in ambito italiano.Va ricordato tra i c. di stile fatimide, ma di produzione italiana del sec. 11°, quello di Hannover (Kestner-Mus.), dal consueto schema ad animali all'interno di rotae, in cui l'intento mimetico nella raffigurazione dei quadrupedi, disposti alternatamente verso destra e verso sinistra, rivela una netta componente occidentale.Altri c. accostano motivi di chiara ascendenza islamica a richiami alla decorazione bizantina e a raffigurazioni cristiane, come l'olifante conservato a Parigi (Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny), attribuito a botteghe dell'Italia meridionale operanti nel sec. 11°, nel quale, accanto a un bestiario tipicamente orientale, appare l'Ascensione di Cristo, nonché quello di Auch (Mus. des Jacobins), noto come c. di s. Orenzio, in cui compare la croce.Altri c. ancora, sempre prodotti da botteghe dell'Italia meridionale nello stesso periodo, pur mantenendo una sintassi decorativa simile, presentano caratteri stilistici quasi completamente occidentali: i due c. di Parigi, quello con figura di cavaliere (BN, Cab. Méd.), quello del Louvre (Dep. des Objets d'Art), in cui gli animali, all'interno di sinuosi rami piegati a cornice, si rifanno, in alcuni casi da presso, a modelli di ascendenza romana, e quello di Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus.), con girali con animali classicheggianti e triplice scritta pseudocufica (attribuito anche a botteghe siciliane dell'inizio del sec. 13°).Ben diversi risultano alcuni olifanti di più netta ascendenza bizantina, nei quali non mancano peraltro richiami più o meno evidenti a iconografie orientali, relegati generalmente nella fascia intorno all'apertura maggiore. Tale è il caso del c. detto di Clefan (Londra, British Mus.), attribuito a botteghe pugliesi del sec. 11°, la cui parte centrale, senza suddivisioni di sorta, dispiega un'ariosa e complessa scena di circo, dalle reminiscenze più classiche che bizantine. La fascia all'imboccatura maggiore, con una fila di animali fantastici, esemplati su prototipi tardoantichi, richiama analoghe composizioni del mondo islamico. Assai simile nella composizione risulta il c. di Praga (tesoro della cattedrale), attribuito a botteghe bizantineggianti. Ulteriore esempio, coevo e della stessa provenienza (Italia meridionale), è un vero e proprio c. da richiamo conservato a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.), in cui, in un triplice registro, tre diverse scene di caccia, con due cacciatori contro altrettanti leoni, si allargano senza limiti né cornici nella parte centrale, su di un fondo completamente liscio. È da citare, infine, un interessante e poco noto esemplare di olifante conservato a Jászberény (Jász Múz.) in Ungheria, il c. detto di Lehel, considerato di produzione bizantina e datato alla fine del sec. 9°-inizio 10°; la parte più svasata è sottolineata da una serie di cerchi con all'interno figure di animali, mentre la zona centrale è decorata in quattro registri sovrapposti, dove, senza divisione alcuna, sono accostati soprattutto uomini in vari atteggiamenti, figure mitologiche (centauri, grifoni), nonché animali (questi ultimi in scala maggiore).Tutti gli olifanti accostabili alla produzione bizantina presentano un dato caratterizzante, ovvero un gran numero di figure umane nella decorazione principale, nonché alcune raffigurazioni simili a quelle della coeva scultura romanica: per es. l'olifante del sec. 12° conservato a Copenaghen (Nationalmus.).
Bibl.: E. Bertaux, Les arts de l'Orient musulman dans l'Italie méridionale, MAH 15, 1895, pp. 419-455; E. Kühnel, Islamische Kleinkunst (Bibliothek für Kunst-und Antiquitäten-Sammler, 25), Berlin 1925, pp. 191-192; M.H. Longhurst, Victoria and Albert Museum. Catalogue of Carvings in Ivory, 2 voll., London 1927-1929; O. von Falke, Elfenbeinhörner, Pantheon. Internationale Zeitschrift für Kunst 4, 1929, pp. 511-517; 5, 1930, pp. 39-44; A. Goldschmidt, K. Weitzmann, Die byzantinischen Elfenbeinskulpturen des X. -XIII. Jahrhunderts, 2 voll., Berlin 1930-1934; M.T. Tozzi, Sculture medievali dell'antico duomo di Sorrento, Roma 1931, pp. 26-27; J. Ferrandis, Marfiles arabes de Occidente, 2 voll., Madrid 1935-1940; P.B. Cott, Siculo-Arabic Ivories, Princeton 1939; G. László, Lehel kürtje [Il c. di Lehel], Budapest 1953; E. Kühnel, s.v. Avorio e osso - L'arte dell'avorio nel mondo islamico e nel Medio ed Estremo Oriente - Islam, in EUA, II, 1958, coll. 272-276: 275-276; id., Die sarazenischen Olifanthörner, JBerlM 1, 1959, pp. 33-50; R. Pinder-Wilson, s.v. ^Ādj, in Enc. Islam2, I, 1960, pp. 205-209: 206; K. Otto-Dorn, Kunst des Islam, Baden-Baden 1964 (trad. it. Islam, Milano 1964, p. 153); Les trésors des églises de France, cat., Paris 1965; H. Swarzenski, Les olifants, Les monuments historiques de la France, n.s., 12, 1966, pp. 7-11; H. Fillitz, Zwei Elfenbeinplatten aus Sizilien (Monographien der Abegg-Stiftung Bern, 2), Bern 1967; E. Kühnel, Die islamischen Elfenbeinskulpturen. VIII. -XIII. Jahrhundert, 2 voll., Berlin 1971, pp. 14-24, 52-65; R.P. Bergman, A School of Romanesque Ivory Carving in Amalfi, MetMJ 9, 1974, pp. 163-186; W.F. Volbach,in Alle sorgenti del Romanico. Puglia XI secolo, a cura di P. Belli D'Elia, cat., Bari 1975 (19872), pp. 126-127, nrr. 150-151 (con bibl.); id., Elfenbeinarbeiten der Spätantike und des frühen Mittelalters (Kataloge vor- und frühgeschichtlicher Altertümer, 7), Mainz a. R. 1976; L'Islam dans les collections nationales, a cura di J.P. Reux, cat., Paris 1977, pp. 192-193, nr. 427; L. Golvin, L'olifant de Toulouse, Archéologia, 1978, 124, pp. 54-63; F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli Arabi in Italia (Antica Madre), Milano 1979 (19852), pp. 467-468, fig. 656; R.P. Bergman, The Salerno Ivories. Ars sacra from Medieval Amalfi, Cambridge (MA)-London 1980; W.F. Volbach, L'arte industriale del Medioevo in Sicilia, CARB 27, 1980, pp. 167-171: 168; R. Farioli Campanati, La cultura artistica nelle regioni bizantine d'Italia dal VI all'XI secolo, in I Bizantini in Italia (Antica Madre, 5), Milano 1982, pp. 137-426: 259, fig. 161; A. Cutler, The Craft of Ivory. Sources, Techniques, and Uses in the Mediterranean World: A.D. 200-1400, Washington 1985; D. Ebitz, Secular to Sacred: the Transformation of an Oliphant in the Musée de Cluny, Gesta 25, 1986, pp. 31-38; Europa und der Orient 800-1900, a cura di G. Sievernich, H. Budde, cat., Berlin 1989, pp. 537-542, nrr. 3/11-18; G. Curatola, G. Scarcia, Le arti nell'Islam, Roma 1990, p. 262, fig. 113; B.M. Alfieri, Influenze islamiche di tradizione sasanide sull'arte medievale campana, in Presenza araba e islamica in Campania, "Atti del Convegno, Napoli-Caserta 1989", Napoli 1992, pp. 21-33: 26, tav. XXIV, 7.M.A. Lala Comneno