CORO (gr. χορός; lat. chorus; fr. chøur; sp. coro; ted. Chor; ingl. chorus)
Il greco χορός, propriamente designante la danza o l'insieme dei danzanti e poi il canto da cui le danze erano accompagnate, significò in qualche caso anche il luogo dove le danze stesse avvenivano. Parallelamente, specificatosi il significato di "coro" a designare l'unione di più coristi nell'esecuzione di una musica vocale e la musica stessa, "coro" fu chiamata quella parte delle chiese cristiane, dove si raccolgono i religiosi monaci o canonici, per accompagnare col canto gli uffici sacri, e anche l'insieme degli stalli lignei disposti nel coro per i cantori.
Musica.
Espressione di sentimenti nel loro fondo collettivi, il coro è di solito composto, soprattutto nelle forme chiesastiche, in una scrittura concorde e spesso legata; distinta - in tutti i casi - dalla scrittura concertante, destinata a un complesso di virtuosi solisti, quale si trova in gran parte del patrimonio polivocale da camera e - già s'intende - nel concertato (v.) del melodramma.
Manifestazioni di coralità possiamo notare già presso le antiche civiltà orientali: Egizî, Assiri, Ebrei e i popoli dell'Oriente più lontano (Indiani, Cinesi) manifestano il loro istinto corale nelle grandi cerimonie sacre e civili. Non soltanto la moltitudine, presa dall'incanto religioso o dall'entusiasmo per un capo, ingenuamente unisce le sue mille voci a quella di un cantore, ma cori appositamente radunati e addestrati in organiche formazioni intervengono nelle solennità con danze e canti rituali, il più delle volte alleando le voci con gli strumenti suonati da musici, per così dire, ufficiali: nelle tombe dei ricchi Tebani del Nuovo Impero appaiono, per esempio, figure di cantatrici e di crotaliste in servizio sacro e da iscrizioni sumere sappiamo che nell'antica Mesopotamia aveva una funzione importante, nelle cerimonie funebri, il canto accompagnato dal suono di una specie di lira dotata d'intensa sonorità. Così anche presso gli Assiri erano in uso canti funebri, intonati da donne, e canti propiziatorî, intonati da sacerdoti col concorso di melopee di flauti. Sembra del resto che anche gli strumentisti partecipanti a tali funzioni avessero dignità sacerdotale, e ambedue le classi di musici si tenevano, nelle solennità, immediatamente dietro al monarca. Mentre Egizî, Babilonesi, Assiri annettevano alla musica nelle cerimonie religiose una funzione rituale, presso i re persiani invece non si accoglievano musici se non nelle feste profane e nei banchetti, nelle quali occasioni si praticava il canto alternato a soli e cori.
Strette erano le relazioni tra questi popoli e gli Ebrei, dei quali ultimi alcuni passi della Scrittura documentano il senso e l'abito corale: nell'Esodo (XV, 20-21) si legge che al perire degli Egizî nel Mar Rosso le donne d'Israele intonarono in coro, al suono del tüph (tamburello), un cantico improvvisato da Myriam, sorella di Aaron, in celebrazione di Jahvè. In I Cronache (XV, 16-25; XVI, 6-7; XXV, 1-7) è illustrato con una certa ampiezza l'intervento dei cantori e degli altri musici, organizzati dal re David, nel solenne trasporto dell'Arca: i varî corpi corali (e così anche gli strumentali) vi sono ben distinti e adibiti a distinte funzioni, secondo un ordinamento rigoroso. E non meno preciso è l'ordinamento esposto dopo molti secoli nel Talmūd. Nella Bibbia troviamo ancora, del resto, informazioni di notevole valore, anche se talvolta esposte a diverse interpretazioni: in II Cronache (V, 12, 13) si accenna alle solennità musicali per la consacrazione del Tempio, ma il testo ebraico, variamente spiegato, non è sufficiente a documentare l'omofonia, potendosi trattare semplicemente d'isocronia. Assai significativo è piuttosto il passo Neemia XII, 27-46, il quale riferisce come alla dedicazione delle ricostruite mura di Gerusalemme Neemia ordinasse i musici in due cori, i quali, dipartitisi per opposte direzioni, a giro compiuto si ritrovarono l'uno di fronte all'altro nel Tempio, e così disposti intonarono le loro lodi al Signore. L'uso del doppio coro era nelle consuetudini del servizio divino nel Tempio, e così l'uso di più riprese corali di un canto proposto dal solo, quale troviamo altrove nell'antico Oriente (v. anche salmi).
Simile all'ebraica è, dagl'inizî fino al periodo cosiddetto classico, la coralità ellenica, soggetta anch'essa a originarie influenze egiziane. Le testimonianze omeriche ed esiodee ci mostrano un già maturo costume corale, che si esplica nelle medesime circostanze già notate nella Bibbia: nelle celebrazioni, per esempio, di una vittoria o d'un vittorioso, nelle cerimonie religiose, e in genere là dove l'animo della moltitudine esplica un suo particolare valore. In onore di Apollo gli Achei innalzano un peana, dopo un sacrifizio espiatorio (Iliade, I, 472), e con un inno trionfale (Il., XXII, 391) salutano, guidati da Achille, l'uccisione di Ettore. Nella descrizione dello scudo di Achille (Il., XVIII) è illustrato il ritorno di un gruppo di giovani e di fanciulli dalla vendemmia, allietato dal canto di un giovinetto (che si accompagna con la lira) cui il coro risponde con un ritornello. Nella scena nuziale descritta nei versi 492-495 va notata, oltre tutto, la distinzione tra il gruppo delle fanciulle, dal quale si leva, a coro, il canto dell'epitalamio, e quello dei giovani, che si muove in danze al suono di flauti e di lire. Altri documenti di questi esordî della coralità ellenica si trovano inoltre in passi dell'inno ad Apollo Pitico (v. 514) e in altri omerici ed esiodei (per es., Scudo d'Ercole, v. 262 segg.), in descrizioni di cortei trionfali, d'imenei, ecc. La distinzione che si è notata dianzi tra il gruppo dei danzatori e quello delle cantatrici è indice d'un costume proprio di questo inizio della coralità greca, costume che scompare nel periodo dello sviluppo della melica e nella maturità, attinta tra l'altro nelle somme affermazioni corali del ditirambo e del teatro.
Al fiorire della poesia essenzialmente religiosa e civile delle grandi celebrazioni periodicamente ricorrenti nella vita pubblica, la pratica corale (con le forme poetiche prosodî, peani, iporchemi, nomi, treni, epinici, encomî, partenî, ecc., fiorenti già dal tempo di Stesicoro) si mostra ormai saldamente organizzata secondo norme risultanti da una lenta formazione. Il coro, acquistando funzioni sempre più rappresentative e figura sempre più esplicitamente drammatica, supera l'antica separazione tra gruppo orchestrico e gruppo cantante nelle evoluzioni suggerite dallo schema antistrofico e dal ritmo medesimo del canto. La contrapposizione del solo alla massa corale (che poteva raggiungere il numero di 50 coreuti), usata nel ditirambo, varca i limiti di questo e i suoi proprî, conducendo, in una delle sue conseguenze, alla rappresentazione teatrale e risolvendosi in un nuovo concetto della figura del coro, dal quale concetto si deducono norme e limitazioni nuove. Nel teatro il coro interviene specialmente - a cura di un corego (v. coregia) e costituito di solito nella tragedia da 12 coreuti, nella commedia da 24, sotto la guida di un corifeo assistito da uno o due parastati (sorta di maestri subalterni cui venivano affidati eventualmente i due semicori) - in momenti prestabiliti come per inquadrare e ripartire il corso del dramma.
Il canto eseguito durante l'entrata del coro nell'orchestra ebbe il nome di parodo, quelli eseguiti poi dal coro nell'orchestra fra un episodio e l'altro, di stasimi. Inoltre nella tragedia presero particolare sviluppo i canti amebei (fra coro e attori) e gli a solo (canti dalla scena). Nella commedia invece ebbe particolare importanza la parabasi, costituita, quand'era intera, di sette parti raccolte in tre gruppi. Il primo gruppo, eseguito tutto dal corifeo, constava di κομμάτιον (potremmo dire invito), parabasi propriamente detta o anapesti (dal suo metro abituale), e stretta (πνῖγος: lett. soffocazione, perché doveva esser detta tutta in una tirata, con pericolo di perdere il fiato); il secondo gruppo risultava di epirrema, ode, antepirrema, antode: l'epirrema e l'antepirrema erano detti dal primo e dal secondo corifeo, le altre due parti cantate dai due semicori. Talora esisteva una seconda parabasi, ridotta al secondo gruppo: viceversa qualche volta non v'era che un'unica parabasi ridotta: nella commedia più tarda poi la parabasi scomparve.
Anche nella cronaca interna, per così dire, del ditirambo si osservano movimenti stilistici analoghi. Anche qui si giunge a un carattere del coro opposto a quello del solo, ma per un altro cammino; dal rigido antistrofismo del primo ditirambo si esce a cercare una più agile fantasia creativa, e il ritmo stesso della poesia si avvia, in una seconda fase, verso un interesse più esplicitamente musicale, mentre al solo si suggeriscono spesso monodie prossime a quelle della tragedia. Alleati col melodizzare delle tibie e poi anche delle lire, il canto e la danza del coro dispongono nel ditirambo uno sfondo paragonabile a quello creato, con differenti mezzi, nella tragedia. Si vengono così a variare i modi (contro la primitiva egemonia del modo frigio) e gli strumenti, il cui numero dovette del resto essere aumentato. Così fuori del teatro troviamo l'elemento musicale diffondersi e permeare di sé il canto sino a volgerlo alla sua propria sfera estetica, mentre nel teatro tale movimento è meno coerente e consegue minori risultati.
L'aspirazione musicale, già favorita nel coro ciclico da correnti di provenienza orientale e nel teatro arginata da un severo razionalismo, viene a ravvivarsi altrove e altrimenti per le molteplici influenze accolte dalla civiltà classica nel suo diffondersi per il mondo. Varcati i limiti di un'arte ormai accademizzante (nelle cui manifestazioni romane il coro teatrale rinuncia a taluni dei suoi caratteri più significativi), la coralità rivive al primo rivivere di un sentimento veramente universale e potente quale il religioso.
Fin dalle prime origini il culto cristiano si giova dell'elemento musicale, e il canto di salmi, inni e odi ne diventa parte integrante. L'uso di strumenti è quasi subito escluso di fatto e poi di regola, mentre la lettura intonata dei testi liturgici o religiosi si avvia a un vario sviluppo musicale più rispondente alla varietà delle occasioni e degli scopi, e conduce seco anche la pratica corale dai limiti di semplici acclamazioni a quelli, ben altrimenti capaci di artistiche costruzioni, dell'antifonia (dalla Siria trasmessa all'Occidente ambrosiano e romano) tra due distinti gruppi corali. Col transito dal periodo responsoriale a quello penetrato dallo stile antifonico il coro assume importanza musicale alternando tra i suoi due gruppi, o tra il suo insieme e il solo, il canto di passi veramente e compiutamente melodici. Già progredito nel sec. IV (a Roma nel concilio del 382 intervengono vescovi siri già esperti dell'uso antifonico), il nuovo stile giunge a piena maturità nel secolo V. In chiesa è possibile, tra l'altro, consentire il canto corale anche alla massa dei fedeli (escluse o no le voci femminili, talvolta però riunite in un coro separato e organizzato in sé) e i cori dei sacerdoti e dei chierici vi assumono quindi anche una funzione di suggerimento e di sostegno. Dalla recitazione intonata si passa a una più libera melodia, favorita dalle inflorescenze ornamentali, provenienti dall'Oriente e dai lidi africani, che determinano la melismatica ambrosiana e quella più saldamente sintattica del gregoriano. In questo periodo di maturità, nel quale intorno al nucleo dei canti responsoriali e antifonarî s'intreccia una varia, eterogenea corona di canti religiosi di altra indole e di altro stile (principali fra tutti gl'inni derivati dall'Oriente - centro Edessa - a Milano e poi a Bisanzio), le funzioni del coro diventano dunque molteplici e talora ardue sia per la conoscenza del patrimonio musicale ormai ricco per lunga tradizione e distinto in diversi generi stilistici, sia per l'esattezza della pratica esecuzione. Per preparare quindi i cori chiesastici al loro compito, oltre che d'esecutore, anche di guida e di sostegno per i fedeli, non era possibile prescindere dalla necessità, sempre più urgente, di una scuola convenientemente organizzata. Del resto fin dal pontificato di Leone Magno si riuniva presso S. Pietro in Vaticano una comunità religiosa (monastero dei Ss. Giovanni e Paolo) cui era demandata la cura del servizio delle ore canoniche. Nello stesso sec. IV i monasteri orientali - centri la Siria e l'Egitto - organizzarono scuole presto fiorenti per quanto non durature. Ma dall'ultimo sec. VI, e cioè dal pontificato di S. Gregorio Magno in poi, l'attività delle scuole va sviluppandosi senza soluzione di continuità. All'esempio della romana Schola cantorum istituita da S. Gregorio s'informano le scuole di Metz, di S. Gallo, di Soissons, che verranno poi poste da Carlomagno e da papa Adriano I in grado di diffondere in quei paesi il canto di rito romano contro le ultime resistenze del gallicano. L'azione di tali scuole non si limitò tuttavia a consolidare il dominio del canto romano in confronto con gli altri fino allora fiorenti nelle chiese occidentali, ma condusse in breve tempo la stessa pratica del canto a conseguenze di grande importanza per la storia musicale: a S. Gallo si sviluppa rapidamente l'elemento decorativo delle fioriture di passaggio, prossime a quelle - d'inizio popolare non solo in Svizzera ma anche in Francia - dalle quali derivava l'uso della diminuzione (v.); nelle scuole francesi già nel sec. IX si giunge a teorizzare la polifonia vocale, nella forma organum che ingenerò poi diafonia e discanto e insomma tutto il movimento contrappuntistico (v. canto; contrappunto). E però opportuno considerare che gli stessi mezzi dei quali si giovò la pratica corale per la propria conservazione, attraverso le sempre crescenti difficoltà tecniche, si volsero, in un certo tempo, a favorire lo sviluppo di forme quasi concertanti che per questa loro indole si avviavano a uscire dallo spirito corale. Già l'organum difficilmente consentiva l'equa distribuzione delle voci tra la parte basica e l'organaria, sì che a quest'ultima non si riserbavano che pochi cantori. Aumentando, con la diafonia e poi col discanto, le difficoltà tecniche (non ultima tra le quali la frequente improvvisazione), dalla pratica corale si giunge a una pratica piuttosto concertante possibile a cantori esercitati e in ultima analisi professionisti. Dalla larghezza, veramente propria dello stile religioso, che aveva caratterizzato la coralità delle origini cristiane si giunge, attraverso la scuola, allo scolasticismo: la pratica non è più esperienza quotidiana ma esplicazione di teoria, e l'arte corale esce dalla vita popolare per restringersi nell'ambiente della sua tecnica ormai per alcun tempo prevalentemente decorativa. Così gli usi sopravvivono allo spirito, mentre il maggiore vigore della musicalità occidentale s'individualizza nello stile popolareggiante derivatogli dalla canzone e dalla danza. Gli strumenti, riammessi in chiesa, sostituiscono spesso le voci: il ritmo, in tale nuova corrente, si simmetrizza e simmetrizza le forme componistiche. Nel mottetto (forma tipica, insieme con la messa, della composizione polivocale di questo periodo) questa aura di soggettivo, individualistico lirismo introduce elementi eterogenei giustapponendo linee melodiche di provenienza profana su altre tratte dal canto liturgico. Da un motivo e da una finalità d'indole religiosa, si passa a motivi e a fini volutamente estetici, nell'orbita dei quali acquista maggior valore il lavoro della composizione.
Periodo, questo, nel quale si può dunque notare in Occidente (per l'Oriente v. specialmente bizantina, civiltà: Musica) un vastissimo e intenso sviluppo della composizione contrappuntistica e concertante, cui resta però estraneo lo spirito della coralità.
Del ritorno dello spirito corale è forse lecito discernere segni nell'avanzato sec. XV, nella restaurazione, iniziata da Giovanni Okeghem, dello stile chiesastico a sole voci in contrasto con l'uso, allora da tempo invalso, di sostegni o riduzioni strumentali. Ma vicino a tale rivalutazione del carattere di necessità delle parti vocali è da osservare che ben di rado il discepolo di Dufay conserva alla singola parte la linea espressiva e veramente vocale cara al vecchio maestro, perseguendo invece troppo spesso la preziosità del contrappunto. Ciò del resto vien fatto non di rado anche all'Obrecht e ad altri polifonisti della scuola fiamminga.
Appare quindi più prudente cercare gli esordî della nuova coralità, oltre i limiti dell'opera di Okeghem e di Obrecht - opera pur significativa anche a tal riguardo per caratteri costruttivi, ma in ispirito più riassuntrice che iniziatrice -, nella vasta corrente polifonistica che la Francia trae fuori dalla scuola del primo di essi. Già presso Josquin Després, appartenente a tale scuola se pur non discepolo dello stesso Okeghem, troviamo un vigore lirico dal quale l'artifizio contrappuntistico è rivalutato come documento di spirituale introspezione. Sia pure in un'orbita ancora individualistica, egocentrica, ritorna così in valore il carattere umano dell'arte, premessa necessaria al rigoglio di un'arte essenzialmente popolare (nell'accezione più alta della parola), come la corale. Durante un lungo periodo, da Josquin Després a Orlando di Lasso, è dato seguire questo movimento della musica polivocale verso la vastità e la potenza dell'arte corale, riassunta poi nell'opera religiosa del Palestrina.
Ricco di particolari correnti, esso movimento si estende specialmente nelle Fiandre, in Francia, in Italia e in Spagna (ma anche in Germania e in Inghilterra) e tra l'una e l'altra di queste sue correnti stilistiche intercede un continuo fecondo scambio. Elementi di coralità profana fiancheggiano elementi della religiosa e dovunque il senso corale è alimentato da un largo assorbimento di musicalità p0polaresca che continuerà in Italia fino al Seicento. Diretta, nella scuola veneziana che si vuole iniziare dal Willaert, a manifestazioni di potenza e di splendore coloristico (opere vocali-strumentali degli organisti e polifonisti di S. Marco: C. Merulo, A. e G. Gabrieli, C. Monteverdi), la composizione corale si avvia però nella sua corrente più larga a quell'espressione di fede religiosa che nella storia si può dire le appartenga quasi in proprio. Nella scuola romana (Animuccia, Palestrina, Nanini, Anerio, ecc.) è compiuto il cammino della polifonia dall'arte tormentosamente introspettiva, inizialmente analitica, del tardo Quattrocento franco-fiammingo a un'arte anche graficamente larga, sicura e calma. Calma infrequente nello stile nordico e nello spagnuolo, ove potenti affermazioni corali (Orlando di Lasso, Willaert, Morales, Victoria) sorgono da ispirazioni ancora goticheggianti o (in Spagna) eterogenee per derivazioni romane e fiamminghe; tormentate nel ritmo costruttivo e nell'andamento delle parti, più spesso cromatico e meno lineare che a Roma.
Assai diverso movimento si compie, da principio, nella coralità nordica, specialmente germanica. Già in Inghilterra la fioritura polifonistica (sacra e profana) dei tempi di un Byrd e di un Gibbons, ispirata stilisticamente al gusto italiano, non ebbe però a subire le interferenze (monodia rappresentativa) delle quali si valse l'evoluzione del coro in Italia (Carissimi). Ma dalle premesse italiane (scuola di S. Marco) si allontana rapidamente soprattutto lo spirito corale tedesco, il quale accoglie nel seno della composizione dotta trasmessa dai Gabrieli a H. Schütz non già il fiore della raffinata civiltà musicale del Rinascimento ma piuttosto il rude canto religioso del corale luterano e il ritmo delle danze popolari. La potenza degli strumenti, in Italia usata prima quasi soltanto dai Veneziani, viene a rafforzare l'inesorabile ritmo e le quadrate cadenze delle strofe corali. La composizione acquista un effetto potente di massa sonora in movimento, nella quale le voci dei soli, dei cori, dell'organo e dell'orchestra (ricca di oboi, di corni, di trombe) si compenetrano o si staccano in un dovizioso concerto, a contrasti imposti con violenza. Caratteri questi, che dal vecchio Schütz, da Giov. Cristoforo Bach e in genere dagli organisti settentrionali passeranno nelle immense costruzioni di Händel e di Giov. Sebastiano Bach.
Nell'opera di questi due maestri la composizione corale trova il suo ultimo regno e vi riassume tutte le sue risorse, spirituali e tecniche, dalla larghezza e dall'imponente semplicità del coro d'oratorio händeliano alla profondità lirica della polifonia bachiana. Ma già Händel e Bach non rappresentano più, nel loro tempo, l'indirizzo della vita musicale germanica. In Inghilterra l'oratorio händeliano crea una tradizione ancora oggi onorata benché artisticamente vana, ma in Germania lo stesso Bach è quasi un ritardatario: fin dal primo '700 si annuncia in Germania un movimento analogo a quello compiutosi in Italia nel '600. La coralità viene rinunciando di giorno in giorno alla sua potenza e ai suoi mezzi più proprî; influenze francesi e italiane traggono i musicisti più vivaci e innovatori a esperienze intimamente anti-contrappuntistiche e anti-corali. L'individualismo s'infiltra nell'arte tedesca insieme col gusto della profana eleganza. Segno non trascurabile, il rapido dissolvimento delle organizzazioni e società corali di dilettanti, artigiani, borghesi, ecc., che da secoli avevano costituito nei paesi dell'Europa centrale (Germania, Boemia, Austria, ecc.) una cara tradizione.
Dal tempo di Händel e di Bach in poi, per molto tempo, si può dire che la composizione corale non si trovi più nella via maestra del movimento musicale, che durante lunghi periodi aveva tenuto. Importanti manifestazioni appaiono ancora in tutti i paesi musicali, ma, anziché emergere da una continua evoluzione stilistica corale, esse rappresentano piuttosto rari, isolati momenti dell'attività di singoli maestri, al di fuori di qualsiasi scuola, e non sempre superano l'aspetto di accademiche riassunzioni di stilistiche secentesche o anche cinquecentesche, come avviene - per es. - in gran parte della produzione chiesastica dei paesi latini. Così anche nel teatro, salvo poche eccezioni, dovremo arrivare fino all'Ottocento inoltrato prima di ritrovare una coerente e poderosa, per quanto breve, creatività corale. Già nel maturo Settecento il coro non chiesastico s'inserisce quasi sempre in composizioni prevalentemente monodiche, né giunge a costituirne, sia pure nei brevi suoi limiti, i momenti esteticamente superiori. Fin dai tempi del Rameau gl'interventi corali nel melodramma erano discreti, e questi limiti non vengono sorpassati né presso il Gluck (pur capace di ottime intuizioni corali) né presso il Mozart. Maggiore importanza assume il coro presso lo Spontini e il Cherubini (il secondo dei quali fu grande compositore di Messe e di altre musiche sacre polifoniche) ma di rado il valore estetico dei singoli interventi corali emerge nell'insieme delle partiture. Fuori del teatro, i maggiori monumenti di coralità si trovano presso Haydn, Cherubini e Beethoven, nell'opera del quale ultimo maestro l'intuizione corale è però talvolta viziata dall'interferenza, non abbastanza governata, degli altri elementi della partitura (soli, orchestra) o addirittura da quella di procedimenti tecnici, e quindi stilistici, proprî di questi altri elementi. La IX sinfonia di Beethoven rappresenta tuttavia, insieme con la Messa in re del medesimo autore, la più alta vetta che lo spirito corale abbia toccato dopo Bach e Händel.
Entrati, con Beethoven, nel pieno spirito ottocentesco, siamo portati nella corrente del romanticismo musicale, cui il senso della coralità non è ignoto, sia pure in virtù d'influenze filosofiche e letterarie, mentre troppo spesso l'esplicazione concreta risente delle stesse interferenze che già avevano caratterizzato la scrittura corale di Beethoven. Tra tutti i romantici della prima scuola (Schubert, Schumann, Berlioz, Mendelssohn, ecc.), soltanto a Mendelssohn riesce una buona scrittura corale, povera però d'intimo vigore e di necessità lirica, condotta com'essa è, alquanto freddamente, sulle traccie della scrittura händeliana.
Dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, il ritorno ai valori proprî della coralità viene lentamente affermandosi, anche fuori del teatro, non senza giovarsi della rinascente pratica delle associazioni corali (specialmente nei paesi germanici) e, d'altra parte, del rapido sviluppo degli studî storico-musicali, rivolti al dovizioso passato corale. Dagli anni di Brahms e di Franck a quelli di Mahler, di Bossi, di Perosi, di Debussy, il coro rientra più spesso e per più vaste affermazioni nella produzione extra-teatrale (cantata, oratorio, sinfonia, mistero, ecc.), mentre nel teatro giunge a manifestazioni di sommo valore, perché strette ai caratteri, allo spirito proprio della coralità, specialmente presso Mussorgski e - in Italia - nell'opera di Giuseppe Verdi, culminante, a tale proposito, nelle gigantesche architetture, comparabili alle händeliane, del 2° atto di Aida.
Nella produzione corale dei nostri giorni, pervasa di spirito intimamente religioso (ove il gregoriano riassume spesso la sua antica funzione direttiva) o popolaresco, talvolta etnico, possiamo fin da oggi segnalare documenti significativi nelle opere di I. Strawinski (Noces, Symphonie des Psaumes), di I. Pizzetti (in molte opere ma soprattutto nella Messa da Requiem), di A. Honegger (Roi David, Judith) e di Z. Kodály (Psalmus hungaricus).
Architettura.
Nelle prime chiese cristiane, ove il santuario o presbiterio era posto nell'abside semicircolare, la scuola cantorum, composta di chierici e di musici, stava davanti all'altar maggiore nello spazio compreso tra l'inizio dell'abside e quello della navata centrale, mentre ai vescovi e ai sacerdoti erano riservati i sedili, che correvano in giro all'abside. Lo spazio dato alla schola cantorum era recinto da parapetti o plutei di marmo e conteneva semplici sedili pure di marmo e amboni o pergami, ove si cantavano l'Epistola e il Vangelo.
L'uso di chiudere con organismi architettonici questo spazio destinato alle musiche liturgiche, iniziato coi primi secoli del Cristianesimo, non fu mai più abbandonato e costituisce la vera caratteristica architettonica dei cori. A essa contribuì il desiderio, derivato dall'Oriente, di occultare alla massa dei fedeli lo svolgimento dei sacri misteri e, più tardi, con lo sviluppo del monachesimo, l'opportunità di separare i monaci dal popolo.
Già nelle catacombe di S. Callisto la cripta papale ha una divisione costituita da due colonne sorreggenti una trave (trabs dorsalis o pergula), da cui forse pendevano cortinaggi. S. Pietro di Roma aveva nel sec. IX una trabs d'argento: di bronzo era quella coronata da candelieri nella cattedrale di Lione (sec. XII); nel tempietto di S. Maria in Valle a Cividale (sec. VIII) l'abside è divisa dall'aula, ove sono bellissimi stalli trecenteschi, mediante un architrave sorretto da colonne: in basso è un parapetto o cancellus, alla guisa di quello che è tra le quattro colonne di marmo greco che costituiscono il tramezzo del duomo di Torcello (sec. IX), diviso in riquadri o plutei. Questo tramezzo (detto jubé in francese e Lettner dai Tedeschi), posto tra il coro e il resto della chiesa dato ai fedeli, crebbe d'importanza, di ricchezza e di dimensioni con lo sviluppo delle chiese monastiche quando le chiusure dei cori, costituite in principio, come si è veduto, da semplici trabeazioni e tendaggi, divennero vere costruzioni murarie e acquistarono un carattere di difesa contro qualsiasi tumultuare e accorrere di fazioni nei templi aperti a tutti, accentuando al coro stesso e al santuario il carattere di luogo chiuso agli occhi dei comuni fedeli. Ai sedili e ai plutei di marmo (il duomo di Pisa aveva un coro di marmo intagliato, S. Lorenzo di Verona aveva i sedili marmorei, a S. Miniato, a Pisa, a Lucca, a Pistoia restano ricchi plutei intagliati, dei secoli XI-XII), alle sedie o cattedre mobili vengono sostituiti stalli fissi (l'insieme dei quali fu detto anch'esso "coro": v. sotto) e grate e cancelli di legno, intagliati da fiorentissime scuole di magistri lignaminis. Dalla trabs dorsalis, che, data la nuova e ampia larghezza delle chiese, viene sorretta da un sempre maggior numero di colonne, allacciate tra loro con arcate e coronate da una galleria praticabile ove trovano posto acconcio pulpiti per la lettura dell'Epistola e del Vangelo, nasce il tramezzo o jube, che l'arte gotica arricchì in modo magnifico.
Nel mezzo s'elevò grandiosa la croce, nella parte inferiore s'allinearono sepolcri e altari: ai fianchi del coro si costruirono muri decorati con intarsî di marmi o con pitture.
Gli stalli vennero disposti su due ordini: nel più alto stavano i religiosi, nel più basso i professi. Non bastando lo spazio avanti all'altare, il coro s'allungò verso l'ingresso della chiesa, occupando grande spazio della nave centrale. Malauguratamente pochi esempî rimangono dei tramezzi e dei cori così costituiti. In Italia ricordiamo l'abbazia di Vezzolano (tramezzo del 1189 con sculture borgognone), la piccola chiesa di S. Vittore vicino a Bologna, con un originale tramezzo traforato a galleria (sec. XII), S. Maria in Valle di Rosciolo (1150), S. Nicola di Girgenti (tramezzo fino al sommo della nave, sec. XII). Di chiusure laterali antiche rimangono i recinti corali del duomo di Barga (sec. XII), della pieve di Chiana (Arezzo), di S. Agata del Mugello (sec. XII-XIII).
Dei ricchi cori di S. Croce e di S. Maria Novella di Firenze, di S. Margherita di Arezzo, di S. Caterina di Pisa, di S. Francesco, S. Domenico, S. Giacomo di Bologna, tutti protendentisi nel mezzo della chiesa, non rimane ricordo che nei documenti. Interessanti esempî del coro tradizionale situato avanti all'altare sono: quello dei Frari a Venezia (1465-1475), quello (ora senza stalli) di S. Michele in Bosco a Bologna (fine del sec. XV) e quello di S. Maria di Bergamo posto nell'abside con un elegante tramezzo di legno intagliato e scolpito (1522-33). Magqiori sono gli esempî di cori gotici rimasti all'estero, testimonî dell'esuberanza con la quale gli artisti oltremontani arricchirono questa parte delle chiese. Citiamo i cori gotici con jubé di S. Cecilia d'Albi, di Sion in Svizzera, di Naumburg in Sassonia, di Troyes, con ricchissimo jube a ornati flamboyants, come quello di Dixmude, i più tardivi cori di Saint-Fiacre a Faouët, di Bron, ecc.
Maggiore importanza nella storia dell'architettura religiosa ebbe il tipo di coro disposto dietro l'altare principale, al posto dell'abside. Esso ebbe grandiose manifestazioni nel periodo gotico, quando al coro si destinò il prolungamento della navata centrale al di là del transetto. Ebbe in genere pianta poligonale e fu spesso circondato da cappelle disposte radialmente.
Di siffatta disposizione che si continuò e divenne generale dal Rinascimento in poi, troviamo esempî ammirevoli in quasi tutte le grandi chiese gotiche oltramontane. In Italia ricordiamo S. Andrea a Vercelli, il duomo di Siena, S. Francesco a Bologna, che all'esterno presenta il tipico aspetto della raggiera di cappelle e di archi rampanti, la basilica di S. Francesco ad Assisi e numerose altre chiese, specialmente monastiche.
Non hanno particolarità architettoniche i molti cori monastici detti notturni e d'inverno, organizzati come sale e cappelle a una sola navata, recinte in giro da ordini di stalli.
Gli stalli del coro. - Si è visto come la parola "coro" serva a designare, oltreché una parte della chiesa, situata avanti o dietro l'altar maggiore, anche l'insieme degli stalli lignei collocati in essa. Talora al centro del coro è un seggio destinato al capo della comunità, distinto per ricchezza d'ornati. Lungo le pareti si allineano gli stalli - come si è visto - anche in doppio ordine.
Parte necessaria del coro era il leggio che, negli esempî italiani più sviluppati, collocato nel mezzo, era girevole su alta base quadrata, munito di torciera, di cinghie con pesi per fermare i fogli dei grandi corali, sovente custoditi nella sua parte inferiore ad armadio. Leggii usarono lungamente di metallo, specie quelli di Dinant, e ancora se ne trovano anche in chiese d'Italia; ma comunemente erano di legno e vi si applicavano l'intaglio e l'intarsio come negli stalli.
Più uniforme e comune è invece lo schema dei singoli stalli, quale si determinò nel periodo gotico e perdurò poi senza sostanziali varianti nei tempi successivi: ciascuno stallo, caratterizzato dall'alto dossale, si compone di un sedile fisso o ribaltabile a cerniera, sul cui rovescio è talora disposta una specie di mensola per deporvi i libri; alla spalliera sono innestati i bracciuoli sui quali s'appoggiano colonnine o alette divisorie che salgono fin in alto a sostenere il baldacchino, coronamento consueto nei cori del periodo gotico, non scomparso del tutto nemmeno nei tempi successivi. L'inginocchiatoio, quando esiste, per l'ordine degli stalli superiori, è addossato alla spalliera di quelli inferiori. Gli ultimi stalli, nelle parti terminali del coro e nelle interruzioni praticate nell'ordine inferiore per facilitare l'accesso a quello superiore, sono quasi sempre chiusi da fiancali scolpiti o semplicemente decorati.
Non si hanno precisi elementi per determinare quando e come sia sorto l'uso del coro ligneo nelle chiese: certo è che la maggiore diffusione esso cominciò ad averla nel periodo gotico, quando fiorirono in grande prosperità gli ordini monastici e l'arte del legno. Risalgono al sec. XIII gli stalli di Notre-Dame-de-la-Roche (Seine-et-Oise), quelli frammentarî della chiesa cattedrale di Poitiers e di Saint-Andoche di Saulieu, che mostrano di derivare da antica tradizione; quelli del duomo di Spalato. Poi nel sec. XIV si fanno frequenti, soprattutto in Italia, opere organiche e importanti, per la storia dell'intaglio in legno oltre che per propria intrinseca bellezza, come il coro del duomo di Orvieto, incominciato nel 1325, quello del duomo di Siena, eseguito (1363-1397) sotto la direzione di Francesco del Tonghio, e quello di S. Domenico in Ferrara, di Giovanni da Baiso (v.), opera più intatta delle precedenti, che furono scomposte e modificate, come spesso accadde a tali suppellettili.
Nel sec. XV e nel XVI si ebbe in Italia una produzione di cori tanto numerosa e di sì squisito pregio che è impossibile enumerarla qui compiutamente. La storia dell'intaglio (v.), della tarsia (v.) e in genere della scultura lignea di quei secoli è documentata in gran parte dagli stalli corali. L'arte del legname giunge allora ad alti fastigi, per opera d'intagliatori provetti e d'intarsiatori che, spesso valendosi anche di disegni di grandi artisti, creano superbe opere decorative, dai pannelli di semplice ornamentazione geometrica alle composizioni con veri e proprî intendimenti pittorici. Di tarsie, di rilievi si adornano i dossali e gli specchi, mentre con sempre maggiore ricchezza ed eleganza s'intagliano i bracciuoli, le alette divisorie, i coronamenti.
Fin quasi allo scorcio del sec. XV le forme d'ispirazione gotica, pur contemperandosi sempre più con gli spiriti del Rinascimento, rimangono tuttavia come ossatura costruttiva. In Toscana e in Umbria quest'arte crea opere memorabili: dagli stalli corali del duomo di Pienza d'esili linee goticheggianti, a quelli veramente esemplari della cappella del Palazzo pubblico di Siena, opera di mastro Domenico di Nicolò che fece anche il coro di san Savino nel duomo e terminò quello di Orvieto; dall'antico coro di San Giovanni nel duomo di Siena, opera del senese Antonio Barili (1453-1502) ora in frammenti nella chiesa di S. Quirico d'Orcia, a quello della chiesa inferiore di San Francesco in Assisi, firmato nel 1471 da Apollonio di Giovanni Petrocchi da Ripatransone. A Perugia, che diviene centro di grande attività per quest'arte, si compie nel 1456 il coro di S. Maria Nova, da quello stesso maestro Paolino che in Ascoli, sua patria, eseguisce il coro del duomo, dall'ampio seggio vescovile; si fanno gli stalli della cappella dei Priori e quelli della chiesa di S. Domenico. Nelle Marche acquista molta rinomanza Domenico Indivini da Sanseverino (circa 1445-1502) che nella regione e fuori costruisce notevoli stalli corali (nella chiesa maggiore di Sanseverino, nella chiesa superiore di San Francesco ad Assisi, ecc.). A Piacenza un maestro Giangiacomo Genovese termina nel 1471 il coro della cattedrale, che si ricollega a quello ferrarese di Giovanni da Baiso e s'adorna di pannelli intagliati con squisita fantasia di forme gotiche e coloriti di rosso e azzurro nei fondi, al modo veneto. Sullo stesso schema, ma con minore finezza, si costruisce il coro del duomo di Reggio Emilia, mentre da Parma i Canozi da Lendinara, col coro del duomo, influiscono variamente sull'arte del legno in Emilia,'con caratteri di transizione che rimangono per tutto il '900, più o meno intensi, nei cori di S. Prospero a Reggio, di S. Sisto a Piacenza, ecc. Così mentre il coro di S. Zeno a Verona mantiene le consuete forme gotiche tardive, a Venezia riflessi del gotico fiorito si hanno nei cinquanta doppî stalli del coro nella chiesa dei Frari, opera di quel Marco da Vicenza che, con maggiore appesantimento delle forme di Giovanni da Baiso, compone anche il coro della chiesa di S. Stefano. Il Piemonte per tutto il '400 rimane vivamente fedele all'arte francese, come dimostrano gli stalli corali intagliati della cattedrale, firmati da Giovanni Vion di Samoens e da Giovanni di Chetro e quelli del Priorato di S. Orso ad Aosta; quelli della chiesa di S. Giovanni in Asti (opera del pavese Baldino di Surso che li firmò nel 1477), del duomo di Susa, dell'abbazia di Staffarda, ora nel Museo civico di Torino, ecc.
Dopo il lungo risonare di forme goticheggianti, il Rinascimento s'afferma in pieno nello scorcio del sec. XV e per tutto il XVI. Gli schemi si ampliano in toscana chiarezza di composizione; l'intaglio si fa squisitamente elegante valendosi nel nuovo repertorio decorativo quattrocentesco; la tarsia, fino allora introdotta con qualche timidezza, prende dominio nei primi decennî del '500 specialmente nell'Umbria e nella Toscana che mantengono per quest'arte il vanto d'insuperata magnificenza: si ricordino gli stalli del duomo di Perugia, intagliati e intarsiati da Giuliano da Majano e da Domenico del Tasso (1486-91); a Firenze il coro della chiesa di Badia; a Monte Oliveto, nell'archicenobio, un capolavoro di fra' Giovanni da Verona condotto a termine nel 1515, superbo per ricchezza di tarsie. Ma anche altrove fiorisce e s'afferma l'opera di valenti intarsiatori, come in S. Giovanni a Parma, in S. Maria in Organo a Verona, nel duomo di Genova e in quello di Savona, e più splendidamente nella chiesa della Certosa di Pavia dove gli stalli corali scolpiti dal modenese Bartolomeo De Poli son tutti fioriti delle tarsie mirabili di Pietro da Vailate. In un secondo tempo, dopo i primi decennî del '500, l'intaglio riprende il sopravvento e la tarsia viene a poco a poco dimenticata e abbandonata. I cori nelle chiese di S. Maria delle Carceri a Prato, di S. Pietro a Perugia, di S. Anastasia a Verona, con la prevalenza dell'opera d'intaglio su quella della tarsia, segnano il nuovo orientamento nella seconda metà del '500 con maggiore pienezza di ornato, con senso plastico meglio sviluppato e più dominante. Caratteri questi che, sempre più rafforzandosi, informeranno l'arte del legno nello scorcio del sec. XVI e che troviamo affermati a Siena in un'opera esemplare: gli stalli corali della cattedrale ideati da Bartolomeo Neroni detto il Riccio e da lui intagliati con aiuti verso il 1570 con fastosa ornamentazione che talora sembra sopraffare la stessa struttura architettonica e preludere così al barocco. E di simili caratteri si trovano poi improntati i cori di San Severino a Napoli, di S. Eusebio a Roma, quelli ricchissimi di S. Giustina a Padova, di S. Giorgio Maggiore a Venezia, e, più tardi e con sempre maggiore appesantimento di forme, a Milano, nelle chiese di S. Vittore al Corpo, di S. Simpliciano, nel duomo; mentre, in contrasto con tanta dovizia di ornati e di bassorilievi lignei, si diffondono anche schemi di semplicità più riposata come p. es. nella chiesa della badia ad Arezzo, in S. Maria Maggiore a Bergamo, in S. Sebastiano a Biella, in S. Martino a Burano.
Si giunge all'inizio del sec. XVII con la continuazione di forme cinquecentesche quali possono vedersi nel coro della cappella dei canonici in S. Pietro in Vaticano a Roma, in quelli della chiesa di S. Sigismondo a Cremona e di S. Maria della Salute a Venezia. Ma non appena si sbrigliano le nuove tumultuose energie del barocco, anche la scultura in legno viene da esse animata. Tuttavia nei cori raramente si giunge a rimarchevoli eccessi. Bisogna venire al 700 per trovare ricerca di movimento e maggiore libertà di fantasia. Andrea Fantoni, nel Bergamasco, s'afferma grande maestro dell'intaglio anche nei cori, e per esempio in quello della chiesa di Sorisole, notevole per armonica composizione architettonica e finezza decorativa. Ma in genere - ove si tolga il Piemonte dove varî stalli corali (chiese di Mosso S. Maria, S. Maria della Scala a Moncalieri, cattedrale di Asti, Santuario di Mondovì) rispecchiano la buona arte del legno del sec. XVIII con i suoi influssi francesi - viene a mancare a poco a poco e per molteplici ragioni il fervore e forse anche l'occasione che aveva prodotto fino allora i grandi impianti corali, i quali si fanno sempre più rari. A ciò poterono contribuire le mutate esigenze del gusto, se s'ha da credere che il Milizia rispecchiasse idee non soltanto sue quando nei Principii di architettura civile lanciò ironiche frecciate contro i cori, ch'egli definiva "un fastidi0 per le nostre chiese" perché "vi producono un misto ingrato di legname e di fabbrica". Certo è che in tempi recenti l'arte del legname non ha prodotto alcun'opera di questo genere, degna di tanta tradizione.
Fuori d'Italia sono da ricordare in Francia gli stalli della cattedrale di Amiens, incominciati nel 1508, ricchissimi d'intagli figurati anche nei seggi minori o miséricordes; in Germania il coro della cattedrale di Ulma, a cui collaborò Jörg Syrlin (1468-1474), mirabile per le potenti figure di profeti e di sibille; nella Spagna, la silleria della cattedrale di Siviglia (circa 1478), intagliata da Nufro Sánchez e dal fiammingo Dancart, quella a figure del duomo di León (compiuta nel 1481 da Teodoric0 tedesco), quella del duomo di Toledo, incominciata da Rodrigo Alemàn, poi compiuta dai Biguerny e da A. Berruguete: opere che rispecchiano diversi momenti dell'arte, dal gotico allo stile del Rinascimento.
V. tavv. LXXV-LXXXII.
Bibl.: E. Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l'architecture, Parigi 1867-1869; A. Melani, L'arte nell'industria, Milano s. a.; G. Ferrari, Il legno e la mobilia nell'arte italiana, 2ª ed., Milano s. a.; A. Midana, L'arte del legno in Piemonte nel Sei e Settecento, Torino s. a.; B. V. Tieschowitz, Das chorgestühl d. Kölner Domes, Marburgo 1930.