Abstract
Si analizza il contributo fornito dall’imputato, con il proprio corpo, alle esigenze di accertamento del reato. L’analisi viene compiuta, seguendo una linea di progressiva incidenza sul corpo, sui singoli accertamenti esperibili nel procedimento penale e strumentali alla ricostruzione del fatto e all’accertamento della responsabilità. L’indagine svela prassi applicative distorte e fornisce chiavi di lettura per la riconduzione del sistema al principio di legalità.
Il processo penale ruota attorno al soggetto al quale si addebita la commissione di un fatto di reato (Dominioni, O., Imputato, in Enc. giur., XX, Milano, 1970, 789). Tale attribuzione determina l’instaurazione di un rapporto di tensione tra individuo ed autorità, tra la tutela dei diritto di difesa e la necessità di accertare il fatto di reato; le garanzie dell’imputato e le esigenze di difesa sociale; l’intangibilità di alcuni diritti fondamentali dell’individuo e l’efficacia degli strumenti acquisitivi delle prove (Felicioni, P., Accertamenti sulla persona, in Enc. giur., Aggiornamento 2015, Milano, 2015, 36). L’apporto conoscitivo proveniente dall’imputato può essere di duplice natura, quale organo e quale oggetto di prova (Florian, E., Delle prove penali, Milano, 1921); può infatti rivestire un ruolo attivo ed uno passivo, al quale si ricollega la titolarità di situazioni giuridiche soggettive diverse. L’imputato organo di prova contribuisce personalmente alla formazione della prova, poiché attraverso le sue dichiarazioni fornisce al giudice elementi di conoscenza per la decisione. Diversamente, il contributo fornito dall’imputato in qualità di oggetto di prova non è conseguenza di una fattiva partecipazione, ma deriva dalla soggezione all’istruzione probatoria.
L’accertamento personale costituisce una categoria evanescente, le cui fattispecie applicative mutano con l’evolversi della tecnologia. L’applicazione del progresso scientifico al processo penale, pur essendo funzionale al raggiungimento della verità processuale, cela particolari insidie, laddove risulta idoneo ad incidere sulla sfera personale, materiale e psicologica della persona. Risulta, dunque, imprescindibile valutare i diritti inviolabili del singolo e operare un bilanciamento tra diritto al giusto processo e diritti fondamentali dell’individuo. La distinzione tra persona quale organo ovvero oggetto di prova risulta funzionale all’individuazione della peculiare strategia difensiva che l’imputato può adottare rispetto ai diversi accertamenti che vengono svolti, dovendo verificare, oltre ai limiti di ammissibilità degli specifici mezzi di prova, anche la rilevanza probatoria e le possibili chance difensive.
Il corpo umano, dunque, costituisce fonte di riconoscimento e di dimostrazione dei caratteri individuali che differenziano un individuo dall’altro. Bisogna, invero, sgombrare il campo da un equivoco di fondo: il corpo umano non rileva solo attraverso l’indagine genetica, poiché se da un lato l’aspetto estetico dello stesso condiziona l’accertamento, dall’altro, invece, l’evoluzione tecnologica consente di indagare “sul” e “nel” corpo umano con indagini fortemente intrusive.
Se alla staticità delle norme, penali e processuali, si contrappone la dinamicità della scienza e della tecnologia, il baricentro deve necessariamente individuarsi nella tutela dei diritti fondamentali (Vassalli, G., La protezione della sfera della personalità nell’era della tecnica, in Studi in onore di Emilio Betti, V, Milano, 1962, 684). La circostanza che tali elementi probanti derivino direttamente dall’imputato innalza il livello di affidabilità delle risultanze probatorie, in quanto genuine, poiché non filtrate dalla volontà dell’imputato di non fornire elementi contra sé.
Il primo livello di riflessione coinvolge gli accertamenti extracorporali, che riguardano soltanto l’aspetto esteriore della persona, sebbene, a volte, questi possono comportare una momentanea immobilizzazione della stessa. In secondo luogo, l’analisi prosegue sugli accertamenti intracorporali, ovvero sulle attività che comportano un assoggettamento fisico o morale dell’imputato al potere degli organi inquirenti, con contestuale limitazione della libertà personale.
L’analisi della progressiva incidenza sul corpo dell’imputato non può prescindere da un approccio problematico, attento al livello di tutela offerto dalla normativa sovranazionale e dalle norme costituzionali. L’individuazione del bene giuridico “aggredito” dall’accertamento penale risulta funzionale al riconoscimento delle garanzie desumibili dal sistema normativo. L’accertamento corporale pone profili di problematicità rispetto alla tutela della libertà personale, al riconoscimento della dignità dell’essere umano nonché al diritto alla salute.
L’art. 13 Cost. prevede un duplice livello di tutela. Da un lato vi è la libertà personale in senso tradizionale e di immediata percezione, quale la libertà dall’arresto e dalla coercizione fisica (Chiavario, M., Processo e garanzie della persona, II, Milano, 1984, 302). Dall’altra la libertà corporale rileva quale libertà dagli atti invasivi che incidono sulla sfera intima ed interna del corpo del soggetto, al fine di carpirne informazioni ovvero elementi probanti. Il riconoscimento di tale bene giuridico trova fondamento nella nota sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 1996 (C. cost., 27.6.1996, n. 238), relativa al prelievo ematico quale attività di natura coattiva. La pronuncia, che ha elevato la libertà corporale a principio di rango costituzionale, ha avuto anche il merito di distinguere gli atti genericamente limitativi della libertà personale, come gli atti coercitivi, limitativi soltanto della libertà personale intesa in senso tradizionale ed atti invasivi, quali accertamenti che incidono sul corpo. Gli accertamenti corporali, dunque, possono essere ricondotti all’interno della categoria di chiusura «qualsiasi altra restrizione della libertà personale» di cui al co. 2 dell’art. 13 Cost. (Gabrielli, C., Il prelievo coattivo di campioni biologici nel sistema penale, Napoli, 2000, 190).
Tra i beni giuridici determinanti per l’analisi degli accertamenti esperibili sul corpo dell’individuo, si ascrive anche la tutela della dignità, poiché essa assume valore di specificazione di altri diritti costituzionali. Sebbene nel tempo, la dignità ha svolto una funzione strumentale alla delimitazione del campo di applicazione della libertà personale, la Corte costituzionale ne ha chiarito la portata applicativa. Affinché la libertà personale venga effettivamente aggredita, deve verificarsi una de-qualificazione giuridica dell’individuo, una menomazione o una mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale da poter essere equiparata a quell’assoggettamento all’altrui potere in cui si concreta la violazione dell’ “habeas corpus” (C. cost., 31.5.1995, n. 210).
Lo svolgimento di determinati accertamenti sul corpo dell’imputato pone diverse criticità anche in riferimento alla tutela della salute e dell’integrità fisica. Se l’art. 32 Cost. tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, sul piano processuale, il diritto alla salute non risulta essere comprimibile, ad eccezione delle ipotesi di coazione contemplate dalla Costituzione, relative ai trattamenti sanitari obbligatori da effettuarsi nell’interesse della collettività, che restano di regola estranei alle dinamiche del rito penale. La potenziale lesività dell’integrità fisica di determinati accertamenti sul corpo, come ad esempio le indagini radiografiche, pongono in forte tensione il diritto alla salute con le esigenze di efficienza del processo.
La Costituzione garantisce il diritto al silenzio, in base ad una lettura combinata degli artt. 24 e 27 Cost. ed il codice di procedura penale, nell’attuare i principi costituzionali, predispone un sistema di norme a protezione del diritto di non collaborare articolato attraverso divieti probatori ed inutilizzabilità espresse (Grevi, V., Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972). Tale tutela copre sia il diritto al silenzio sia il diritto a non effettuare movimenti corporei necessari alla prova nel processo penale. Esso costituisce una situazione giuridica soggettiva dell’imputato, nella sua qualità di organo di prova e di oggetto; nel primo caso, il diritto in questione si concretizza nella facoltà di tacere avanti all’autorità giudiziaria, di non autoincriminarsi, mentre nel secondo caso si estrinseca nella facoltà di non compiere alcun movimento fisico per consentire attività probatorie che abbiano ad oggetto il proprio corpo. Tra le istanze individuali idonee a delimitare i confini di una legittima acquisizione di elementi probanti si ascrive anche la tutela della riservatezza. Nonostante non sia espressamente disciplinato nella Costituzione, il diritto alla riservatezza è stato collocato tra i diritti inviolabili costituzionalmente garantititi dall’art. 2 Cost. da una sentenza della Corte costituzionale intervenuta sul diritto d’autore (C. cost., 11.6.2009, n. 173).
Seguendo una linea di progressiva incidenza sul corpo, in primis si deve analizzare l’incidenza dell’aspetto esteriore del corpo dell’imputato ai fini dell’accertamento del reato. Le ipotesi disciplinate sono tra di loro eterogenee e ricomprendono i rilievi e gli accertamenti urgenti effettuabili dalla p.g. per identificare l’indagato, ex art. 349, co. 2, c.p.p., le attività compiute di propria iniziativa o su delega del p.m., volte all’assicurazione delle fonti di prova ex art. 348 c.p.p., avvalendosi eventualmente dell’ausilio di persone idonee, ed infine gli accertamenti ed i rilievi sulle persone, diverse dalle ispezioni personali, che possono essere eseguiti dagli ufficiali di polizia giudiziaria in situazioni di urgenza.
Nel codice è attribuito alla polizia giudiziaria il compito di dare “un nome ad un volto”. Lo scopo dell’accertamento non è l’individuazione dell’autore del reato (Felicioni, P., Questione aperte in materia di acquisizioni e utilizzazione probatoria dei profili genetici, in Conti, C., a cura di, Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, Milano, 2011, 160), ma l’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini. E, infatti, in tal senso milita anche la collocazione sistemica, che consente l’esperimento di tale attività nella fase iniziale del procedimento penale, poiché l’art. 347, co. 2, c.p.p. attribuisce alla polizia giudiziaria l’onere di comunicare all’interno dell’informativa, quando possibile, «la generalità, il domicilio e quanto altro valga all’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e dei futuri testimoni».
Per procedere alla identificazione, la polizia giudiziaria invita l’interessato a riferire le proprie generalità ed ogni altra notizia che possa essere utile ai fini dell’identificazione, ma può anche eseguire, “ove occorra”, rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti. L’inciso “ove occorra” consente il compimento di tali accertamenti solo in via sussidiaria, allorché, cioè, non sia stato possibile identificare il soggetto secondo le modalità di cui al primo comma, o ancora allorquando la persona si sia rifiutata di fornire le proprie generalità ovvero quando sorgano dubbi sulla autenticità delle sue dichiarazioni e dei documenti di identificazione forniti. La locuzione “nonché altri accertamenti”, inoltre, costituisce una valvola di chiusura del sistema, che apre a tutte le nuove tecnologie che l’evoluzione scientifica può fornire. Il grado di limitazione della libertà personale trova la sua massima espansione nella facoltà riconosciuta alla polizia giudiziaria di accompagnare nei propri uffici tutti coloro che rifiutino di farsi identificare ovvero forniscano generalità o documenti ritenuti falsi. Definito “fermo identificativo”, lo stesso ha una durata limitata alle 12 ore, estesa a 24 nell’ipotesi in cui l’identificazione risulti particolarmente complessa. È evidente, dunque, che tali tecniche, invero, «sfiorano i limiti imposti dall’art. 13 Cost.» (Cordero, F., Art. 349 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, Torino, 1992, 397).
Tra le funzioni di assicurazione delle fonti di prova e conservazione delle tracce del reato e dei luoghi o cose o persone ad esso pertinenti, rientrano gli accertamenti ed i rilievi urgenti che la polizia giudiziaria compie, in attesa dell’intervento del pubblico ministero ovvero prima che questi abbia assunto le indagini, anche sulla persona, ad eccezione dell’ispezione personale, ex art. 354 c.p.p. Pur consapevoli della difficoltà di individuare un discrimen certo tra le due categorie, si può ritenere acquisito che il termine ‘rilievo’ allude ad una attività meramente ricognitiva, mentre l’ ‘accertamento’ evoca una attività di studio e valutazione critica di alcuni elementi, necessariamente soggettiva e per lo più su base tecnico scientifica (Kostoris, R., I consulenti tecnici nel processo penale, Milano, 1993, 140). La necessità di distinguere l’uno dall’altro ha, talvolta, trascurato il dato fattuale che legittima l’intervento eccezionale della polizia giudiziaria rispetto a quello tipico del pubblico ministero: la situazione di urgenza. Tale condizione sottolinea, forse implicitamente, la natura derogatoria dell’attribuzione rispetto ad un sistema che attribuisce in via generale al p.m. la possibilità di svolgere accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici ed ogni altra operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze, attraverso il ricorso dei consulenti tecnici nominati ad hoc. La polizia giudiziaria è legittimata dalla situazione di periculum in mora che consente il compimento di operazioni cd. ‘d’intervento passivo’.
Tra le caratteristiche peculiari del corpo ai fini del riconoscimento un ruolo determinante assume il volto dell’imputato (Gullotta, G.-Tuosto, E.M., Il volto nell’investigazione e nel processo, Milano, 2017). Il mezzo di prova tipico, ex art. 213 c.p.p., – la ricognizione – solleva particolari problemi sul versante della coercibilità dell’imputato allo svolgimento del mezzo di prova. Se alcun dubbio si pone in riferimento al ricognitore, posto che secondo la dottrina maggioritaria esso conserva lo status soggettivo che già riveste nel processo penale (e dunque, l’imputato godrà della facoltà di non sottoporsi al compimento dell’atto) (Capitta, A.M., Ricognizione coatta, communicative evidence e diritto al silenzio, in Giust. pen., 1996, I, 114), sussistono diversi orientamenti in riferimento alla possibilità che il giudice sottoponga coattivamente l’imputato alla ricognizione ed impedisca eventuali gesti tesi ad evitare il riconoscimento, ad esempio ponendo le mani sul viso. La prassi giurisprudenziale, tuttavia, mostra la tendenza a svilire la portata applicativa della ricognizione, in favore della cd. ricognizione informale, che consiste nel chiedere al testimone in udienza dibattimentale se riconosce l’autore del reato tra le persone presenti in aula. Tale modalità di riconoscimento, invero, elude le garanzie predisposte dal legislatore per i due istituti. Da un lato, infatti, il teste è sottoposto ad una domanda suggestiva, dall’altro il ricognitore, anziché essere collocato in un contesto neutrale che consente una rievocazione serena e genuina del ricordo, subisce inevitabili pressioni dettate dall’ambito della testimonianza. L’elusione delle prerogative difensive, invero, non caratterizza esclusivamente la tecnica della ricognizione informale, essendo sempre più frequente il ricorso all’individuazione nella fase delle indagini preliminari. L’istituto previsto dall’art. 361 c.p.p. appare idoneo ad alterare la genuinità del successivo atto di ricognizione, compromettendone i risultati; esso infatti, risulta corredato da minori garanzie difensive, non essendo previsto, in favore del soggetto da riconoscere quando si tratti della persona sottoposta alle indagini, il diritto all'assistenza tecnica da parte del difensore, né il dovere di verbalizzazione integrale dell’atto.
In talune circostanze può apparire fondamentale stabilire a chi appartenga un profilo vocale, in particolare quando la traccia fonica è una componente essenziale del reato. Le conseguenze derivanti dall’attribuzione del dato fonico ad una determinata persona sono rilevanti; attribuire la commissione di un reato ovvero consentire la collocazione fisica di un soggetto in un determinato momento. In coerenza con il metodo seguito, è opportuno distinguere la modalità di individuazione personale mediante la voce, dal profilo, squisitamente dinamico, dell’individuazione del mezzo processuale più idoneo per lo svolgimento dell’attività di riconoscimento entro i margini di legalità. Il timbro vocale è un bioindicatore dotato di una capacità ‘caratterizzante’ imperfetta, perché oltre ad essere ‘viziato’ da instabilità intra-individuale, può risultare sovrapponibile al timbro vocale di un altro soggetto (Chimichi, D., Profili giuridici del riconoscimento del parlante, in Conti, C., a cura di, Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, Milano, 2011, 383). L’intrinseca incertezza che connota l’oggetto dell’attività probatoria riflette i suoi effetti sulle diverse ed eterogenee tecniche di riconoscimento; dal metodo meramente uditivo, basato sull’ascolto e sulla capacità soggettiva di confrontare segni vocali e stabilirne la compatibilità, all’utilizzo di strumenti e tecnologie, che veicolano l’accertamento verso standard più oggettivi e dotati di capacità probante più acuta. In tale ultimo caso, il metodo può essere interamente automatico attraverso un software, appositamente predisposto, teso a confrontare due o più campioni, oppure ‘semiautomatico’, allorquando il processo di estrazione dei parametri e dei risultati dell’estrazione stessa risenta dell’operato dell’esperto che li ha effettuati. Nel processo penale, il dato ‘fonico’ ha acquisito un’indiscutibile valore dovuto all’uso ‘sfrenato’ delle intercettazioni, rispetto alle quali si annidano diverse problematiche. Nella prospettiva qui di interesse, invero, spesso si ricorre al riconoscimento fonico per attribuire la paternità delle conversazioni captate. Proprio per questo motivo assume una fondamentale importanza scandire le modalità acquisitive del patrimonio ricognitivo funzionali a garantire l’attendibilità del risultato probatorio e a minimizzare il rischio di ‘falsi ricordi’. La comunità scientifica e gli organi investigativi ripongono molte speranze della cd. ‘impronta vocale’, che al pari dell’impronta papillare e dell’impronta genetica, potrebbe essere in grado di ‘identificare’ un determinato soggetto. Essa, infatti, rappresenta il nucleo essenziale ‘insensibile’ ai tentativi di camuffare il timbro vocale. L’obiettivo è individuare un unicum idoneo a superare la dinamicità del fenomeno vocale, condizionato dall’ambiente e dalle emozioni.
L’art. 245 c.p.p. disciplina l’ispezione personale, che ha ad oggetto ‘i corpi umani vivi’; l’aggettivo ‘personale’ evoca, già dalla rubrica della disposizione, un’attività intrusiva sulla persona, con contestuale restrizione della libertà personale, tutelata ex art. 13 Cost., co. 2. L’ispezione personale consiste in una operazione tecnica, che non viola la barriera fisica del soggetto, distinguendosi dunque dagli accertamenti invasivi di cui agli artt. 359 bis e 224 bis c.p.p., ma caratterizzandosi per un grado di intrusione maggiore rispetto ai rilievi di cui all’art. 354 c.p.p., perché idoneo a superare le barriere materiali degli indumenti. Su questo profilo, si inserisce l’interpretazione volta a dilatare sempre più i confini dell’ispezione, riconducendo a tale categoria attività varie ed eterogenee, che di fatti tradiscono l’originaria distinzione tra ispezione e perquisizione. Alla concezione tradizionale secondo cui l’ispezione si limiterebbe ad una osservazione esterna di parti del corpo anche nascoste, si affianca una lettura più ampia, secondo cui l’attività ispettiva si spinge sino a sondare l’interno del corpo umano, senza creare una continuità tra esterno ed interno, ad esempio attraverso l’iniezione per il prelievo di sangue o l’inserimento di sostanze di contrasto.
Il lento percorso di avvicinamento alle attività di indagine che determinano una ‘intrusione’ nel corpo mostra interessanti profili problematici in relazione alla attività di ricerca sul corpo della persona che si spinge sino alla possibilità di utilizzare gli strumenti diagnostici che consentono di ‘indagare’ l’interno del corpo umano. L’art. 247, co. 1, c.p.p. consente la perquisizione personale qualora si abbia fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona il corpo del reato o cose ad esso pertinenti. La nozione di ‘persona’, nella perquisizione, ha una portata tale da non essere ridotta solo al ‘corpo umano’. Rientra nella fattispecie de quo anche l’attività di ricerca su cose fisicamente distinte ma di pertinenza della persona; si pensi ad esempio alle valigie, alle borse, agli indumenti e anche all’automobile. Di conseguenza, l’attività di ricerca, propria della perquisizione, contribuisce ad una diversa interpretazione del concetto di libertà personale, che non incontra un limite nella sfera materiale del corpo. L’imputato si trova, come nell’ipotesi dell’ispezione, in una situazione di soggezione, poiché subisce le conseguenze di un legittimo atto coercitivo, fondato sugli artt. 2 e 13 Cost. Tuttavia, la portata della coercizione legittima deve essere delimitata. Il diritto di non collaborare, come diritto di non fornire prove contro sé stesso, è una situazione a contenuto negativo, garantita all’imputato dall’art. 24, co. 2, Cost. Rientrano in tale situazione sia il diritto al silenzio, sia il diritto a non effettuare movimenti corporei necessari alla prova nel processo penale. Tale situazione giuridica soggettiva è riconosciuta all’imputato sia nella qualità di organo di prova sia quale oggetto di prova. Nel primo caso, dunque, il soggetto ha la facoltà di tacere innanzi all’autorità giudiziaria, per non autoincriminarsi; nell’altro, invece, ha la facoltà di non “collaborare”, cioè di non compiere alcun movimento fisico per consentire attività probatorie che abbiano ad oggetto il corpo. Al contrario, appare legittima l’imposizione di costrizioni implicanti per il soggetto passivo un mero pati. La coercizione può essere intesa come immobilizzazione temporanea o eventuale svestizione del soggetto recalcitrante per consentire l’attività probatoria.
Tra gli accertamenti corporali più noti si ascrive il prelievo coattivo di materiale biologico, il cui carattere di invasività è indubbio, in quanto potenzialmente lesivo di diritti costituzionalmente tutelati. Il legislatore, colmando il vuoto normativo creatosi per effetto della sentenza della C. cost., 27.6.1996, n. 238, con la l. 30.6.2009, n. 85 ha introdotto nel tessuto codicistico l’art. 224 bis relativo ai «provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale» e l’art. 359 bis, circa «il prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi». Il prelievo, per sua natura, mira «a sottrarre dal corpo umano quel materiale (parte di tessuto o liquido organico) necessario per l’esecuzione delle ricerche o di analisi». Anche in riferimento a tale attività, in chiave investigativa ovvero probatoria, non trova applicazione il principio del nemo tenetur se detegere, poiché «l’indiziato non è qui costretto a prestare il proprio contributo attivo alla formazione della prova, come accadrebbe se si pretendesse di esaminarlo, costringendolo a fornire informazioni sul proprio conto»: il soggetto «vi soggiace con la propria persona» (Felicioni, P., L’esecuzione coattiva del prelievo ematico: profili problematici, in Cass. pen., 1997,363).
In questo eterogeneo panorama normativo, si inserisce anche la normativa di parte speciale relativa all’accertamento dello stato di ebrezza, contenuta nel c.d.s. (D. lgs. 30.4.1992, n. 285). In tal caso si assiste ad una progressiva valutazione dell’atteggiamento corporale del guidatore del veicolo, allorquando si deve indagare sulle possibili cause che hanno determinato l’evento ovvero sullo stato soggettivo dell’autista dell’autovettura. L’abuso dell’alcool e delle sostanze stupefacenti nei guidatori ha sollevato nel tempo la necessità di un intervento legislativo volto a prevenire la causazione di incidenti stradali, dovuti allo stato di ubriachezza o di alterazione psicologica (Rinaldi, M., La guida sotto l’effetto di alcool e stupefacenti: l’accertamento e il processo, Rimini, 2012, 95-109). L’uso del noto ‘etilometro’, invero, non costituisce l’unica ed esclusiva modalità di accertamento del tasso alcolico; gli organi della polizia stradale, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrità fisica, possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove. Il corretto modus operandi presuppone un accertamento ‘per gradi’, ricorrendo preliminarmente a controlli di carattere ‘qualitativo’, attraverso le cd. ‘figure sintomatiche’. Lo step successivo è rappresentato dalla possibilità di utilizzare l’etilometro, nell’ipotesi in cui gli accertamenti qualitativi preliminari di cui al co. 3 dell’art. 186 c.d.s. abbiano dato esito positivo, ovvero quando si è verificato un incidente, e – con formula ampiamente discrezionale –, allorché si ritenga che il conducente del veicolo versi in uno stato di alterazione psicofisica, derivante dall’influenza dell’alcool. La peculiarità di tale accertamento sulla persona, che comporta una intrusione ‘nel’ corpo, impone il rispetto del presidio difensivo nella sua massima estensione. Di conseguenza, la polizia giudiziaria, ex art. 114 disp. att. c.p.p., ha l’obbligo di avvertire la persona sottoposta alle indagini della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, senza che per procedere sia necessario la nomina di un difensore d’ufficio, qualora il difensore di fiducia eventualmente nominato non sia comparso, trattandosi di un atto a sorpresa, per il quale è prevista la facoltà, e non l’obbligo, di assistenza. L’omissione dell’avviso determina una nullità a regime intermedio, per violazione delle regole in tema di intervento, rappresentanza ed assistenza dell’imputato, ex art. 187 co. 1 lett. c), c.p.p. Le Sezioni Unite hanno di recente risolto un contrasto giurisprudenziale in merito al termine per rilevare tale nullità, riservando particolare interesse all’individuazione della parte legittimata a rilevare il vizio (Cass., S.U., 5.2.2015, n. 5396, in Proc. pen. giust., 2015, 4, 63). L’unico soggetto su cui grava l’onere di eccepire la nullità è il difensore, e non l’indagato o altra parte privata, essendo questi privi delle competenze tecnico-processuali idonee ad apprezzare la violazione di legge. Dunque, il termine finale di deducibilità della patologia è quello della deliberazione della sentenza di primo grado. Con tale pronuncia, le Sezioni Unite hanno ‘celebrato’ il ruolo della difesa tecnica nel processo penale, valorizzando la funzione di garante della legalità in capo all’avvocato, grazie al suo patrimonio tecnico-giuridico (Mariucci, E., Valorizzato il ruolo della difesa tecnica in tema di alcooltest, in Proc. pen. giust., 2015, 4, 64).
Le tecniche neuro scientifiche analizzano il rapporto tra i meccanismi celebrali ed il comportamento umano (Sammicheli, L.-Sartori, G., Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, in Bianchi, A.-Gullotta, G.-Sartori, G., a cura di, Manuale di neuroscienze forensi, Milano, 2009, 15 e ss.). Calata nella prospettiva processuale, tale metodologia di accertamento è potenzialmente idonea a sovrapporsi alla condotta che realizza il reato. In linea con il percorso esegetico seguito, il problema risulta acuito, poiché le neuroscienze non rilevano quale semplice fonte di prova personale, ma quale fonte di prova reale. Se in riferimento alla prova dichiarativa si è acquisita una consapevolezza in letteratura circa le fonti sovraordinate che garantiscono il diritto alla libertà morale, alla libertà di autodeterminazione e per l’accusato il diritto al silenzio, «il legislatore rivela una sorta di inesperienza nel disciplinare la persona quale fonte di prova reale» (Conti, C., I diritti fondamentali della persona tra divieti e “sanzioni processuali”: il punto sulla perizia coattiva, in Dir. proc. pen., 2010, 993). Del resto, risulta icti oculi la tensione tra l’uso delle tecniche neuro scientifiche nel processo penale e la tutela della dignità della persona. Il rischio è che quest’ultima venga trattata come «semplice oggetto sottoposto al potere della macchina tecno-scientifica o della conoscenza dell’esperto, o solo al suo profilo psico-fisico», allorquando la prova neuroscientifica diventi «l’elemento che porta, inevitabilmente e in modo del tutto deterministico, al convincimento stesso del giudice» (Diversamente, Maffei, V., Ipnosi, poligrafo, narcoanalisi, risonanza magnetica: metodi affidabili per la ricerca processuale della verità, in De Cataldo Neuburger, L., a cura di, La prova scientifica nel processo penale, Padova, 2007, 426-427). Se la prova dichiarativa nel processo accusatorio deve essere assunta nel contraddittorio tra le parti, essa non può essere mediata dall’utilizzo di tecniche che alterano la libera determinazione dell’uomo, allorquando cioè la tecnica venga utilizzata per ricavare risultati di prova che devono essere manifestazione della volontà espressa o silenziosa della fonte di prova personale da formarsi nell’oralità del procedimento penale e nel contraddittorio tra le parti, o più semplicemente nel dialogo tra autorità giudiziaria e fonte di prova. Di conseguenza, non possono utilizzarsi tecniche idonee a degradare l’imputato e il testimone a mero oggetto processuale, trasformando la componente neurologica in elemento di prova, che ai sensi dell’art. 187 c.p.p. deve riferirsi all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza, ovvero per provare i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (quali l’attendibilità) alla stregua di una prova rappresentativa.
Il rispetto della dignità dell’uomo, quale ricavabile dal paradigma normativo costituito dalle disposizioni costituzionali e sovranazionali, impedisce la trasformazione del corpo e della sua sfera psichica in una fonte immediata di risultati probatori che dovrebbero, invece, emergere per effetto dell’oralità. Dunque, appare fondamentale vincolare i profili finalistici dell’accertamento neurologico, volto ad individuare eventuali malformazioni cerebrali ai fini della rilevazione di una infermità mentale, ed evitare che tali valutazioni determinino un giudizio di imputabilità, di pericolosità sociale, ovvero una valutazione di attendibilità della persona.
La disamina dei singoli atti, investigativi e probatori, che attualmente consentono l’acquisizione di dati ed elementi dal corpo umano è diretta all’individuazione delle coordinate di un sistema di indagine e di accertamento che coinvolge la persona nella sua fisicità. Se l’obiettivo, dunque, è ricondurre tali accertamenti entro gli argini degli istituti tipizzati dal legislatore, la prassi rappresenta, invece, la tendenza ad eludere la disciplina degli istituti tipici, ricorrendo alla categoria della atipicità per legittimare attività prive di adeguate guarentigie difensive. Lo scenario lascia perplessi per la natura altamente specialistica degli accertamenti, che riserva tutela effettiva solo a chi gode di rilevanti disponibilità economiche mentre amplifica, in termini patologici, il divario dei poteri tra organi inquirenti e parti private.
Da un punto di vista metodologico, si osserva che assumendo un diverso approccio ermeneutico al tema, è possibile ricondurre il sistema a legalità. Fil rouge dell’analisi, dunque, è l’individuazione dei diritti fondamentali nella tutela del bene giuridico leso dal singolo atto probatorio. In un ideale percorso costituzionalmente orientato, la disamina dell’esegesi fornita dalla giurisprudenza risulta funzionale ad una verifica di coerenza con il dato normativo, da un lato, e al riconoscimento delle adeguate guarentigie difensive, dall’altro. Lo studio, invero, dimostra che tutti gli accertamenti che coinvolgono la persona quale res richiedono una tutela costituzionale ampia ed estesa alla pluralità dei profili coinvolti (volendo Alesci, T., Il corpo umano fonte di prova, Padova, 2017).
Da un punto di vista sistematico, lo studio condotto mostra la necessità di un intervento urgente del legislatore, teso a governare la complessità della materia degli accertamenti corporali. Fermo il superamento della neutralità del giurista, desta perplessità lasciare la soluzione di delicate questioni all’interprete che può azzardare incursioni in ambiti disciplinari propri della medicina legale. La prospettiva dello studio, invece, lascia intravedere sullo sfondo la inutilizzabilità del contributo probatorio fornito dalla persona con il proprio corpo, acquisito in violazione di diritti fondamentali.
Fonti normative
Artt.13, 24, 27, 32, 111 Cost.; artt. 188, 189, 224 bis, 213, 244, 247, 359 c.p.p.; d. lgs. 30.4.1992, n. 285.
Bibliografia essenziale
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