Corporeità
Dal latino medievale corporeitas, derivato di corporeus, "corporeo", il termine indica l'avere un corpo e anche l'essere corpo. Questa polarità è centrale nell'analisi del concetto di corpo elaborata dalla riflessione fenomenologica, la quale mira a sottolineare il carattere di esperienza vissuta proprio della corporeità, la sua capacità di costituirsi come presa di coscienza del nostro essere nel mondo. L'esperienza vissuta del 'corpo proprio' investe uno dei nodi essenziali della psicopatologia e costituisce uno dei problemi più appassionanti dell'indagine antropofenomenologica. Anche il più accurato studio neuropsicologico delle cosiddette agnosie corporee mette infatti in risalto l'importanza della dimensione antropologica: esperire il corpo come presa di coscienza che ci sottende e nel contempo ci costituisce. Anche dove l'oggettivazione sembrerebbe più scontata, la riflessione fenomenologica ci porta a recuperare inevitabilmente quell'insopprimibile istanza prossima all'Io che fa del corpo l'esperienza essenziale della 'presenza-al-mondo'. M. Merleau-Ponty (1945) sostiene che abbiamo riappreso a sentire il nostro corpo perché esso 'è sempre con noi' e 'noi siamo corpo'. Egli intende con ciò riferirsi alla capacità di esperire il proprio corpo come soggetto e oggetto nel medesimo tempo, con un'irriducibile ambiguità, come una vera struttura dialettica che è il nostro trascorrere, la nostra storia. Specie dopo la lezione della psicologia della Gestalt, neppure nelle alterazioni più localizzabili dell'esperienza del corpo si può trascurare il versante obbligato di tale risonanza nell'integrazione generale di questi disturbi; risonanza che fa del corpo l'esperienza primaria della presenza-al-mondo: l'esserci "è sempre embodiment" (Zaner 1964), dallo schema corporeo allo schema del Sé (Bruch 1991). Si può allora dire, con J.-P. Sartre, che il mio corpo non è un corpo, uno dei tanti oggetti-corpo. Esso è irriducibilmente e originariamente mio perché è tutt'uno con il soggetto che io sono. Il mio corpo è intriso di soggettività, è corpo-soggetto, non è solo 'schema' o qualcosa che io ho: "io sono il mio corpo". Questa precisazione rende necessario chiarire la distinzione tra 'corpo vissuto e mondanizzato' (in tedesco Leib) e 'corpo anatomico o compagine somatica' (in tedesco Körper); i due termini tedeschi esprimono in modo ormai classico questa differenza fondamentale. Nell'esistere, nella presenza, nel Dasein, ci si muove costantemente fra i due poli dell''avere un corpo' e dell''essere un corpo'; la prima esperienza accentua soprattutto il momento riflessivo, la seconda soprattutto il momento preriflessivo o antepredicativo e costituisce la coscienza incarnata in quanto esserci-al-mondo, in quanto sorgente originaria del significato, sorgente primaria di ogni 'senso'. La mondanità essenziale dell'uomo, l'appartenenza mondana, non significa tuttavia che noi siamo meramente, in senso riduttivamente biologico, una parte del mondo, come uno degli elementi di un gigantesco processo causale.
La relazione tra l'uomo e il mondo non è causale ma dialettica: è il nostro trascorrere, in un'ininterrotta vicenda diacronica. E il corpo, appunto, è processualità dialettica, che non conosce sintesi se non provvisorie (Richin 1989). Il nostro corpo - afferma L. Binswanger (1942) - costituisce ed è contemporaneamente costituito dalla nostra mondanità. Esso è originariamente mondano. La struttura antepredicativa del corpo è chiaramente espressa dal vissuto nei primi stadi dell'età evolutiva: tutto lascia supporre che l'infante non solo non distanzi il suo orizzonte oggettuale dal proprio corpo, ma, all'interno di sé stesso, non riesca a distaccarsi dall'agire immediato. È in tal modo possibile dire davvero che il corpo proprio è l''appartenenza', è l'essere costantemente esperito come mio; di esso riconosco in ogni momento l'inalienabile possesso, da esso non posso allontanarmi, non posso allontanarlo, neppure se lo sento estraneo, pesante, indifferente, ostile, spregevole, odioso. Mai il mio corpo perde la qualifica dell'appartenenza, che gli consente di essere una perenne e misteriosa sorgente di significati, di 'donazione di senso', che precede ogni simbolizzazione, ogni pensiero concettuale, a un livello puramente vissuto. Il mio corpo, così, diviene perennemente e preminentemente campo di espressione e campo di relazione: in ogni momento gli occhi, le mani, le dita, il volto realizzano le mie intenzioni già prima che io le pensi, nella continua comunicazione di me-corpo con il mondo. Come intermediario nell'incontro con l'altro, il corpo significa anche la possibilità per l'altro di ritirarsi da me, di nascondersi a me, di velarsi, di occultarsi, di chiudersi, di ferire la mia 'abitualità corporea', cioè quel dato primario del corpo, per cui lo sento sempre invariato, lo percepisco sempre come me stesso in carne e ossa. È plausibile allora pensare che alla base di certe depersonalizzazioni somatopsichiche si abbia a ritrovare una 'flessione dell'abitualità'; spesso, tipicamente, il soggetto si lamenta di non sentirsi più lo stesso, come se fosse cambiato, come se il suo corpo non fosse più suo, come se egli non ne avesse più la disponibilità. Il corpo passa sotto silenzio. Si pensi a certe modalità schizofreniche dell'esistenza, catatoniche, autistiche, ma anche alle modalità esistenziali della ritrosia, della vergogna, del pudore (de Vincentiis-Callieri 1974). Si pensi al fastidio, al disagio, all'ossessionante pensiero del 'sentirsi saturo di corporeità', che tormenta la giovane persona anoressica, per la quale il corpo è sempre percettivamente presente nella sua opacità: il 'sentirsi troppa' di alcune giovani le quali appetiscono l'assoluta magrezza. In circostanze particolari, il corpo diventa massicciamente presente, ovvero si rivela al di fuori dell'oscurità solita, dell'adombramento abituale.
Significative, al riguardo, possono essere talune situazioni polarmente diverse: per es., il corpo mi si rivela positivamente nello sforzo vittorioso contro una resistenza, nello sdraiarsi dopo un faticoso lavoro, nel distendersi sulla sabbia al sole, nel dissetarsi dopo una lunga marcia, nella carezza del desiderio, nello svolgersi agognato di un'azione sessuale ecc. In queste circostanze io sono totalmente il mio corpo.
Non è che il mio corpo mi si faccia semplicemente presente, giacché 'in lui' io mi attuo completamente, anche se 'solo in lui', cioè soltanto nella dimensione della corporalità: tanto è vero che ne traggo accesi sentimenti di pienezza e di sicurezza, di distensione e di soddisfazione. Invece, il corpo mi si rivela negativamente se emerge per ostacolare, per porsi a presenza limitante nello sforzo inane, se mi si rivela come ostacolo, come peso, come negativo, anche come evanescenza: si pensi ai multiformi dolori fisici, alle innumerevoli somatizzazioni dell'ansia, all'ipocondria, alla depersonalizzazione, alla depressione vitale, all'anoressia mentale, all'apatia catatonica, alla paralisi, al rallentamento psicomotorio, al panico paralizzante ecc. In tali occasioni, in tali emergenze, improvvise o abituali, temute o sopportate, il corpo si fa pesante; è ostacolo; limita o blocca la libertà dell'attuarsi nel mondo; si costituisce a diaframma tra l'Io e le cose, che non vengono più sentite 'a disposizione' ma appaiono irraggiungibili, non rapportabili alla propria esperienza vissuta; il corpo (Leib) si svuota, come in certi autismi; il corpo non è più il mio partner, non mi garantisce più l'abitualità: si pensi alla giovane anoressica allo specchio, si pensi al J.-J. Rousseau della quinta Rêverie du promeneur solitaire, alle psichestesie dell'ipocondriaco. A volte il rivelarmisi del Leib non proviene da me, ma solamente dal fatto (non di rado sorprendente) che è l'altro che mi rivela il mio corpo, facendomelo sentire e vivere nelle profondità più sconosciute e inesplorate della carne, come a volte accade in certe adolescenze (Borgna 1989). D. Cargnello (1953) ha richiamato l'attenzione su alcune modalità di proporsi del Leib, cioè del corpo-che-sono, di me-gesto, di me-carezza, di me-difesa, di me-rifiuto: afferrante (cioè io-corpo che afferro ogni altro-da-me dalla parte che mi è concesso di afferrarlo, in senso fisico e traslato); assumente (far propria ogni ricchezza del mondo, impossessarsi con un'oralità concreta o anche solo metaforica); comparente (apparizione fisiognomica, che di per sé stessa rivela la mia presenza agli altri e per ciò che è nel suo attuale progetto); mascherante (deliberatamente occulta il mio veridico essere); esecutore (atteggiato nella prospettiva e nell'atto di eseguire un compito); portante ('mi' porta nel suo divenire, indipendentemente dal mio volere, ma senza destituirsi della sua 'età'); gravante (che 'mi' pesa e mi intralcia nei miei progetti mondani, costringendomi a trascinarlo, come gravame). Al corpo-per-me, nella sessualità, inerisce quella fondamentale direzione 'verso-il-fuori', che fonda e costituisce l'aspetto erotico della percezione, la comunicazione con il corpo altrui. Ciò è possibile perché il mio corpo, nella sua modulazione esteriore, è più di una semplice presenza: è insieme presente e partecipante; ciò indica che la percezione non è mai rigorosamente oggettiva ma è piuttosto piena di intenzionalità. La sessualità non è dunque solo questione di un mero corpo corporeo; vi è sempre presente una forma (o modo) di 'intenzionare l'altro', anche nelle situazioni che appaiono più destituite di incontro, più esposte al pericolo dell'oggettivazione radicale del corpo altrui (cosa inevitabile, per Sartre); tale pericolo, più o meno marcato in molte situazioni psicologiche al limite, può essere superato tramite l'apertura a un'autentica relazione umana. La pubertà e la tarda adolescenza costituiscono momenti particolarmente fragili per le alterazioni psicopatologiche dell'esperienza del corpo, dell'Erlebnis della corporeità vissuta. Qui è soprattutto la modalità dell'apparire corporeo a coinvolgere il proprio vissuto somatico: si pensi alla gravità del disturbo dell'identità di genere (gender identity), ai problemi del peso e delle trasformazioni puberali somatiche, sovente incubo e ossessione, al rifiuto del proprio aspetto fisico (dismorfofobia), al terrore di arrossire (ereutofobia).
L'esperienza fobica della possibile deformazione di parti del corpo (seno, naso, anche, cosce ecc.) è rivelatrice di crisi maturative, coinvolgenti l'intera personalità e così manifestantisi per il prevalere di un linguaggio somatico intensamente pervaso di significati (emotivi, affettivi, simbolici, suggestionanti, prevalenti), che ha facilitato le più diverse interpretazioni psicoanalitiche e psicogenetiche, anche in contrasto l'una con l'altra. La dismorfofobia, così minacciosa nel suo significato spesso annunciatore di psicosi dissociativa, sembra riguardare prevalentemente l'aspetto modale dell''Io sono corpo come apparente'. In altri termini, l'esser-corpo si sposta totalmente dalla centralità del rimanere ben racchiusi e celati in sé stessi alla periferizzazione, rimbalzata sulla sfera estetica. Questo spostamento diviene un momento altamente rischioso, poiché quanto si porta alle estreme falde egoiche diviene passibile di controllo altrui, controllo critico cui ci si sente esposti e che umilia e ferisce e dal quale si rende arduo ogni recupero di salvezza. Si potrebbe affermare che, mentre l'ipocondriaco desidera richiamare l'attenzione su sé stesso asserendo di non essere normale, il dismorfofobico aspira ad apparire nella norma, ma teme ossessivamente che gli altri non possano non notare le sue deficienze. Queste modalità di apparire-corporeo, così fragili nella delicata fase psicologica (specie dello sviluppo egoico) della pubertà si declinano dunque in multiformi esperienze fobiche (dismorfofobiche, ereutofobiche ecc.) e in diversi disturbi della condotta orale, dalla bulimia alle manie selettive dietetiche e, soprattutto, all'anoressia mentale, intesa non soltanto come una forma particolare di dismorfofobia ma anche come una vera appetizione: l'appetizione (o addiction) della magrezza, in fondo una vera tossicomania, peculiare, esplicitantesi sul piano estetico dell'Erlebnis. Qui l'integrità estetica 'magra' del proprio corpo si pone imperativamente, come scopo perentorio e come unica realtà che interessi vitalmente. In realtà, la mondanizzazione corporea dell'anoressico è estremamente scarsa di riferimenti alteregoici e di rimandi dialogici e viene tutta assorbita da quel che si appare a sé stessi, dall'imago sui. È nella depersonalizzazione che si manifesta - con ampia possibilità di studio multidisciplinare - la pregnanza dialettica di essere corpo e di avere un corpo. I momenti costitutivi spaziotemporali della corporeità nel depersonalizzato sono coartati, discontinui, disarmonici, deformati. La prima a flettere è l'esperienza dell'abitualità corporea, per cui i caratteri del proprio corpo, con le sue qualità fisiognomiche e materiche, non sono più scontati, ma debbono essere di volta in volta recuperati (spesso senza successo), controllati e riasseriti: per es., il guardarsi e riguardarsi le mani, il volto, la figura, con un controllo ripetitivo che è soltanto fine a sé stesso. Il depersonalizzato coglie immediatamente l'esperienza oscura, ineffabile, del suo non-poter vivere ogni accadimento della propria sfera esistenziale come avvenimento personale, che cioè lo concerne direttamente. È, questa, un'esperienza preriflessiva, antepredicativa e, nella sua inequivocabile immediatezza, non può essere espressa che ricorrendo all'analogia o alla categoria del 'come se'. Per tale via l'autosservazione accentua nell'atteggiamento riflessivo il vanificarsi e il dissolversi dell'immediata compattezza dell'esperienza della realtà ("più mi osservo e più mi sento irreale"); l'attuarsi mondano è disturbato e difficoltoso, disancorato dalla spontanea e mobile spaziotemporalità dell'esserci. Il discorso sulle alterazioni psicopatologiche della corporeità mostra quanto sia rilevante l'apporto dell'antropofenomenologia nel comprendere la complessa problematicità inerente all'esperienza del corpo vissuto, alla sua globale partecipazione alla vita interiore e di relazione. Soccorrono le parole di P. Ricoeur (1977, trad. it., p. 80): "Il corpo si esprime in quella regione intermedia tra il fisico e il mentale che è il desiderio: confine tra il naturale e il culturale, tra la forza e il senso", Se è vero che il corpo vissuto è il luogo della comunicazione, dell'incontro, della κοινωνία interpersonale, allora non può esservi nessuno che - studioso dell'umano - possa esimersi dall'approfondirne l'indagine e nessuno, forse, che possa restare insensibile di fronte al capitolo del profeta Ezechiele, certamente 'di profetico spirito dotato', sulla resurrezione della carne, capitolo sconvolgente che esprime l'insopprimibile corporeità del nostro essere-umano.
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