CORRADINO di Svevia, re di Gerusalemme e di Sicilia
Nacque il 25 marzo 1252 nel castello di Wolfstein (nella Bassa Baviera a nordest di Landshut), del quale oggi restano soltanto poche vestigia, dal re dei Romani Corrado IV, figlio dell'imperatore Federico II, e da Elisabetta di Wittelsbach, figlia del duca di Baviera, Ottone II. Al momento della nascita del figlio, Corrado era già partito per l'Italia meridionale, dove sarebbe morto il 21 maggio 1254 presso Lavello, nel vano tentativo di riconquistare l'eredità paterna. Al fanciullo fu imposto il nome del padre, Corrado, che egli avrebbe sempre usato. La forma diminutiva del nome venne in uso prima in Italia, da dove si diffuse anche Oltralpe, qui usata inizialmente quasi sempre in senso ironico, più tardi anche per distinguere il figlio dal padre.
C. passò l'infanzia nell'aspro clima delle lotte per la costituzione degli Stati territoriali e di quelle di potere che, dopo la morte dell'imperatore Federico II, dilaniavano la Germania meridionale. Nonostante momentanee indecisioni, il nonno materno di C. era rimasto fedele, fino alla morte, alla dinastia sveva com'era tradizione in casa Wittelsbach. Nel 1255 i suoi figli, Ludovico II e Enrico XIII, divisero tra di loro la Baviera, ma ben presto cominciarono i dissidi. C. passò i primi anni di vita nei castelli dello zio Ludovico suo tutore, a Wasserburg sull'Inn e a Dachau, più tardi a Vohburg e a Ilmmünster. Ludovico difese i diritti del fanciullo come erede degli Svevi anche per rafforzare la propria posizione. Nel suo testamento Corrado IV aveva affidato il figlio alla tutela del papa Innocenzo IV, il quale lo riconobbe, come del resto anche il suo successore Alessandro IV, re di Gerusalemme e duca di Svevia, ma non si pronunciò in modo inequivocabile sui suoi diritti sul Regno di Sicilia.
Alessandro IV poi, nell'aprile del 1255, attribuì la corona siciliana al principe inglese Edmondo. Una nuova situazione si creò quando Manfredi, figlio naturale di Federico II, alla fine del 1254 prese il potere nel Regno. Ludovico la accettò e nella sua qualità di tutore di C. il 20 apr. 1255 riconobbe Manfredi come baiulo del Regno di Sicilia e gli concesse la tutela di C. per il Regno e libertà di azione.
Dopo la morte del re dei Romani Guglielmo d'Olanda, che non era stato riconosciuto dai duchi di Baviera, questi si adoperarono per l'elezione del nipote, ma incontrarono il disinteresse dei principi tedeschi e l'opposizione di Alessandro IV. In seguito i due Wittelsbach, corrotti dal denaro inglese, votarono per Riccardo di Cornovaglia, senza fare riconoscere dal nuovo re i diritti di C. sulla Sicilia. Era anche difficile far valere i diritti di C. sul ducato di Svevia e quando Manfredi, spargendo la voce della morte di C., il 10 ag. 1258, si fece incoronare re di Sicilia, dei diritti di C. sembrò restare ben poco.
Il 6 ott. 1259Elisabetta di Baviera si risposò con il conte Mainardo II di Gorizia e del Tirolo, il quale dopo l'estinzione dei conti del Tirolo e degli Andechs aveva esteso il proprio dominio dai suoi possedimenti originari in Carinzia e in Carnia al Tirolo.
Da allora C. si mise al seguito dello zio Ludovico e fu completamente sotto la sua influenza. Inizialmente Ludovico tentò di presentare C. alla Curia pontificia come possibile avversario di Manfredi, il cui potere crescente costituiva ormai una seria minaccia per la Chiesa. In questo contesto furono anche stabiliti contatti con i guelfi fiorentini che nel 1261cercarono di indurre C. ad un'azione contro i ghibellini italiani alleati con Manfredi. Inoltre Ludovico tentò di rimettere C. nel possesso di una parte dei territori imperiali svevi in Germania che si andavano dissolvendo dopo la morte dell'imperatore Federico II (ad es. del territorio di Eger e di terre in Alsazia). Nel 1262 C. poté affermare il suo dominio nel ducato di Svevia, dove il vescovo Eberhard II di Costanza esercitava per lui la tutela. Ma la base del suo potere rimanevano i possedimenti, passati dai Guelfi agli Svevi al tempo di Federico Barbarossa, sul fiume Lech, nell'Allgäu e sul lago di Costanza amministrati da ministeriali, il ceto da cui proveniva Volkmar von Kemnaten, che diverrà uno dei più importanti educatori e consiglieri del giovane Corradino.
C. acquistò una certa istruzione formale: sapeva scrivere, come dimostra la sottoscrizione del diploma emanato il 14 giugno 1268 a Pisa, e conosceva probabilmente anche il latino. Trascorse la gioventù nell'ambiente cortese-cavalleresco della nobiltà dell'epoca. Del suo entourage facevano parte minnesänger e poeti epici di quel tardo periodo della poesia cavalleresca, quali Konrad Schenk di Limburg. Sotto il nome di C. sono tramandate due poesie d'amore nel tipico stile della poesia cortese che (se non sono di suo padre) egli deve aver composto poco prima della discesa in Italia, all'età di quattordici o quindici anni.
Alla fine del 1261 le prospettive per l'elezione di C. a re dei Romani, sollecitata soprattutto dal vescovo Eberhard di Costanza, sembravano di nuovo favorevoli. L'alta nobiltà della Svevia aveva infatti abbandonato il re da essa stessa eletto, Alfonso di Castiglia, e vedeva positivamente un'eventuale elezione di Corradino.
L'arcivescovo Werner di Magonza era in rottura con Riccardo di Cornovaglia e discuteva con Ottocaro di Boemia e con il marchese Ottone di Brandeburgo la possibilità di addivenire ad una nuova elezione in occasione dell'incoronazione di Ottocaro a re di Boemia, celebrata a Praga il giorno di Natale del 1261. Il nuovo arcivescovo Arnoldo di Treviri non sembrava contrario, mentre era praticamente sicuro il voto di Ludovico di Baviera, conte del Palatinato. Soltanto l'arcivescovo di Colonia, Eberhard II, era ancora fedele a Riccardo di Cornovaglia, mentre nulla si sa sull'atteggiamento del duca di Sassonia. Ma Ottocaro di Boemia, temendo che in caso di elezione di C. i duchi di Baviera si sarebbero rafforzati, fece fallire il progetto, informandone Urbano IV. Il papa, nel timore di una nuova ascesa della dinastia sveva, vietò ai tre elettori ecclesiastici e al vescovo di Costanza l'elezione di C. sotto pena di scomunica, riferendosi al divieto pronunciato a suo tempo da Alessandro IV. A tutto questo si aggiunse il passaggio di Riccardo di Cornovaglia in Germania che fece svanire definitivamente ogni prospettiva di successo.
Fallita l'elezione di C. a re dei Romani, i progetti italiani riacquistarono una nuova attualità. Risulta che nel corso dell'incontro avuto a Innsbruck nell'aprile del 1263 Ludovico II di Baviera e il conte Mainardo II di Gorizia e del Tirolo discussero il futuro del fanciullo, allora novenne. Per ringraziarlo dell'appoggio concessogli, il 16 aprile C. istituì lo zio Ludovico erede di tutti i suoi beni allodiali nel caso che fosse morto senza eredi diretti, e si impegnò, inoltre, a provvedere affinché anche i suoi feudi passassero al duca di Baviera. Questa donazione aveva come presupposto la possibilità di una morte prematura di C. nel corso di un'eventuale campagna in Italia per la riconquista del Regno di Sicilia. Ma per ora i piani italiani rimasero nel vago. C. passò gli anni immediatamente successivi nei suoi domini sul Lech e nei dintorni di Augusta e in quelli vicini dello zio presso Monaco, senza preoccuparsi, o quasi, delle terre occidentali del suo ducato.
La situazione critica in cui si venne a trovare in seguito alle iniziative di Manfredi indusse Urbano IV, a metà agosto 1264, a cercare un riavvicinamento con C., invitandolo a richiamare tutti i tedeschi al servizio di Manfredi. In sostanza il papa chiedeva a C. di aiutare Carlo d'Angiò nella conquista del Regno di Sicilia: una richiesta questa che difficilmente avrà incontrato il favore dell'entourage di Corradino. La cattura di Riccardo di Cornovaglia da parte dei baroni inglesi ribelli guidati da Simone di Montfort (28 maggio 1264), e la morte di Urbano IV (2 ott. 1264) sembrarono aprire nuove prospettive all'elezione di C. a re dei Romani.
Ma il nuovo papa Clemente IV, eletto il 5 febbr. 1265, fece tutto il possibile per impedire la realizzazione di questi piani, d'accordo con Ottocaro di Boemia e con Riccardo di Cornovaglia. Con l'incoronazione di Carlo d'Angiò a re di Sicilia (6 genn. 1266) e la sconfitta e la morte di Manfredi a Benevento (26 febbr. 1266) si venne a creare in Italia una nuova situazione. A C. si rivolsero ora i ghibellini che avevano seguito Manfredi, nonostante che pochi anni prima C. stesso si fosse schierato con i guelfi. Di fronte alla possibilità che si realizzasse tale alleanza Clemente IV decise di tentare tutti i mezzi per privare C. dei suoi appoggi in Germania e in Italia. Il 18 sett. 1266 scrisse agli arcivescovi di Magonza, Colonia e Brema, minacciando la scomunica e l'interdetto a tutti quanti avessero favorito l'elezione di C. a re dei Romani. Tre erano i motivi indicati dal papa per giustificare questo divieto: il fatto che la contesa per il trono tedesco tra Riccardo di Cornovaglia e Alfonso di Castiglia era ancora pendente davanti alla Curia pontificia; la minore età di C.; la sua discendenza da una famiglia che si era distinta nella persecuzione della Chiesa. Le stesse pene furono minacciate a chiunque avesse osato appoggiare C. in una sua eventuale campagna militare contro Carlo d'Angiò e la Curia. Il 3 novembre, nel duomo di Viterbo, Clemente ripeté solennemente il divieto rigoroso di sostenere C. nei suoi progetti italiani, di chiamarlo con il titolo di re di Sicilia che già si era arrogato, o di eleggerlo re dei Romani, accusando il giovane Svevo di "malvagità precoce" e del tentativo di sobillare il popolo contro la Chiesa, a causa dei suoi contatti con i nemici del Papato in Lombardia, Toscana e Puglia. Nel caso che C. avesse continuato a ignorare i divieti pontifici, Clemente IV minacciò di privarlo della dignità di re di Gerusalemme e dei suoi altri possedimenti e diritti; il papa si riferiva qui evidentemente soprattutto alla sua posizione di duca di Svevia, finora non messa in discussione dal Papato.
Il nuovo intervento pontificio e l'opposizione di Ottocaro di Boemia indussero gli interessati ad accantonare ancora una volta il piano di far eleggere C. re dei Romani (fine 1266). Maturarono invece ulteriormente i progetti di una discesa in Italia anche se la divisione del paese rendeva rischiosa un'impresa del genere.
Da Firenze il conflitto tra guelfi e ghibellini si era esteso a tutta la Toscana. Era un conflitto tra le famiglie oligarchiche cittadine, causato da rivalità locali e spesso da odi irrazionali e che non si identificava con la lotta sociale e politica del popolo per la partecipazione al governo comunale in corso un po' ovunque nell'Italia settentrionale e centrale. Solo in un secondo momento queste fazioni cercarono il collegamento con i grandi poteri del momento per nobilitare in qualche modo le loro risse: i guelfi passarono dalla parte del Papato e di Carlo d'Angiò, i ghibellini da quella dell'Impero. In Lombardia, dove i termini di guelfi e ghibellini diventarono di uso corrente soltanto intorno al 1300, un partito filopapale si confrontava con un partito filoimperiale.
Dopo la vittoria di Benevento, Carlo d'Angiò esautorò e cacciò dal Regno i partigiani svevi; solo Galvano Lancia organizzò la resistenza in Calabria e in Sicilia. Già nell'estate del 1266 i primi seguaci di Manfredi si presentarono alla corte di C. in Germania. Il più eminente era il notaio di Manfredi, Pietro de Prece, un dettatore della scuola di Pier delle Vigne, che stilò manifesti retorici per l'elezione di C., re di Gerusalemme e duca di Svevia, a re dei Romani. Anche i ghibellini fiorentini cercarono di stabilire contatti. Con la sconfitta di Manfredi a Benevento il loro potere in Toscana aveva cominciato a declinare, nonostante che Clemente IV si fosse accontentato per il momento di una loro sottomissione formale. Anche in Lombardia il potere del partito filoimperiale era diminuito dopo la morte di Ezzelino da Romano, e il marchese Oberto Pallavicini (Pelavicino) non poté impedire che Milano, dominata dai Torriani, diventasse una roccaforte antimperiale.
L'influenza di Carlo I d'Angiò nella Lombardia occidentale e in Piemonte fece il resto per togliere terreno al partito filoimperiale. Nella Lombardia orientale e in Romagna il marchese Obizzo d'Este organizzò le forze antimperiali costringendo alla difensiva Oberto Pallavicini che cercò un accordo con Clemente IV. Dalla parte dell'Impero rimasero soltanto Pavia e Verona. In quest'ultima città, dominata da Mastino Della Scala, erano rimaste vive le tradizioni filoimperiali di Ezzelino da Romano. Delle città marinare Genova era la beneficiaria della caduta dell'Impero latino di Costantinopoli (1261) e alleata dell'imperatore bizantino Michele Paleologo. I tentativi della città per ottenere da Carlo d'Angiò privilegi commerciali in Sicilia fallirono nel 1266, cosicché C. poté aspettarsi l'appoggio di Genova. Pisa era ghibellina; Venezia, come rivale di Genova nel Mediterraneo orientale, pendeva dalla parte di Carlo d'Angiò, ma non si immischiò nella campagna italiana di Corradino.
Nell'ottobre del 1266 C. tenne una grande curia ad Augusta. Col compimento del quattordicesimo anno era diventato maggiorenne, ma continuava a dipendere dal suo entourage ecclesiastico e laico. Il personaggio ecclesiastico più importante rimaneva ancora il vescovo Eberhard di Costanza; tra i laici nella curia di Augusta spiccavano, oltre a Ludovico II di Baviera e al conte Mainardo di Gorizia e del Tirolo, rispettivamente zio e patrigno di C., il giovane marchese Federico di Baden, nemico di Ottocaro di Boemia, ed altri nobili, come il burgravio Federico III di Norimberga. Per mediazione di Ludovico fu concluso il matrimonio di C. con Sofia, figlia del marchese Dietrich di Landsberg, ancora una bambina, che C. tuttavia non vide mai. Con la curia di Augusta C. fu spinto ad assumere un ruolo per il quale era troppo giovane ed inesperto: a riprendere cioè le tradizioni della casa sveva e a riconquistare il suo regno ereditario di Sicilia.
Nei mesi precedenti erano stati rafforzati i contatti con gli ambienti filosvevi in Italia, dove tuttavia, dopo la battaglia di Benevento, la situazione era tutt'altro che favorevole; il tempo lavorava per Carlo d'Angiò e quasi tutti i ghibellini cercavano un accordo con Clemente IV.
Ad Augusta si stabilì di iniziare la campagna italiana non prima della tarda estate del 1267; pare che si temesse di attraversare le Alpi in pieno inverno mentre si escludeva l'estate per il caldo e per il pericolo di epidemie. Ma anche gli armamenti richiedevano tempo. In previsione dei pericoli che la campagna avrebbe comportato, il 24 ott. 1266 C. rinnovò la donazione, fatta tre anni prima, dei suoi beni allodiali e feudali in caso di sua morte senza eredi, estesa ora anche ad Enrico, duca della Bassa Baviera, fratello di Ludovico.
All'inizio di novembre troviamo C. a Innsbruck. Allora furono trasferite al duca Ludovico una serie di località nell'Alto Palatinato e sul fiume Lech che facevano parte del dovario della madre di C., Elisabetta, la quale fu indennizzata con alcuni territori confinanti con il Tirolo. Insieme con gli altri possedimenti svevi passati ai Wittelsbach dopo la morte di C., queste località costituivano un anello di congiunzione importante per la costituzione del ducato territoriale di Baviera che cominciava ad oltrepassare i confini del vecchio ducato del popolo bavarese invadendo territorio svevo. Fu questo il nucleo centrale dei territori originariamente svevi che entrarono a far parte dello Stato bavarese.
È probabile che C. a Innsbruck abbia nuovamente trattato con gli esuli siciliani e con i ghibellini. Nei mesi successivi arrivarono alla corte di C., uno dopo l'altro, il gran camerario di Manfredi, Manfredi Maletta, Galvano e Federico Lancia e Corrado Capece. Nell'inverno e nella primavera successiva C. soggiornò nel ducato di Svevia, a quel che pare per organizzare la discesa in Italia. Sono tramandate solo pochissime notizie relative ai tentativi di C. di procurarsi denaro per l'impresa. Evidentemente si pensò sin dall'inizio di finanziare la campagna italiana con mezzi italiani. Allora anche Rodolfo d'Asburgo, figlioccio di Federico II, a quel tempo un semplice langravio in Alsazia, si legò a C., che l'11 genn. 1267 si impegnò a confermargli l'eredità di Kiburg appena eletto re dei Romani. Nella sua qualità di conte palatino renano Ludovico II di Baviera, in considerazione della vacanza dell'Impero, il 28 maggio 1267 concesse in feudo a Maria, figlia del burgravio di Norimberga Federico III di Hohenzollern, il burgraviato, per sé e per i suoi eredi. L'atto, molto insolito dal punto di vista giuridico, fu confermato da Corradino. In questo modo le due famiglie, che in futuro avrebbero dominato la storia tedesca, entrarono in stretto contatto con l'ultimo discendente degli Svevi.
Le agitazioni dei seguaci in Italia continuarono nonostante la dura condanna di Clemente IV del 18 nov. 1266. Il lento cambiamento degli umori nei confronti di Carlo d'Angiò andava a vantaggio di Corradino. Di fronte all'espulsione della nobiltà filosveva e al passaggio dei loro feudi a francesi e provenzali, di fronte al fiscalismo nascente e alle violazioni dei diritti della Chiesa, contro le quali Clemente IV protestò violentemente, nel Regno si diffuse sempre più la convinzione di essere caduti in balia degli stranieri mentre Federico II e Manfredi erano visti come sovrani indigeni. Anche negli ambienti più strettamente filoecclesiastici prese il sopravvento un atteggiamento critico nei confronti di Carlo d'Angiò e del suo seguito. In Toscana, tuttavia, la fuga del capo ghibellino Guido Novello da Firenze (11 nov. 1266) andò a favore del partito guelfo, rafforzato da Carlo I nella primavera del 1267 con l'invio di truppe. La domenica di Pasqua, il 17 apr. 1267, i Francesi e gli esuli guelfi entrarono a Firenze che da quel momento divenne la roccaforte del guelfismo.
In quei mesi si formò qualcosa come un governo in esilio composto da esuli del Regno. C. nominò in data non esattamente precisabile Corrado Capece maestro giustiziere per il Regno, Manfredi Maletta camerario dei regni di Gerusalemme e di Sicilia, Galvano Lancia suo consigliere maggiore. Inoltre confermò agli esuli più in vista i feudi e diritti nel Regno. A Corrado Capece fu affidato il compito di dirigere l'agitazione filosveva in Toscana e nell'isola di Sicilia, dove Carlo d'Angiò non aveva ancora messo piede.
Verso la fine di marzo del 1267 il Capece giunse a Pisa, ghibellina. Era quasi troppo tardi. In quelle settimane i guelfi, protetti dalle truppe angioine, presero il potere a Firenze, Prato, Pistoia, Lucca, San Gimignano, Volterra, Arezzo ed altrove, eleggendo podestà Carlo d'Angiò. Tra le città di una certa importanza solo Pisa e Siena si conservarono ghibelline. Nel maggio Carlo stesso, dopo aver condotto trattative a Viterbo con Clemente IV per la riconquista dell'Impero latino di Costantinopoli cui aspirava, passò i confini meridionali della Toscana, ma presto tornò a Viterbo senza essersi spinto troppo in avanti. Ben presto non si accontentò più del titolo di "paciere", ma assunse, con il tacito consenso del papa, quello di vicario imperiale in Toscana. A suo nome il maresciallo angioino Jean de Braiselve penetrò in Toscana alla testa di un considerevole contingente di cavalieri. In occasione della conquista di Sant'Ellero, ci fu una strage tra i ghibellini. Questo fatto cruento avvelenò l'atmosfera e portò alle crudeli vendette prima della battaglia nei Campi Palentini.
Il tentativo del maresciallo di conquistare Siena fallì. Ma quando riuscì ad accerchiare, a Poggibonsi, un contigente ghibellino accorso da Pisa in cui si trovavano anche soldati tedeschi, Carlo d'Angiò si recò personalmente in Toscana. Il 15 agosto fece il suo solenne ingresso a Firenze e si trasferì poi davanti alle mura di Poggibonsi per partecipare all'assedio, che tuttavia rimase infruttuoso. Nel frattempo i Pisani avanzarono in Sardegna, troncarono i rapporti con Clemente IV ed entrarono in contatto con Corradino.
Nella primavera e nell'estate del 1267 un altro personaggio si mise in vista sulla scena italiana: Enrico di Castiglia, fratello del re Alfonso X. Con la sua sfrenata ambizione era alla ricerca di una posizione di potere nel Mediterraneo. Nel 1257 era stato per un certo periodo al servizio inglese, per conquistare il Regno al principe Edmondo. Poi si era avvicinato a Carlo d'Angiò. Il suo progetto di impossessarsi dell'Epiro mediante il matrimonio con la vedova di Manfredi catturata dall'Angiò fallì, perché Carlo stesso aspirava ad estendere il dominio in Oriente. Nel maggio del 1267 Enrico trattò con Carlo d'Angiò a Viterbo l'acquisto della Sardegna, ancora una volta senza successo, perché Carlo pretendeva l'isola come successore di Manfredi. Fu questo il motivo della loro rottura. Enrico accettò quindi subito, quando gli fu offerta, la dignità di senatore di Roma, dove nella primavera del 1267 i popolani avevano preso il sopravvento. A giugno, pare, Enrico entrò in carica. Ciò significava che C. a Roma, dove aveva cercato di guadagnare seguaci già nell'autunno del 1266, poteva contare su un possibile alleato che avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nella conquista del Regno di Sicilia. Ormai in completa rottura con Carlo d'Angiò e con Clemente IV, Enrico trattò una lega con Siena, Pisa e gli altri ghibellini toscani, nello stesso momento in cui le truppe angioine assediavano Poggibonsi. Inviò a C. in Germania il suo vicario, il famoso ghibellino Guido da Montefeltro, che raggiunse lo Svevo ad Augusta nell'agosto, poco prima del completamento degli armamenti. C. nominò Guido suo consigliere e gli concesse la contea di Chieti. C. accettò volentieri l'alleanza propostagli da Enrico di Castiglia e inviò a Roma Galvano Lancia che già a metà ottobre vi condusse trattative. La prospettiva di utilizzare Roma come punto di partenza per la conquista del Regno sembra abbia acceso l'ottimismo di C. e dei suoi consiglieri, rendendoli ciechi di fronte agli sviluppi negativi in Lombardia, dove la situazione del marchese Pallavicini era indubbiamente peggiorata. La propaganda, intensificata a partire dalla primavera del 1267, a favore di C., il cui arrivo era atteso per l'autunno, portò, su sollecitazione del legato pontificio, a un'alleanza tra le forze antimperiali, conclusa presso Bergamo, per respingere le rivendicazioni sveve. Non aderirono alla lega soltanto Pavia, che rimase completamente isolata, e Verona. Tanto più ansiosamente i pochi seguaci superstiti di C., con in testa Boso da Doara di Cremona, attesero il prossimo arrivo di Corradino.
Clemente IV riconfermò il suo atteggiamento ostile, rimproverando a C., il 14 apr. 1267, di intitolarsi re di Sicilia nonostante il divieto pontificio, di nominare vicari in Toscana e di concedere ai suoi fedeli uffici e privilegi nel Regno. Lo invitò a presentarsi in Curia, il giorno della festa dei SS. Pietro e Paolo (29 giugno) per giustificarsi delle accuse, personalmente o per mezzo di un procuratore. Il giorno dell'Ascensione, il 26 maggio 1267, gli proibì esplicitamente di discendere in Italia per altri motivi se non per giustificarsi davanti al papa. Se, nonostante il divieto pontificio, C. o uno dei suoi capitani avessero fatto ingresso in Lombardia o in altre parti d'Italia alla testa di truppe, egli sarebbe stato colpito da scomunica, insieme con il seguito e i suoi fautori.
Ma la comminatoria non sortì l'effetto desiderato: gli armamenti di C. continuarono e si strinsero di più anche i rapporti con Mastino Della Scala. Pare che già nella prima estate del 1267 cavalieri tedeschi combattessero nelle file scaligere contro Cremona, Piacenza e altre città lombarde. Il grido di battaglia "re Corrado" che si udì in quegli scontri è un indizio dei rapporti sempre più stretti con la Germania. Il nuovo legato pontificio, l'arcivescovo Filippo di Ravenna, che iniziò la sua attività nel luglio del 1267, raccolse intorno a sé le forze antimperiali dell'Italia settentrionale.
All'inizio di settembre del 1267 l'esercito di C., raccoltosi nella piana presso Augusta, era pronto per la discesa in Italia. Negli stessi giorni Corrado Capece, vicario generale di C. in Sicilia, e Federico di Castiglia, sbarcati a Sciacca sulla costa meridionale dell'isola venendo da Tunisi, sconfissero il vicario generale di Carlo d'Angiò, Folco di Puyricard. In seguito la maggior parte dell'isola si dichiarò a favore di C., il quale guadagnò così un altro punto d'appoggio per la sua campagna.
Prima di mettersi in marcia verso l'Italia, C. emanò un manifesto indirizzato ai principi tedeschi che era stato redatto da Pietro de Prece nel suo solito stile pesantemente retorico. In questo manifesto C. ripercorreva il calvario dei suoi rapporti con il papa che gli aveva minacciato la scomunica solo per aver usato il titolo ereditario di re di Sicilia, e che procedeva contro di lui non come un padre ma come un padrigno, facendo occupare il suo regno ereditario da Carlo d'Angiò cui il papa aveva conferito anche il vicariato imperiale in Toscana. L'accenno, inserito nel testo sicuramente su consiglio degli esuli siciliani, alla tolleranza dimostrata da Carlo d'Angiò nei confronti dei Saraceni di Lucera, aveva evidentemente lo scopo di prevenire il rimprovero che un accordo con loro, progettato probabilmente già allora, fosse da considerare come un'alleanza con gli infedeli. Ma abilmente, nonostante tutte le lamentele, non era il papa ad essere presentato come il nemico, bensì Carlo d'Angiò, l'usurpatore. C. dichiarava di voler combattere per il suo diritto, e i principi tedeschi furono invitati a intervenire presso il papa per sollecitare la riconciliazione.
Tuttavia, C. non poteva aspettarsi molto aiuto dai principi tedeschi. Negli ultimi tempi non si era più parlato della sua elezione a re dei Romani; si pensava probabilmente di riprendere il progetto dopo la felice conquista del Regno di Sicilia. Ottocaro di Boemia, con disappunto del papa, aveva sospeso la guerra contro la Baviera per dedicarsi a una campagna militare in Prussia e Clemente IV temeva che truppe bavaresi potessero rinforzare le file dell'esercito svevo. Ma il duca Enrico della Bassa Baviera non partecipò alla discesa in Italia, anzi egli affermò di averla sconsigliata. Enrico in quel momento non era in conflitto con il fratello Ludovico II dell'Alta Baviera e nutriva sentimenti amichevoli nei confronti di Corradino. Questi alla fine di agosto si incontrò a Hohenschwangau con la madre Elisabetta e con il padrigno Mainardo del Tirolo e di Gorizia, il quale gli garantì il passaggio sicuro delle Alpi lungo la valle dell'Adige fino a Trento e a Verona; d'accordo con Mastino Della Scala, Mainardo espulse da Trento il vescovo Egino ostile a Corradino.
L'8 settembre C. partì da Augusta con il suo esercito. Dopo una lenta marcia attraverso il Brennero e la valle dell'Isarco, giunse a Bolzano all'inizio di ottobre. Pare che si aspettassero ancora i ritardatari, tra i quali Ludovico di Baviera che solo all'inizio di ottobre lasciò il suo ducato. Con le sue truppe - qualche migliaio di uomini - C. arrivò a Verona il 21 ottobre, dove fu accolto amichevolmente dallo Scaligero e prese alloggio nel palazzo vescovile presso S. Zeno. Oltre al duca di Baviera e a Mainardo del Tirolo non c'erano principi di qualche rilievo al suo seguito. Rodolfo d'Asburgo era ancora un conte piuttosto insignificante seppure in ascesa, mentre i conti Berthold di Marstetten, Wolfrad di Veringen e Berthold di Eschenlohe non erano personaggi di spicco. Il giovane marchese Federico di Baden rivendicava per sé i ducati di Austria e di Stiria come figlio di Gertrude nipote dell'ultimo Babenberg, ma questi territori erano allora saldamente in mano a Ottocaro di Boemia. A Verona si dimostrò presto quanto fragile fosse la base dell'impresa.
Certo, la curia del re fu ampliata e rafforzata: Tommaso d'Aquino assunse la carica di camerario al posto del poco fidato Manfredi Maletta, Roberto Filangieri quella di luogotenente dei regni di Gerusalemme e di Sicilia e di capo delle finanze. A partire dall'estate del 1267, se non già prima, funzionava anche una cancelleria separata da quella di Ludovico di Baviera, con registri propri, diretta prima da Federico di Mondorf, poi, dal gennaio 1268, da Pietro de Prece che usava il titolo di protonotaro oppure, pare seguendo l'esempio pontificio, quello di vicecancelliere. L'assetto della corte dimostra che C. intendeva governare il Regno di Sicilia con l'aiuto di funzionari indigeni, secondo le tradizioni di Federico II e di Manfredi.
Capo dell'esercito era Konrad Kroff di Flüglingen (presso Weissenburg in Baviera), "maresciallo di tutti i tedeschi in Italia". Ma mancavano i mezzi finanziari. Sembra che inizialmente l'arrivo di C. in Italia avesse spaventato gli avversari lombardi, per quanto C. potesse contare, soltanto sull'appoggio di Pavia, del marchese Pallavicini e dei suoi nipoti Obertino e Boso di Doara. La grandissima maggioranza dei Comuni e dei nobili lombardi gli era ostile. I ghibellini toscani erano disposti a pagare solo se C. avesse proseguito la sua marcia verso il Meridione. Davanti a questa situazione così poco propizia Ludovico di Baviera e Mainardo del Tirolo consigliarono il ritorno in Germania e poi si ritirarono dall'impresa come del resto anche Rodolfo d'Asburgo. Ludovico, cui C. dovette impegnare, a garanzia degli aiuti finanziari, quasi tutto il resto dei suoi diritti e possedimenti in Germania, tra cui anche l'advocutia della città di Augusta, era spinto a ritornare anche dalla preoccupazione che da un'elezione imperiale promossa dal papa potesse uscire vincitore il suo nemico Ottocaro di Boemia.
Il 18 nov. 1267 Clemente IV promulgò la solenne scomunica di Corradino. Minacciò di togliergli anche la dignità di re di Gerusalemme, finora riconosciutagli, se non avesse lasciato Verona e l'Italia entro un mese e non avesse rinunciato a tutte le sue rivendicazioni sull'Impero, sull'Italia e sul Regno di Sicilia. La scomunica si abbatté anche su Ludovico di Baviera, Mainardo del Tirolo e su tutti i seguaci italiani di Corradino. Nonostante questa situazione così poco incoraggiante C. decise di continuare la marcia, su consiglio, sembra, degli esuli siciliani e forse anche perché valutava ottimisticamente la situazione nell'Italia meridionale.
Dalla Sicilia Corrado Capece aveva annodato rapporti con il potente sovrano del Maghrib, lo Hafsīde al-Mustanşīr in Ifrīqiya (l'odierna Tunisia). Lo Hafsīde, che dopo la distruzione del califfato di Baghdad nel 1258 era stato riconosciuto califfo per breve tempo, era filosvevo nonostante fosse stato tributario dei re svevi di Sicilia. Pare che fossero stati stabiliti contatti anche con il sultano dei mamelucchi Baibars che minacciava quel che rimaneva degli Stati crociati. Si trattava comunque di contatti sporadici, mentre l'aiuto di al-Mustanşīr rafforzava effettivamente la causa sveva nell'isola: Corrado Capece aveva riconquistato la Sicilia nel settembre del 1267 venendo da Tunisi; solo a Palermo, Messina e Siracusa resistevano ancora presidi francesi. A Roma Galvano Lancia aveva conquistato definitivamente Enrico di Castiglia alla causa di C. e messo a tacere ambienti filopontifici. Il papa stesso fu minacciato nella sua residenza di Viterbo da attacchi contro Sutri e Vetralla e in conseguenza si preoccupò di mediare un accordo tra il Castiglia e Carlo d'Angiò. Questi però, il 1° dic. 1267, concluse un accordo con i ghibellini toscani, che gli procurò il titolo di capitano generale e il diritto di acquistare per sé e i suoi eredi possedimenti imperiali in Toscana al di fuori delle sfere di interesse ghibellino a Pisa, Siena, San Miniato, Poggibonsi, Firenze, Prato e Pistoia. I diritti di C. furono esplicitamente riservati, a Pisa fu garantito il possesso della Sardegna. Davanti a tale politica Clemente IV, che finora aveva cercato di non immischiarsi in queste faccende, si vide costretto ad abbandonare il suo distacco nei confronti dell'Angioino.
Tale sviluppo della situazione deve aver incoraggiato C. e il seguito italiano, nonostante la defezione dei Tedeschi, a continuare la marcia verso il Meridione. Alla testa del suo esercito, che contava ancora 3.000 cavalieri, il 17 genn. 1268 C. lasciò Verona alla volta di Pisa. Con marce veloci attraverso territori nemici, il 20 gennaio fu raggiunta l'amica Pavia, dove contributi pavesi e pisani risollevarono notevolmente le sorti dello Svevo. Nonostante la conquista di Poggibonsi (30 nov. 1267), Carlo d'Angiò non era in grado di muovere contro C.: rivolte nel Regno e la situazione a Roma richiedevano il suo ritorno. Un attacco del re contro Pisa, che avrebbe dovuto privare C. della sua prossima base, fallì, come fallì anche il tentativo di sbarrargli la via Francigena tra Lucca e Pontremoli. Gli appelli sempre più urgenti del papa che sollecitavano il suo ritorno, la sommossa dei Saraceni di Lucera all'inizio di febbraio, rivolte in Abruzzo e la scarsità dei mezzi finanziari indussero Carlo d'Angiò a far ritorno a Viterbo via Firenze ed Arezzo. Il maresciallo Jean de Braiselve rimase in Toscana come suo luogotenente con circa 500 cavalieri.
La ritirata di Carlo d'Angiò aprì a C. la strada per Pisa. Il 22 marzo egli lasciò Pavia e attraverso i territori del marchese Guglielmo di Monferrato, che non si mosse, e quelli del marchese Manfredi di Carretto, suo sostenitore, raggiunse la costa presso Savona passando per Val Bormida di Spigno. Nel porto di Vado, il 29 marzo, undici navi pisane accolsero C. e circa cento cavalieri. Il resto dell'esercito, che ormai contava seimila uomini, tornò sano e salvo a Pavia al comando di Federico di Baden. Nonostante il mare agitato e uno sbarco di fortuna a Portofino, genovese, il 7 aprile C. raggiunse felicemente Pisa, dove fu accolto festosamente. L'esercito lasciò Pavia il 23 aprile e, evitando Pontremoli, raggiunse Varese Ligure e Sarzana attraverso il territorio di Piacenza, la valle del Taro e il passo delle Cento Croci, senza essere molestato dai guelli lombardi e dalle truppe angioine. Il 2 maggio Federico di Baden fece il suo ingresso a Pisa. Qui confluirono ora anche i ghibellini della Toscana guidati da Guido Novello. Da Roma arrivò Guido di Montefeltro, pare per incarico di Enrico di Castiglia, il quale il 27 maggio rinnovò l'alleanza con i ghibellini toscani. Da Siena C. ricevette ulteriori contributi per il pagamento delle sue truppe.
Nel frattempo, il giovedì prima di Pasqua, 5 aprile, poco dopo l'arrivo di Carlo d'Angiò, Clemente aveva solennemente scomunicato C., privandolo del Regno di Gerusalemme, e i seguaci dello Svevo, tra cui il duca Ludovico di Baviera che da tempo aveva abbandonato il campo del nipote; aveva sciolto dal giuramento di fedeltà i vassalli e lanciato l'interdetto contro le città ghibelline della Toscana, delle Marche e della Lombardia, contro Siena, Pisa, Verona, Pavia, San Miniato, Grosseto, Fermo e Città di Castello. Il papa minacciò di privare Pisa anche della sede arcivescovile. Lo stesso giorno fu scomunicato pure Enrico di Castiglia, con il quale finora il papa aveva cercato un compromesso, e i suoi seguaci come Guido di Montefeltro; l'ufficio di senatore doveva passare a Carlo d'Angiò nonostante gli accordi del 1265 e il giuramento prestato. Ma il tentativo del re di prendere Roma con un attacco a sorpresa fallì il 23 aprile. Enrico era salvo e cercò di allargare la propria base economica confiscando beni ecclesiastici. Il 17 aprile Clemente IV dovette riconoscere a Carlo d'Angiò anche la dignità di vicario imperiale in Toscana che il re si era arrogata, offrendogli così la legittimazione ancora mancante. Nonostante le continue proteste per le violazioni dei diritti ecclesiastici da parte di funzionari angioini, il lunedì di Pasqua il papa consegnò al re la croce per la lotta contro i suoi nemici attribuendo così alla guerra che si profilava il carattere di crociata. Alla fine del mese Carlo d'Angiò si diresse contro Lucera per sottomettere i saraceni ribelli. La predica per la crociata, e la ripetizione della scomunica contro C. e i suoi seguaci il 17 maggio, inasprirono ulteriormente la situazione. Il giorno di Pentecoste Clemente IV, parlando al capitolo generale dei domenicani riunito a Viterbo, definì C. l'agnello che viene condotto al macello. Canti di guerra eccitavano le passioni da ambedue le parti. Pisa, il 14 giugno, si fece pagare l'appoggio dato a C. con un diploma che concedeva al Comune ampi privilegi commerciali nel Regno di Sicilia ancora da conquistare. Il giorno successivo C., che all'inizio del mese si era scontrato presso Lucca con il maresciallo Jean de Braiselve, proseguì la sua marcia verso il Meridione, accompagnato da un contingente pisano al comando del conte Gherardo di Donoratico. La campagna di Carlo d'Angiò contro i Saraceni di Lucera aveva sgombrato la strada per Roma.
Passando da Poggibonsi C. giunse a Siena, dove fu accolto trionfalmente. Jean de Braiselve, che si era unito con Guillaume l'Estendard di ritorno dalla Lombardia, sorvegliò da lontano l'avanzata dell'esercito svevo passando da Firenze ad Arezzo. Ma il 25 giugno le truppe angioine, sorprese da un contingente svevo, comandato da Federico d'Austria e da Kroff di Flüglingen, furono completamente annientate presso il ponte sull'Arno vicino a Laterina. Jean de Braiselve cadde prigioniero, mentre l'Estendard riuscì a fuggire. Questa vittoria rafforzò sensibilmente la causa dei ghibellini, ma C. non poteva trattenersi più a lungo in Toscana. Il 7 luglio, dopo aver concesso un privilegio commerciale anche a Siena, si rimise in marcia alla volta di Roma, passando da Grosseto, Tuscania e vicino a Viterbo, da dove il papa poté osservare il passaggio dell'esercito svevo, senza tuttavia subire nessun attacco.
A Roma C. fu accolto solennemente dal senatore Enrico di Castiglia e acclamato con "laudes" imperiali. Una parte della nobiltà romana, Frangipani, Colonna e Conti, si tenne tuttavia neutrale, mentre una parte degli Orsini e gli Annibaldi combattevano addirittura dalla parte di Carlo d'Angiò, il che significava che neanche a Roma la posizione di C. era troppo solida. Contemporaneamente una flotta pisana doveva presentarsi davanti alle coste del Regno per provocare altre rivolte.
Carlo d'Angiò non era riuscito a domare la sommossa dei Saraceni di Lucera. Quando ricevette la notizia che C. stava avanzando verso Roma, alla fine di luglio interruppe l'assedio di Lucera e mosse incontro all'avversario sulla via Valeria. Il re doveva tentare di provocare una rapida soluzione del conflitto, visto che dappertutto stava crescendo l'opposizione contro il suo governo. In Puglia soprattutto, dopo la sua partenza, infuriarono le rivolte. I moti siciliani a favore dello Svevo si propagarono in Calabria ed anche nella parte settentrionale del Regno, in Abruzzo, scoppiarono rivolte. Erano rimasti relativamente tranquilli soltanto il Principato e la Terra di Lavoro, dove neanche la flotta pisana riuscì a far vacillare l'autorità dell'Angioino. Si ribellarono soltanto il conte Corrado di Caserta e Riccardo di Rebursa barone di Aversa. Era rimasta fedele soprattutto Napoli, e questa circostanza dovette essere considerata quando C. si consigliò con Enrico di Castiglia sul proseguimento dell'impresa. Non era opportuno avanzare sulla via Latina o sulla via Appia in direzione di Napoli e di Benevento, perché queste strade passavano attraverso territori ancora saldamente in mano ai seguaci di Carlo d'Angiò. Sembrava molto più ragionevole scegliere la via Valeria: in Abruzzo Sulmona era passata dalla parte sveva e da Sulmona partiva la strada più breve per la Puglia. Pare che C. sperasse di evitare la battaglia e di raggiungere Lucera. La sua unione con i ribelli saraceni e pugliesi avrebbe significato probabilmente la fine del regno di Carlo d'Angiò.
È chiaro che per Carlo d'Angiò era una questione di vitale importanza cercare di risolvere immediatamente il conflitto. Dopo Tivoli la via Valeria attraversa una zona montuosa poco adatta per una battaglia. Una grande pianura si apriva invece ad est di Tagliacozzo, ai piedi del monte Velino, ed era adatta ad uno scontro: i Campi Palentini. Adatta poteva essere anche la Conca Peligna presso Sulmona, ma troppi erano ormai i ribelli in questa zona. Sembra che già all'inizio di agosto la scelta di Carlo d'Angiò fosse caduta sui Campi Palentini; vi risulta accampato a partire dal 14 agosto, in attesa dell'avversario. Pare anche che ambedue le parti si servissero di spie per informarsi dei movimenti e delle intenzioni del nemico.
Il 18 agosto l'esercito di C. lasciò Roma rafforzato da partigiani lombardi, ghibellini toscani e dalla cavalleria spagnola pesantemente corazzata di Enrico di Castiglia, in tutto circa cinquemila cavalieri, contro i quattromila tra francesi, provenzali e guelfi italiani, di cui disponeva Carlo d'Angiò. Il 19 agosto C. raggiunse Carsoli (senza la fanteria romana che, scoraggiata dalle difficoltà della marcia in montagna, era tornata indietro già ad Arsoli). C. e il suo seguito sapevano che Carlo d'Angiò li stava aspettando ai Campi Palentini. Per evitare la battaglia, abbandonarono perciò, la mattina del 20 agosto, la via Valeria con l'intenzione di raggiungere, su difficili sentieri di montagna, prima la valle inferiore del Salto e poi L'Aquila. Quando Carlo d'Angiò ne venne a conoscenza, levò immediatamente il campo, avanzò un piccolo tratto sulla via Valeria verso est per svoltare poi verso la montagna, a nord del lago del Fucino. Pare che il 21 agosto il suo esercito fosse accampato sull'altopiano di Ovindoli, da dove avrebbe potuto muovere contro lo Svevo sia in direzione dell'Aquila sia, tornando indietro, in direzione dei Campi Palentini. C., dal canto suo, tra il 20 e il 21 agosto sembra essere avanzato in direzione di Castel di Tora e poi, attraverso i monti Carseolani, verso Varco Sabino e la valle del Salto, con l'appoggio dei conti di Mareri. Ma la difficoltà della marcia in montagna pare averlo indotto a desistere dal progetto di raggiungere L'Aquila. Riprese a discendere la valle del Salto e raggiunse da nord, attraverso il Cicolano, i Campi Patentini. La sera del 22 agosto il suo esercito si accampò ai piedi del monte Velino. Carlo ne fu informato dalle sue spie e ritornò anch'egli sulla stessa strada da cui era venuto, accampandosi la sera del 22 agosto sulle colline a sudovest di Albe, a nord del borgo di Cappelle, separato dagli Svevi soltanto da un torrente che scende dal monte Velino. Il torrente era costeggiato da folte macchie ed attraversato presso il castrum (villa) Pontis da un ponte di legno, intorno al quale, il giorno seguente, sarebbe infuriata la battaglia.
Gli Svevi divisero l'esercito in tre schiere: della prima facevano parte i cavalieri tedeschi al comando del maresciallo Kroff di Flüglingen e i toscani sotto Corrado d'Antiochia e Galvano Lancia, della seconda i trecento cavalieri spagnoli, forse già armati di corazze con piastre; la terza era formata dai lombardi, comandati dal marchese Pallavicini. Tra di loro si trovava anche C. che era troppo giovane per esporsi nella battaglia, e Federico di Baden.
Anche l'esercito angioino fu diviso in tre schiere: la prima era composta da provenzali e da guelfi italiani comandati dal maresciallo Henri de Courances, il quale, per ingannare l'avversario, portava le insegne del re. La seconda era formata, pare, anch'essa da provenzali e da mercenari francesi al comando di Jean de Clary e di Guillaume l'Estendard; la terza, quella con le truppe più scelte, mille cavalieri, era comandata dal re stesso, che la tenne in disparte, nascondendola in un avvallamento del terreno, invisibile agli occhi del nemico. Da una collina Carlo d'Angiò osservò le prime fasi della battaglia. Questa tattica dell'agguato, scelta senza dubbio per controbilanciare l'inferiorità numerica dell'esercito angioino, era stata adottata spesso dagli eserciti musulmani in Terrasanta, l'ultima volta dal mamelucco Baibars nella battaglia decisiva contro i Mongoli presso 'Ayn Jālūt in Galilea (1260). A Carlo d'Angiò questa tattica fu raccomandata dal suo vecchio amico Erard de Valéry, tornato da poco da San Giovanni d'Acri, e dal principe di Acaia Guillaume de Villehardouin, che si trovava anch'egli tra i cavalieri dell'esercito angioino. Tutto il piano della battaglia era calcolato razionalmente, e niente fa pensare alla concezione medievale della battaglia come giudizio di Dio con tutto il suo rituale annesso (conciliazione sul campo di battaglia ecc.). Sentimenti d'odio avvelenarono l'atmosfera, fomentati da parte sveva indubbiamente dal dissoluto Enrico di Castiglia, dai ghibellini toscani e dagli esuli siciliani che gridavano alla vendetta.
Gli Svevi inaugurarono la giornata del 23 agosto con un atto brutale: Jean de Braiselve, che essi avevano condotto prigioniero fino a qui, fu decapitato, pare come vendetta per il massacro dei ghibellini a Sant'Ellero. Da parte francese agiva anche una specie di primordiale nazionalismo che vedeva in Carlo d'Angiò il discendente di Carlo Magno e l'atleta di Cristo. La coscienza di combattere in nome della Chiesa contro l'ultimo rampollo della maledetta progenie degli Svevi conferiva alla lotta una dimensione morale e univa francesi, provenzali e italiani, divisi normalmente dalla lingua e spesso anche da interessi politici. Gli animi erano eccitati da fanatismo dinastico, religioso e nazionale, misto con sete di vendetta personale, tanto più esasperato in quanto si trattava di una lotta per la vita o la morte per ambedue le parti.
La mattina del 23 agosto i due eserciti mossero l'uno contro l'altro, ma si dovettero fermare sulle rive del torrente perché le macchie che lo costeggiavano impedivano il contatto. Enrico di Castiglia decise di cavalcare, con il nucleo centrale della sua truppa, lungo il torrente verso ovest e, trovato un passaggio, attaccò violentemente l'avversario di fianco. Contemporaneamente anche le altre truppe sveve passarono il torrente presso il ponte di legno, e in breve tempo le due prime schiere angioine furono costrette alla fuga. Enrico di Castiglia uccise e mutilò Henri de Courances credendolo il re, visto che portava le insegne reali, ed inseguì il grosso dei provenzali e dei guelfi che si era dato alla fuga fino ad Albe. Nella convinzione che il re fosse morto e la vittoria conquistata, molti cavalieri svevi scesero da cavallo e cominciarono a saccheggiare i cadaveri. In questo momento Carlo d'Angiò, che dalla sua collinetta aveva osservato tutto, irruppe fra gli svevi, sorpresi e in parte disarmati, e li vinse dopo un aspro combattimento. Quando più tardi Enrico di Castiglia tornò dall'inseguimento fu sconfitto anch'egli dopo dura lotta, ingannato da una finta fuga di Erard de Valéry; una tattica anche questa adottata spesso dagli eserciti turchi in Levante. Carlo d'Angiò aveva vinto la battaglia. In riconoscimento di questa vittoria fece erigere vicino al campo di battaglia, sulle rive del Salto, un'abbazia cistercense, chiamata S. Maria della Vittoria, come espressione della sua venerazione per la Madonna, e la affidò a monaci francesi (donò anche una statua gotica della Madonna conservatasi fin'oggi a Scurcola).
La battaglia era costata circa quattromila morti; le perdite angioine furono probabilmente ancora più gravi di quelle sveve. Molti dei cavalieri svevi erano riusciti a fuggire; tra questi C. stesso, il quale non aveva partecipato alla battaglia, probabilmente a ragione della sua giovane età, Federico di Baden e Enrico di Castiglia. Quest'ultimo fu catturato presso Rieti e passò più di vent'anni nelle carceri angioine. C. fuggì in direzione di Roma, sulla stessa strada da cui era venuto. Subito dopo la battaglia, Carlo d'Angiò fece crudele vendetta: alcuni dei più eminenti prigionieri svevi, tra cui Tommaso d'Aquino, furono condannati a morte e giustiziati. La sconfitta fu un grave colpo per la causa sveva. Ma non tutto sembrava ancora perduto, visto che l'esercito angioino era fortemente decimato e la flotta pisana operava felicemente davanti alle coste siciliane. Certo, il progetto di unirsi con i ribelli pugliesi doveva essere considerato definitivamente fallito. Prospettive di successo poteva offrire soltanto il passaggio nell'isola di Sicilia, in gran parte in mano ai seguaci di Corradino. Carlo d'Angiò fece perciò tutto il possibile per impadronirsi della persona del giovane re ed impedire che egli si congiungesse con i suoi partigiani siciliani.
Il 28 agosto il giovane Svevo tornò a Roma con i resti del suo esercito, cinquecento cavalieri, ma l'insuccesso gli sottrasse l'appoggio degli amici di una volta. Guido di Montefeltro, rimasto a Roma come vicario di Enrico di Castiglia, gli sbarrò l'accesso al Campidoglio e i seguaci romani di Carlo d'Angiò e del papa ripresero il sopravvento. La situazione appariva poco sicura e perciò già il 31 agosto C. abbandonò di nuovo la città e si trasferì nel castello di Saracenesco sulla via Valeria, tenuto da Beatrice, moglie di Corrado d'Antiochia, caduto prigioniero nella battaglia, ma non giustiziato. Era un posto dove nessuno avrebbe sospettato la sua presenza e C. pensò di aspettarvi gli ulteriori sviluppi della situazione. Questi non furono però a lui favorevoli: il 7 settembre Enrico di Castiglia fu catturato a Rieti e consegnato, a Carsoli, a Carlo d'Angiò che muoveva in direzione di Roma.
C. decise allora di fuggire: l'esercito angioino che si stava avvicinando non gli lasciava altra scelta. In compagnia di Federico di Baden, Galvano e Galeotto Lancia, dei romani Napoleone Orsini e Riccardo Annibaldi lasciò Saracenesco e raggiunse, l'8 o il 9 settembre, la costa tirrenica presso Astura a sud di Anzio, dove si imbarcò per passare in Sicilia. Ma il signore locale, il romano Giovanni Frangipani, una volta seguace di Federico II, li inseguì e riuscì a catturare i fuggitivi. Era sua intenzione farsi pagare da Carlo d'Angiò una grossa somma per la loro consegna e vi riuscì. Con l'intervento del cardinale Giordano da Terracina consegnò i suoi prigionieri a Roberto di Laveno che per caso si trovava nella zona, di ritorno dalla Sicilia dove la sua flotta provenzale era stata messa in fuga dai Pisani. Il 12 settembre, a Genazzano, Roberto di Laveno consegnò C. e i suoi nobili compagni a Carlo d'Angiò, che alla notizia della cattura di C. aveva affrettato la sua marcia. I prigionieri furono rinchiusi in un castello presso Palestrina messo a disposizione dai Colonna e il 16 settembre Carlo d'Angiò fece il suo ingresso a Roma, dove nel frattempo Guido di Montefeltro e la fazione sveva erano stati cacciati dai seguaci angioini. L'elezione di Carlo a senatore a vita fu accettata senza proteste da Clemente IV.
Già allora l'Angiò era deciso a fare giustiziare C., perché solo così avrebbe potuto liberarsi di un pericoloso concorrente e rafforzare la propria posizione nel Regno. I due Lancia furono condannati a morte immediatamente e giustiziati pubblicamente a Genazzano. C. e gli altri compagni ancora in vita furono invece portati a Napoli in condizioni umilianti e rinchiusi nel Castel dell'Ovo.
Carlo voleva dare un aspetto di legalità all'esecuzione di C. per parare le critiche. Poteva applicare nei suoi confronti le disposizioni delle costituzioni federiciane, secondo le quali un invasor regni era colpevole di crimen lese maiestatis, e punibile con pena di morte al pari del traditore (proditor) cuiera equiparato. La pena di morte, peraltro, era prevista per i due crimini anche dal diritto romano a cui si poteva ricorrere ugualmente. Il diritto siciliano non prevedeva una procedura formale per tali reati e dava al re il potere di pronunciare la sentenza che era inappellabile. Richiedeva solo che fosse accertata la notorietà del crimine. La circostanza che C. e Federico di Baden fossero stranieri, costituì probabilmente una difficoltà per l'applicazione del diritto siciliano, difficoltà che poteva essere superata, comunque, con un'interpretazione più estensiva, in quanto essi erano prigionieri nel regno. È probabile che Carlo d'Angiò si sia anche basato sulla sua funzione di vicario imperiale in Toscana che comprendeva la giurisdizione sui sudditi dell'Impero, anche se sembra da escludere che il re si fosse fatto conferire quest'ufficio già con l'intenzione di predisporre una base giuridica per la condanna di Corradino.
Non pare che sia stato celebrato un processo formale ed è probabilmente soltanto con l'intenzione di fare dichiarare la notorietà del crimine nonché per avere il consiglio di competenti, che Carlo convocò a Napoli i rappresentanti dei Comuni di Terra di Lavoro e Principato e numerosi altri giuristi. I consiglieri e giuristi nella loro maggioranza sostennero Carlo nella sua decisione di fare giustiziare C., Federico di Baden e il conte pisano Gherardo di Donoratico. Qualche opposizione, da parte forse del conte Roberto di Fiandra che era presente, fu ignorata. Poi il re pronunciò la sentenza di morte. Restano comunque aperti molti problemi dato che mancano fonti documentarie e che i cronisti danno indicazioni spesso contrastanti. La situazione giuridica era - come si è detto - incerta, e finalmente la condanna a morte fu una decisione politica. Resta anche dubbio il ruolo sostenuto da Clemente IV nella condanna di Corradino. L'unica cosa certa è che il papa non impedì l'esecuzione, anche se prima di essa sciolse C. dalla scomunica.
Enrico di Castiglia fu graziato e condannato al carcere a vita che poté lasciare soltanto nel 1291, probabilmente per riguardo al fratello, re Alfonso X di Castiglia, e in considerazione dei suoi legami di parentele con re Carlo. Davanti al connestabile Jean Britaud de Nangis C. e Federico di Baden fecero testamento. C. riconfermò ancora una volta il passaggio dei suoi possedimenti ai duchi Ludovico ed Enrico di Baviera, aggiunse alcune altre piccole donazioni a favore di monasteri bavaresi per la salute della sua anima e saldò alcuni debiti. Anche Federico di Baden istituì eredi dei suoi possedimenti in Austria (da lui soltanto rivendicati) i duchi di Baviera e lasciò la Stiria alla madre; ai due duchi raccomandò anche la moglie e la sorella. Dopo la confessione e una messa, celebrata nella cappella del castello, C. e Federico di Baden furono decapitati lo stesso giorno, il 29 ott. 1268, sulla piazza del Mercato, davanti a una grande folla. Questo modo di esecuzione, che era considerato onorevole ma al cui riguardo il diritto siciliano non conteneva disposizioni esplicite, fu scelto probabilmente in considerazione del rango dei due condannati per risparmiare loro la morte sulla forca. Insieme con C. morirono il conte di Donoratico, Wolfrad di Veringen, Federico di Hürnheim e, verosimilmente, anche il maresciallo Kroff di Flüglingen. In un primo momento i cadaveri furono sotterrati nella sabbia in riva al mare, vicino a un cimitero ebraico. Successivamente, pare per sollecitazione della madre Elisabetta, le ossa di C. furono traslate, al tempo di Carlo II d'Angiò, nella chiesa di S. Maria del Carmine presso la piazza del Mercato, eretta più di dieci anni dopo l'esecuzione.
La tomba di C. suscitò l'interesse del principe ereditario bavarese (e più tardi re) Massimiliano di Wittelsbach, quando egli, nel 1831, visitò l'Italia. Per onorare la memoria del suo lontano congiunto, il principe, che aveva studiato storia a Berlino con Ranke e con lo storico degli Svevi von Raumer, fece fare una statua di C., ideata da B. Thorvaldsen ma eseguita solo nel 1845 a Monaco da Peter Schoepf, che fu collocata nella chiesa dei carmelitani a Napoli. Nel 1847 furono esumate sotto l'altare maggiore, ma senza che si facesse una precisa indagine scientifica, le presunte ossa di C. che furono traslate in una bara di piombo e sepolte nel basamento della statua, alla presenza del principe.
L'esecuzione dell'ultimo Svevo, frutto di un crudele calcolo politico, rimase impressa per secoli nella memoria di Tedeschi e Italiani. In Germania la fine di C. suscitò lutto e indignazione soltanto nelle regioni sudoccidentali tradizionalmente legate alla dinastia sveva, ma non ci fu nessuna conseguenza sul piano politico, data la debolezza dell'Impero. L'incipiente politica espansionista francese verso il confine occidentale dell'Impero suscitò, pare già allora in vasti ceti, spiccati sentimenti antifrancesi che si alimentavano anche dalla morte crudele di Corradino. Quando nel 1313 Enrico VII venne in Toscana, una parte delle sue truppe minacciò di trasferirsi nei Campi Palentini e di distruggere il monastero di S. Maria della Vittoria, per vendicare la fine di Corradino. Tra i ghibellini italiani la sua morte provocò la disperazione. Dell'argomento si impadronì anche la poesia trobadorica. Persino nella guelfa Perugia dovettero essere proibite le canzoni a favore di C. e contro Carlo d'Angiò. In effetti, le crudeli vicende seguite alla battaglia di Tagliacozzo e il governo rivelatosi sempre più opprimente di Carlo d'Angiò, provocarono il distacco dalla sua politica anche di ambienti ecclesiastici e guelfi, in Curia e altrove, non più disposti a sostenere incondizionatamente le ambizioni del primo re angioino.
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