CORRADINO DI SVEVIA
Duca di Svevia, re di Gerusalemme e di Sicilia, nacque il 25 marzo 1252 nel castello di Wolfstein nella Bassa Baviera, a nord-est di Landshut; il padre era uno dei figli di Federico II, re Corrado IV (alla nascita del bambino si trovava già in Italia e morì il 21 maggio 1254 in Puglia, presso Lavello, senza averlo mai visto), la madre era Elisabetta di Wittelsbach, figlia del duca Ottone II di Baviera. Al bambino fu imposto il nome del padre, che usò sempre; la forma diminutiva Corradino, comparsa per la prima volta in Italia e in seguito anche in Germania, fu impiegata in un primo tempo con intento ironico, mentre poi fu adottata per distinguerlo dal padre.
C. crebbe in mezzo alle lotte dei suoi zii, Ludovico II ed Enrico XIII, per il ducato di Baviera. Ludovico difese, non senza perseguire interessi personali, i diritti del bambino come erede degli Staufen. I papi Innocenzo IV, al quale Corrado IV aveva affidato la tutela del figlio, e il suo successore Alessandro IV riconobbero C. come re di Gerusalemme e duca di Svevia, ma non come re di Sicilia; infatti Alessandro IV, nell'aprile 1255, aveva investito della corona di Sicilia il principe inglese Edmondo di Lancaster, che tuttavia non riuscì a prenderne possesso. Quando Manfredi, figlio illegittimo di Federico II, alla fine del 1254 rivendicò il dominio sul Regno, riconobbe C. come baiulus di Sicilia. Dopo la morte di Guglielmo d'Olanda (1256), che era stato contrapposto a Federico II come sovrano, gli zii cercarono di far eleggere C. re di Germania (rex Romanorum), iniziativa che peraltro naufragò a causa dell'opposizione di papa Alessandro IV e del disinteresse dei principi tedeschi; il prescelto fu invece Riccardo di Cornovaglia, fratello del re d'Inghilterra Enrico III.
I tentativi di far eleggere C. re di Germania fallirono anche nel 1261, per il dissenso di Ottocaro II di Boemia e di papa Urbano IV, così come nel 1266 sforzi analoghi non ebbero successo perché furono contrastati risolutamente da papa Clemente IV e da Ottocaro; C. quindi non riuscì mai a ottenere la corona tedesca. Negli anni dell'infanzia risiedette a Wasserburg sul fiume Inn, Dachau, Illmünster e Costanza. Grazie all'appoggio del vescovo Eberardo di Costanza poté assicurarsi il ducato di Svevia; il suo possedimento più importante era costituito dai beni guelfi acquisiti da Federico Barbarossa sul Lech, nell'Allgäu e sul lago di Costanza, che erano amministrati da ministeriali. Fra loro spicca Volkmar di Kemnaten, il maestro e consigliere più importante di C., al quale fu impartita una discreta educazione formale, come all'epoca era in uso non di rado anche fra i sovrani laici. C. sapeva scrivere: la sua unica firma autografa in latino pervenuta, apposta in un documento rilasciato a Pisa il 14 giugno 1268 (Pisa, Archivio di Stato, Diplomatico, Atti pubblici), mostra una mano abbastanza ben esercitata e prova anche che possedeva una certa conoscenza del latino.
Con il suo nome sono stati tramandati anche due Minnelieder in versi, composti in medio-alto tedesco prima della spedizione in Italia, in cui C., circa quattordicenne, si compiace di assumere con una certa precocità la posa di chi muore per amore; si tratta di un esempio poco rivelatore sulla sua vita ma che esprime la cultura formale cavalleresca del suo entourage (Deutsche Liederdichter des 13. Jahrhunderts, a cura di C. von Kraus, I-II, Tübingen 1978: I, pp. 230 s.; II, Commentario, a cura di H. Kuhn, pp. 279 ss.).
Dopo l'incoronazione di Manfredi a re di Sicilia il 10 agosto 1258, il duca Ludovico cercò senza successo di presentare C. al papa come avversario di Manfredi. In seguito a lunghe trattative con i papi Urbano IV e Clemente IV, quest'ultimo nel 1265 scelse come nuovo re di Sicilia Carlo I d'Angiò. Il 22 febbraio 1266 Manfredi fu sconfitto e ucciso nella battaglia di Benevento. I suoi sostenitori meridionali si rivolsero quindi a C., imitati anche dai ghibellini fiorentini, che il 17 aprile 1267 furono scacciati dalle truppe di Carlo d'Angiò dalla città in cui non avrebbero mai più fatto ritorno. Dopo il fallimento dei progetti per ottenere la corona tedesca, i consiglieri del giovane C. spostarono la loro attenzione sull'eredità da rivendicare nel Meridione d'Italia. Il vescovo Eberardo di Costanza era affiancato dal duca Ludovico II di Baviera, dal conte Mainardo II di Gorizia e del Tirolo, che aveva sposato in seconde nozze la madre di C., dal giovane margravio Federico di Baden, nemico di re Ottocaro II di Boemia a causa delle sue rivendicazioni sui ducati d'Austria e di Stiria, e da altri nobili, tra cui Rodolfo d'Asburgo, all'epoca una figura ancora poco in vista, e il burgravio di Norimberga Federico, della casata sveva degli Hohenzollern, i cui discendenti a partire dal sec. XV saranno principi elettori del Brandeburgo e nel 1701 sovrani di Prussia. Fu in questi frangenti che si avvicinarono a C. rappresentanti di entrambe le casate che in seguito avrebbero dato per secoli la loro impronta alla storia tedesca. In una dieta tenuta ad Augusta nell'ottobre 1266 si stabilì che C. avrebbe dovuto riappropriarsi della sua eredità nel Meridione d'Italia con una spedizione militare, il cui inizio fu fissato nella tarda estate del 1267. Il quattordicenne fu fidanzato in absentia con una figlia del margravio di Landsberg, Sofia, ancora bambina, con cui peraltro non si incontrerà mai. Vennero intensificati al contempo i contatti, già avviati in precedenza, con gli avversari degli Angioini. Pietro de Prece, che già aveva servito Federico II ed era in seguito diventato notaio e stilista (continuando la tradizione di Pier della Vigna) di Manfredi, dal 1266 fu protonotaro o, secondo il modello della cancelleria papale, vicecancelliere di C. e incaricato di redigere i manifesti.
Nei mesi successivi esuli fedeli a Manfredi raggiunsero C. in Germania: Manfredi Maletta, gran camerlengo di Manfredi, Galvano e Federico Lancia, Corrado Capece, e altri seguirono il loro esempio. Allora, e in seguito a Verona, C. formò con questi fuggiaschi una sorta di 'governo in esilio': Galvano Lancia divenne il suo principale consigliere, Corrado Capece gran giustiziere per l'intero Regno e capitano generale per la Sicilia, Manfredi Maletta e poi Tommaso d'Aquino camerlenghi per il Regno di Gerusalemme e la Sicilia, Roberto Filangieri luogotenente dei due Regni. Questi provvedimenti dimostrano che C., ispirandosi a Federico II, intendeva governare il Regno con il supporto di forze locali.
La situazione in Italia non si presentava troppo favorevole per il giovane pretendente: al Nord, in Lombardia e in Veneto, si combattevano due partiti, filoimperiale e antimperiale (le denominazioni di guelfi e ghibellini, di origine fiorentina, furono introdotte qui solo intorno al 1300; fino a questo momento erano circoscritte alla Toscana e zone limitrofe e neppure a Roma erano consuete). Facevano parte del primo schieramento Mastino della Scala a Verona, il margravio Pallavicini, i suoi nipoti Ubertino e Boso di Doaria, il comune di Pavia; i nobili e i comuni lombardi erano invece in massima parte ostili a Corradino. In Toscana la vittoria di Carlo su Manfredi aveva rinvigorito la fazione dei guelfi, che avevano chiesto aiuto all'Angiò, nominato dal papa il 10 aprile 1267 paciarius generalis ('pacificatore') e il 17 aprile 1268 vicario imperiale in Toscana. La divisione del ceto alto cittadino in guelfi e ghibellini, che in un primo momento era stata causata da lotte interne di potere, si trasferì allora alla grande politica: i guelfi si presentavano come rappresentanti della coalizione fra 'liberi' comuni, papato e Angioini francesi, mentre i ghibellini si configuravano come partigiani dell'Impero tedesco. Da allora Firenze fu la roccaforte della coalizione e dell'ideologia guelfe, mentre Pisa e Siena insieme a Guido Novello, anch'egli scacciato da Firenze, e al capo dei ghibellini delle Marche Guido da Montefeltro restarono fedeli a Corradino. Nella primavera del 1267 un nuovo importante personaggio, Enrico di Castiglia, emerse nel conflitto che andava profilandosi: fratello di re Alfonso X di Castiglia, uomo intelligente, ambizioso e brutale, dopo aver servito re Enrico III d'Inghilterra e gli Hafsidi in al-Ifriqiyya (Tunisia), aspirava a un dominio personale in Grecia o in Sardegna e fu quindi amaramente deluso dal cugino Carlo d'Angiò, che perseguiva in quelle terre ambizioni personali. Dopo un rivolgimento a Roma nella primavera del 1267, in cui furono ampliati i poteri del 'popolo', Enrico ricevette la dignità senatoria, in un primo tempo con l'approvazione del papa, e sotto l'influsso di seguaci di Manfredi intraprese una politica ostile a Carlo d'Angiò, instaurando contatti dapprima con i ghibellini toscani e poi, nell'agosto e settembre del 1267, con C., il quale fu pronto ad accettare le sue offerte. Inoltre Corrado Capece, che dal marzo 1267 raccoglieva a Pisa le forze antiangioine e aveva saputo guadagnare alla causa degli Svevi anche il sovrano musulmano di Tunisi, l'hafside al-Muṣtansir, muovendosi dalla Tunisia riuscì a conquistare gran parte della Sicilia nell'agosto e nel settembre del 1267. Furono stabiliti rapporti anche con il sultano dei mamelucchi Baybars, che minacciava quanto restava degli stati crociati, e con i saraceni deportati da Federico II dalla Sicilia a Lucera in Puglia. Con queste premesse la situazione in Italia non appariva più tanto sfavorevole quando C., l'8 settembre 1267, partì da Augusta verso il Sud con un esercito che in un primo momento contava solo un migliaio di uomini, finanziato cedendo parte dei suoi possedimenti al duca Ludovico; tuttavia la spedizione in seguito avrebbe dovuto essere sovvenzionata dai sostenitori italiani.
Attraversando il territorio del patrigno Mainardo egli valicò il Brennero e, passando per Bolzano, il 21 ottobre entrò a Verona, dove fu ricevuto da Mastino della Scala e si acquartierò nel palazzo presso S. Zeno. A causa della situazione incerta il duca Ludovico e il conte Mainardo consigliarono a C. di rientrare in Germania; loro stessi e altri, fra cui Rodolfo d'Asburgo, ripresero la via di casa. Malgrado la congiuntura critica e la solenne scomunica lanciata da papa Clemente IV il 18 novembre 1267 C. decise, dando senz'altro ascolto ai suggerimenti degli esuli meridionali, di continuare nella sua spedizione di conquista. I successi ottenuti da Corrado Capece sull'isola e l'appoggio di Enrico di Castiglia, che Galvano Lancia era riuscito ad assicurarsi definitivamente a Roma, infusero coraggio al giovane C. e ai suoi seguaci. Con un esercito residuo di circa tremila cavalieri, al comando di Corrado Kroff di Flüglingen, 'maresciallo di tutti i tedeschi in Italia', il 17 gennaio 1268 partì da Verona alla volta di Pisa. Dopo una rapida marcia, il 20 gennaio giunse a Pavia, città schierata con l'Impero, dove la situazione finanziaria migliorò grazie alle sovvenzioni della città e dei pisani. Carlo d'Angiò dovette abbandonare la Toscana sia a causa di rivolte scoppiate nel Regno, anche tra i saraceni di Lucera, sia per mancanza di risorse finanziarie.
Quindi C. lasciò Pavia il 22 marzo 1268 proseguendo in direzione della costa e il 29, con un seguito di circa cento cavalieri, si imbarcò nel porto di Vado su navi pisane che lo trasportarono a Pisa, dove il contingente entrò il 7 aprile. L'esercito, che nel frattempo era cresciuto fino ad arrivare a circa seimila unità, lo seguì via terra e raggiunse la città il 2 maggio. Qui C. incontrò i capi ghibellini Guido Novello e Guido di Montefeltro. Il 5 aprile il papa aveva rinnovato la scomunica privando C. del Regno di Gerusalemme; contro di lui fu predicata la crociata e le città ghibelline come Pavia furono colpite da interdetto. La scomunica papale raggiunse anche Enrico di Castiglia e la carica senatoria fu assunta da Carlo d'Angiò contro gli accordi stipulati nel 1265. A metà giugno C. lasciò Pisa imboccando la Via Francigena in direzione sud, accompagnato da un contingente pisano al comando del conte Gherardo di Donoratico. A Siena ricevette una splendida accoglienza. L'esercito fu tallonato da un contingente angioino al comando di Giovanni di Braiselve e Guglielmo l'Estandart; il primo, che si era attirato l'odio dei ghibellini per aver fatto massacrare nel giugno o luglio 1267 la guarnigione del castello di S. Ellero, fu preso prigioniero con un attacco a sorpresa sul ponte sull'Arno presso Laterina. C. toccò Grosseto e Tuscania, poi sfilò davanti a Viterbo, dove il papa (che a Pentecoste, durante il capitolo generale dei Domenicani a Viterbo, aveva definito C. "l'agnello condotto al macello") il 22 luglio osservò il passaggio dell'esercito che puntava verso Roma. Al suo ingresso nella città il 24 luglio fu accolto solennemente da Enrico di Castiglia fra acclamazioni con laudes imperiali. Fra la nobiltà romana, i Frangipane, i Colonna e i Conti si mantennero neutrali, mentre una parte degli Annibaldi e degli Orsini era schierata con Carlo d'Angiò; perciò la situazione si presentava incerta. Una flotta pisana incaricata di istigare altre rivolte veleggiò lungo la costa in direzione della Sicilia. Avendo appreso dell'avanzata di C. su Roma, alla fine di luglio Carlo d'Angiò tolse l'assedio, iniziato in maggio, ai saraceni di Lucera che si erano ribellati nel febbraio del 1268.
Incalzato dalle rivolte che si stavano propagando, Carlo doveva prendere rapidamente una decisione; imboccò quindi la Via Valeria in direzione di Roma. C. ed Enrico di Castiglia decisero di non penetrare nel Regno di Sicilia attraverso la Via Appia, poiché il Principato, la Terra di Lavoro e Napoli non si erano ancora ribellati a Carlo, ma optarono per la Via Valeria avanzando direttamente verso Lucera, facendo assegnamento sul crollo del dominio di Carlo dopo un incontro con i saraceni locali.
Il 18 agosto C. lasciò Roma con circa cinquemila cavalieri (tedeschi, lombardi, ghibellini toscani e spagnoli) e con la fanteria; Carlo lo affrontava con un esercito leggermente inferiore schierato in attesa dell'avversario nell'ampio Campo Palentino, un luogo idoneo alla battaglia, situato a circa 10 chilometri a est di Tagliacozzo. A causa della difficile marcia sulle montagne la fanteria ad Arsoli abbandonò l'esercito svevo, ma neppure Carlo disponeva di una fanteria. Per evitare una battaglia immediata, C. ed Enrico di Castiglia lasciarono la Via Valeria e si diressero a nord-est, verso L'Aquila, percorrendo aspri sentieri di montagna. Per intercettare il nemico Carlo si portò con i suoi cavalieri sull'altopiano di Ovindoli, a nord del Lago di Fucino; giunti nella Valle del Salto, gli imperiali decisero tuttavia di interrompere la marcia sui monti e di dirigersi attraverso il Cicolano in direzione sud-est a Campo Palentino, dove arrivarono la sera del 22 agosto accampandosi ai piedi del Monte Carce. Carlo reagì al cambiamento di direzione di C. tornando attraverso la Via Valeria a Campo Palentino e il 22 agosto si attestò sulle colline a sud-ovest di Albe. I due eserciti erano divisi da un torrente che scendendo dal monte Velino correva in direzione sud-ovest per sfociare nel Salto. Il giorno successivo ebbe inizio la battaglia. Gli eserciti erano entrambi schierati su tre linee. Tuttavia Carlo, per compensare la sua inferiorità numerica, tenne in riserva dietro le colline la terza schiera al suo comando, invisibile alle forze sveve, su consiglio del principe di Acaia, Guglielmo di Villehardouin, presente con un piccolo contingente, e del suo vecchio amico Érard de Valéry, da poco rientrato dalla Terrasanta. Per ingannare l'avversario, il maresciallo Enrico di Courances in prima linea portava le insegne reali. Il torrente con la sua vegetazione intricata ostacolava le azioni, ma Enrico di Castiglia con i suoi spagnoli ben equipaggiati, probabilmente con pesanti armature a piastre, fu in grado di guadare il torrente in direzione ovest e, insieme con gli altri imperiali che oltrepassarono il corso d'acqua presso il castrum (villa) pontis, riuscì ad annientare le due prime linee francesi; i fuggitivi furono poi incalzati in direzione di Albe. Quando gli Svevi, già certi della vittoria, scesero da cavallo e cominciarono il saccheggio ‒ Enrico di Cou-rances, scambiato per il re, era caduto ‒ Carlo irruppe con i suoi cavalieri e travolse tedeschi, toscani e lombardi. Neppure Enrico di Castiglia, che tornava dal suo inseguimento, poté cambiare le sorti della battaglia finale. C., che dalla terza linea non aveva partecipato alla battaglia, riuscì a fuggire con Federico di Baden, Enrico di Castiglia, Corrado di Antiochia e altri, ma in gran parte furono rapidamente catturati.
La battaglia, priva di qualsiasi etica cavalleresca, costò la vita a un migliaio di cavalieri. Prima dello scontro gli Svevi, per vendetta, avevano decapitato Giovanni di Braiselve catturato presso Laterina.
Il fanatismo dinastico, religioso e 'nazionalistico' accendeva gli animi; Carlo, in particolare, nel solco della tradizione di Carlomagno e da fedele figlio della Chiesa, si considerava un soldato di Cristo. A memoria dello scontro fece fondare vicino al campo di battaglia l'abbazia cistercense di S. Maria della Vittoria, abitata da monaci francesi, e le donò una statua della Vergine Maria il cui aiuto aveva impetrato con le sue preghiere prima di affrontare il nemico. C. fuggì con circa cinquecento cavalieri in direzione di Roma, dove tuttavia il clima era mutato a favore di Carlo, poi verso il castello di Saracinesco di Corrado di Antiochia e, infine, con Federico di Baden e pochi altri tedeschi e italiani fedeli verso Astura, sulla costa a sud di Anzio, per salpare verso la Sicilia e trovare salvezza presso i suoi sostenitori. Ma il nobile locale Giovanni Frangipane, un tempo partigiano di Federico II, catturò C. e i suoi accompagnatori per consegnarli a Carlo; Galvano e Galeotto Lancia furono giustiziati senza indugio a Genazzano, mentre gli altri furono imprigionati a Castel dell'Ovo a Napoli. Carlo era deciso a uccidere C. per ragioni politiche. Non fu istruito alcun processo formale, ma le fonti tramandate non ci restituiscono un quadro univoco della situazione; era possibile applicare le norme contenute nelle Costituzioni fatte redigere da Federico II per il Regno di Sicilia, in base alle quali un invasor Regni si rendeva colpevole del crimen laesae maiestatis, punito con la pena di morte, che il re poteva infliggere senza un processo preliminare.
Per accertare la sussistenza di questo delitto e per ottenere un consulto giuridico, Carlo convocò a Napoli numerosi giuristi e rappresentanti dei comuni del principato e fu deliberata infine la condanna a morte di C. per decapitazione.
Nel testamento C. riconfermava il passaggio dei suoi possedimenti sul Lech, peraltro già effettuato, ai due duchi di Wittelsbach (a partire da quel momento costituirono il nucleo della parte sveva della Baviera). Il 29 ottobre 1268 C., Federico di Baden, Gherardo di Donoratico e altri, fra cui probabilmente anche Corrado Kroff di Flüglingen, furono giustiziati nella piazza del Mercato a Napoli e i loro corpi sotterrati nella sabbia sulla costa accanto a un cimitero ebraico. Per volontà della madre le spoglie di C., circa un decennio più tardi, furono sepolte nella chiesa dei Carmelitani in piazza del Mercato, dove nel 1832 destarono l'interesse del principe ereditario della casa Wittelsbach, il futuro re Massimiliano (II) di Baviera, che commissionò una statua, progettata e modellata da Bertel Thorvaldsen ma ultimata solo dopo il 1841 a Roma dal monacese Peter Schöpf, nel cui basamento furono racchiuse nel 1847 le ossa di C. (senza condurre indagini scientifiche). La condanna a morte dell'ultimo degli Hohenstaufen, scaturita da un calcolo politico, è rimasta impressa per secoli nella memoria di tedeschi e italiani. Questa decisione alienò a Carlo d'Angiò molte simpatie anche in campo guelfo. Papa Clemente IV aveva revocato la scomunica a C., ma non aveva fatto nulla per impedire la sua decapitazione. Considerati retrospettivamente, questi eventi, soprattutto in Germania, hanno favorito il persistere di risentimenti antifrancesi fin nella storiografia moderna.
Fonti e Bibl.: P. Herde, Corradino di Svevia, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 364-378; Id., Carlo I d'Angiò, ibid., XX, ivi 1977, pp. 199-226; Id., Gesammelte Abhandlungen und Aufsätze, II, Studien zur Papst- und Reichsgeschichte, zur Geschichte des Mittelmeerraumes und zum kanonischen Recht im Mittelalter, Stuttgart 2002, pp. 293-312, 313-352 (con indicazioni esaurienti sulle fonti e la letteratura). Documenti e altre fonti in Regesta Imperii, V, 1-3, Die Regesten des Kaiserreiches [...], a cura di J.F. Böhmer-J. Ficker-E. Winkelmann, Inns-bruck 1881-1901 (rist. Hildesheim 1971): 1, nrr. 4770i-4860a. K. Hampe, Geschichte Konradins von Hohenstaufen, Innsbruck 1894 (rist. con un'appendice di H. Kämpf, Leipzig 1940 e 1942, tuttora l'esposizione più esauriente); F. Geldner, Konradin, das Opfer eines großen Traumes, Bamberg 1970. Letteratura più recente: P. Herde, Die Schlacht bei Tagliacozzo. Eine historisch-topographische Studie, in Id., Gesammelte Abhandlungen und Aufsätze, II, Studien zur Papst- und Reichsgeschichte, zur Geschichte des Mittelmeerraumes und zum kanonischen Recht im Mittelalter, Stuttgart 2002, pp. 377-442 (trad. it. La battaglia di Tagliacozzo. VII centenario della battaglia di Tagliacozzo, 23 agosto 1268/23 agosto 1968, s.n.t. [ma Pescara 1968]); Id., Taktiken muslimischer Heere vom ersten Kreuzzug bis 'Ayn Djalut' (1260) und ihre Einwirkung auf die Schlacht bei Tagliacozzo (1268), ibid., pp. 443-468; A. Nitschke, Der Prozeß gegen Konradin, "Zeitschrift für Rechtsgeschichte. Kan. Abt.", 42, 1956, pp. 25-54; H.M. Schaller, Zur Verurteilung Konradins, "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 37, 1957, pp. 311-327 (ora in Id., Stauferzeit. Aus-gewählte Aufsätze, Hannover 1993, pp. 557-576, cf. anche pp. 577-582); J. Göbbels, Das Militärwesen im Königreich Sizilien zur Zeit Karls I. von Anjou (1265-1285), Stuttgart 1984; Id., Der Krieg Karls I. von Anjou gegen die Sarazenen von Lucera in den Jahren 1268 und 1269, in Forschungen zur Reichs-, Papst- und Landesgeschichte. Peter Herde zum 65. Geburtstag von Freunden, Schülern und Kollegen dargebracht, a cura di K. Borchardt-E. Bünz, I, ivi 1998, pp. 361-401.
Traduzione di Maria Paola Arena