CAPECE (Capice de Neapoli, Capicia, Capicio, Capitius, Cacapiç, Cacapuche), Corrado
Figlio di Giacomo, apparteneva a famiglia di antica nobiltà napoletana, i cui esponenti sin dalla metà del sec. XII sono ricordati come canonici della cattedrale di Napoli, badesse dei monasteri cittadini, feudatari con beni ad Aversa e come connestabili regi ad Aversa e a Napoli. Sica Capece, morta prima del 1171, era la prima moglie del vicecancelliere di Guglielmo II e cancelliere di Tancredi, Matteo da Salerno (morto nel 1193). Il C. apparteneva alla linea soprannominata "de Monacho" di questa famiglia divisa in numerosi rami.
Il padre Giacomo è ricordato per la prima volta nel 1219 come signore feudale di Vico di Baiano (presso Avella). Prima del 1232 Giacomo fu investito anche di Atripalda presso Avellino ed era dunque uno dei nobili del Regno più favoriti da Federico II. Nel 1237 egli rappresentò l'arcivescovo Giovanni di Amalfi in un'udienza svoltasi davanti ai famigliari del Regno e custodì nel 1239-40 ad Avellino, a nome dell'imperatore, la figlia di Alberigo da Romano. Nel 1240 Federico II gli conferì l'ufficio di siniscalco e lo propose nello stesso anno alla corte dell'imperatrice ("statutus super servitiis curie domine imperatricis"). Morì prima del 1248.
Insieme con i fratelli Marino e Giacomo, il C. successe, alla morte del padre, nei suoi feudi. Gli toccò la metà del feudo di Baiano e una parte di quello di Atripalda. Il matrimonio con la nobile abruzzese Biancafiore di Molina (morta prima del 1276) gli procurò altri feudi nei pressi di Nola e di Cicala. Più tardi Manfredi lo investì anche del feudo di San Martino Valle Caudina con varie località che ne facevano parte, confiscato a Marino da Eboli avversario di Manfredi, che era stato imprigionato e accecato. Possedeva inoltre numerose case e terre a Napoli, Aversa, Capua, Calvi e Somma che Carlo I d'Angiò fece sequestrare a beneficio della Corona al più tardi nel 1268.
Nell'ottobre del 1254 il C., con il fratello Marino, fece parte del piccolo seguito del principe Manfredi di Taranto, il quale ad Acerra, dopo la rottura definitiva con il papa Innocenzo IV che avanzava verso Napoli, si accingeva alla fuga per trovare a Lucera una base sicura per la restaurazione del dominio svevo. La loro conoscenza della zona permise ai fratelli di condurre Manfredi, nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, ad Atripalda, per una via indiretta, faticosa e piena di pericoli attraverso le prime alture dell'Appennino, evitando Monteforte Irpino e Avellino, località controllate dal marchese Bertoldo di Hohenburg. Ad Atripalda il principe, ospite dei due fratelli e delle loro mogli, fece una breve sosta, prima di ripartire lo stesso giorno per Nusco. Non è noto se il C. accompagnasse Manfredi anche durante l'ulteriore cavalcata per Lucera. Fu considerato però anche in seguito uno dei più decisi e attivi sostenitori del principe che si era ribellato contro le rivendicazioni pontificie sul Regno di Sicilia. Alessandro IV perciò nel marzo del 1255 lo fece citare perentoriamente, insieme con gli altri nobili fautori dello Svevo, con la minaccia della scomunica e della confisca dei feudi, invitandolo, tuttavia senza successo, ad abbandonare Manfredi. Mancano comunque notizie del C. per gli anni immediatamente precedenti e successivi all'incoronazione di Manfredi, avvenuta nel 1258.
Nel 1262 la politica di Manfredi, tesa a difendere il Regno con l'offensiva nelle Marche, subì un grave scacco con la cattura del vicario generale Corrado d'Antiochia e il fallito assedio di Montecchio da parte di Galvano Lancia. Allora il re, alla fine del 1262, nominò il C. vicario generale della Marca d'Ancona, del ducato di Spoleto e della Romagna, conferendogli nello stesso tempo anche il titolo onorifico di "socius et familiaris domini regis". Ma, nonostante che gli fossero state assegnate tante province, la sua sfera d'azione rimase circoscritta alla sola Marca d'Ancona, dopo che il partito ecclesiastico era passato alla controffensiva sotto la guida del vescovo eletto Manfredi di Verona.
La presenza del C. nelle Marche in qualità di vicario generale è attestata per la prima volta l'11 genn. 1263 a Recanati, dove concesse l'"affictus curie" della città di Matelica a Grimaldo di Petino. Pochi giorni più tardi l'abate di Chiaravalle di Fiastra nominava il suo procuratore per un processo da dibattersi davanti alla "curia" del Capece. Gli sforzi politici del C. erano rivolti soprattutto a consolidare il confine settentrionale delle zone d'influenza ghibellina che passava da Recanati a Matelica circa, rafforzando la lega con i partigiani svevi nella nobiltà e nei Comuni. Per ordine di Manfredi nel marzo del 1263 a Recanati consegnò terre del monastero di Farfa a Rainaldo di Brunforte; nel novembre concesse allo stesso Rainaldo anche il castello di Sant'Angelo in Pontano (presso San Ginesio), la cui rivolta era stata domata da questo nobile marchigiano. Ma ancora più importante fu la lega che il C. riuscì a rinnovare tra San Severino Marche, Monte Milone (Pollenza), Tolentino e Matelica, conclusa per la prima volta nel 1259, includendovi anche Recanati. I podestà, consiglieri e vicari di queste città tra il 6 e il 9 maggio 1263 prestarono il giuramento di fedeltà a Manfredi obbligandosi a non intrattenere rapporti con il rettore pontificio. Durante il vicariato del C. non avvennero tuttavia azioni belliche di rilievo né sconvolgimenti politici. Il C. è ricordato per l'ultima volta come vicario nel febbraio del 1264; ancora prima della fine della settima indizione (ag. 1264) fu sostituito da Giordano d'Agliano.
Nell'ultimo anno del suo regno, già minacciato dai preparativi di Carlo d'Angiò, Manfredi mandò il C. come capitano generale in Sicilia. Durante il periodo che rimase in carica, dal 1265, o forse dal 1264, fino al febbraio del 1266, diede un nuovo assetto ai castelli dell'isola, assicurando l'approvvigionamento dei presidi. Ancora nel gennaio del 1266 ordinò la riscossione della colletta generale per la nona indizione, ma immediatamente dopo l'invasione di Carlo d'Angiò abbandonò l'isola per congiungersi con l'esercito di Manfredi e partecipò nel febbraio alla battaglia di Benevento. Dopo la sconfitta di Manfredi fu preso prigioniero, ma, come riferisce Saba Malaspina, per intervento di Bartolomeo Pignatelli, ancora arcivescovo di Cosenza e primo consigliere spirituale di Carlo d'Angiò, non venne condannato a morte bensì all'esilio e alla perdita dei feudi.
Non sappiamo dove il C. passasse i primi mesi del suo esilio. Fu tra i primi esuli ghibellini che si recarono in Germania, probabilmente tra la fine del 1266 e l'inizio del 1267, alla corte di Corradino in quel momento ad Augusta, per invitarlo a rivendicare i suoi diritti sulla corona siciliana. Corradino e i suoi consiglieri sembra abbiano accettato pienamente i suoi suggerimenti. Corradino nominò infatti il C. capitano generale e vicario in Sicilia e gli conferì nello stesso tempo, a quanto pare, l'ufficio di maestro giustiziere per tutto il Regno, concedendogli anche la contea di Ascoli Satriano. Avvalendosi dei pieni poteri conferitigli da Corradino, nel marzo e nell'aprile del 1267 il C. cercò di raccogliere partigiani in Toscana e tentò di assoldare mercenari tedeschi. Trovò ascolto soprattutto a Pisa, dopo che Carlo I il 1º apr. 1267 aveva proibito ai Pisani di risiedere nel Regno. Il suo progetto, maturato a quanto pare in tutti i suoi particolari solo durante i colloqui svoltisi a Pisa, prevedeva di trasferire con l'aiuto pisano un piccolo contingente di partigiani ghibellini a Tunisi, per tentare da lì l'invasione della Sicilia.
Verso il maggio del 1267 il C., insieme con un gruppo di altri esuli ghibellini e un seguito di cavalieri tedeschi e toscani, si imbarcò su una nave pisana per Tunisi, dove fu accolto gentilmente dall'emiro Abū 'Abd Allāh al 'Mostansir i cui rapporti con Carlo d'Angiò erano piuttosto tesi. A Tunisi trovò anche l'aiuto e l'appoggio di Federico di Castiglia che vi risiedeva e gli assicurò una piccola schiera di cavalieri spagnoli di consumata esperienza militare. Dopo tre mesi di preparativi il piccolo esercito che si componeva di qualche centinaio di cavalieri tedeschi, toscani e spagnoli e di circa cento arcieri saraceni s'imbarcò sotto il comando del C., di Nicola Maletta e di Federico di Castiglia. La prima tappa fu l'isola di Pantelleria, il cui capitano Palmiero Abate prestò il giuramento di fedeltà e consegnò al C. come sussidio la somma di 22.500 bizantini raccolta tra la popolazione dell'isola.
Alla fine di agosto il C. sbarcò presso Sciacca sulla costa meridionale della Sicilia e mandò immediatamente messi in tutte le direzioni per annunciare, con un manifesto di indubbia efficacia agitatoria, l'imminente arrivo del legittimo re Corradino. Il vicario generale angioino nell'isola, Fulco di Puy-Richard, che non aveva tenuto nel debito conto il diffuso malumore della popolazione della Sicilia occidentale e meridionale e il pericolo costituito dagli armamenti tunisini del C., raccolse truppe in gran fretta e si oppose nelle vicinanze di Sciacca al piccolo esercito comandato dal C., ma fu sconfitto completamente, soprattutto per merito dei cavalieri spagnoli di Federico di Castiglia e per la defezione di numerosi siciliani arruolati contro gli invasori, e si dovette ritirare precipitosamente a Messina. Come contraccolpo di questo primo successo, la maggior parte delle città nella Val di Noto e nella Val di Mazara aprirono le loro porte al Capece. Prestarono il giuramento di fedeltà a Corradino gli abitanti di Agrigento, Augusta, Noto, Licata, Eraclea, Caltanissetta, Vizzini, Piazza, Enna, Paternò, Nicosia, Agira e Centuripe. Lentini si arrese dopo lungo assedio; Aidono fu distrutta nel corso di violenti combattimenti; Caltagirone subì gravi danni a causa della sua resistenza. Il tentativo di conquistare Palermo fallì, anche Siracusa si sottrasse alla rivolta ghibellina guidata dal C.; Catania, invece, vi aderì per un certo periodo, nel 1267-68.
Tuttavia la flotta pisana, dopo aver sbarcato nell'agosto un altro contingente di partigiani ghibellini comandato da Federico Lancia ed Enrico di Ventimiglia sulla costa settentrionale dell'isola presso Milazzo, alla notizia della cattura di Corradino prese la via del ritorno, abbandonò le acque siciliane che controllava, e permise in tal modo a Carlo d'Angiò di mandare truppe in Sicilia. Neanche il congiungimento dei due eserciti ghibellini guidati dal C. e da Federico Lancia rafforzò il movimento di rivolta, sul quale pesava ora la rivalità dei due comandanti. Federico Lancia era stato nominato personalmente da Corradino a Pisa suo vicario - anche se probabilmente soltanto per la durata della spedizione navale siciliana - ed esigette la subordinazione del C., il quale invece, forte della sua precedente nomina a capitano generale e dei successi conseguiti, non era disposto a sottomettersi; Federico di Castiglia tendeva più dalla parte di Federico Lancia.
Il 1º giugno 1269, dopo aver concentrato le sue truppe prima a Lentini e poi ad Agrigento, il C. riportò presso quest'ultima città una grande vittoria sull'esercito di cavalieri provenzali e francesi raccolti da Carlo d'Angiò e comandati da un nuovo vicario generale, che tuttavia fu offuscata dalla fama di efferatezza che si guadagnò facendo giustiziare i prigionieri francesi. Alla morte di Corradino cercò di conservare alla propria azione una veste di legittimità politica rinnovando, nel mese di giugno, con una lettera indirizzata a Uberto Pallavicino (morto nel maggio dell'anno 1269), il legame con i ghibellini lombardi, e inviando nello stesso tempo un suo ambasciatore all'erede di Corradino, Federico di Meissen, per offrigli i suoi servigi.
Dopo che nell'estate del 1269 un'altra puntata su Palermo era fallita presso Castronuovo, l'iniziativa passò al nuovo vicario generale francese che era stato nominato nell'agosto, il maresciallo Guillaume l'Etendart famoso per la sua crudeltà, il quale, dopo la caduta di Lucera e di Gallipoli, poté contare anche su nuovi rinforzi. Dopo la resa di Augusta presa d'assalto, nell'agosto le strade dei due capitani ghibellini si divisero, ma non è chiaro se a questo risultato si giunse per la loro rivalità mai composta, oppure come conseguenza della strategia militare del nuovo vicario generale. Mentre Federico Lancia e Federico di Castiglia si ritiravano ad Agrigento, il C., insieme al seguito di lombardi e siciliani che gli era rimasto, si diresse verso Centuripe, dove fu accerchiato e assediato per parecchio tempo dall'Etendart. Accortosi della presenza di traditori nelle proprie file (uno di essi fu Gualtieri Russo da Catania), che erano entrati in contatto con gli assedianti tra i quali si trovava con tutta probabilità Alaimo da Lentini allora capitano di Randazzo, il C. pensò di prevenirli sacrificando se stesso: si consegnò al vicario generale, probabilmente nel maggio del 1270. L'Etendart lo fece immediatamente accecare e poco tempo dopo impiccare sulla riva del mare presso Catania, facendogli però appendere accanto lo scudo in segno di rispetto per la dignità cavalleresca del Capece. Nell'obituario di S. Patrizia di Napoli, alla data del 21 giugno, si trova l'annotazione "Corrao, (!) Capece de Monacho" che forse si riferisce a lui. Il C. non lasciò discendenti.
Fra i nobili ghibellini dell'Italia meridionale che dovevano alla dinastia sveva la loro ascesa sociale e politica e ne sostenevano perciò il diritto di successione contro le rivendicazioni feudali del Papato, il C. fu indubbiamente il maggiore talento politico e militare. Lo dimostra soprattutto il progetto, da lui ideato nelle grandi linee, di attaccare la Sicilia dall'Africa settentrionale, colpendo in tal modo il regno angioino nel suo tallone d'Achille. Questo piano, che riprendeva un motivo caratteristico della politica sveva, fece vacillare ancora una volta la potenza di Carlo d'Angiò, ma portò anche, con il suo fallimento, alla rovina di Corradino, e, alla fine, all'esclusione quasi totale della nobiltà indigena dalla vita politica del Regno.
Il C. è la personalità storica che Giovanni Boccaccio aveva davanti agli occhi descrivendo le vicende di Beritola Caracciola e dei suoi figli (Decameròn II, 6).Nella novella il marito di Beritola è detto l'ultimo governatore di Manfredi nell'isola di Sicilia, il quale dopo la rovina di Manfredi cadde nelle mani di Carlo d'Angiò. Il fatto che il Boccaccio gli attribuì il nome di Arrighetto Capece ha creato parecchia confusione nella letteratura genealogica, dove spesso non viene riconosciuta l'identità di Arrighetto con il C. e in conseguenza si parla di due persone distinte.
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