PAVOLINI, Corrado
PAVOLINI, Corrado. – Nacque a Firenze l’8 gennaio 1898 da Paolo Emilio e Margherita Cantagalli.
Oltre che dall’importante opera culturale svolta dal padre o dal ruolo primario che ebbe il fratello Alessandro nel regime fascista, lo spessore della famiglia si evince anche dalle biografie dei due figli di Corrado: Luca (1922-1986), la cui esperienza politica maturò dapprima nell’area cattocomunista poi nel Partito comunista italiano (PCI), e Francesco (1925-1976) esperto di cinema e per anni – con lo pseudonimo Francesco Savio – capo redattore dell’Enciclopedia dello spettacolo.
La formazione giovanile di Corrado, squisitamente letteraria (fu allievo di Guido Mazzoni ed Ermenegildo Pistelli), venne presto integrata da specifici interessi per le arti figurative e sceniche, nella ricerca costante di un’armonia fra il rigore dei linguaggi adottati e i valori poetico-letterari delle opere affrontate. Nicola Caldarone – curatore di un suo diario giovanile degli anni 1915-20 – lo descrive come uno scrittore ignorato dalla «critica ufficiale perché ebbe il solo torto di essere il fratello del gerarca fascista Alessandro Pavolini» (Autobiografia effimera, 1990, p. 9).
Pur avendo vissuto direttamente il primo conflitto mondiale con il grado di sottotenente – fu ferito e imprigionato in Ungheria –, la guerra sembrò non condizionare la sua produzione poetica giovanile. «Queste giornate troppo piene di avvenimenti esteriori, di grida, di bande militari – scrisse in riferimento alle tensioni del 1919 – mi lasciano stordito e vuoto, distante da tutto» (p. 54). Tornato a Firenze, si avvicinò agli ambienti futuristi, diventando amico del pittore Primo Conti, con il quale fondò, nel febbraio 1919, il mensile Il Centone.
Le prime raccolte, Poesie (Firenze 1923) e Odor di terra (Torino 1928), con prefazione di Giuseppe Ungaretti, e Patria d’acque: poesie vecchie e nuove (Firenze 1933) mostrano un’esplicita adesione allo stile puro, neoclassico propugnato da La Ronda, al quale Pavolini coniugò un personale recupero di modelli ottocenteschi con liriche fondate su sentimenti e paesaggi quotidiani e familiari. Nel 1924 pubblicò il saggio F.T. Marinetti per l’editore Formiggini (Roma) e, cinque anni più tardi, le prose Elixir di vita nelle Edizioni di Solaria (Firenze 1929), in cui, fra l’altro, confessò di essersi «sempre incantato a guardare il cielo. Ho scritto sempre versi. Amore della famiglia e dell’ordine; senso delle gerarchie […] preferita sempre la campagna alla città. Patriottismo e disciplina. Pensiero frequente della morte; devozione ai miei morti. Pudore e tristezza». Queste tensioni verso la contemplazione poetica, l’ordine, la gerarchia probabilmente non furono estranee alla sua adesione al fascismo e ai suoi valori dominanti.
Nel 1921 sposò Marcella Hannau (di famiglia ebrea) – già collaboratrice di Silvio d’Amico e Nicola De Pirro alla rivista Scenario – e si trasferì a Roma dove collaborò come redattore artistico, cinematografico e letterario al quotidiano estremista fascista Il Tevere (1925-32), poi a L’Italiano di Leo Longanesi e a Il Selvaggio di Mino Maccari. Fra gli anni Venti e Trenta fu inoltre molto attivo anche nel campo della critica d’arte: nel saggio Cubismo, futurismo, espressionismo (Bologna 1926), oltre a fornire una prima rassegna critica di quei movimenti, emerge la sua personalità divisa fra slanci modernisti e restaurazioni del passato, tra avanguardia e tradizione. A partire dalla metà degli anni Trenta, l’attività di Pavolini si rivolse prevalentemente al teatro come regista, traduttore e critico teatrale.
Come autore teatrale aveva esordito nel 1926 con l’atto unico Eco e Narciso, quindi con il dramma La Croce del Sud, nel 1927, scritto insieme con Telesio Interlandi – già fondatore de Il Tevere – e con un preambolo di Luigi Pirandello, che lo mise in scena nello stesso anno; al 1930 risale I quattro pretendenti, cui seguirono La donna del poeta (1934), Ciro (1940, in collaborazione con Stefano Landi); e Bob e la farfalla (1956). Nel corso degli anni si specializzò nella traduzione dei grandi drammaturghi europei (tra cui Molière, Shakespeare, Victor Hugo, George Bernard Shaw) e soprattutto nella regia, sia lirica sia drammatica, alla quale si dedicò con incredibile intensità: l’attenta ricostruzione realizzata da Giulio Pacuvio per l’Enciclopedia dello spettacolo.elenca fra il 1936 e il 1944 ben ventinove sue regie di opere drammatiche (Shaw, Oscar Wilde, Henrik Ibsen, la drammaturgia italiana, perfino testi classici giapponesi) e quattordici allestimenti lirici.
Nel decennio finale del fascismo Pavolini collaborò con ruoli di primo piano alle più grandi manifestazioni culturali del regime, come la Biennale di Venezia e il Maggio musicale fiorentino. In tali occasioni apparve in stretto rapporto con Renato Simoni – insieme a Silvio d’Amico il più importante critico italiano del tempo – che praticò a lungo la regia teatrale.
Pur partendo da una formazione letteraria, Pavolini fu tra i primi in Italia ad affrontare la regia come esperienza artistico-culturale senza mai forzare il linguaggio in direzione dello spettacolo esteriore. Nel saggio Lo spettacolo teatrale (Firenze 1944) difese il ruolo primario del regista, «autentico creatore dell’opera d’arte sulla scena», in quanto interprete non letterale e non eccezionale, ma «naturale» dell’opera; e sostenne che il regista non dovesse essere specializzato solo nella regia teatrale: «io mi vergognerei a fare solo del teatro se fossi un riconosciuto uomo di teatro. Vivo nel teatro perché poeta; perché nutrito di arti figurative» (p. 27).
Nel 1940 venne nominato (praticamente da suo fratello Alessandro) direttore della Compagnia dell’Accademia, formata dai migliori giovani attori dell’Accademia nazionale d’arte drammatica creata da d’Amico, che si sforzò – anche con questo strumento – di realizzare un percorso riformatore della scena italiana. Da poco, infatti, Alessandro Pavolini era diventato ministro della Cultura popolare dedicando un’inedita attenzione governativa al cinema, al teatro, alla stampa, alla radio e diventando «uno degli uomini più forti del regime e dei più vicini a Mussolini. Attraverso il nuovo Direttore artistico la Compagnia e l’Accademia poterono sperare di giungere molto vicino al cuore del potere che tutto decide» (Giammusso, 1988, p. 68). Nell’ottobre 1940 Corrado Pavolini comunicò il programma produttivo della Compagnia dell’Accademia nel quale erano coinvolti giovani registi dell’Accademia, ma anche registi esterni. Su queste decisioni maturò una dura polemica con d’Amico che aveva creato la Compagnia dell’Accademia per favorire il passaggio al professionismo teatrale dei giovani allievi attori e registi. Pavolini, probabilmente, ipotizzò una svolta strategica della Compagnia proponendosi come primo regista e non solo come direttore dei giovani registi accademici. Allora d’Amico si rivolse al ministro dell’Educazione Bottai e Pavolini si dimise; ma già nel 1941-42 accettò la direzione della Compagnia primaria Laura Adani-Filippo Scelzo-Ernesto Sabbatini invitando a collaborarvi i migliori allievi dell’Accademia. A quel punto nel giugno 1941 d’Amico liberò da ogni opzione gli attori diplomati alla sua scuola ponendo fine, di fatto, a quel progetto.
Nella regia lirica – dopo il fortunato debutto a Firenze nel 1927 con L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi insieme al giovane regista sperimentale Giorgio Venturini – si specializzò nel repertorio comico settecentesco realizzando anche trionfali tournées in Francia, Gran Bretagna, Svezia. Anche nel campo cinematografico la sua esperienza fu notevole in quanto cosceneggiatore di film diretti da Alessandro Blasetti (Un’avventura di Salvator Rosa, 1940; La corona di ferro, 1941; Quelli della montagna, 1943), da Renato Castellani (Un colpo di pistola, 1942) e altri. Pavolini fu anche giornalista, critico di teatro, di cinema e arti figurative collaborando a L’Italia letteraria dal 1930 al 1948 (che diresse dal 1931 al 1934), Film (1939-40), Primato (1940), Epoca (1950-51); e ancora redattore capo di Intercine (1935) e di Cinema (1936-38) segnalandosi nel 1935-36 come docente di estetica al nuovo Centro sperimentale di cinematografia, altra struttura culturale creata dal fascismo nel suo progetto di modernizzazione autoritaria dell’organizzazione culturale italiana. Sono anni in cui molti suoi testi mostrarono un’evidente condivisione delle scelte ufficiali del regime; ad esempio in Germania svegliati (Roma 1931), un reportage giornalistico per conto de Il Tevere dove, nel 1931 – in piena espansione del nazismo – aveva criticato la «bassa politica democratica fatta in questi ultimi anni, così nociva per una Germania anelante a riprendere il suo posto e la sua indipendenza nel mondo» (Germania svegliati, cit., p. 80). In quell’occasione previde l’affermazione in Germania «d’un esperimento originalissimo» guidato da Adolf Hitler e concluse che «condurrà il suo esperimento sino in fondo, perché non si ferma un popolo in marcia» (p. 137). Analogamente nel saggio Per un teatro di domani (in S. d’Amico et al., Storia del teatro italiano, con introd. di L. Pirandello, Milano 1936, pp. 347-367) indicò nella marcia su Roma (1922) il momento di svolta della storia italiana, inneggiando alla «geniale suggestione mussoliniana» del “teatro di masse” e a tutte le novità introdotte dal fascismo nell’organizzazione teatrale italiana (dalla Corporazione dello spettacolo all’Ispettorato del teatro, dall’impulso ai teatri universitari ai vari Carri di Tespi) concludendo che «in questo senso il teatro di domani non potrà essere se non per le masse: dal momento che il singolo è ormai una nota di quell’armonia, un elemento atomico di quello stato musicale collettivo, che ha reso possibile il miracolo del Fascismo» (in S. d’Amico et. al., Storia del teatro italiano, cit., p. 366).
All’indomani della seconda guerra mondiale la sua presenza nello spettacolo dal vivo si ridusse notevolmente a favore della radio (dal 1950 diresse oltre 150 trasmissioni) e della televisione dove firmò varie opere teatrali.
In campo teatrale si dedicò a iniziative editoriali anche importanti come la cura dell’antologia Tutto il teatro di tutti i tempi (I-III, Roma 1953) in cui racchiuse in settanta opere «il fiore del teatro mondiale di ogni tempo». Il percorso parte dal Prometeo incatenato di Eschilo e finisce con L’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht escludendo incredibilmente Pirandello. Dopo le violenze della guerra l’obiettivo della pubblicazione fu un «compendio di storia dello spirito umano [...] un’educazione indiretta dell’anima [...]. Dopo una tale orgia di “manifesti” e tante pubbliche dichiarazioni di estetica le opere oggi ci interessano ben più per il loro risultato d’arte che per la loro appartenenza a una corrente determinata» (Tutto il teatro di tutti i tempi, cit., p. XI). Nella ricerca di «interessi poetici universali» si concentrò la fase finale dell’intero percorso intellettuale di Pavolini.
Ritiratosi a Cortona (Arezzo), nel 1957 fondò il Centro studi sulle origini del teatro italiano e realizzò molti allestimenti negli anni Sessanta e Settanta.
Pavolini morì a Cortona il 10 aprile 1980.
Opere. Fra le opere non citate nel testo: Scenografia e arti figurative, in Cinquant’anni di teatro in Italia, Roma 1954, ad ind.; Autobiografia effimera (postumo), a cura di N. Caldarone, prefazione di G. Manacorda, Roma 1990.
Fonti e Bibl.: N. Caldarone, C. P. e la poesia del ’900, Roma 1978; G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Bologna 1994, ad ind.; M. Pavolini Hannau, Cinquantanove anni meno un giorno, Cortona 1983; M. Giammusso, La fabbrica degli attori. L’Accademia nazionale d’arte drammatica, storia di cinquant’anni, Roma 1988.