Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La parabola artistica di Correggio si consuma negli anni in cui il Rinascimento maturo volge verso la civiltà della Maniera. In questo contesto, egli elabora una cultura figurativa alternativa al classicismo raffaellesco e al tonalismo veneto, fino alle forzature manieriste. Seppur attivo in ambito provinciale, Correggio è stato uno dei più grandi innovatori, capace di imprimere una svolta all’arte del Cinquecento, e costituisce una sorta di premessa allo sviluppo dell’arte dei Carracci, alla rinascita del naturalismo di fine secolo e, soprattutto, al Barocco.
Correggio e la grande decorazione sacra
Antonio Allegri nasce nel 1489 a Correggio, nei pressi di Parma, cittadina al tempo sede della piccola e omonima corte. Della sua prima attività e formazione non si sa molto, ma una parte di questa deve essersi compiuta nella Mantova dei Gonzaga e di Andrea Mantegna, pittore di quella corte. Testimonia ciò una delle sue prime opere, la Natività con i santi Elisabetta e Giovannino (1512, Milano, Pinacoteca di Brera), che documenta la conoscenza del chiaroscuro mantegnesco e del paesaggismo di matrice veneta. Già in questa occasione il giovane Correggio dimostra però la sua inclinazione a interpretare in chiave sentimentale la natura, seguendo il classicismo emiliano di Lorenzo Costa – pittore di corte dei Gonzaga a Mantova dopo la morte del Mantegna nel 1506 – e lo sfumato di Leonardo.
Ma l’esperienza fondamentale per Correggio è costituita dal contatto con Roma e dall’incontro con Raffaello. Tra il 1512 e il 1516 giungono infatti in Emilia due opere fondamentali del pittore urbinate, la Madonna Sistina a Piacenza e la Santa Cecilia a Bologna. Soprattutto la prima pare aver lasciato nel pittore tracce indelebili, convincendolo della necessità di articolare la rappresentazione dello spazio sacro come un’apparizione sorprendente. Attesta questo incontro la Madonna di san Francesco (1514-15, Dresda, Gemäldegalerie), già nell’omonima chiesa di Correggio, dove i riferimenti a Mantegna, Costa e Leonardo vengono declinati in una chiave ancor più dolce, ma anche più monumentale e teatralizzante.
La visione delle opere di Raffaello in Emilia deve aver fatto maturare l’esigenza di un viaggio a Roma. Non esistono tracce documentarie di questo soggiorno, eppure gli affreschi della camera di San Paolo, eseguiti nel 1519 nell’omonimo monastero di Parma, impongono di credere, come per primo ha ipotizzato Roberto Longhi, nell’esistenza di questo "pellegrinaggio artistico" e ne suggeriscono la datazione entro il 1518. A Roma Correggio trova una città in pieno fermento per le iniziative di papa Leone X : Raffaello ha già realizzato buona parte delle Stanze Vaticane, da tempo è visibile la volta della Cappella Sistina dipinta da Michelangelo per volontà di Giulio II. Non è solo la contemporaneità a fornire stimoli: le continue scoperte archeologiche segnano la nascita di una cultura filologica fino ad allora sconosciuta e di una nuova idea di classicismo.
Le impressioni registrate durante questo viaggio vengono "tradotte" in immagini negli affreschi della camera della badessa Giovanna Piacenza nel convento di San Paolo a Parma.
L’apparato iconografico, dai raffinati connotati umanistici, è incentrato sul mito di Diana, per precisa richiesta della committente, mentre a Correggio spetta il merito di aver concepito l’ambiente come un organismo illusorio: su un fregio che simula il marmo si aprono delle arcate che fingono la presenza di lunette animate da sculture; al di sopra di queste si sviluppa sull’intera volta a ombrello un pergolato a spicchi, dove si aprono ovali a cielo aperto in cui piccoli putti giocano festanti.
La decorazione si pone come nuovo esempio di classicità “evocata ma non citata” (Riccomini) per l’area padana. Gli esempi di Raffaello visti a Roma (soffitto della cappella Chigi in Santa Maria del Popolo e volta di Psiche alla Farnesina; prime arcate delle Logge Vaticane) e, forse, di Leonardo a Milano (volta della sala delle Asse, Castello Sforzesco), vengono riproposti fra tradizione e innovazione.
Il ciclo decorativo culmina con la figura di Diana dipinta sul camino, la quale appare allo spettatore mentre solca le nubi sul cocchio: l’imponenza ma anche la dolcezza di questa dea piacerà moltissimo a fine del secolo ad artisti come Annibale Carracci che, proprio a Parma, resterà folgorato dalla visione delle opere di Correggio.
Dal punto di vista dello stile, il salto compiuto dall’artista nel giro di pochi anni è sbalorditivo: partito dalle durezze mantegnesche, approda a forme e figure morbide e carnali, attualizzando con i mezzi espressivi della maniera moderna gli aspetti più ludici dell’antico.
Sebbene ambiente privato e di clausura, l’apprezzamento per la Camera della Badessa deve essere stato notevole negli ambienti religiosi parmensi. Nel 1520 Correggio riceve la sua prima commissione pubblica: l’incarico di decorare la cupola della chiesa benedettina di San Giovanni Evangelista con la visione dell’Evangelista a Patmos (terminata nel 1524).
Correggio risolve questa commissione portando a una dimensione monumentale lo sperimentalismo illusionistico della Camera della Badessa, con un’invenzione destinata a segnare la storia dell’arte dei decenni a venire: egli abolisce del tutto le finte architetture tanto nella volta quanto nei pennacchi e rappresenta la Visione di san Giovanni in modo inedito, presentando le figure fortemente scorciate come se si librassero davvero nell’aria. Il santo in basso, a mezza figura e "ancorato" alla vera cornice della cupola, osserva stupefatto i dodici apostoli disposti in circolo su morbide nuvole e la figura di Cristo che si libra in una luce irreale al centro della composizione. In questa opera grandiosa Correggio riesce a fondere le più recenti ricerche artistiche – la monumentalità di Michelangelo, la morbidezza pittorica di Tiziano, la "rappresentazione come epifania" di Raffaello – elaborando un modello che costituirà in età barocca, attraverso la figura del parmense Giovanni Lanfranco, una premessa fondamentale per la rappresentazione dello spazio barocco come un continuo fluido.
Tra il 1526 e il 1530 Correggio si dedica a un’altra grandiosa impresa: la decorazione della cupola del duomo di Parma, la cui commissione risaliva già al novembre del 1522. In un ambiente ancora più monumentale il pittore porta le premesse insite nella Visione di san Giovanni alle estreme conseguenze, costruendo una vera e propria macchina pittorica teatrale dove quasi si stenta a riconoscere il tema dell’ Assunzione della Vergine. La Madonna è, infatti, raffigurata in una prospettiva insolita per quei tempi, vista dal basso e in modo ardito, circondata da una luce intensa. Attorno a essa, quasi in un movimento elicoidale, una vera e propria folla di santi, apostoli e angeli amplificano l’evento guidando lo sguardo dello spettatore dai limiti fisici della cupola verso l’infinito, dando forma visiva al concetto spirituale di "ascesa". Le notevoli dimensioni della cupola non paiono aver creato difficoltà all’artista, il quale realizza l’opera dopo aver studiato attentamente gli effetti prospettici e cromatici che l’intera composizione comporta vista dal basso. La pittura si fa ancora più fusa, eppure le figure possiedono una consistenza che rende unica e inimitabile l’arte di Correggio nel panorama di quegli anni.
I dipinti degli anni Venti
Correggio non è stato solo uno dei più innovativi e sorprendenti decoratori ad affresco del Cinquecento, è anche il pittore da cavalletto capace di dipingere pale d’altare tra le più soavi, commoventi del secolo. Apre la serie l’incantevole e raffinatissimo Ritratto di dama (1520, San Pietroburgo, Ermitage) – nella cui effige si è talvolta identificata la poetessa Veronica Gambara oppure, più probabilmente, Ginevra Rangoni, vedova di Aloisio Gonzaga marchese di Castel Goffredo –, tra i più alti esempi della ritrattistica rinascimentale della prima metà del secolo.
La grande capacità di rappresentare il moto degli affetti è esemplificata dalla Madonna della cesta (1523-1524, Londra, National Gallery), nella quale, grazie alla prodigiosa tecnica che fonde forme e colore, l’artista immortala una giovanissima Madonna, sorridente e dolcissima, mentre veste con qualche difficoltà il Bambino sgusciante. Questo dipinto riscuoterà il plauso di artisti come Giorgio Vasari e Federico Barocci, e quello del vescovo di Milano Federico Borromeo che, alla fine del Cinquecento, commissionerà una copia per la propria collezione.
Nel Compianto su Cristo morto e nel Martirio dei santi Placido e Flavia (1524 ca., Parma, Galleria Nazionale), dipinti in origine per la cappella del Bono in San Giovanni Evangelista a Parma, l’artista si misura con la rappresentazione del dramma più intenso e sconsolato nella prima e con quella della violenza nella seconda. In entrambi i casi, il fine è quello di coinvolgere in modo empatico lo spettatore, facendolo partecipare emotivamente alla rappresentazione del tema sacro.
Attorno alla metà degli anni Venti l’artista ha la possibilità di cimentarsi con soggetti mitologici grazie al conte mantovano Nicola Maffei. Sembra essere stato quest’ultimo, infatti, a commissionargli l’ Educazione di Cupido (Londra, National Gallery) e Venere e Amore spiati da un satiro (noto anche come Giove e Antiope, Parigi, Musée du Louvre), dipinti che confluiranno poi nelle collezioni dei Gonzaga a Mantova. Qui Correggio muta il suo linguaggio, impiegando le sue doti di pittore per evocare un’elegante ma esplicita sensualità, celebrando, nel caso del sinuoso corpo di Venere scoperto dal satiro, sensazioni di puro desiderio come raramente era accaduto di vedere in pittura prima di allora.
Si scalano invece tra il 1525 ed il 1530, parallelamente alla decorazione del duomo di Parma, tre grandi dipinti d’altare che costituiscono i capolavori del Correggio in questo genere.
Nella Madonna di san Girolamo (1526-28, Parma, Pinacoteca Nazionale), dipinta in origine per la cappella della famiglia Bergonzi in Sant’Antonio e nota anche come Il Giorno, il tema sacro diviene un vero e proprio gioco tra i movimenti dei personaggi e l’espressione dei sentimenti, come si nota se si osserva il gesto della Maddalena che abbraccia teneramente la gamba di Gesù Bambino, o quello dell’angelo che porge il libro, “il quale par che rida tanto naturalmente che muove a riso chi lo guarda, né lo vede persona di natura malinconica che non si rallegri” (Vasari). Dipinta per la cappella Pratonieri in San Prospero a Reggio Emilia, la celeberrima Notte – ovvero l’Adorazione dei pastori (1527-1530, ora a Dresda, Gemäldegalerie) – recupera parzialmente la struttura compositiva del Giorno per creare una ambientazione poetica, illuminata dal corpo del piccolo Gesù. La luce si riverbera su gesti, oggetti e persino nell’atmosfera, creando un effetto magico e sovrannaturale che aderisce perfettamente al racconto.
Chiudono questa serie di dipinti d’altare il Riposo dalla Fuga in Egitto, noto anche come Madonna della scodella (1526-1530, Parma, Pinacoteca Nazionale, già nella chiesa del Sacro Sepolcro), e la Madonna di san Giorgio (1530 ca., Dresda, Gemäldegalerie, già in San Pietro Martire a Modena). In entrambe le opere, pur nella loro diversità, l’artista lega sensazioni intimiste a un fare pittorico più ricco e corposo che, sull’esempio del Tiziano dei Baccanali, risente anche della propria esperienza protobarocca nella decorazione della cupola del duomo.
Le ultime opere: l’esplosione della sensualità
Giunto alla piena maturità, attorno al 1530 e a soli quattro anni dalla morte, Correggio riceve importanti commissioni per la corte dei Gonzaga a Mantova. Per Isabella d’Este realizza l’Allegoria del Vizio e l’Allegoria della Virtù (1531 ca., Parigi, Louvre), destinati al celeberrimo studiolo che già esponeva i dipinti di Andrea Mantegna, Lorenzo Costa, Pietro Perugino, Giovanni Bellini e Tiziano, nei quali si registra un progressivo affinamento dei mezzi pittorici, finalizzati a restituire il dato naturale attraverso forti contrasti tra fonti di luce.
Su questa via giungono gli ultimi capolavori, eseguiti probabilmente per il duca di Mantova Federico II Gonzaga. Si tratta degli Amori di Giove, quattro dipinti – ma non è da escludere che il progetto ne prevedesse di più – nei quali Correggio riprende le sofisticate ma carnali atmosfere di Venere e Amore spiati da un satiro. Stando ad alcune fonti, il ciclo nasce come dono diplomatico da parte del duca di Mantova all’imperatore Carlo V in occasione della incoronazione a Bologna del 1530 (o, come sostengono altri studiosi, in concomitanza del secondo soggiorno italiano del 1532-1533), anche se sappiamo che la serie giunge in Spagna a date più tarde. Quel che appare certo è invece il livello di assoluto controllo del mezzo pittorico raggiunto da Correggio nelle quattro tele, accoppiate per forma, dimensioni e temi rappresentati: la Leda e il cigno (1531 ca., Berlino, Gemäldegalerie) e la Danae (1531-1532, Roma, Galleria Borghese), il Ratto di Ganimede e Giove e Io (1531-1532 e 1532-1533, entrambi a Vienna, Kunsthistorisches Museum), dove la tensione naturalistica si scioglie in calibrati contrappunti e in evocazioni di natura erotica.
La raffinatezza generale di queste ultime realizzazioni segna anche l’avvicinamento di Correggio alla stagione della Maniera, seppur con la gioiosa vitalità tipica dell’autore emiliano. Proprio descrivendo queste opere nelle Vite, Giorgio Vasari ne esalterà la "vaghezza" – la "beltà", per dirla con Benedetto Varchi) –, categoria critica che nel vocabolario vasariano equivale ai concetti moderni di bellezza e armonia delle proporzioni, ponendo il primo tassello di quell’idea di Correggio come pittore della grazia che tanta fortuna godrà in epoca romantica.