MIGRATORIE, CORRENTI
Le migrazioni etniche. - L'esempio storico più noto di grandi migrazioni etniche è quel complesso di movimenti di popolazioni che nella storia europea va sotto il nome d'invasioni barbariche e si svolge fra il sec. II e l'XI dell'era nostra. Ma indubbiamente più grandioso, se anche di solito (ma non sempre) ha assunto forme meno violente e drammatiche, è il fenomeno della disseminazione degli Europei in tutto il mondo dal sec. XV in poi (e, parimenti, dei negri e di molti gialli), al quale si devono forse le più rapide e radicali sostituzioni di razze, di popoli e di culture che siano mai avvenute nella storia dell'uomo. E la più antica storia orientale classica non è un continuo alternarsi e muoversi di popoli sulla scena del più ristretto mondo antico? Giustamente perciò F. Ratzel ha considerato il movimento etnico come uno dei fatti fondamentali della storia dell'umanità e ne ha fissato le leggi principali rispetto al suolo e all'ambiente geografico. Raccogliendo una teoria zoologica di M. Wagner egli esprime la convinzione che, oltre a determinare un complesso di modificazioni immediate quando si svolgono in territorî già popolati, la migrazione sia anche l'occasione dell'apparire delle nuove forme, stimolate dal nuovo ambiente e protette dall'isolamento geografico, e quindi uno dei processi e dei moventi principali dell'evoluzione organica. Teoria che nemmeno oggi può essere abbandonata e si può anzi applicare utilmente anche all'evoluzione dei prodotti umani, il linguaggio o la cultura.
Ricostruire la storia delle migrazioni etniche equivarrebbe, dunque, al ricostruire l'intera storia dell'uomo; ma, fuori dei moti etnici controllati e documentati storicamente, una siffatta ricostruzione, anche parziale per determinati periodi di tempo o per date regioni, è estremamente difficile. I mezzi di accertamento di un'avvenuta migrazione etnica sono molteplici, ma tutti malsicuri: non bastano le evidenze del linguaggio, perché una lingua straniera si può imporre con notevole facilità su intere popolazioni, con uno spostamento minimo d'individui; non le evidenze della cultura, come ben dimostra tutta la storia delle teorie archeologiche o etnografiche, perché gli oggetti e i costumi si diffondono anche per semplice contatto, e c'è poi sempre una forte tendenza ad ammettere che oggetti e costumi similissimi possano crearsi dall'uomo in diversi luoghi in modo del tutto indipendente. Restano le prove che possono essere fornite dai caratteri fisici, che dovrebbero essere risolutive. Ma, anzitutto, per la documentazione di moti umani avvenuti in passato e dei quali gli avvenimenti successivi abbiano ormai obliterato in tutto o in gran parte gli effetti, le evidenze antropologiche (resti umani, iconografia, ecc.) mancano o sono molto frammentarie e lacunose. Se dovessimo, p. es., ricostruire le invasioni barbariche in Italia con il solo sussidio dei resti ossei rinvenuti nelle tombe o nei terreni archeologici di "età barbarica", saremmo ben imbarazzati. Dove poi anche la documentazione è abbondante e ininterrotta, come nell'antico Egitto, la presenza di forme nuove lascia sempre il dubbio che, oltre ai movimenti etnici, siano entrati in gioco fenomeni locali di evoluzione o affinamento. Tuttavia il poter accertare chiaramente un elemento somatico estraneo al tipo comune e noto di una data popolazione, oggi o in un qualsiasi passato, è ancora la documentazione più sicura di un avvenuto movimento etnico, e le incertezze potranno tutt'al più sussistere nello stabilire le affinità esterne e la particolare provenienza dell'elemento riconosciuto come immigrato.
Occorre tenere conto di queste difficoltà di accertamento, quando si vogliano ricostruire le maggiori migrazioni etniche esostoriche. I dati più abbondanti in proposito sono però indubbiamente costituiti dall'attuale distribuzione delle varietà somatiche dell'uomo, delle sue lingue e delle sue culture. Questo materiale è prezioso e può fornire molti elementi sicuri: ma vuole essere analizzato con abilità, soprattutto perché le sue evidenze devono vincere le molto diffuse tendenze polifiletiche o le concezioni ologenetiche (v. evoluzione), le quali, essendo sorte per risolvere le molte oscurità e difficoltà inerenti ai movimenti spaziali degli organismi, finiscono col negare, contro tutte le evidenze storiche, anche le migrazioni umane e tolgono quindi ogni interesse al problema.
Lo studio della distribuzione dell'uomo e dei suoi prodotti ha posto, comunque, in rilievo una serie di fatti sui quali gli studiosi sono generalmente d'accordo. Si ritiene, p. es., sicuro che l'America sia stata popolata dall'uomo dopo le altre grandi aree continentali e da forme umane non più molto primitive. Si è osservato, inoltre, che tutti i continenti e specialmente quelli australi, presentano nelle loro plaghe periferiche e terminali residui di varietà umane arcaiche o di culture primitive, che vi appaiono respinti dalla pressione delle forme più recenti venute da fuori; e il grande blocco continentale eurasico è apparso come uno dei maggiori centri d'irradiamento di tali forme più recenti e progredite (Biasutti) e anzi, secondo taluni, fino dall'inizio della storia degli Ominidi, il centro di origine e di diffusione delle principali forme dell'uomo (Matthew, Giuffrida-Ruggeri, Taylor). Perciò alcune direzioni principali delle più antiche migrazioni etniche si possono ancora ricostruire. Altrettanto evidente è il significato che assume la distribuzione su aree assai vaste e continue di certe famiglie linguistiche: Indoeuropei, Maleo-Polinesiani, Bantu, ecc. Non c'è dubbio che in questi casi siamo in presenza degli effetti di vaste energie etniche in movimento: ma quante incertezze nei particolari di tempo e di luogo e quanta difficoltà, soprattutto, di localizzare la prima spinta, identificare la prima massa migrante e le altre che gradatamente hanno ricevuto e propagato il moto: perché in questa propagazione si sono naturalmente mutati, per lo più, i portatori, la loro composizione somatica e le loro culture. Le migrazioni marittime dei Polinesiani sono state, p. es., ricostruite da Percy Smith sui dati delle tradizioni indigene e si sarebbero svolte fra i secoli VII e XIV d. C.: ma egli non ha potuto raccogliere alcun indizio dei loro approdi sulle coste americane, dei quali, per tanti altri fatti, è ormai impossibile dubitare.
Non si è mancato di porre in relazione le migrazioni etniche con le trasformazioni fisiche dell'ambiente. Siamo con ciò a considerare anche le cause delle migrazioni stesse. Le quali, tuttavia, qualunque forma eventualmente assumano, si possono sempre ricondurre al fenomeno biologico della crescenza, e quindi della spinta irresistibile all'espansione e alla diffusione, dei gruppi umani che si trovano in condizioni normali di sviluppo. Ma s'intende pure facilmente come una modificazione anche lieve delle condizioni dell'ambiente possa alterare l'equilibrio vitale delle società, e specie di quelle primitive, e provocare alla fine grandi moti etnici. È indubitato, p. es., che gli episodî di avanzata e di ritiro delle ultime glaciazioni quaternarie, delle quali l'uomo era ormai testimone, dovettero mutare profondamente più volte il popolamento delle grandi regioni continentali dell'emisfero boreale. E le oscillazioni climatiche che hanno accompagnato il ritiro dell'ultimo periodo glaciale si sono protratte sino all'alba dei tempi storici. Così dovette essere recentissimo, per così dire, il popolamento delle grandi solitarie foreste del nord; e molto recente anche il popolamento dei grandi deserti tropicali. A questi, e specialmente ai territorî aridi dell'Asia centrale, si è voluto dare anche una parte direttiva principale nelle migrazioni etniche degli ultimi millenni (E. Eickstedt), in vista soprattutto della supposta continuazione di oscillazioni climatiche anche durante l'età storica (E. Huntington): e tali "pulsazioni" del clima sarebbero, in ultima analisi, responsabili della maggior parte degli avvenimenti umani.
È da ritenere però che si tenda a esagerare in questa interpretazione. I grandi spazî erbosi o desertici sono certamente territorî di grande mobilità etnica e di energie etniche irradianti tutt'all'intorno: soprattutto perché il movimento etnico vi è facile. Ma d'altra parte, per la natura stessa di tale ambiente, la popolazione non vi ha potuto essere che molto rada e poco atta a fornire il materiale umano per notevoli masse in movimento. La forza di espansione dei gruppi umani delle steppe eurasiche si deve alla domesticazione del cavallo e allo sviluppo della cultura pastorale organizzata sulla base della grande famiglia patriarcale; si deve cioè a fatti relativamente poco remoti della storia della civiltà. In questa fase storica è probabile che oscillazioni climatiche, anche lievi, abbiano dato la spinta a grandi moti etnici, a cominciare dal supposto periodo arido e caldo dell'età del bronzo (Fleure), che sembra segnare anche la comparsa delle prime masse di cavalieri in Europa. In modo analogo, la mobilità etnica e l'energia bellica degl'Indiani delle praterie nordamericane e delle pampas dell'America Meridionale, si poté svolgere pienamente soltanto dopo l'introduzione e l'adozione del cavallo.
Vi è del resto un'opinione corrente che attribuisce ai gruppi umani primitivi la massima tendenza e facilità ai movimenti etnici, mentre la civiltà avrebbe portato una crescente stabilità. Ciò non pare esatto. I primitivi sono molto mobili ed erranti, ma in spazî ben determinati dai quali escono solo in casi eccezionali: nelle fasi inferiori di civiltà il moto etnico appare estremamente lento e frammentario e con queste qualità dobbiamo concepire anche gli spostamenti secolari dei cacciatori di renne che seguivano il graduale ritiro della tundra e degli animali polari verso il nord, alla fine dell'ultimo periodo glaciale, e tutte le migrazioni umane primitive. I movimenti etnici si fanno rapidi e violenti con l'organizzazione delle grandi tribù, col progredire dell'istinto politico, col perfezionarsi delle armi per la guerra. E le maggiori migrazioni etniche sono state certamente, per la rapidità e la potenza delle masse in movimento, quelle avvenute nel periodo storico.
Bibl.: F. Ratzel, Geografia dell'uomo, Torino 1914; P. S. Smith, Hawaiki, 1904; R. Biasutti, Situazione e spazio delle provincie antropologiche nel mondo antico, Firenze 1906; E. Huntington, The Pulse of Asia, New York 1907; A. C. Haddon, The Wanderings of peoples, Cambridge 1911: W. D. Matthew, Evolution and climate, in Ann. New York Acad. of Sciences, XXIV (1915); V. Giuffrida-Ruggeri, Su l'origine dell'uomo, Bologna 1921; Gr. Taylor, Environment and race, Londra 1927; H. J. Fleure, Racial distribution in the light of archeol., in Bull. of the John Rylands Library, XVII, Manchester 1933; E. von Eickstedt, Rassenkunde u. Rassengesch. d. Menschheit, Stoccarda 1934 (contiene, in varie parti dell'opera, una trattazione sistematica dell'argomento, con bibl.).
Migrazioni internazionali.
Nel corso dell'età moderna e soprattutto contemporanea, sia per la maggiore facilità dei mezzi di trasporto, sia per la più larga diffusione di notizie sulle condizioni di altri paesi, il fattore economico, in relazione anche alla sua crescente importanza in ogni campo della vita sociale, è andato sempre più affermandosi tra le cause di correnti migratorie, fino a divenire assolutamente prevalente; ed è per questo che, comunemente, per emigrazione si intende l'espatrio a scopo di lavoro e, corrispettivamente, per immigrazione, l'arrivo e lo stabilimento in territorio nazionale di lavoratori stranieri. In quest'accezione, di libera e pacifica circolazione di uomini da un paese all'altro, determinata da un dislivello tra le condizioni economiche esistenti nei paesi stessi, le migrazioni costituiscono una delle funzioni permanenti dell'organismo sociale, in quanto attenuano i locali squilibrî tra densità della popolazione e risorse naturali, e si devono considerare come una necessità dello sviluppo demografico e del progresso umano.
Ma se da questa valutazione complessiva dei movimenti migratorî si passa a considerare la natura e gli effetti di particolari correnti di emigrazione e d' immigrazione, ben si comprende come le opinioni prevalenti nei singoli paesi possano non solo da essa differire, ma anche trovarsi tra loro in aperto contrasto ed essere soggette a rapidi e radicali mutamenti. Non ci si può quindi rendere conto dei varî atteggiamenti assunti dai governi interessati senza conoscere le conseguenze che dal fenomeno migratorio derivano nei singoli casi, a seconda delle circostanze in cui esso si produce e delle caratteristiche che lo contraddistinguono.
In genere si può dire che l'emigrazione originata da transitorî squilibrî tra domanda e offerta di mano d'opera - come spesso avviene nelle fasi di transizione, specie nel passaggio dall'economia agricola all'industriale - può risultare di grande utilità ai paesi di origine. Essa, infatti, decongestionando il mercato del lavoro e attenuando la disoccupazione, eleva il tenore di vita dei restanti e permette un incremento, o per lo meno evita un rallentamento, nel ritmo demografico e nell'accumulazione del risparmio e crea, inoltre, a favore della patria, un flusso di nuovi capitali sotto forma di rimesse; agevola quindi, in varî modi, il superamento della crisi e affretta il momento in cui il paese sarà nuovamente in grado di dare lavoro e pane a tutti i suoi figli. Quando il suddetto squilibrio ha però carattere permanente, bisogna distinguere se il paese avrebbe o no la possibilità di eliminare l'eccesso di popolazione, mediante trasformazioni della propria economia o acquisto di nuovi sbocchi, poiché, nel primo caso, l'emigrazione, attenuando le dolorose conseguenze della disoccupazione, non fa che ritardare il ricorso a rimedî più radicali e si traduce in una perdita cronica di energie suscettibili di essere produttivamente impiegate in patria.
Diversamente valutabili sono pure le conseguenze che l'emigrazione può avere sul commercio estero del paese d'origine, a seconda che il movimento si diriga o no a territorî in qualche modo legati a esso e quindi non protetti contro le sue merci, poiché, nel primo caso, produce quasi sempre un aumento dell'esportazione dalla madrepatria, per la richiesta di merci nazionali da parte degli emigrati, e, nel secondo, si può anche tradurre in una diminuzione, qualora espatrino operai qualificati o comunque in grado di suscitare nei paesi d'arrivo industrie concorrenti a quelle nazionali.
Bisogna tenere conto, inoltre, della composizione qualitativa delle correnti emigratorie (età, sesso, professione, condizione economica, livello culturale, ecc.) e distinguere soprattutto l'emigrazione di proletarî da quella di colonizzatori, poiché, mentre l'espatrio dei primi (generalmente maschi, adulti, braccianti o operai non qualificati, sprovvisti di capitale e di cultura) è di regola transitorio e dà luogo a un flusso di rimesse e di rimpatrî, i secondi (che partono muniti di capitali e di preparazione tecnica, accompagnati o seguiti a breve distanza dalle loro famiglie) tendono a fissarsi definitivamente nelle nuove sedi, impoverendo la patria di uomini e di capitali. Fa eccezione, s'intende, il caso di emigrazioni in colonie o altri territorî comunque legati al paese d'origine, dove il formarsi di forti nuclei di cittadini assicura alla madrepatria il dominio e avvantaggia la sua espansione commerciale e culturale.
Varie sono pure le conseguenze dell'immigrazione nei paesi d'arrivo, a seconda soprattutto della fase di sviluppo in cui i paesi stessi si trovano. Quando infatti esistono ancora terre libere o scarsamente coltivate, e quando l'attrezzatura industriale è sul nascere, l'immigrazione, specie se munita di capitali, è quanto mai desiderabile. Quando invece il paese è già saturo e la sua struttura economica consolidata, l'afflusso di mano d'opera straniera non fa che turbare il mercato del lavoro e suscitare reazioni da parte dei lavoratori nazionali, che non vogliono vedere ridotto il loro tenore di vita; e se, per il prevalere degl'interessi dei datori di lavoro su quelli dei lavoratori, non viene ostacolato, causa sovraproduzione e disoccupazione e finisce col creare nei paesi d'arrivo condizioni di squilibrio analoghe a quelle da cui ha tratto origine. E poichè è l'immigrazione stessa che, dando impulso all'incremento demografico e allo sviluppo economico del paese d'arrivo, concorre in molti casi ad accelerare il passaggio dalla prima alla seconda fase considerata e a mettere quindi in atto le condizioni che renderanno poi intollerabile la sua persistenza - così come è l'emigrazione che facilita in molti casi il formarsi, nel paese d'origine, di una situazione capace di riassorbire l'eccesso di popolazione - è stato detto appunto che ogni corrente emigratoria ha in sé stessa i germi della propria negazione (G. Pertile).
Anche nei riguardi dei paesi d'arrivo ha grande importanza la composizione qualitativa del flusso migratorio e i loro interessi sono naturalmente in contrasto con quelli dei paesi d'origine, specie per quel che riguarda la durata dell'espatrio. Per essi è, infatti, soprattutto vantaggiosa l'immigrazione permanente, che si traduce in un definitivo acquisto di uomini e nella conservazione dei frutti del loro lavoro e dei loro capitali iniziali. S'impone quindi per il paese d'immigrazione l'esigenza dell'assimilazione (che involge però il problema dell'affinità etnica, su cui si fonda in gran parte, come vedremo, la selezione tra elementi desiderabili e indesiderabili), mentre conservare i vincoli che legano gli emigrati alla patria è essenziale per il paese di origine. Solo in un caso i due paesi possono prescindere da questa preoccupazione, e, cioè, quando si tratti di emigrazione stagionale, la quale spontaneamente fluisce e rifluisce da un mercato all'altro, e, proprio per questa sua natura, produce in entrambi effetti benefici, attenuando i momentanei periodici squilibrî.
Si disputa circa il diritto degli stati a intervenire nei fenomeni migratorî. Mentre infatti alcuni, partendo dal principio della libertà individuale, ritengono che il cittadino abbia un diritto naturale incoercibile di spostarsi da un paese all'altro, altri riconoscono invece allo stato, in base a un diritto di sovranità assoluta, anche la facoltà di regolare e vietare l'espatrio di cittadini o l'introduzione di stranieri. Molti però, fra i due estremi, accedono a una teoria intermedia, per cui il diritto dell'individuo trova un limite nel diritto di conservazione degli stati e il diritto di ogni stato a sua volta è limitato dal diritto degli altri stati. È questa la teoria che acquista sempre maggiore numero di seguaci e in questo senso si può dire, come vedremo, orientato anche il movimento legislativo.
Il problema migratorio è, per conchiudere, una faccia dell'arduo problema della popolazione e, insieme, di quello non meno arduo della distribuzione e della messa in efficienza delle capacità produttive del mondo, e ha, inoltre, un carattere squisitamente politico, in quanto tocca la sovranità degli stati nei loro reciproci rapporti e in quelli con i cittadini. Né questi suoi varî aspetti si possono considerare come problemi singoli, suscettibili di soluzione separata, ché invano si pretenderebbe di regolare il fenomeno migratorio non tenendo conto di qualcuno di essi; come pure non è possibile risolvere il problema complessivo dai singoli punti di vista nazionali, dato che esso, nella sua natura e nei suoi effetti, è essenzialmente di carattere internazionale.
Le migrazioni internazionali nei secoli XIX e XX. - I movimenti migratorî moderni - distinti, per il loro carattere libero e pacifico, dai violenti spostamenti di popoli verificatisi soprattutto nell'antichità e distinti, anche, per l'accentuato carattere internazionale e per il prevalere (almeno fino a pochi anni or sono) del motivo economico individuale sull'interesse nazionale, da quelli del periodo coloniale, strettamente regolati ancora dal punto di vista della metropoli - si può dire che abbiano avuto inizio verso la fine del sec. XVIII, quando, per effetto della rivoluzione industriale e della crisi agraria, si verificò nelle Isole Britanniche un primo rilevante espatrio di operai, artigiani, contadini e piccoli proprietarî fondiarî, desiderosi di migliorare la loro sorte.
Nella storia delle migrazioni intercontinentali bisogna anzitutto distinguere due periodi: l'uno, che coincide press'a poco con la prima metà del sec. XIX e in cui gli spostamenti sono principalmente determinati dalle condizioni dei paesi di partenza; l'altro, che ha inizio intorno al 1850 e in cui il volume, le direzioni e la composizione del movimento dipendono invece soprattutto dalle condizioni dei paesi di destinazione. Dalla guerra mondiale a oggi, però, la spontaneità del flusso migratorio è stata alterata dal crescente intervento dei governi e fattore dominante della storia di questi ultimi anni si può dire sia stata appunto la nuova e spesso contrastante politica dei paesi di emigrazione e d'immigrazione.
Alla generale situazione di disagio, lasciata in Europa dalle guerre napoleoniche e aggravata da alcune cattive annate agrarie, e, insieme, alle progredite condizioni politiche e sociali, si deve l'inizio (1816) delle emigrazioni in massa anche dai paesi continentali, dove durante gli anni di guerra l'espatrio era stato severamente vietato e, per ragioni fiscali e di polizia, continuò poi ad essere rigorosamente sorvegliato. Questa prima ondata di emigrazione transoceanica fu però di breve durata, poiché i raccolti, che erano ancora a quell'epoca il fattore determinante della situazione economica del continente europeo, tornarono a essere buoni nel 1818 e tali si mantennero per un decennio circa.
L'emigrazione dalle Isole Britanniche, che aveva continuato, per quanto in misura ristretta, anche nel periodo delle ostilità, fu invece scarsamente influenzata dalla migliorata situazione dell'agricoltura, essendo già a quell'epoca prevalentemente condizionata dalla situazione industriale; per il frequente susseguirsi di crisi di sovraproduzione, in questo campo, il numero degli emigranti britannici (passengers) salì infatti, con qualche oscillazione, da 2081 nel 1815 a 56.907 nel 1830.
L'annata 1828, in cui il raccolto fu nuovamente cattivo, aveva segnato frattanto l'inizio di una seconda ondata anche nei paesi continentali e in tutto il periodo seguente, dal 1830 al 1850, si ebbe un progressivo intensificarsi dell'emigrazione europea che, eliminati ormai quasi tutti gli ostacoli legali alla sua espansione, traeva continuo alimento dai ricorrenti eccessi di mano d'opera dovuti allo sviluppo della produzione capitalistica dopo l'introduzione della macchina. A ingrossare il flusso degli emigranti dal Regno Unito, specie dall'Irlanda, salito da 103 mila nel 1832 a 518 mila nel 1849, contribuirono, in particolar modo, la sfavorevole ripercussione sull'artigianato della trasformazione verificatasi nell'industria tessile intorno al 1840 e le tristi conseguenze, per gli agricoltori, del passaggio al libero scambio (1841-46) e delle gravi carestie di patate (1846-47); mentre ad analoghe condizioni di sovrappopolazione relativa si aggiungevano, in Germania, lo scontento e la reazione suscitati dal fallimento dei moti rivoluzionarî del 1830-1831, 1833 e 1848 e ne risultava anche qui accentuato il movimento di espatrio (da 10 mila complessivamente nel 1820-30 a 108 mila nel 1847 e, dopo un declino nel 1850, a 240 mila nel 1854).
Sono gli Stati Uniti che assorbono la maggior parte (metà e in qualche anno due terzi) dell'emigrazione britannica, e, nel quinto decennio del secolo, anche di quella tedesca. Forti contingenti cominciano però a indirizzarsi al Canada, all'Australia e all'Africa meridionale tra il secondo e il terzo decennio. S'inizia anche, per quanto in maniera non molto rilevante, una corrente d'emigrazione verso l'America latina, tanto più che le giovani repubbliche cercano di attivare l'afflusso della mano d'opera bianca. L'emigrazione dalla Francia, dalla Spagna e dall'Italia, dal 1830, comincia inoltre a orientarsi verso l'Africa settentrionale, specialmente verso l'Algeria.
A partire dal 1850 circa, i movimenti migratorî si possono dire sempre più influenzati dall'attrazione esercitata dai paesi d'oltre mare, prescindendo, s'intende, dalle ripercussioni di eventi occasionali, quali guerre, rivoluzioni, pogrom, ecc. Gli Stati Uniti, sia per la scoperta delle miniere d'oro (1850), sia per il crescente sviluppo della grande industria, sia per la legislazione estremamente favorevole alla colonizzazione delle terre occidentali (Homestead law, 1862), attraggono soprattutto i lavoratori: circa 13 milioni dal 1850 al 1890, di cui l'88,8 per cento provenienti dall'Europa. Anche il Canada, l'America meridionale, l'Australia e l'Africa meridionale fanno però sempre più appello all'immigrazione per mettere in valore le loro risorse naturali. Ne segue un enorme sviluppo della corrente d'espatrio dai paesi europei (la cui media annua da 255.593 nel 1846-50 sale a 778.936 nel 1886-90), che si spiega anche con la diminuzione dei rischi e delle spese di trasporto e con l'aumentata conoscenza dei mercati di arrivo; fattori che concorrono a rendere maggiori le probabilità di successo e suscitano, inoltre, accanto all'emigrazione maschile, un movimento di donne e di fanciulli (la cosiddetta emigrazione familiare, cioè, che ha sempre carattere di fenomeno secondario ed è indice di una fase più progredita e sicura dell'espatrio). Sull'emigrazione dagli altri continenti non si hanno notizie esatte. Va peraltro notato che nel 1868, uscendo dal suo tradizionale isolamento, anche il Giappone cominciò a dare il suo contributo all'emigrazione mondiale.
L'atteggiamento dei governi, in questo periodo di grande espansione dei movimenti migratorî, tranne pochissime restrizioni, è pienamente liberale soprattutto a causa dell'armonia che regna tra gl'interessi dei paesi di emigrazione, a popolazione rapidamente crescente e soggetti a facili crisi, e quelli dei paesi d'immigrazione, bisognosi di mano d'opera. Molti stati cominciano anche ad adottare misure di protezione degli emigranti (specie contro gli abusi delle compagnie di trasporto e dei loro agenti), seguendo a distanza l'esempio offerto dall'Inghilterra fino dal 1803 (Passenger's act).
Si andava però, frattanto, maturando un grande mutamento nella provenienza e nelle caratteristiche del flusso emigratorio europeo, destinato a ripercuotersi, fra l'altro, sulla politica dei paesi d'immigrazione. Mentre infatti anche nell'Europa meridionale e orientale si cominciavano a creare quelle medesime condizioni di vita che avevano già provocato l'espatrio nei paesi nord-occidentali, questi ultimi restringevano la loro emigrazione per sviluppare l'agricoltura e l'industria nazionale (Germania) o cessavano d'incoraggiarla e sussidiarla (Gran Bretagna). Dopo un trentennio di preparazione (1860-90), il centro di gravità dell'emigrazione europea si sposta così dal nord-ovest industriale al sud-est agricolo (soprattutto Italia, Austria-Ungheria e Russia) e, in conseguenza appunto della diversa compagine economica da cui trae origine - oltre che della progressiva scomparsa delle terre libere nei paesi d'arrivo - muta anche la composizione e la durata del flusso emigratorio. Diminuisce, cioè, la proporzione dei coloni, il cui espatrio è in genere più stabile, e aumenta quella dei proletarî (braccianti e operai non qualificati), attratti dai facili e alti salarî industriali e decisi per lo più a rimanere all'estero solo quel tanto che bastasse per procurarsi un gruzzolo sufficiente all'acquisto di una piccola proprietà in patria. Si sviluppa così, in senso contrario all'emigrazione, un movimento di rimpatrio che, agevolato dalla facilità dei mezzi di comunicazione, assume, a partire dal 1870, notevole entità (278 mila rientrano in Europa nel 1876-80, 830 mila nel 1886-90 e 1.228.000 nel 1896-900), e finisce poi con l'essere determinato, più che dal suddetto fattore psicologico di natura costante, dal variare della situazione economica dei paesi di arrivo, soprattutto dal movimento ciclico della grande industria nordamericana.
Sia l'enorme sviluppo quantitativo del flusso immigratorio (nel 1890 oltre 15 milioni erano già immigrati negli Stati Uniti), superiore ormai alle capacità di assorbimento definitivo del paese, sia la tendenza degl'immigrati ad ammassarsi nei centri industriali con aggravio dell'industria e della carità pubblica nei periodi di depressione economica, sia ancora il cambiamento del loro carattere etnico (da 84% e 0,1% nel 1861-70, le percentuali dell'immigrazione negli Stati Uniti dal nord-ovest e dal sud-est di Europa passarono infatti a 19% e 65% nel 1901-10), che ne rendeva più difficile e meno desiderabile l'assimilazione, dovevano finire naturalmente con suscitare delle reazioni, e l'opinione pubblica nordamericana cominciò infatti ad allarmarsene sino dalla fine del sec. XIX. La legislazione, però, entrata nel 1882 sulla via della selezione individuale degl'immigranti, con una legge tendente a escludere i criminali, i mendicanti e i mentalmente e fisicamente incapaci, non divenne realmente restrittiva, per la razza bianca, che nel 1917; mentre tale era già per i Cinesi dal 1882 e, in via meno assoluta, per i Giapponesi dal 1907, nonché di altri popoli asiatici.
Anche nei paesi di provenienza si comincia d'altra parte a non considerare più concordemente come benefici gli effetti dell'emigrazione; si parla di costo dell'uomo e di perdita di capitali non sufficientemente compensata dall'afflusso di rimesse, e a quelli che obbiettano che l'uomo vale non in quanto costa, ma in quanto produce, e che l'emigrazione alleggerisce appunto il paese degli elementi improduttivi, si risponde che non sono sempre i più miserabili che partono, ma spesso invece gli elementi migliori, suscettibili di essere utilizzati in patria. La legislazione conserva però anche in questi paesi il suo carattere liberale e solo s'intensificano la protezione e l'assistenza degli emigranti.
Con la guerra mondiale i movimenti migratorî risultarono quasi completamente paralizzati per la chiusura delle frontiere, per i rischi del viaggio e per la generale incertezza della situazione. Inoltre, nell'atmosfera della guerra, il governo degli Stati Uniti, dopo avere lungamente resistito alla pressione dei lavoratori organizzati, adottò la prima misura tendente indirettamente a restringere l'immigrazione dall'Europa sud-orientale, includendo nel Consolidating Immigration act 1917 la clausola contro gli analfabeti. Quando poi, nell'immediato dopoguerra, per il disagio politico ed economico di quasi tutti i paesi d'Europa si profilò la minaccia di un'eccessiva ripresa delle immigrazioni, la legislazione nordamericana assunse un atteggiamento sempre più restrittivo.
Si ebbe allora la famosa legislazione dei contingenti, per cui, fissato il totale massimo degl'immigranti europei ammissibili annualmente, furono assegnati ai varî paesi emigratorî contingenti diversi, rappresentati da percentuali del numero degli appartenenti alle singole nazionalità già residenti negli Stati Uniti. Oltre che a ridurre in via assoluta l'immigrazione, le leggi del 1921 e 1924 e tutto il cosiddetto National Origin Plan, entrato in vigore il 1° luglio 1929, tendevano infatti a rafforzare le possibilità dell'assimilazione e nello stesso tempo a preservare un certo grado di omogeneità nello sviluppo della popolazione degli Stati Uniti. Il flusso annuale d'immigranti europei, che, negli ultimi anni prima della guerra, aveva quasi raggiunto il milione, discese così nel 1927 a poco più di 150 mila (era aumentata però l'immigrazione clandestina e così pure il ricorso ai negri degli stati dell'America Meridionale) e la percentuale dei provenienti dall'Europa sud-orientale fu ridotta a meno di un quinto di quella da paesi del nord-ovest, con quasi totale annullamento dell'immigrazione dall'Austria, dall'Italia e dalla Russia (che, nell'anteguerra, specie le prime due, si contendevano il primo posto) e grande incremento della proporzione degl'immigrati di lingua inglese (da 8,8% nel 1914 a 33,3% nel 1927) sul totale degl'immigrati da tutti i paesi del mondo (335 mila nel 1927). Le considerazioni di ordine tecnico sono passate poi in seconda linea quando, per l'intensità crescente della crisi, è stato necessario ricorrere (1930) a una clausola della legge del 1917, che escludeva gl'immigranti di qualsiasi provenienza che corressero rischio di cadere a carico dell'assistenza pubblica, e a una legge del 1885, che respingeva i lavoratori muniti di contratto preventivo. L'introduzione di lavoratori stranieri è stata così quasi completamente arrestata e, nel febbraio 1931, per la prima volta negli Stati Uniti - dove dal 1820 al 1930 si calcola abbiano affluito 37,8 milioni di emigranti, di cui più della metà dal nord-ovest d'Europa - il numero dei partenti ha superato quello degli arrivati.
L'esempio della legislazione selettiva degli Stati Uniti è stato poi strettamente seguito dai Dominions britannici (tra questi, in misura minore, dal Canada), mentre la generale non buona situazione economica ha indotto anche il Brasile, l'Argentina e altri paesi dell'America Meridionale a restringere l'immigrazione.
La nuova legislazione dei paesi d' immigrazione non poteva mancare però di ripercuotersi anche su quella dei paesi di emigrazione e tutti, compresi i più restii a interessarsi del fenomeno, si sono decisi a intervenire, ora limitandosi a evitare con un severo controllo l'uscita degli elementi destinati a essere respinti dai paesi d'arrivo o a ripartire il più equamente possibile tra i desiderosi di espatrio la quota annua dei ritenuti ammissibili, ora, invece, reagendo alle restrizioni con l'attrezzare la propria emigrazione secondo le nuove esigenze e col tentare di procurarle altri sbocchi (anche la tradizionale politica di non intervento, seguita dalla Gran Bretagna a partire dal 1878, ha fatto posto in questi ultimi anni a quella dell'appoggio governativo all'emigrazione verso i Dominions). In alcuni di questi paesi si era andato poi, frattanto, rapidamente concretando, nell'atmosfera di rifiorente nazionalismo suscitata dalla guerra, quel nuovo orientamento nella valutazione dei fenomeni migratorî che già abbiamo visto profilarsi all'inizio del secolo; e, indipendentemente dalle restrizioni imposte dai paesi d'immigrazione, essi hanno cercato quindi di occupare in patria la maggior parte della loro mano d'opera e di permettere solo gli espatrî aventi carattere di vera e propria colonizzazione. Tipica rappresentante di questo nuovo indirizzo, che vuole disciplinare l'emigrazione soprattutto dal lato dell'interesse nazionale - che non può non coincidere col beninteso interesse dell'individuo stesso -, è, come vedremo, l'attuale politica italiana.
Il mutato atteggiamento dei paesi d'immigrazione e, in conseguenza o no di questo, anche quello verificatosi nei paesi di emigrazione, hanno quindi concorso a restringere fortemente, nel dopoguerra, il volume delle migrazioni intercontinentali (da oltre un milione l'anno nell'anteguerra a meno di mezzo il solo movimento proveniente dall'Europa), che tanta espansione avevano avuto nel corso del secolo passato (circa 60 milioni di persone partirono dalla sola Europa dal 1800 al 1924, secondo i calcoli di I. Ferenczi) e che tanto avevano contribuito allo sviluppo dell'economia capitalistica, all'incremento demografico e all'espansione della civiltà europea. Trattiamo ora brevemente delle migrazioni continentali, che hanno assunto, invece, in questi ultimi anni, considerevole sviluppo.
In Europa, dopo avere avuto il sopravvento sulle migrazioni verso territorî d'oltremare ancora per tutto il sec. XVIII, gli spostamenti all'interno del continente (notevoli soprattutto quelli da e verso la Germania) andarono progressivamente riducendosi, durante il sec. XIX, di fronte alla crescente preponderanza dei movimenti intercontinentali, fino a quando, col sorgere delle migrazioni temporanee e stagionali, si aprì una nuova fase di ascesa del loro volume e della loro importanza. È intorno al 1870 che si può fissare l'inizio di questo movimento essenzialmente moderno, reso possibile dalla cresciuta intercomunicazione dei varî mercati della mano d'opera - sia per la diminuzione del costo e della durata dei viaggi, sia per la maggiore diffusione di notizie da un paese all'altro, sia soprattutto per la maggiore libertà di circolazione - e caratterizzato da una forte prevalenza di maschi, data la natura in genere faticosa del lavoro richiesto e la necessità di frequenti spostamenti.
Scarsa è stata, nei primi decennî, la rilevazione di questo movimento; si calcola tuttavia che il deflusso annuo dall'Italia sia salito da 80 mila circa, nel 1870, a 250 mila, negli anni precedenti la guerra mondiale, e che, in questi stessi anni, la Germania abbia accolto annualmente da 600 a 750 mila lavoratori stagionali provenienti dalla Russia e dall'Austria-Ungheria, contro poco più di 40 mila tra il 1880 e il 1890.
In Asia e in Africa si è avuto pure, verso la fine del sec. XIX e l'inizio del XX, un grande sviluppo degli spostamenti continentali dopo il rinvio delle razze di colore dai paesi d'oltremare, per quella tendenza a completarsi che si è sempre manifestata nelle due grandi categorie di flussi migratorî, fin dalla scoperta dell'America. Nel dopoguerra il fenomeno si è poi accentuato, sia per l'entrata in vigore dell'ancora più restrittiva legislazione degli Stati Uniti e dei Dominions britannici, sia per l'intensificarsi delle cause (tendenza all'agricoltura intensiva e alla grande industria e pressione demografica) che stimolano alla compensazione internazionale sul mercato della mano d'opera.
In Europa, chiuso il periodo della guerra mondiale, l'andamento dei movimenti migratorî continentali ne è risultato profondamente alterato, sia per la trasformazione in internazionali di migrazioni prima a carattere interno e viceversa, per effetto dei nuovi confini tracciati dai trattati di pace, sia per gli eccezionali spostamenti di optanti e di rifugiati e per le transitorie richieste di mano d'opera a scopo di ricostruzione delle zone invase, sia ancora per i molti vincoli e formalità (divieti di esportazione di monete, passaporti, visti e altre misure di polizia, ecc.) frapposti ai passaggi di frontiera. I contrasti politici e sociali e la crisi economica, caratteristiche dominanti del dopoguerra, hanno pesato poi gravemente sulla situazione, impedendo alle migrazioni continentali europee di riprendere l'ampiezza prebellica, quantunque le restrizioni imposte dall'America all'emigrazione transoceanica alimentassero il loro incremento. La crescente disoccupazione sempre più ha indotto, infatti, a ostacolare l'afflusso della mano d'opera straniera - che in molti casi urtava anche contro condizioni di lavoro superiori e contro una legislazione sociale più avanzata - mentre il sorgere e l'acuirsi di conflitti tra paesi di emigrazione e d'immigrazione, circa la conservazione della nazionalità o la naturalizzazione degli emigrati, ha contribuito a intralciare anche quelle correnti che non avrebbero pregiudicato interessi economici. Nonostante la diminuzione del loro volume complessivo (che si può calcolare, nel dopoguerra, di circa mezzo milione l'anno, proveniente soprattutto dalla Polonia e, in misura minore, dall'Italia, dalla Cecoslovacchia, dalla Iugoslavia e dalla Bulgaria, e assorbito in prevalenza dalla Francia e, in parte notevole, anche dal Belgio e dalla Svizzera), le migrazioni continentali europee sono cresciute, però, d'importanza, sia nei confronti del diminuito flusso verso terre d'oltremare, sia per l'evidenza con cui sempre più s'impongono ai governi i molti problemi a esse connessi, e si è avuto un grande sviluppo nella legislazione e nella statistica relative a questo fenomeno.
In conclusione si può dire che, tanto nelle migrazioni continentali quanto nelle intercontinentali, il mutamento progressivamente verificatosi nelle condizioni economiche e demografiche di molti paesi di provenienza e di destinazione - per cui movimenti, prima ritenuti utili da ambo le parti, possono ora all'una o all'altra risultare di effettivo pregiudizio - e, insieme, il crescente prevalere della considerazione dell'interesse nazionale su quello dei singoli, per cui il lato politico del problema migratorio è stato messo sempre più in vista, abbiano contribuito a fare sì che l'intervento dei governi divenisse una delle caratteristiche dominanti del dopoguerra.
Altra caratteristica di questo periodo è l'orientamento sempre più deciso verso la conclusione di accordi internazionali, poiché ci si rende sempre più conto dell'interdipendenza delle singole legislazioni nazionali e, nello stesso tempo, della loro incapacità a regolare efficacemente un fenomeno che, nel suo sbocco e nella sua origine, esorbita dai confini territoriali degli stati. È soprattutto la legislazione dei paesi di emigrazione, che, oltre a riuscire sempre incompleta, più di quella dei paesi d'immigrazione, dal punto di vista restrittivo, per effetto dell'emigrazione clandestina e di quella indiretta, è, per sua natura, incapace a regolare positivamente il fenomeno e a proteggere efficacemente gli emigranti, senza il consenso espresso o tacito degli altri paesi interessati, sia di destinazione sia di transito.
Accanto a un progressivo intensificarsi della legislazione dei singoli paesi di emigrazione, d'immigrazione e, anche, di transito si sono moltiplicati così in questi ultimi anni gli accordi internazionali tendenti: a definire i limiti della libertà di emigrazione e di immigrazione; a stabilire, in base alle clausole di parità, di reciprocità o della nazione più favorita, il trattamento degl'immigrati nei riguardi della nazionalità, dei diritti civili e politici, dell'istruzione, del regime fiscale, della previdenza, dell'assicurazione sociale, ecc.; a regolare il reclutamento e il collocamento della mano d'opera e a formulare contratti-tipo di lavoro; a istituire particolari organi competenti; a concordare misure circa il transito e la protezione degli emigranti e rimpatrianti durante il viaggio, ecc. (di particolare importanza, tra gli accordi in materia di migrazioni continentali, quelli conchiusi, tra il 1919 e il 1924, dalla Francia con il Belgio, l'Italia, la Polonia e la Cecoslovacchia e, tra i rari accordi relativi ai movimenti transoceanici, quello italo-brasiliano e quello tra Polonia e Stato di S. Paolo del 1930). Tali accordi, che si sono concretati anche in veri e proprî trattati (generali e speciali) di emigrazione e d'immigrazione, di lavoro e di colonizzazione, oltre che in clausole di trattati di commercio o di stabilimento, come era pratica diffusa nell'anteguerra, sono però in gran parte bilaterali e tra loro diversissimi, risentendo soprattutto della particolare situazione politica in cui sono stati conchiusi, e non costituiscono quindi che una piccola conquista nel campo dell'intesa internazionale.
Molto hanno cercato di fare la Società delle nazioni, e l'Organizzazione internazionale del lavoro, sia per unificare la legislazione dei varî paesi di emigrazione e d'immigrazione, sia per facilitare la conclusione di accordi plurilaterali e aprire così la via a una concorde regolamentazione internazionale dei fenomeni migratorî. E qualche risultato pratico è stato effettivamente raggiunto; in particolare: attraverso i lavori della Conferenza internazionale del lavoro (prima sessione, Washington 1919 - diciasettesima, Ginevra 1933), della Commissione internazionale dell'emigrazione (Ginevra 1921), del Comitato permanente dell'emigrazione (istituito nel gennaio 1925) e della Conferenza internazionale degli statistici dell'emigrazione (Ginevra 1932), nonché delle conferenze dei paesi di emigrazione e dei paesi d'immigrazione (rispettivamente, Roma 1921 e Parigi 1923), e soprattutto delle due conferenze internazionali di emigrazione e d'immigrazione, tenute, su proposta del governo italiano, a Roma nel 1924 e all'Avana nel 1928, cui intervennero anche rappresentanti della Società delle nazioni e dell'Ufficio internazionale del lavoro.
Il crescente interesse che suscitano i problemi migratorî ha dato poi luogo, anche da parte di altri organismi internazionali di carattere ufficiale o privato, a un grande fervore di studî e di proposte, rivolti a diffondere una più esatta conoscenza del fenomeno e a facilitare una maggiore intesa internazionale. La realizzazione di un'effettiva collaborazione tra stati in questa materia incontra, tuttavia, serie difficoltà e, per ora, sono raggiungibili solo accordi parziali, su questioni economiche e sociali, dato che, nel campo politico, i contrasti tra paesi di emigrazione e paesi d'immigrazione non tendono ad appianarsi.
Le statistiche dei movimenti migratorî. - Verso la fine del secolo, divenuto ormai generale il fenomeno migratorio, si può dire che in quasi tutti i principali paesi di emigrazione, d'immigrazione e di transito, già se ne effettuasse una regolare rilevazione, per lo più in base alle liste di bordo o d'imbarco, alle matrici dei biglietti venduti, o ai contratti di trasporto, nei paesi in cui esisteva una legislazione protettiva degli emigranti contro gli abusi dei vettori (le prime statistiche dei porti furono infatti compilate dalla Gran Bretagna, attingendo notizie alle liste che le compagnie di navigazione erano obbligate a tenere per l'applicazione del Passenger's act 1803), e in base, invece, alle domande o ai rilasci dei passaporti, nei paesi in cui l'espatrio era subordinato ad autorizzazione. Quando poi i varî paesi interessati abbandonarono successivamente la politica liberale, fino allora seguita, per intervenire positivamente nell'andamento del fenomeno e adottarono misure restrittive, grande impulso trassero da questo nuovo indirizzo le varie statistiche nazionali e s'impose anche la necessità di renderle fra loro sempre più comparabili. Molto utile è stata l'attività svolta, in questo campo, dall'Ufficio internazionale del lavoro, cui, fino dal 1921, fu affidato il compito di raccogliere e pubblicare una documentazione il più possibile completa e coordinata dei movimenti migratorî, e che cura la pubblicazione dei dati fornitigli dalle singole statistiche nazionali, dopo averli coordinati secondo le esigenze di una tabella uniforme (si ricordi che un primo tentativo di raccogliere le statistiche migratorie dei più importanti paesi in tabelle internazionali era già stato fatto da L. Bodio nel 1887). Sia circa la definizione dei migranti e i limiti della rilevazione, sia circa il metodo della rilevazione stessa, sia ancora circa i principî adottati per la classificazione, le varie statistiche nazionali differiscono però tuttora notevolmente l'una dall'altra, in quanto, in alcuni paesi, risentono ancora dei primitivi scopi amministrativi, di pubblica sicurezza o di controllo sanitario, per cui furono istituite, e, in altri, rispecchiano, invece, lo speciale orientamento della politica attualmente seguita, senza tenere conto poi delle differenze naturali e culturali dei varî paesi e della diversa capacità dei loro bilanci. Una conferenza internazionale degli statistici delle migrazioni, riunitasi a Ginevra (ottobre 1932) a cura dell'Ufficio internazionale del lavoro, ha formulato quindi una serie di raccomandazioni ai singoli stati, intese a eliminare gl'inconvenienti lamentati.
L'emigrazione italiana. - Il censimento generale del 1861 poté accertare l'esistenza di colonie italiane, già abbastanza numerose, sia nei paesi di Europa e del bacino mediterraneo (Francia 77.000, Germania 14.000, Svizzera 14.000, Alessandria d'Egitto 12.000, Tunisi 6.000, ecc.), sia nelle due Americhe (100.000 circa, di cui quasi una metà negli Stati Uniti). Intorno al 1870 il movimento complessivo assunse poi consistenza di un vero fenomeno di massa, raggiungendo, secondo L. Carpi, una media annua di 123.000 nel 1869-75. Cifre tra loro comparabili si hanno, però, solo a partire dal 1876, anno in cui, sotto la guida di L. Bodio, s'iniziò una regolare e ufficiale rilevazione dell'emigrazione italiana. Nei primi anni, l'emigrazione, ancora disorganizzata e sporadica, si mantiene intorno a una media di 135.000 emigranti, diretti in prevalenza verso paesi europei e mediterranei; dal 1887, per l'aumentata offerta di lavoro del mercato americano, si sviluppa poi rapidamente l'emigrazione transoceanica e la media annua complessiva si raddoppia (269.000 nel 1887-900). La Francia, seguita, a una certa distanza, dall'Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, tiene sempre il primo posto tra i paesi di destinazione dell'emigrazione continentale in questo primo venticinquennio; l'Argentina e il Brasile, che assorbono la maggior parte dell'emigrazione transoceanica nei primi venti anni, si vedono invece rapidamente sorpassare dagli Stati Uniti verso la fine del secolo. Sia l'incremento dell'emigrazione transoceanica, in via assoluta e nei confronti di quella continentale (da 18,25% dell'emigrazione complessiva nel 1876 a 47,20% nel 1900), sia questo spostamento della sua direzione dall'America Meridionale alla Settentrionale (da 11,79% e 58,36% rispettivamente, nel 1888, le percentuali dell'America Settentrionale e Meridionale sul totale dell'emigrazione italiana passarono a 25,34 e 21,04% nel 1900), oltre che con le condizioni del mercato del lavoro negli stessi paesi americani, si devono mettere in relazione - come vedremo meglio in seguito, quando il fenomeno sarà ancora più marcato - con i mutamenti che si vanno maturando, in questo frattempo, nella partecipazione delle varie regioni d'Italia all'espatrio. È da notare infatti che le regioni settentrionali, socialmente più progredite e con popolazione più numerosa, diedero maggiore contributo all'emigrazione in un primo tempo, quando l'isolamento, la scarsa viabilità e l'ignoranza, residui dei passati regimi, oltre al tradizionale amore per la terra e la casa, alle minori necessità economiche, derivanti da una vita esclusivamente agricola e patriarcale, e alla minore densità degli abitanti, trattenevano ancora dall'espatrio le regioni meridionali; ma che, a poco a poco, tale stato di cose si andò modificando e il contingente fornito da queste ultime crebbe, negli ultimi anni del sec. XIX, sempre più rapidamente, sia per i maggiori contatti con popolazioni più evolute, sia a causa dell'intenso ritmo di accrescimento demografico, sia ancora per le poco floride condizioni economiche (in parte dovute alla tariffa protezionista dell'87, che sacrificò l'agricoltura all'industria), mentre lo sviluppo industriale dava modo alle regioni settentrionali di riassorbire una parte crescente del loro eccesso di mano d'opera. La quota fornita all'emigrazione complessiva dall'Italia settentrionale diminuì così da 86,7% nel 1876 a 49,9% nel 1900, mentre quella dall'Italia meridionale e insulare cresceva da 6,6 a 40,1% e, per la ripercussione psicologica dell'emigrazione meridionale, saliva da 6,7 a 10% quella dell'Italia centrale (dove, per l'equilibrio dei principali elementi dell'economia locale, il movimento non raggiunse mai l'intensità delle altre regioni italiane).
Altra caratteristica interessante di questo primo periodo dell'emigrazione italiana è l'assenza di legislazione in proposito, se si fa eccezione della legge 30 dicembre 1888, n. 5877, che si limitò, in definitiva, a sancire quasi esclusivamente norme di polizia in vista dei molteplici abusi degl'incettatori di mano d'opera. Anche questa limitata azione di polizia riservata allo stato era però destinata a fallire al suo scopo, non essendo ispirata a una concezione unitaria del fenomeno, e i soprusi degli speculatori continuarono infatti, finché non si giunse a emanare una legge organica dell'emigrazione (31 gennaio 1901, n. 23) e a creare un organo tecnico specifico per l'applicazione della legge stessa (Commissariato generale dell'emigrazione). Abolite le agenzie e subagenzie, l'emigrante fu messo allora in diretto rapporto col vettore, cui venne d'altra parte consentito di effettuare il trasporto solo sotto l'osservanza di determinate cautele e garanzie; si crearono inoltre organi pubblici, per fornire le necessarie informazioni ai desiderosi di espatrio, e si stabilirono norme per l'assistenza sanitaria e igienica per la protezione nei porti e durante il viaggio e, successivamente, anche per la tutela giuridica dell'emigrante e la disciplina degli arruolamenti per l'estero (le varie disposizioni successivamente emanate furono raccolte in un testo unico, approvato con r. decr. legge 13 novembre 1919, n. 2205).
Assistita, sistematicamente organizzata e diretta ove maggiori sono le possibilità di conveniente collocamento, l'emigrazione italiana, per quanto con andamento irregolare, a causa delle crisi attraversate dai paesi di destinazione, tende ad aumentare, nei primi anni del sec. XX; la media annua nel 1901-13 sale a 626.000 emigranti e il rapporto con la popolazione del regno, nel 1913, cuspide massima dell'emigrazione italiana, tocca i 2500 emigranti per ogni 100.000 abitanti (contro 360 nel 1876-78), pari a un quarantesimo circa dell'intera popolazione. Per quanto iniziatasi con ritardo sugli altri paesi, è l'emigrazione italiana che dà, in questi anni, quasi sempre il maggiore contributo all'emigrazione europea. È soprattutto l'emigrazione dall'Italia meridionale e insulare che si sviluppa, giungendo a sorpassare quella dall'Italia settentrionale: 46% contro 41% dall'Italia settentrionale e 13% dalla centrale, su un totale di più di 8 milioni nel periodo 1901-13 (nonostante il rapido incremento del contingente siciliano e campano, il Veneto però serba il primato fra tutte le regioni d'Italia). Ciò spiega, in gran parte, anche l'assoluto prevalere dell'emigrazione transoceanica sulla continentale: 58,2% contro 41,8% sul totale, nel periodo considerato. È noto, infatti, che l'emigrazione dall'Italia meridionale, composta prevalentemente di addetti all'agricoltura e di braccianti, costretti all'espatrio dalle tristi condizioni dei loro paesi e disposti, quindi, ad accettare qualsiasi lavoro e anche a stabilirsi definitivamente all'estero, ha sempre preferito i paesi d'oltremare, mentre quella dall'Italia settentrionale, più altamente qualificata e, in genere, temporanea, è stata per lo più assorbita da paesi europei (circa 3/4 degli emigranti provenienti dall'Italia settentrionale, nel periodo 1901-13, si sono diretti infatti a paesi d'Europa e del bacino mediterraneo, e più di 9/10 di quelli provenienti dall'Italia meridionale e insulare verso paesi transoceanici). Accanto al rapido incremento dell'emigrazione transoceanica si sviluppa però anche la continentale (da 186.000 nel 1900 a 313.000 nel 1913), che tende inoltre a divenire sempre più qualificata, e il Commissariato, che dapprima si era occupato quasi esclusivamente dell'emigrazione transoceanica più bisognosa di aiuto, estende man mano il suo controllo e la sua protezione alle correnti di lavoratori dirette a paesi d'Europa.
Tra i paesi di destinazione dell'emigrazione continentale, la Svizzera passa, in questo periodo, al primo posto, superando la Germania, l'Austria e la stessa Francia; nell'emigrazione verso paesi d'oltremare si accentua invece il primato degli Stati Uniti, cui affluiscono, dal 1901 al 1913, oltre 3 milioni d'Italiani, mentre solo 951.000 e 393.000 si dirigono all'Argentina e al Brasile negli stessi anni. Gli alti salarî offerti dal mercato nordamericano attraggono infatti sempre più i lavoratori, dato anche che nei paesi dell'America Meridionale, dove l'emigrazione italiana aveva trovato per anni un sicuro collocamento, diminuiscono ormai sempre più le terre libere e aumenta la necessità dell'impiego di capitali per metterle in valore. La maggiore facilità e rapidità di guadagni, consentita dalla grande industria degli Stati Uniti, e il venire meno del vincolo fondiario, che lega l'immigrato al paese d'arrivo, si ripercuotono però sulla durata dell'espatrio e, agevolata dal diminuito costo dei trasporti, si sviluppa un'attiva controcorrente di lavoratori desiderosi di godere in patria i loro risparmî e, per lo più, d'investirli in acquisto di terre (nel considerare questo flusso di rimpatrî da paesi transoceanici, che, dal 1905 al 1913, fu in media di 177 mila per anno, bisogna tenere conto tuttavia anche delle crisi avvenute in questo frattempo nei mercati d'oltremare). Questo carattere temporaneo, che già era dominante nell'emigrazione continentale, e che comincia ora a estendersi anche a parte dell'emigrazione transoceanica, si ripercuote poi a sua volta beneficamente sull'economia italiana, sia perché gli emigrati tornano, in genere, con accresciute capacità di lavoro e d'iniziativa e muniti di capitali accumulati all'estero, sia perché, contando di rientrare in patria, molti emigranti vi lasciano le loro famiglie e ad esse provvedono durante l'espatrio con invio di rimesse; notevole soprattutto l'afflusso di queste ultime, che è anche il solo elemento approssimativamente valutabile (circa mezzo miliardo l'anno), e che contribuì attivamente al saldo della bilancia dei pagamenti dell'Italia con l'estero. La fisionomia dell'emigrazione italiana, negli ultimi anni dell'anteguerra, si presentava quindi in complesso ben diversa da quella che era stata nell'ultimo venticinquennio del sec. XIX. Pure conservando il suo carattere fondamentale di emigrazione agricola e permanente, il movimento, specie quello diretto al continente europeo, traeva sempre maggiore alimento dalla mano d'opera specializzata e cominciava, inoltre, ad assumere carattere temporaneo anche nel flusso verso paesi d'oltremare. Ma soprattutto non si trattava più di masse prive di appoggio, emigranti alla ventura in cerca di lavoro, ma di masse guidate e assistite, e capaci alla loro volta di contribuire al miglioramento delle condizioni economiche e sociali della patria. L'emigrazione, ritenuta inscindibilmente connessa alla struttura economica del paese e al ritmo di accrescimento della sua popolazione, fu, perciò, in tutto questo periodo largamente incoraggiata e protetta.
Lo stesso indirizzo prevalse anche nel dopoguerra, non appena all'enorme contrazione verificatasi durante le ostilità (dal 1914 al 1918 gli espatri dall'Italia furono solo 842.000) seguì la ripresa del movimento emigratorio; l'azione svolta dal Commissariato dell'emigrazione, dal 1919 al 1927, mirò quindi soprattutto a collocare all'estero il maggiore numero possibile di lavoratori e alle migliori condizioni possibili. Numerosi ostacoli si frapponevano, però, a un ritorno del movimento alla sua normale consistenza, e, dopo un primo rapido incremento, dovuto anche al riespatrio degli smobilitati, nel 1919 e 1920 (253.000 e 615.000 rispettivamente, contro 28.000 nel 1918 e 873.000 nel 1913), il flusso emigratorio si contrasse di nuovo (200.000 nel 1921) per riprendere poi lentamente fino a 390.000 nel 1923 e diminuire infine, di anno in anno, a partire dal 1924. Le misure restrittive adottate da quasi tutti i paesi d'immigrazione (specialmente dagli Stati Uniti) spiegano a sufficienza l'andamento dell'emigrazione italiana in questo periodo. La legge nordamericana del 1921 fissò a 40.000 il contingente annuo riservato all'Italia, e quella del 1924 a 4000. L'espatrio verso paesi transoceanici si ridusse così da 400.000 circa, nel 1920, a poco più di 100.000, negli anni successivi; e se, nel 1922-23, nell'emigrazione complessiva si nota tuttavia la tendenza a risalire, ciò si deve prevalentemente alla forte richiesta di mano d'opera da parte della Francia per la ricostruzione delle terre devastate. È naturale, quindi, che torni a prevalere, nel dopoguerra, l'emigrazione verso paesi europei, in primissimo luogo verso la Francia che, dal 1919 al 1927, ha accolto oltre 1.000.000 d'Italiani.
Difficile e, in molti casi, impossibile era opporsi ai divieti che ostacolavano l'espatrio e sempre più s'imponeva, quindi, l'urgenza di disciplinarlo secondo le nuove esigenze dei paesi d'immigrazione e di renderne più sicuro il successo. Azione diplomatica per la preparazione all'estero di un ambiente più favorevole, mercé accordi e trattati bilaterali di emigrazione e lavoro, iniziative di conferenze intergovernative, ecc., inchiesta permanente sulle condizioni dei varî mercati del lavoro, preparazione culturale e professionale dei candidati all'espatrio, opera di collocamento all'estero e di valorizzazione economica a mezzo di contratti di lavoro, iniziative di colonizzazione e di credito all'emigrazione economicamente e tecnicamente organizzata, oltre all'assistenza, in genere, prima durante e dopo il viaggio, furono quindi i cardini dell'attiva politica svolta dal Commissariato dell'emigrazione, che, se non poté naturalmente impedire il regresso quantitativo dell'emigrazione italiana (la media annua nel 1919-27 è stata di 319.000 emigranti), riuscì, però, indubbiamente a migliorarne la composizione qualitativa e a renderne più vantaggioso il collocamento.
Scopo essenziale di questa politica era, però, ancora sostenere e guidare l'emigrazione dal punto di vista dell'interesse individuale e, solo in via secondaria, si preoccupava di mantenere vivo il legame fra l'emigrato e la patria e di accentuare i benefici che dall'emigrazione, in certi casi, a essa già spontaneamente derivavano (facilitando, p. es., la raccolta e l'afflusso dei risparmî). Che questa perdita annua di un contingente di energie lavorative, ridotto, è vero, nei confronti dell'anteguerra, ma sempre più selezionato, potesse in definitiva danneggiare la comunità nazionale, ancora la politica emigratoria non considerava, poiché nell'emigrazione continuava a vedere solo il rimedio spontaneo contro l'eccesso di popolazione e questo non pensava si potesse in altro modo evitare.
Il Governo nazionale aveva frattanto intrapreso e andava attuando un vasto programma di potenziamento, sia delle risorse naturali del paese (specie con la politica in favore dell'agricoltura svolta nel regno e nelle colonie), sia del suo organismo produttivo (mediante soprattutto la sostituzione della collaborazione alla lotta di classe), sia ancora del suo patrimonio demografico, considerato come fattore principe della produzione e dello sviluppo della potenza nazionale: la politica emigratoria doveva quindi radicalmente trasformarsi.
A partire, così, dal 1927, soppresso il Commissariato generale dell'emigrazione (r. decr. legge 28 aprile 1927, n. 628, convertito in legge 6 gennaio 1928, n. 1783), e creata in sua vece una Direzione generale degl'Italiani all'estero, poi Direzione generale del lavoro italiano all'estero e ora, nuovamente, Direzione generale degl'Italiani all'estero, alle dirette dipendenze del Ministero degli esteri, in conseguenza del prevalere delle considerazioni di ordine politico e nazionale su quelle di ordine economico e individuale, il governo è intervenuto per limitare tutte le forme di espatrio, che presentano probabilità di definitivo distacco dalla patria, e per favorire solo quelle che possono giovare alla sua espansione politica ed economica. La proibizione dell'emigrazione a carattere stabile, con una sola eccezione tendente a permettere la ricostituzione all'estero di famiglie separate per l'avvenuta emigrazione di uno dei membri (l'atto di chiamata o il viaggio di richiamo divengono quindi gli unici titoli idonei a giustificare l'emigrazione stabile); la tolleranza dell'emigrazione temporanea, purché munita di un contratto di lavoro adeguato e a termine (l'emigrante non ha in questo caso diritto a farsi accompagnare o a emettere atto di chiamata); l'incremento dell'emigrazione intellettuale, commerciale, professionale, tecnica, ecc., che può essere efficace strumento dell'espansione nazionale e dà, insieme, sufficienti garanzie di saper resistere agl'influssi snazionalizzatori; e il ricupero spirituale delle collettività italiane sparse per il mondo, mediante l'intensificazione di contatti materiali e morali con la patria (il riespatrio di cittadini italiani residenti all'estero, entro due anni dopo il loro ritorno in Italia, non è per nulla ostacolato, ma sono anzi favoriti i viaggi di andata e ritorno) sono i capisaldi di questa nuova politica.
Ne è derivata naturalmente, in connessione anche con il crescente ristagno dei varî mercati del lavoro, un'ulteriore restrizione dell'emigrazione, che, da 218.934 nel 1927 è scesa a 149.899 nel 1928-29 e, dopo una ripresa di carattere eccezionale nel 1930 (280.097), si è ancora più contratta (165.860 nel 1931, 83.309 nel 1932 e, secondo i dati provvisorî, 83.065 nel 1933); ne sono risultate inoltre accentuate, sia la prevalenza dell'emigrazione verso paesi di Europa (specie Francia) su quella verso paesi d'oltremare (da 41,20% la percentuale dell'emigrazione continentale è salita a 66,95% nel 1928-30 e a 73,70% nel 1931-32), sia la prevalenza del movimento proveniente da alcuni compartimenti dell'Italia settentrionale (specie Veneto, Piemonte e Lombardia) su quello che ha origine nel Mezzogiorno d'Italia. Per notizie sulla popolazione italiana all'estero, v. italia: Gl'Italiani all'estero.
Le statistiche dell'emigrazione italiana. - Le ricerche eseguite, con il concorso di organi ufficiali, da L. Carpi, per gli anni 1869-76, sono il primo saggio di una statistica dell'emigrazione italiana compilata sistematicamente; carattere frammentario hanno, invece, tutte le notizie per gli anni precedenti, che si trovano sparse qua e là in memorie di studiosi italiani e stranieri (C. Correnti, J. Duval, ecc.). Soltanto, però, a datare dal 1876, in Italia si pubblicano regolarmente statistiche ufficiali dell'emigrazione per l'estero. Statistiche che, in un primo periodo (1876-900), vennero elaborate unicamente dalla Direzione generale della statistica, in un secondo (1902-20) anche dal Commissariato generale dell'emigrazione (che limitava però le sue indagini all'emigrazione transoceanica), quindi, a partire dal 1921, dal solo Commissariato (incaricato della rilevazione complessiva del movimento, sia transoceanico sia continentale). Soppresso il Commissariato, nel 1927, il compito di raccogliere ed elaborare i dati sull'emigrazione italiana passò, con gli altri, alla Direzione generale degl'Italiani all'estero e, nel 1929, fu poi definitivamente assegnato all'Istituto centrale di statistica. Fonti principali per la rilevazione dei movimenti continentali sono oggi le cedole di espatrio e di rimpatrio allegate al passaporto, da distaccarsi dalle autorità di pubblica sicurezza nelle stazioni di confine, e, per l'indagine nei movimenti transoceanici, le liste nominative di bordo, integrate dalle cedole stesse per coloro che espatriano o rimpatriano attraverso porti esteri.
Bibl.: Sulla storia e sui problemi del fenomeno migratorio in generale v.: J. Duval, Histoire de l'émigration européenne, siatique et africaine, au XIXe siècle, Parigi 1862; G. Chandèze, De l'intervention des pouvoirs publics dans l'émigration et l'immigration au XIXe siècle, Parigi 1898; I. Ferenczi, Die Arbeitslosigkeit und die internationalen Arbeitwanderungen, Jena 1913; id., Une étude historique des statistiques des migrations, in Revue Internationale du Travail, settembre 1929, pp. 376-405; id., Statisdtica nazionale e internazionale delle migrazioni, in Le assicurazioni sociali, maggio-giugno 1930, pp. 49-56; id., Kontinentale Wanderungen und die Annäherung der Völker, Jena 1930; id., Le migrazioni e le previsioni demografiche e sociali, in Le assicurazioni soc., marzo-aprile 1931, p. 45; id., Il progresso della politica internazionale delle migrazioni, in Economia, marzo 1932, p. 281; G. Pertile, La rivoluzione nelle leggi dell'emigrazione, Torino 1923; M. P. Fauchille, Le droit d'éemigration et le droit d'immigration, in Rev. Int. du Trav., marzo 1924; H. Jerome, Migrations and business cycles, New York 1926; R. Gonnard, Essai sur l'histoire de l'émigration, Parigi 1928; L. Varlez, Le rythme saisonnier des migrations humaines, in Rev. Int. du Trav., aprile-maggio 1928; id., Les problèmes des migrations et la Conférence de la Havane 1928, in Rev. Int. du Trav., giugno 1929; id., Les principes généraux d'une convention internationale sur les conditions et contrats d'emploi des travailleurs étrangers, in Rev. Int. du Trav., marzo-aprile-maggio 1929; Ch. Tait, L'organisation internationale des migrations, in Rev. Int. du Trav., febbraio 1930; R. A. Fiorentino, Emigrazione transoceanica: storia, statistica, politica, legislazione, Roma 1931; G. Zingali, Demografia, in Trattato italiano d'igiene, di O. Casagrandi, I, Torino 1930.
Per dati e notizie sulle correnti migratorie nei principali paesi e sulla loro rilevazione statistica, v. soprattutto W. F. Willcox (National Bur. of Econ. Research), International migrations, I: Statistics; II: Interpretations, New York 1929-30; e le varie pubblicazioni dell'Ufficio Internazionale del Lavoro; A. Molinari, Projet d'une méthode internationale uniforme pour les statistiques des migrations (XXI sessione dell'Istituto internazionale di statistica, Messico 1933). In particolare v. inoltre Cz. Kaczmarek, L'émigration polonaise en France après la guerre, Parigi 1928; J.J. Spengler, The merits and demerits of the national origins provisions for selecting immigrants, in The Southwestern political and soc. science Quarterly, X, 2 (settembre 1929); F. Burgdörfer, Die Wanderungen über die deutschen Reichsgrenzen im letzten Jahrhundert, in Allgem. Statist. Archiv, XX (1930); S. Idei, Le problème des migrations au Japon, in Rev. Int. du Trav., dicembre 1930; G. S. Rabinovitch, L'émigration saisonniére des travailleurs agricoles polonais vers l'Allemagne, in Rev. Int. du Trav., febbraio e marzo 1932.
Per l'emigrazione italiana in particolare, v. L. Carpi, Dell'emigrazione italiana all'estero, Firenze 1871; id., Delle colonie e dell'emigrazione italiana all'estero, Milano 1874; id., Statistica illustrata dell'emigrazione all'estero nel triennio 1874-76, Roma 1878; L. Bodio, Dell'emigrazione italiana, Roma 1887; id., L'emigrazione italiana e la legge del 31 gennaio 1901, in Boll. dell'Emigrazione, 1902, n. 8; C. Rosmini, Il progetto e il controprogetto sulla legge dell'emigr., in Giorn. degli econ., 1888; G. Del Vecchio, Sulla emigrazione permanente italiana avvenuta nel 1876-87, Bologna 1892; Relazione L. Luzzatti-E. Pantano sul disegno di legge sull'emigrazione, febbraio 1900; L. Rossi, Relazione sui servizi dell'emigrazione per l'anno 1909-10, Roma 1910; id., La tutela del risparmio degli emigranti nei paesi d'immigrazione, Roma 1924; F. Coletti, Dell'emigrazione italiana, in Cinquant'anni di vita italiana, a cura dell'Accademia dei Lincei, Milano 1911; Codice dell'emigrazione, a cura di D. Lo Presti, Roma 1917; le pubblicazioni del Commissariato generale dell'emigrazione tra cui notevoli: Il Comm. gen. emigr. Origini, funzioni, attività, Roma 1924; La valorizzazione dell'emigrante attraverso i contratti di lavoro, Roma 1924; I problemi dell'emigrazione italiana dinanzi al Parlamento, Roma 1924; VI problemi dell'emigrazione alla conferenza internazionale di Roma, Roma 1924; L'emigrazione italiana (Legge e Regolamento, Commissariato, fondo, ecc.), Roma 1925; L'emigrazione italiana. Legislazione, statistica, accordi internazionali, organi e servizi statali, Roma 1927, e Bollettino dell'emigrazione dal 1901 al 1917; ancora: C. Arena, La compatibilità internazionale delle statistiche dell'emigrazione, in Riforma Sociale, luglio-agosto 1914; L. De Michelis, La difesa del lavoro italiano all'estero, Roma 1927; F. Virgili, Emigrazione, Roma 1928; A. Oblath, La politique italienne d'émigration et de colonisation, in Rev. Int. du Trav., giugno 1931; Istituto centrale di statistica (E. Antonucci e U. Trillò), Provenienze e destinazioni delle correnti dell'emigrazione italiana per l'estero dal 1876 al 1930, Roma 1932. Dati statistici sull'emigrazione italiana dal 1876 al 1925 sono raccolti nell'Annuario statistico dell'emigrazione italiana (edito dal Comm. gen. emigr.), Roma 1926; e per gli anni successivi v. la pubblicazione dell'Ist. centr. di stat. surricordata e dello stesso: Statistica delle migrazioni da e per l'estero negli anni 1926 e 1927 con confronti dal 1876 al 1915, Roma 1933 (id. per gli anni seguenti, in corso di stampa); Annuario statistico italiano e il Bollettino mensile di statistica.
Migrazioni interne.
Come fra stato e stato, così tra le varie regioni di un singolo stato possono spontaneamente verificarsi spostamenti di uomini, desiderosi di migliorare le loro condizioni economiche. Una ragione comune, la ricerca di un lavoro qualsiasi o di un lavoro meglio retribuito, è quella che sospinge, nell'un caso e nell'altro, gl'individui ad allontanarsi dal paese di origine; e, sotto questo punto di vista, il fenomeno delle migrazioni interne non differisce gran che da quello delle migrazioni internazionali. Mentre però quest'ultimo, interessando varî stati e producendo effetti diversi in ciascuno di essi, non può essere unilateralmente regolato e dà anzi per lo più luogo a conflitti internazionali difficilmente eliminabili, le conseguenze, che nelle zone di partenza e di arrivo si manifestano in seguito a correnti migratorie interne, si ripercuotono tutte sulla compagine economica e demografica di uno stesso paese, rendendo possibile, sia un'esatta valutazione complessiva del fenomeno, sia un'efficace intervento dello stato per incanalarne, attivarne o rallentarne il flusso a seconda della maggiore o minore utilità.
Anche nel campo delle migrazioni interne bisogna distinguere le migrazioni temporanee o stagionali, che attenuano gli squilibrî momentanei dei locali mercati del lavoro, da quelle permanenti, che si traducono in un effettivo trapianto di popolazione. Mentre le prime sono sempre benefiche, quanto alle seconde va distinto il caso in cui, per la poca fertilità della terra o per i disagi e per la poca salubrità del luogo, si ha un progressivo abbandono di zone, per esempio montagnose o malariche, e un conseguente afflusso verso le zone limitrofe, specie verso i centri urbani, dal caso in cui regioni economicamente floride e superpopolate offrono ad altre il loro eccesso di mano d'opera. Nel primo caso, infatti, l'emigrazione non è che un minor male, una spontanea reazione cioè alla situazione d'inferiorità in cui si trovano alcune parti del territorio nazionale, e si traduce nello spopolamento di alcune regioni, oltre che - spesso - nell'ingorgo di altre; nel secondo, invece, impedisce il rallentamento del ritmo demografico nelle zone da cui deriva e contribuisce inoltre ad agevolare lo sviluppo economico di quelle meno progredite cui si dirige. È naturale quindi che una ben diretta azione di governo debba proporsi d'intensificare, sia i momentanei scambî tra i varî mercati della mano d'opera, sia quei movimenti interni che hanno carattere di vera e propria colonizzazione e giovano alla messa a coltura di terre meno fertili, da tempo abbandonate o appena risanate, e debba tendere, d'altra parte, ad arginare gli altri, cercando con opere di bonifica, col fare affluire nuovi capitali alla terra e con lo sviluppo delle comunicazioni e dei servizî pubblici in genere, di rendere più agevole la vita e più produttivo il lavoro nelle zone che andrebbero altrimenti a poco a poco spopolandosi. Il fenomeno delle migrazioni interne ha suscitato infatti, nei varî paesi, specie in quelli a popolazione crescente, studî e provvedimenti che, pur differendo a seconda delle particolarità per cui i singoli movimenti si distinguono tra loro, presentano tuttavia nelle loro linee generali un carattere pressoché uniforme.
Particolare attenzione ha attirato recentemente il problema in Italia, in connessione con il vasto programma di potenziamento demografico ed economico intrapreso dal governo nazionale, e benché il fenomeno, come movimento spontaneo dei lavoratori più intraprendenti, non sia di oggi, ben può dirsi che lo studio e la disciplina delle migrazioni interne abbiano avuto un particolare sviluppo solo in questi ultimi anni; una costante e completa rilevazione delle correnti sia temporanee sia permanenti rimonta infatti soltanto al 1927. Mentre, inoltre, la passata legislazione non fu per lo più che l'espressione di contingenti necessità politiche e si tradusse quindi in una serie di tentativi inorganici, le migrazioni interne sono oggi considerate come strumento di valorizzazione economica e fanno parte integrante del complesso piano di bonifica e di trasformazione fondiaria.
Nel 1851 (13 febbraio) si ebbe un primo progetto, presentato da Camillo Cavour, per gli acquisti delle terre demaniali, d'accordo con alcune banche di Genova e Torino, a buone condizioni, sul prezzo di acquisto, sulle forme di coltura e per il trasporto gratuito degli emigranti sul luogo di appodiamento. Altri progetti si susseguirono specialmente dopo l'unificazione del regno, e vanno ricordati, fra gli altri, i disegni di legge Sonnino-Pantano per la colonizzazione interna (8 marzo 1906), e Giolitti-Cocco Ortu sugli uffici interregionali e di collocamento nei lavori agricoli e nei lavori pubblici (28 novembre 1907).
Un primo esperimento di colonizzazione interna vera e propria fu attuato con le leggi 21 febbraio 1892, n. 52, e 15 febbraio 1900, n. 51, per la concessione delle terre demaniali del Montello (Treviso); il suo esito favorevole indusse all'applicazione dell'art. 24 della legge 13 dicembre 1903, n. 474 sul bonificamento dell'agro romano, che diede facoltà al ministro di Agricoltura di provvedere alla colonizzazione dei beni demaniali esistenti nel regno coi metodi adottati per il Montello.
Tra gli altri provvedimenti speciali emanati per alcune regioni sono da ricordare la legge 2 agosto 1897, che istituì la cassa ademprivile; la legge 14 luglio 1907, n. 562 per la Sardegna; la legge 25 giugno 1906, n. 255 per la Calabria; la legge 31 marzo 1904, n. 140 per la Basilicata.
Un interessamento particolare, accentuato nei riguardi della colonizzazione, si ebbe nel periodo postbellico, sia per dare incremento alla produzione e al rendimento terriero, sia per esigenze politiche verso i contadini combattenti. Varie proposte di legge furono presentate al parlamento per risolvere le questioni delle terre incolte, del latifondo, delle affittanze agrarie, e numerose provvidenze furono prese in attesa di una definitiva risoluzione del problema terriero. Fra i provvedimenti adottati sono da ricordare il testo unico 15 dicembre 1921, n. 2047 delle leggi per la concessione delle terre e la legge 18 maggio 1922, n. 646. Il r. decr. 11 gennaio 1923, n. 252 abrogò le norme relative alla concessione delle terre, ponendo però nel tempo stesso ogni cura per la redenzione delle terre incolte e per la sistemazione del problema terriero nei suoi diversi aspetti tecnici ed economici.
Con lo scopo ben delineato "di studiare e di proporre i provvedimenti necessarî per agevolare il flusso migratorio dalle provincie del regno con popolazione sovrabbondante verso provincie meno abitate del Mezzogiorno e delle isole, suscettibili di una più alta produzione industriale e terriera" il r. decr. 4 marzo 1926 n. 440 istituì presso il Ministero dei lavori pubblici un Comitato permanente per le migrazioni interne. Il r. decr. 28 novembre 1928, n. 2874 provvide poi a trasformare il Comitato da ente di studio in organo esecutivo, sempre alle dipendenze del Ministero dei lavori pubblici. Come tale, dal 1 gennaio 1929 al 30 giugno 1930, il Comitato fiancheggiò l'azione dei Provveditori alle opere pubbliche, specie per quel che si riferisce alla costruzione dei villaggi operai, e alla progressiva realizzazione della bonifica integrale.
S'imponeva frattanto sempre più il problema demografico delle provincie padane; il Gran Consiglio del fascismo e la Corporazione dell'agricoltura ne affrontarono l'esame nei primi mesi del 1930, e il capo del governo decise infine di affidare al Comitato il compito di "decongestionare" la valle del Po e di avviare verso le zone di bonifica, o utilizzare in genere per lo sfruttamento agricolo e industriale del paese, le masse di mano d'opera esuberanti. Il r. decr. legge 26 giugno 1930, n. 870 gli attribuì quindi la piena autonomia trasformandolo in Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna, alle dirette dipendenze del capo del governo, invece che del Ministero dei lavori pubblici, e ne estese nello stesso tempo la competenza, prima ristretta al mezzogiorno e alle isole, a tutto il territorio nazionale.
Due compiti furono quindi affidati al Commissariato, compiti più precisamente definiti dalla legge 3 aprile 1931, n. 358: l'uno, che si traduce in un'attività contingente e immediata: fronteggiare, cioè, la disoccupazione facilitando i trasferimenti temporanei di lavoratori; l'altro, che è collegato invece a un programma a lungo respiro la cui effettuazione richiederà un certo numero di anni e che mira alla creazione di nuovi centri di vita, mediante il trapianto definitivo di gruppi familiari. In tutti e due i campi l'azione del Commissariato deve naturalmente orientarsi in armonia con la politica dei lavori pubblici che, oltre a proporsi di attenuare gli stagionali squilibrî dei mercati della mano d'opera, sempre più tende anch'essa a raggiungere questa finalità differita ma non meno importante, di rendere abitabile e produttivo nella massima parte possibile il territorio del regno e di redistribuire la disuguale pressione demografica.
Breve è stata per ora la vita del Commissariato, ma intensa la sua attività (predisposizione di trasferimenti temporanei e definitivi, spostamenti diretti, selezione dietro accurata indagine degli operai e delle famiglie desiderose di emigrare, protezione e assistenza durante il viaggio e nelle stesse sedi di lavoro, erogazione di premî colonici, di contributi per trasformazioni fondiarie, di sussidî di assistenza diretta o a enti per opere assistenziali, ecc.), cosicché i risultati raggiunti in questi anni possono dirsi veramente notevoli, sia dal punto di vista economico e demografico, sia da quello morale: non va dimenticato infatti che oltre ad alimentare lo spirito d'iniziativa e a migliorare le capacità lavorative nelle popolazioni emigrate e in quelle locali, le migrazioni interne, con i frequenti contatti che suscitano tra regione e regione, contribuiscono efficacemente alla formazione di una coscienza nazionale sempre più unitaria.
La rilevazione sistematica delle migrazioni interne (sulla base dei moduli statistici annessi alle richieste della concessione ferroviaria prevista per i lavoratori che viaggiano in comitiva e dei dati forniti dagli uffici di collocamento) è, come si è già detto, di origine assai recente e le indagini sulle caratteristiche fondamentali del movimento devono quindi limitarsi al quinquennio 1928-32.
Confrontando queste cifre con quelle fornite dall'ultima rilevazione compiuta nell'anteguerra, da cui risultò che nel 1910 si erano avuti 727.278 spostamenti periodici, di cui 559.434 per lavori agricoli e 167.844 per lavori industriali, non ci si deve stupire della notevole diminuzione verificatasi nel dopoguerra, poiché la riduzione dell'emigrazione per l'estero (per cui nelle zone d'immigrazione si trova ora una disponibilità maggiore di mano d'opera), lo sviluppo industriale (che ha assorbito permanentemente buona parte della mano d'opera prima fluttuante), la trasformazione della coltura estensiva in intensiva e la costituzione di nuovi centri rurali (che hanno accresciuto il rapporto della popolazione stabile a quella avventizia) oltre ad altre cause di minore importanza, giustificano pienamente tale contrazione delle migrazioni interne. L'aumento che si nota nel secondo e terzo anno della nuova statistica, nei confronti del primo, può forse in parte attribuirsi a una sempre più completa raccolta di dati, ma in gran parte è certamente frutto dell'azione svolta dal governo in questo campo. La flessione verificatasi nel 1931 è soprattutto da attribuirsi alla generale depressione economica. Nel 1932 si è già avuta però una sensibile ripresa, solo in parte dovuta a una più completa rilevazione.
È da notarsi inoltre che, come nell'anteguerra, dato il carattere tuttora prevalentemente agricolo dell'economia italiana, le migrazioni per lavori agricoli sono assai più numerose di quelle per lavori industriali. Nel primo gruppo prevalgono i movimenti determinati da lavori di raccolta del grano, del riso, delle ulive, delle mandorle e degli agrumi, da lavori di vendemmia e di taglio del fieno e da lavori accessorî, quali monda del riso, potatura e scasso delle viti, taglio dei boschi, tosatura delle greggi; movimenti che sono in genere periodici e di breve durata (nella maggior parte non superiore ai 40 giorni), dato il loro carattere spiccatamente stagionale, e che presentano una consistenza media non molto variabile col tempo. Le correnti migratorie per lavori industriali, che hanno una durata generalmente più lunga (per lo più superiore a due mesi), mancano invece quasi sempre del carattere di periodicità e, essendo determinate da una grande varietà di prestazioni d'opera, non presentano, d'anno in anno, scarti notevoli dalla consistenza media del fenomeno. La maggiore elasticità inoltre della domanda dei prodotti industriali, in confronto di quella dei prodotti agricoli, influisce anch'essa sulle oscillazioni delle migrazioni di questa categoria, che particolarmente risentono quindi del modificarsi della congiuntura economica. Tra le migrazioni per lavori industriali prevalgono quelle per costruzioni edilizie e stradali e per lavori di bonifica e di sistemazione idraulica; può dirsi che le migrazioni determinate da questi lavori, sebbene non costituiscano che la metà circa delle migrazioni per lavori industriali, siano quelle che influiscono sulla fisionomia di tutto il gruppo per quel che riguarda, sia la distribuzione del fenomeno durante i varî mesi dell'anno, sia la durata e l'ampiezza degli spostamenti, sia le zone di provenienza e di destinazione.
I compartimenti di maggiore emigrazione, in rapporto alla popolazione in essi presente, nel 1932 sono stati l'Emilia, l'Abruzzo e Molise, la Puglia e la Sicilia; quelli di maggiore immigrazione: la Lucania, il Lazio, il Piemonte e la Sicilia. In cifre assolute, il maggior contributo all'emigrazione è stato dato dall'Emilia, dalla Sicilia, dalla Lombardia, dal Piemonte e dalla Puglia; all'immigrazione: dal Piemonte, dal Lazio, dalla Sicilia e dalla Lombardia. Tra le provincie l'emigrazione massima è stata data da Bari, Messina, Ferrara, e Novara e la più alta immigrazione da Roma, Vercelli, Pavia e Novara. Il primo posto tra i comuni d'immigrazione è stato raggiunto, come negli anni precedenti, da Roma, con 17.633 immigrati; la percentuale massima d'immigrazione in rapporto con la popolazione presente (2036‰) è quella invece del comune di Cisterna (Roma). Tra i comuni di emigrazione il primo posto come cifra assoluta spetta a Enna (3826 emigranti) e la percentuale massima (597‰) a Suno (Novara).
Per quel che riguarda il sesso, può dirsi che per 3/4 circa le correnti migratorie interne siano costituite da maschi e che più di 2/3 delle femmine emigrate provengano dall'Italia settentrionale. Per quel che riguarda l'età, gli emigranti sono per la maggior parte compresi tra i 20 e i 39 anni.
Per quel che riguarda in particolare l'emigrazione a carattere permanente, si noti inoltre che nel 1931 si sono stabilmente trasferite 841 famiglie con 5650 componenti di cui 3575 atti al lavoro e che nel 1932 tali cifre sono rispettivamente salite a 1371, 11.309 e 7708. Di queste 1371 famiglie, 834 (per la maggior parte provenienti dal Veneto: solo Padova ne ha date infatti 206) si sono stabilite nel Lazio, specie a Littoria (500 famiglie). Altri importanti centri di attrazione di questi spostamenti sono Mussolinia in Sardegna, Alberese in Toscana, e Sabaudia non lontana da Littoria. È interessante inoltre ricordare che nel triennio 1931-33, 820 famiglie sono state collocate in Libia, specie a Barce (Cirenaica).
Bibl.: A. Mortara, Il metodo e i mezzi della colonizzazione all'interno, Iesi 1892; A. Guffanti, La colonizzazione dei terreni incolti in Italia e le leggi agrarie allo scopo, Stradella 1900; A. Merlini, La colonizzazione interna, Pistoia 1901; E. Loscalzo, Legislazione agraria sociale e colonizzazione interna, Napoli 1901; A. Serpieri e E. Sella, Le affittanze collettive e la disoccupazione nell'agricoltura, Milano 1906; T. Bertucci, Bonifiche e colonizzazione, Roma 1909; L. Colaianni, Latifondi e colonie interne, Caltanissetta 1914; L. Razza, Il Commissariato per le migrazioini interne e i suoi compiti, in Le assicurazioni sociali, settembre-ottobre 1930; id., Migrazioni interne e colonizzazioni, in Nuova Antologia, febbraio 1932; G. U. Papi, Migrazioni interne e bonifica integrale (relazione al Congresso internazionale per gli studî sulla popolazione), Roma 1931. V. inoltre, Ufficio del lavoro, Le correnti periodiche di migrazioni interne in Italia durante il 1905, Roma 1907; id., per il 1910 e il 1911, Roma 1914; e le pubblicazioni statistiche del Comitato permanente delle migr. int., poi del Commissariato per le migr. e la colonizz. int. dal 1927 in poi.
Le migrazioni degli animali.
Sono spostamenti irregolari o periodici, volontarî o involontarî, mediante i quali a molte specie animali vengono assicurati cibo e condizioni di esistenza particolarmente favorevoli alla propria conservazione o all'allevamento della prole. La maggior parte delle specie animali, moltiplicandosi in proporzione geometrica, non ha spazio e nutrimento sufficienti nella località d'origine; tende pertanto a diffondersi intorno all'area primitiva fino a che non trovi ostacoli nell'ambiente esterno o nella propria costituzione. Un braccio di mare, un fiume, una catena di montagne, un deserto, possono essere ostacoli altrettanto insormontabili come la poca o punta resistenza ai cambiamenti di temperatura, d' igrometricità, di salsedine, ecc. Le specie incapaci di vincere tali difficoltà sono sedentarie e formano, nel loro insieme, la fauna caratteristica di quel territorio o di quella superficie marina o d'acqua dolce. Altre invece, dotate di mezzi atti a superare gli ostacoli, se euricore, ossia indifferenti ai cambiamenti di clima e di ambiente, divengono cosmopolite; se stenocore, ossia più o meno incapaci di resistere a tali modificazioni, vanno a cercare a diversa latitudine condizioni adatte di vita.
Tali migrazioni, quando sono dovute all'azione di agenti esterni, si dicono passive; attive invece sono quelle che gli animali compiono per impulso proprio. Appartengono alle prime quelle di animali marini che le correnti trasportano a grande distanza e quelle di animali terrestri, trasportati dal vento o da correnti fluviali e marine o da altri animali. A parte la presenza di Chirotteri e di Uccelli in tutte le isole della Polinesia, che non può essere spiegata senza ammettere una migrazione almeno parzialmente passiva, favorita dal vento, è accaduto che parecchi uccelli e insetti siano stati trascinati dalle tempeste attraverso l'oceano, dalle coste dell'America Settentrionale a quelle d'Europa. Molti germi di animali acquatici, come cisti di protozoi e uova di crostacei fillopodi, sono pure trasportati assieme a granelli di sabbia in quelle regioni dove spirano venti di straordinaria potenza. Ammassi di fronde e di rami schiantati e caduti nelle acque di un fiume in piena, sono giunti al mare e, lanciati dalla corrente in pieno Oceano hanno raggiunto, dopo lunga navigazione, terre lontane depositandovi topi, anfibî, lucertole, artropodi e molluschi, ricoverati su quelle al momento della perturbazione atmosferica. In tal modo si spiega, p. es., la presenza alle isole Hawaii di un rospo di origine nordamericana.
Non di rado gli uccelli acquatici sono vettori di germi di altri organismi, come statoblasti di briozoi, gemmule di spugne o efippi di cladoceri, che si trovano entro grumi di fango attaccati alle loro zampe, o di organismi adulti come piccoli gasteropodi e conchiglie bivalvi serrate intorno a un dito. È stato ugualmente provato che intere covate di uova di Limnaea limosa, possono attraversare impunemente l'intestino del cigno, conservando la capacità di sviluppo dopo di essere state depositate, con gli escrementi, nell'acqua. Anche gl'insetti possono trasportare a distanza altri animali, specialmente acari in stato larvale, i quali si attaccano al tegumento dei primi, con apparecchi adatti allo scopo. Ma il principale vettore di animali è stato ed è l'uomo. Coi navigli e con le carovane egli ha trasportato, talvolta inconsciamente, tal'altra più o meno volontariamente, una grande quantità di piccoli animali, così che non è facile riconoscere oggi quale sia la fauna realmente autoctona di certe isole, che hanno ricevuto da gran tempo immissioni di specie estranee. Sembra che il ratto nero sia stato introdotto in Europa durante il sec. XIII, da navi reduci dalle crociate. Così pure un'intera fauna di animali marini, che vivono attaccati a corpi sommersi, ha potuto, fissandosi alla carena delle navi, diffondere la propria specie in luoghi molto lontani da quelli d'origine.
L'uomo ha pure diffuso in ogni parte del mondo i più dannosi parassiti delle piante coltivate, come la fillossera della vite, la cocciniglia del gelso e parecchie altre degli agrumi e delle frutta, trasportandole inconsciamente con piante o loro parti; ha turbato l'equilibrio di molte faune locali, introducendovi animali domestici che poi si sono rinselvatichiti, come cani, gatti, conigli, oltre ad animali selvatici, come volpi, cervi, passeri, storni, pesci di varie specie.
Migrazioni passive di grande interesse, anche pratico, ci presentano quei parassiti, i quali compiono una parte del loro ciclo di sviluppo entro un ospite intermedio. I tripanosomi, agenti patogeni della malattia del sonno e di parecchie epidemie che infestano animali domestici nei paesi tropicali, compiono parte del loro ciclo vitale nell'intestino di alcune specie di mosche, le quali ne trasmettono i germi da uomo a uomo, da mammifero a mammifero; questi a loro volta, isolatamente o in carovana, sono vettori a distanza dei tripanosomi stessi. Fatti analoghi si verificano per altri parassiti del sangue, come plasmodî e affini, quando sono trasportati da uccelli migratori. In questo caso la migrazione attiva di taluni animali è condizione che favorisce la migrazione passiva di altri. Anche parecchie specie di vermi intestinali, come tenie e filarie, possono migrare a distanza, sia allo stato di larva che di adulto, nei tessuti o nei visceri dei vertebrati che li ospitano.
Le migrazioni attive che gli animali compiono, valendosi dei proprî mezzi di locomozione, possono essere irregolari o periodiche. Tra le prime vanno ricordate quelle delle cavallette, determinate dal bisogno di cibo, quando questi insetti diventano troppo numerosi nel loro paese d'origine. La specie più notevole sotto questo aspetto è il Pachytilus migratorius, che fu incontrato da Darwin a 595 chilometri dalla costa. A Madera ne giunsero grandi sciami nel 1844, partiti evidentemente dall'Africa. Anche le libellule compiono talvolta migrazioni in massa, ma non vanno tanto lontano come le cavallette. Una farfalla, la Vanessa cardui, ha attraversato varie volte il Mediterraneo, dall'Africa alla Francia meridionale, formando nel cielo vere nuvole. Alla medesima categoria appartengono le migrazioni di un mammifero rosicante, il Lemming (v. ellobio) e quella della pernice delle sabbie (Syrrhaptes paradoxus), venuta in Europa dalle steppe dell'Asia, non meno di cinque volte tra il 1863 e il 1908, senza che la specie abbia potuto accantonarsi nei nuovi quartieri, perché distrutta da cacciatori.
Le migrazioni periodiche hanno luogo regolarmente in determinate stagioni dell'anno e sono verosimilmente in relazione con fatti istintivi e con reazioni a cambiamenti di stagione. Anche esse hanno per scopo la conservazione dell'individuo e della specie, in armonia con le esigenze costituzionali di quest'ultima. Se una specie animale è atta a vivere in luoghi freddi, regione polare o alta montagna, al giungere dell'inverno essa trova gravi difficoltà per procurarsi il cibo e, quando non abbia la possibilità di superare l'inverno in letargo come la marmotta, deve spostarsi scendendo nelle vallate o compiendo estese migrazioni come quelle dei caribou (renne del Nord-America). Non diversamente i bisonti che pascolavano durante l'estate nelle ampie praterie del Canada settentrionale, si dirigevano in autunno verso i pascoli dell'Arkansas e del Mississippi, dove trovavano erba fresca e abbondante. Se la specie può volare e la dimora è stabile, le escursioni per la ricerca del cibo possono essere anche giornaliere. Alcune rossette dell'India (grossi pipistrelli frugivori) percorrono ogni notte, in grandi branchi, da 40 a 70 km. e altrettanti al ritorno, per andare a cercare frutta mature che non trovano più nel luogo dove abitano. Si comprende in tal modo come numerose specie di pipistrelli abbiano potuto colonizzare le isole della Polinesia e come un'unica specie (Atalapha grayi) segnalata alle isole Sandwich, situate a 3200 chilometri dalla California, appartenga a un genere esclusivamente americano. In questo caso è probabile che la migrazione attiva per la ricerca del cibo sia stata aiutata dal vento. Anche il colombo migratore d'America (Ectopistes migratorius), percorreva centinaia di chilometri al giorno per andare dalle località di pernottamento e nidificazione al pascolo e ritornarne.
Le migrazioni periodiche stagionali più caratteristiche sono quelle dei Pesci e quelle degli Uccelli.
Migrazioni dei Pesci. - Glí spostamenti di questi animali sono spesso in rapporto con l'accrescimento individuale, dalla nascita fino allo stato adulto e più frequentemente con lo scopo di favorire la fecondazione e la deposizione delle uova, che trovano condizioni adatte soltanto in località determinate e circoscritte. Molte specie salgono, presso a poco nella medesima località, dagli strati profondi alla superficie delle acque o dal largo si dirigono verso la costa. Questi due modi di migrazione furono designati dal Brown Goode, batico o verticale l'uno, che sospinge perpendicolarmente l'animale dal fondo dell'acqua verso l'alto o viceversa; e litorale od orizzontale l'altro, che si svolge integralmente alla superficie. Talvolta le due direzioni sono associate in varî gradi: in ogni modo tali spostamenti sono, in generale, poco estesi.
Alle località adatte per la riproduzione affluiscono in gran numero, e anche da lontano, individui di una medesima specie, dando luogo a una migrazione di concentrazione, alla quale succede, ultimata la deposizione, una migrazione di dispersione, durante la quale i branchi si dividono e i singoli pesci si spargono, ritornando isolatamente ai luoghi donde erano partiti. Tali pesci migratori possono essere distinti in tre categorie principali. Una di esse comprende specie che depongono le uova nelle acque dolci, ma compiono il loro accrescimento quasi integralmente nel mare: salmone, alosa, storione, lampreda. Il Roule le chiama specie potamotoche (dal gr. ποταμός "fiume", e τόκος "figliolanza"). Una seconda categoria, per la quale lo stesso autore ha proposto il nome di talassotoca (da ϑάλασσα "mare"), comprende specie che si comportano come l'anguilla, la quale depone le uova in mare, ma cresce e si sviluppa nelle acque dolci. La terza categoria, che è la più numerosa, comprende le specie che i pescatori chiamano di stagione, le quali non abbandonano mai il mare o, rispettivamente, l'acqua dolce, moltiplicandosi e crescendo adunque nello stesso ambiente, ma compaiono periodicamente in determinate località di mare o di lago ciascun anno e la loro comparsa è regolata dal ritmo delle stagioni.
Le migrazioni del salmone possono essere prese come esempio dei viaggi delle specie potamotoche (v. salmonidi). Tra i pesci talassotochi, il più caratteristico è l'anguilla, che da sedentaria diventa migratrice quando si destano gl'istinti sessuali (v. anguilla). Quale esempio di migrazione stagionale può essere presa quella del tonno (v.).
Il determinismo delle migrazioni dei pesci è stato oggetto di ampie discussioni. All'opinione che esse siano provocate da istinti analoghi a quelli che regolano i viaggi degli uccelli e dei mammiferi, si sostituisce oggi l'altra che tali migrazioni esprimano reazioni dell'organismo che risente le influenze esercitate dall'ambiente con maggiore intensità di quanto non accade per gli animali terrestri. La tenue differenza di peso specifico fra il corpo dei pesci e l'acqua nella quale essi sono sospesi; la dipendenza della temperatura del loro corpo da quella dell'acqua in cui vivono; lo scarso uso, consentito dallo speciale ambiente, di tutte le attività sensoriali, rende in certo modo prevalente il lato vegetativo della loro vita, la quale soggiace maggiormente alle condizioni esterne che non a facoltà psichiche volitive di natura interna. I pesci migratori hanno una sensibilità differenziale di fronte all'ambiente, incomparabilmente superiore a quella dei pesci sedentari: sensibilità specificamente diversa nei confronti di una piuttosto che di un'altra condizione esteriore: il salmone, ad esempio, è ipersensibile alla proporzione dell'ossigeno sciolto nell'acqua, mentre è indifferente alla salsedine; il tonno al contrario appare ipersensibile a quest'ultima e alla temperatura e possiede dunque forte sensibilità alotermica, mentre sembra indifferente al grado di ossigeno contenuto in soluzione nelle acque frequentate. Indubbiamente poi tale sensibilità non è costante per tutta la vita dell'individuo: essa oscilla fra uno stato di esaltazione e di depressione, che è in rapporto con la funzionalità organica. La massima esaltazione coincide col periodo di attività sessuale e coi primi stadî di sviluppo dei giovani. I vallicultori sanno che le anguille e i muggini vanno al mare quando la corrente marina si spinge fino a far loro sentire materialmente la sua presenza: allora i pesci si orientano nella sola direzione del mare. Uno stimolo esterno cui la costituzione dell'individuo non è indifferente, provoca con una reazione ora positiva e ora negativa, una serie di spostamenti che tendono a condurre l'organismo verso l'ottimo dell'ambiente necessario: la rapida dell'alta montagna dove l'ossigeno è più abbondante, l'abisso marino dove la pressione è massima, la baia poco profonda dove l'acqua è più calda e più salata; la migrazione va considerata in tal modo come una successione di spostamenti determinati dal bisogno per l'animale di cambiare di ambiente ed entra nella categoria dei tropismi (v.), ossia dei movimenti coi quali l'organismo reagisce a uno stimolo esterno avvicinandosi alla sorgente di questo o allontanandosene (v. pesci).
Migrazioni degli Uccelli. - Questo fenomeno è noto fin da tempi antichi, ed è stato ed è ancora oggetto di numerosi studî. Questi vengono compiuti per mezzo di osservatorî ornitologici, i quali si valgono di anelli di alluminio o di altro metallo, posti al piede di esemplari di nido ovvero di esemplari catturati allo stato adulto e successivamente rilasciati. L'anello porta inciso, oltre al nome dell'osservatorio che lo ha applicato, un numero d'ordine, che serve a identificare l'esemplare, quando esso sia stato ucciso o preso dopo l'anellamento. In Italia varî osservatorî ornitologici operano sotto la direzione dell'Istituto Zoologico della R. Università di Bologna, i cui anelli portano la dicitura: Univ. Bologna Italia, seguita dal numero d'ordine. Il più importante degli osservatorî italiani è quello del Garda con sede a Salò. L'osservatorio di Castelfusano (Roma), fondato dal principe F. Chigi, è posto sotto il controllo dell'Istituto di Zoologia della R. Università di Roma, e i suoi anelli portano la dicitura: Caccia C.O.N.I. Roma, seguita dal numero. Gli osservatorî raccomandano, a mezzo di periodici agrarî e venatorî, la restituzione della targhetta, accompagnandola con la notizia della data e della località di cattura; in generale l'interesse destato sul cacciatore dalla vista di un anello recante il nome di un lontano paese è tale, che esso non trascura di avvertire dell'avvenuto ritrovamento l'istituto che ha applicato l'anello. Calcolando che gli uccelli anellati raggiungano ormai parecchie decine di migliaia all'anno e che ne vengano ripresi circa il 10%, s'intende come il sistema abbia consentito, in oltre un trentennio, di raccogliere tale quantità di dati analitici, da risolvere non solo problemi relativi alla migrazione delle singole specie, ma pure taluni aspetti del problema generale.
Oggi si conoscono assai bene le principali vie di migrazione. Gli uccelli americani partono dalla latitudine che va dall'isola di Terranova alla costa di Vancouver e tendono a concentrarsi nell'America Centrale e nel Golfo del Messico. Da questa zona le vie più frequentate sono quelle che puntano sulla penisola del Yucatán e nel Messico meridionale, e quella che percorre la Florida, le Bahama, Haiti e le Piccole Antille.
Le migrazioni nel continente antico sono più complesse. Vi si possono riconoscere cinque grandi ventagli aperti a nord nella zona iperborea e confluenti a sud nell'emisfero australe o almeno nella zona tropicale. Nell'ambito di ciascun ventaglio le singole specie seguono una loro via particolare. Un gran numero di uccelli proveniente dalla Siberia occidentale, dall'Europa, dalle Spitsbergen e dalla Groenlandia migrano nel territorio che ha per base il parallelo che attraversa codeste terre e per vertice il tratto di meridiano che taglia la Senegambia. Vi si comprendono quelle specie che sogliono passare sulle Prealpi lombarde e sono oggetto di aucupio nelle uccellande; volano da nord-est verso sud-ovest, ma la loro migrazione si compie in un primo tempo nel senso della latitudine; piegando più decisamente nel senso della longitudine quando la massa migrante raggiunge l'Oceano Atlantico. I tordi e i fringuelli inanellati al Lago di Garda sono ripresi generalmente in Provenza; crocieri inanellati nella stessa località hanno pure seguito la medesima via fino al Golfo di Guascogna, piegando poi a sud nella Biscaglia e nel Portogallo.
Parecchie specie di uccelli dell'Europa centrale, dei Balcani, del Caucaso, dell'Asia Minore, del Turkestan e della Persia convergono le loro vie di migrazione e vanno a svernare al sud in località che si trovano sul percorso: Egitto, Arabia, Africa orientale, Natal. Per queste specie il viaggio è più decisamente in direzione da N. a S., nel senso della longitudine. Vi appartengono lo storno che, inanellato al Garda, è stato ripreso in Algeria e in Tunisia e la cicogna che, dopo aver nidificato in Olanda e in Germania, va a svernare nel sud Africa. Un terzo ventaglio, meno importante dei precedenti, comprende specie che nidificano nella Russia orientale, nella Siberia occidentale e nei territorî adiacenti e vanno a svernare nel Belucistan e nella costa occidentale dell'India. Le specie migratrici che nidificano sull'Himālaya e nel Tibet, migrano d'inverno al sud nelle pianure settentrionali dell'Indostan e dell'Assam. Finalmente numerosi migratori che nidificano nella Siberia orientale tra il corso del Jenissei e le coste del Camciatca scendono a svernare nel Giappone, nella Cina, nell'Indocina, nelle isole della Sonda, nelle Filippine e anche in Australia. Oltre a questi grandi ventagli di migrazione, va tenuto conto anche di spostamenti migratorî propri a molte specie di uccelli tropicali e di uno speciale nomadismo che sembra caratteristico di parecchie specie australiane.
La migrazione degli uccelli verso le aree di svernamento si chiama passo; quella di ritorno verso i luoghi di nidificazione, costituisce il ripasso. I due viaggi presentano caratteristiche diverse: la via del ritorno è sensibilmente differente da quella dell'andata; infatti parecchie specie di uccelli che passano d'autunno in un determinato territorio non vi si trovano in primavera e viceversa, perciò non accade di riprendere nelle uccellande a primavera, uccelli inanellati d'autunno nelle medesime località. Il passo si svolge prevalentemente sopra una linea ad arco diretta, come si è detto, da nord-est a sud-ovest, mentre il ripasso sembra seguire piuttosto la corda dell'arco stesso. Nel ripasso gli uccelli seguono la via più breve e la percorrono con maggior fretta. Essi, in primavera, sono anche scarsi, giacché durante le migrazioni molti periscono a cagione delle burrasche marine, dei venti, della mancanza di cibo. È noto da tempo che molti uccelli cadono in mare e vi annegano, ma nelle recentissime spedizioni italiane all'oasi di Kufra sono stati osservati nel deserto numerosissimi cadaveri di uccelli migratori, onde si deduce che la traversata del Sahara è causa di molte perdite.
Nei luoghi interposti lungo le grandi vie di migrazione, gli uccelli possono essere distinti in estivi e nidificanti, invernali, di passo, di doppio passo. Rondini e quaglie hanno in Italia i loro luoghi normali di nidificazione; le anitre, che nidificano molto al nord, svernano nel nostro paese; la beccaccia e il beccaccino passano due volte, il croccolone una volta. Queste distinzioni non modificano il quadro generale delle vie di migrazione e dipendono da esigenze specifiche e principalmente dal vario grado di stenotermia o di euritermia, le cui oscillazioni si aggirano intorno a temperature ora più basse e ora più alte; dalla possibilità di trovare nutrimento adatto e dalla maggiore o minore lunghezza del volo.
Il tempo ha poca influenza sull'inizio della migrazione, ma durante la medesima le condizioni atmosferiche possono influire interrompendola o ritardandola; il volo ha luogo generalmente di notte, ma vi sono uccelli che viaggiano anche di giorno, come le rondini e i rapaci diurni: alcuni volano indifferentemente di giorno e di notte, come le cicogne, gli aironi, le oche e le anatre. La velocità del volo varia a seconda della specie: si calcola che il cigno percorra 60 km. all'ora, la folaga 90, l'alzavola 130, il rondone più di 200 km. all'ora. L'altezza del volo è per solito di poche centinaia di metri, ma può oltrepassare anche i duemila e giungere ai quattromila metri sul livello del mare.
Due teorie principali hanno cercato di spiegare la causa delle migrazioni. Secondo l'una gli uccelli che vivevano prima del periodo glaciale nelle regioni polari, ne sono stati scacciati a poco a poco dal sopraggiungere dei ghiacci, ma hanno conservato la consuetudine di tornare a nidificare nella loro patria primitiva. Secondo l'altra gli uccelli avrebbero avuto origine nei paesi meridionali, ma un eccesso di popolazione li ha spinti, verso la fine del periodo glaciale, a nidificare al nord, donde il freddo invernale li scaccia temporaneamente.
Altro problema interessante è quello di tentare di sapere come gli uccelli possano trovare o riconoscere la via da seguire nel loro viaggio di andata e ritorno. Molte ipotesi sono state emesse, tutte poco soddisfacenti; è probabile peraltro che si tratti di un fenomeno assai complesso, nel quale un presumibile senso di orientamento, una memoria topografica dei luoghi veduti, una fine sensibilità alle variazioni atmosferiche contribuiscono a determinare la direzione del volo, nella qual cosa istinti e tropismi associati avrebbero dunque la loro azione (v. uccelli).
Bibl.: W. Rowan, The riddle of migration, Baltimora 1931.