Corte europea dei diritti umani
Nel periodo di riferimento (ottobre 2015-settembre 2016) si registrano numerose ed importanti sentenze della Corte europea dei diritti umani relative al trattamento dei richiedenti asilo, a you tube, al trasferimento di dati fiscali, alla vexata quaestio del caso Abu Omar, alla libertà religiosa e di espressione.
Il tema della tutela dei richiedenti asilo è stato al centro dell’attenzione della C. eur. dir. uomo che ha accertato, il 15.10.2015 (L.M. ed altri c. Russia) una violazione dell’art. 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di tortura) da parte della Russia a causa dell’espulsione sommaria di un palestinese e di due cittadini siriani che avevano richiesto lo status di rifugiati in presenza di gravi e comprovati rischi per la loro incolumità nello Stato di origine1. Anche per Malta, nel caso (Abdi Mahamud c. Malta) la Corte ha constatato una violazione dell’art. 5 CEDU (diritto alla libertà e alla sicurezza) e, ancora, dell’art. 3 a causa del trattamento degradante subito dalla ricorrente per l’eccessiva durata della detenzione seguita alla sua richiesta di asilo in assenza di una risposta dalle Autorità competenti. Ancora la Russia e la Moldavia, il 23.2.2016, sono state ritenute responsabili della violazione dell’art. 3 e dell’art. 5 CEDU, per fatti avvenuti nella martoriata regione della Transinistria (Mozer c. Russia e Moldavia).
Il 23.3.2016, la Grande Camera della Corte, con revirement della sua precedente giurisprudenza del 2014, ha altresì accertato l’illegittimità dell’espulsione da parte della Svezia del ricorrente F.G. (F.G. c. Svezia). Il caso riguarda un cittadino iraniano, F.G., che aveva chiesto protezione alla Svezia allegando di essere membro di un movimento di protesta contro il regime politico iraniano, ragione che lo esponeva ad un rischio di persecuzione nel caso di un eventuale ritorno in patria.
Dopo il rigetto, nel 2009, della richiesta di protezione internazionale,il ricorrente impugnava il predetto atto, allegando, come possibile motivo di persecuzione, la conversione al cristianesimo nel frattempo intercorsa. A seguito del successivo rigetto della richiesta, con la Svezia che ometteva di esaminare il nuovo motivo avanzato a fondamento della richiesta di protezione internazionale, F.G. ricorreva alla C. eur. dir. uomo, che disponeva ex art. 39 del proprio regolamento il diritto del ricorrente, a titolo cautelare,di restare in Svezia. Il processo si è concluso con l’accertamento di una violazione da parte della Svezia degli artt.2 e 3 della CEDU: secondo la Corte, infatti, la Svezia aveva l’obbligo di valutare anche il successivo motivo avanzato dal richiedente protezione internazionale, ossia la conversione al cristianesimo.
Tra le ulteriori pronunce della Corte vanno poi menzionate la condanna dell’Italia nel celeberrimo caso Abu Omar avvenuta il 23.2.20162 e della Svizzera, il 21.6.2016, con riferimento alla annosa questione dei rapporti tra lotta al terrorismo realizzata tramite risoluzioni dell’ONU e diritto ad un equo processo3. In quest’ultimo caso, a differenza dei giudici svizzeri, per la Corte, non vi è necessariamente contrasto tra l’attuazione di dette risoluzioni, l’art. 103 della Carta ONU e la tutela dei diritti umani.
Non si è, invece, riscontrata una violazione della CEDU, allorché, in un’altra pronuncia (G.S.B. c. Svizzera), il ricorrente ha impugnato l’accordo di mutua assistenza amministrativa in materia fiscale tra Svizzera e Stati Uniti che pone fine al segreto bancario, lamentando una violazione del proprio diritto alla privacy (art. 8).
In Turchia, tre docenti di varie università hanno denunciano il blocco di Youtube e di un sito internet che consentiva loro di condividere, visualizzare ed inviare video. Qui, la Corte ha riscontrato una particolare forma di violazione della libertà di espressione (art. 10) che ha interferito con la libertà di ricevere e comunicare informazioni e idee, oltre alla violazione del diritto ad un equo processo (art. 6) (Cengiz e Altri c. Turchia, 1.12.2015). Va segnalato, in proposito che, a seguito del fallito colpo di Stato, il 21 luglio 2016, la Turchia ha sospeso l’applicazione della CEDU.
In data 1° settembre 2015, nel caso Maria Alfredina da Silva Carvalho Rico c. Portogallo, la C. eur. dir. uomo ha giudicato inammissibile in quanto manifestamente infondato un ricorso che rileva sotto il profilo dei diritti economici e sociali in Europa.
La ricorrente era una pensionata portoghese che riceveva una pensione di 1980,72 euro al mese. A seguito della negoziazione, tra Portogallo e UE, di un programma di assistenza finanziaria che prevedeva la riduzione delle pensioni di importo superiore ai 1500 euro mensili, la ricorrente lamentava, dinanzi alla Corte, una violazione dell’art. 1, Protocollo 1 della CEDU (tutela del diritto di proprietà), nonché degli artt. 13 e 14 della CEDU (diritto ad un ricorso effettivo e divieto di discriminazione).
La Corte, pronunciandosi con riferimento al solo art. 1, del Primo Protocollo CEDU, ha rilevato che la compressione del diritto di proprietà della ricorrente risultava legittima in quanto giustificata da motivi di pubblico interesse e adottata come misura transitoria in una situazione di emergenza nazionale. Da ultimo, la Corte ha anche rilevato come la misura in esame fosse proporzionata, in quanto frutto di un equo bilanciamento tra l’interesse pubblico da tutelare ed il diritto individuale fondamentale della ricorrente.
In un’altra pronuncia, del 21.1.2016, la Corte, nel caso L.E. c. Grecia, ha condannato la Grecia per violazione dell’art. 4 della CEDU (divieto di schiavitù), dell’art. 6 CEDU (diritto ad un equo processo) e dell’art. 13 CEDU (diritto a un ricorso effettivo), liquidando una somma di 12.000 euro di danni non patrimoniali alla ricorrente, oltre a 3.000 euro di spese legali. Il caso riguarda una donna nigeriana, condotta in Grecia con la prospettiva di un lavoro ma poi costretta a prostituirsi da un trafficante di esseri umani suo connazionale. La ricorrente lamentava le lacune del sistema, sottolineando come gli inquirenti avessero aperto le indagini solo dopo nove mesi dalla denuncia e come la prima udienza davanti alla Corte d’assise di Atene si fosse svolta dopo 4 anni e 8 mesi dalla denuncia. La ricorrente sottolineava le lacune nelle indagini delle autorità, colpevoli di non aver fatto tutto il necessario per trovare il trafficante, trascurando le indicazioni fornite dalla vittima.
Nel caso Navalnyy e Ofitserov c. Russia, del febbraio 2016, la Corte ha condannato la Russia per violazione dell’art. 6 della CEDU, che sancisce il diritto ad un equo processo. I due ricorrenti, un’attivista dell’opposizione, avvocato e blogger in attività (Navalnyy) ed un uomo d’affari (Ofitserov), erano stati condannati per appropriazione indebita al termine di un processo sommario ritenuto dalla Corte arbitrario ed iniquo. Nello specifico, la Corte ha rilevato come, durante il processo nazionale «the criminal law had been arbitrarily construed to the applicants’detriment» quelle che erano classificabili come semplici attività commerciali erano state considerate alla stregua di atti criminali.
Durante il processo nazionale, inoltre, si era appalesata una violazione del diritto dell’imputato ad essere ascoltato. Mr. Navalnyy aveva lamentato davanti ai giudici nazionali di essere vittima di una persecuzione politica dovuta alla campagna anti corruzione posta in essere nel 2010, campagna che vedeva coinvolti alti esponenti del Governo russo, tra cui anche il Presidente della Federazione Russa. Tale allegazione, però, non era stata neppure esaminata dal giudice nazionale. Proprio tale atteggiamento del giudice nazionale ha indotto la Corte a ritenere che il processo nazionale che aveva portato alla condanna dei ricorrenti fosse un processo politico, come tale dunque, in contrasto con l’art. 6 CEDU. Va peraltro notato che, in precedenza, nel caso Zakharov c. Russia del 4.12.2015, la Corte aveva riscontrato a carico della Russia anche una violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare)a causa del programma di sorveglianza telefonica del governo attuato su base diffusa. Viceversa, il 29.3.2016, la Grande Camera della C. eur. dir. uomo ha ribaltato la precedente sentenza datata 1.6.2014, ravvisando che, nel caso Bedat c. Svizzera, la Svizzera non avesse violato l’art. 10 della CEDU (libertà di espressione).
Anche il 25.2.2016, la Corte ha indicato che quando la stampa mette in gioco la vita privata degli altri, il diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU richiede ai giornalisti la più grande prudenza e precauzione. Pertanto, la Corte ha rigettato le opposte argomentazioni fondate sulla libertà di espressione avanzate dalla “Société de Conception de Presse et d’Edition” in Francia censurando, così, la pubblicazione commerciale delle foto di una vittima di tortura.
Note
1 V. il sito della C. eur. dir. uomo www.hudoc.echr.coe.int.
2 Su cui v. Scovazzi, T., Segreto di Stato e diritti umani: il sipario nero sul caso Abu Omar, in Diritti umani e diritto internazionale, 2016, 157 ss. ove riferimenti.
3 Al-Dulimi and Montana Management Inc. c. Svizzera.