La dottrina Obama in politica estera si è edificata sostanzialmente su due pilastri portanti. Il primo è stato il ridimensionamento nell’orizzonte strategico americano del grande Medio Oriente che, rispondendo alla volontà di chiudere con i fallimenti e le utopie targate neocon, ha registrato il progressivo disimpegno militare dalla regione e un parallelo rilancio del ruolo della diplomazia. Il secondo è stato il cosiddetto Pacific Pivot: quella strategia, cioè, che ha visto Washington impegnarsi nel rafforzamento del proprio ruolo nel teatro dell’Asia Pacifico. Entrambi i pilastri, quantomeno negli intenti dei suoi promotori, avrebbero dovuto viaggiare a completamento l’uno dell’altro e, pur discendendo da un medesimo obiettivo (il mantenimento della leadership americana), rispondevano a due differenti esigenze.
Il disimpegno da un teatro come quello mediorientale - considerato sempre più ingestibile e sempre meno cruciale grazie alle prospettive di affrancamento americano dalle risorse petrolifere regionali - doveva infatti servire per contenere gli insostenibili costi di un’egemonia dimostratasi troppo interventista, scongiurando lo spettro di quella che è definita ‘crisi fiscale’ per overstretching.
Il Pacific Pivot, invece, fuori da ogni retorica diplomatica, doveva servire a contenere la Cina, il più accreditato potenziale sfidante del primato americano non solo in termini di capacità materiali ma anche politiche. Fino a qui gli intenti politici e la pianificazione strategica; la realtà degli ultimi due anni, tuttavia, sembrerebbe aver costretto l’amministrazione Obama ad altro.
Lo scoppio della crisi ucraina e il continuo aggravarsi del caos iracheno-siriano hanno infatti obbligato il presidente a dover ritardare o quantomeno rivedere l’implementazione del piano, che avrebbe invece dovuto trovare già dal 2011-12 la sua chiave di volta. E sebbene la risposta scelta da Obama sia ricaduta in entrambi i casi su una gestione all’insegna della prudenza e del pragmatismo, sono proprio gli eventi di questo ultimo biennio ad aver scoperto il fianco della sua politica estera alle più accese critiche dall’inizio della sua Presidenza. Non solo da parte di tutti coloro che avrebbero voluto un’America più assertiva e muscolare con la Russia e lo Stato islamico, ma anche da tutti quei commentatori di stampo realista che invece avrebbero voluto un’America concentrata nel ribilanciamento strategico in Asia. Senza contare i forti malumori rispetto a tutta la gestione del dossier nucleare iraniano recapitati fin dentro al Congresso da sauditi e israeliani. Ma se sul versante mediorientale può apparire comprensibile l’aver scontentato tutti perseguendo una politica troppo ambivalente, ancorché coerente con il primo pilastro (leadership sì, ma solo from behind; contrasto al terrorismo, ma senza boots on the ground), sul versante asiatico appare difficilmente sostenibile l’accusa di avere più dibattuto che messo in pratica lo shift strategico annunciato.
Primo, poiché era quantomeno miope credere che gli Usa potessero restare del tutto indifferenti di fronte allo scoppio delle ultime due crisi internazionali: se oggi può avere senso parlare di un’Europa passata da security consumer a security provider e di un Medio Oriente ‘post-americano’ (per citare la definizione data nell’ultimo numero del 2015 di Foreign Affairs), è altresì inverosimile immaginare che Washington possa rimanere del tutto estranea alla gestione delle dinamiche di queste due regioni. Ciò detto, l’aver optato per una politica cauta, pragmatica, finanche ambigua, non solo ci dà la cifra della minore salienza geopolitica che a Washington si attribuisce a queste due regioni, ma ci fornisce anche la controprova di quanto l’attenzione strategica degli Usa si sia rivolta altrove. Secondo, poiché le iniziative concretamente messe in atto dall’amministrazione Obama a partire dal 2011 sono perfettamente coerenti con il lancio della strategia: dal rafforzamento delle intese con i più importanti alleati regionali (Giappone, Australia e Corea del Sud), all’estensione del campo della cooperazione di sicurezza sia con partner più recenti come l’Indonesia e il Vietnam, che con partner più datati come la Nuova Zelanda, la Thailandia, le Filippine e Singapore. Gli Stati Uniti, in altre parole, occupano oggi il baricentro di quel sistema hub and spoke che caratterizza la gestione della sicurezza in Asia-Pacifico in maniera molto più salda di quanto non lo occupassero già quattro anni fa. Terzo, poiché troppo frequentemente sembra sfuggire alle critiche il carattere multidimensionale del Pivot: il contenimento della Cina, infatti, non passa solamente dal rafforzamento della presenza militare, ma anche dalla necessità americana di recuperare terreno nella sfera economica. In questo senso, non ha subito alcuna battuta d’arresto la principale iniziativa messa in campo da Washington: quella Trans Pacific Partnership che significativamente coinvolge ben dodici nazioni tra le due sponde del Pacifico ma lascia fuori la Cina. Quarto, ben al di là della continua altalena di schermaglie tra la Us Navy e la marina militare di Pechino, che troppo spesso diventa la base per giudizi sulle reali disponibilità americane nel difendere alleati (Giappone in primis) e lo status quo regionale, il vero banco di prova temporale del Pivot si giocherà nei prossimi decenni. Un lasso di tempo che non deriva da alcuna procrastinazione, né da alcun suo declassamento nell’agenda del Pentagono, ma che al contrario risulta perfettamente in conformità, di nuovo, con quanto già messo nero su bianco nel 2011 da Hilary Clinton, nell’articolo America’s Pacific Century (su Foreign Policy) con cui l’allora Segretario di Stato aveva inaugurato ufficialmente il Pacific Pivot.
La partita iniziata nel Pacifico ha in palio l’egemonia della regione strategicamente più importante del mondo; ed obbligatoriamente si tratta di una partita di medio e lungo periodo. è solo qui e non altrove (né in Siria, né in Iran, né tantomeno nell’‘estero vicino’ russo) che il primato globale americano potrebbe essere sfidato. La competizione con la Cina e la sua principale risposta americana, il Pivot, appartengono cioè alla dimensione più propriamente strutturale della politica internazionale.