coscienza
Coscienza animale e autocoscienza dell’uomo
L’attribuzione o meno di una coscienza agli animali non umani ha notevoli ricadute etiche e sanitarie, poiché influenza le definizioni dei soggetti dotati di interessi e diritti morali. Entro il quadro dell’etologia cognitiva, negli ultimi decenni si è assistito alla crescita costante degli studi teorici e sperimentali sulla coscienza animale. Questi studi mostrano una notevole consapevolezza dell’esistenza di un problema epistemologico oltre che ontologico, riassumibile in una domanda: come facciamo a sapere che gli animali hanno una coscienza?
Studi etologici sul campo hanno raccolto esempi di comportamenti di animali selvatici cui è ragionevole attribuire intenzionalità e capacità di orientare i propri piani di azione, e lo sviluppo di ingegnosi esperimenti ha permesso di trattare in laboratorio, in maniera analitica, questioni legate alla consapevolezza, umana e animale. Entrambi gli approcci tendono a confutare la teoria, sostenuta da numerosi filosofi, da Aristotele a Wittgenstein, secondo la quale le esperienze coscienti sarebbero strettamente legate alla facoltà linguistica, e quindi distintive della specie umana. In effetti, risulta difficile dimostrare che esseri che non possiedono il linguaggio sono coscienti, perché il modo che usiamo comunemente per attribuire stati coscienti alle persone è proprio l’interazione linguistica. La coscienza di sé da parte di animali non umani e bambini pre-linguistici è stata provata dagli esperimenti davanti allo specchio. Diversi animali, ma non tutti, cui è stata posta una macchia, ad es. sulla fronte, mostrerebbero di riconoscere sé stessi nell’immagine riflessa dal momento che toccano la macchia e cercano di togliersela.
La presenza di coscienza, attraverso il confronto tra comportamenti svolti in condizioni normali (coscienti) e non normali (in cui la coscienza viene meno) è messa in evidenza dagli esperimenti di blindsight («visione cieca»). Questo fenomeno è stato inizialmente studiato su pazienti umani che, a seguito di una lesione alle aree della corteccia visiva primaria, presentano uno scotoma, cioè una porzione cieca del campo visivo; sono, quindi incapaci di percepire uno stimolo presentato nel campo visivo cieco. Sebbene neghino di vedere, alcuni pazienti manifestano abilità visive residue quando vengono forzati a farlo. Per es., se si presenta un puntino luminoso che si muove nel campo visivo cieco, e si chiede al paziente di dire ciò che vede, egli afferma con fermezza di non vedere nulla. Tuttavia, se gli si chiede di dare comunque una risposta, anche tirando a indovinare, quasi in tutti i casi il paziente muove la mano nella direzione corretta. Nel caso della visione cieca quindi, una persona mostra un comportamento basato sulla visione adeguato e corretto (muove la mano nella direzione giusta), ma tale comportamento non è accompagnato da una coscienza visiva dell’evento (il paziente nega di aver visto qualcosa). Sono stati quindi eseguiti alcuni esperimenti su animali per documentare la presenza di una dissociazione patologica tra comportamento con e senza visione cosciente, in modo da appurare se nella normale condizione fisiologica di visione l’animale abbia una visione cosciente, anche senza doversi attendere da lui delle risposte linguistiche. Le prime evidenze di questo tipo sono venute negli anni Sessanta del secolo scorso dalle ricerche su una scimmia (Helen) che aveva subito l’ablazione bilaterale della corteccia visiva. Dopo l’operazione, l’animale si comportava come se non avesse più una coscienza visiva. Tuttavia, col tempo mostrò uno straordinario recupero, al punto da essere in grado di raccogliere minuti pezzetti di cibo dal pavimento e di muoversi con scioltezza nell’ambiente. Ma, quando era spaventata, le prestazioni di Helen tornavano carenti, come se fosse ritornata improvvisamente cieca; era come se non le fosse possibile gestire in maniera cosciente il proprio comportamento, analogamente a quanto osservato nei pazienti umani blindsight. Negli anni Novanta alcuni esperimenti nei primati hanno messo in luce come il recupero funzionale seguito alla perdita della corteccia visiva primaria sia dissociato dalla coscienza. Tre scimmie con corteccia visiva primaria destra e prive di corteccia visiva primaria sinistra sono state in grado di apprendere due compiti: rilevare la posizione di stimoli presentati nel campo visivo cieco toccando lo schermo nella direzione in cui lo stimolo era appena sparito; discriminare, nel campo visivo sano (quello destro, opposto all’emisfero preservato), tra prove in cui veniva presentato uno stimolo e prove in cui non veniva presentato alcuno stimolo. I risultati più interessanti si sono ottenuti quando gli stimoli venivano presentati nel campo visivo cieco e si chiedeva alle scimmie di discriminare tra prove con stimolo e prove senza stimolo. Se non avessero avuto coscienza della comparsa dello stimolo, le scimmie avrebbero dovuto premere sempre il pulsante che indicava assenza di stimolo piuttosto che indicare la direzione di scomparsa dello stimolo, come invece è avvenuto. Questi esperimenti sembrano confermare l’ipotesi che altre specie animali possiedano stati soggettivi simili ai nostri, forse riassumibili in quel che chiamiamo coscienza negli esseri umani, a patto di specificare che il concetto di coscienza mal si presta a una definizione chiara e univoca. Alla luce degli studi sulla coscienza animale dovremmo concludere che gli stessi criteri, non conclusivi ma del tutto ragionevoli, che ci fanno credere nell’esistenza di altri esseri umani coscienti dovrebbero valere nel caso degli animali non umani. Inoltre, anche se tali stati sono difficili da valutare e misurare, sembra che il linguaggio non sia necessario per possedere la coscienza, e che questa sia tuttavia passibile di puntuali indagini scientifiche.