coscienza (conscienza)
Il termine appare nell'opera di D. una prima volta in Cv I II 7 che non li incontra sanza maliziata conscienza; si tratta dell'uomo che è indotto a lodare sé medesimo, il che non gli potrebbe succedere - spiega il Busnelli - se non avesse c. di qualche sua malizia o difetto.
In Rime XLII 12 certamente a mia coscienza pare, l'espressione ‛ a mia c. ' ha invece valore, quasi di locuzione, di " secondo me "; il termine non è quindi usato nel precedente significato morale di " consapevolezza di sé stesso ".
Questo valore di " consapevolezza " di sé o di altra cosa, in quanto implica responsabilità morale (una dettagliata analisi del concetto è in Tomm. Verit. 17 1c), è in Cv I III 8 e 9, e nelle occorrenze della Commedia: If XI 52 la frode, ond'ogne coscïenza è morsa; XV 92 pur che mia coscïenza non mi garra; XIX 119, XXVIII 115, Pg III 8, XIII 89, XIX 132, XXVII 33; in Pg XXXIII 93 né honne coscïenza che rimorda, D., appena bevuto del Lete, non ricorda più i suoi peccati, e questa sua recuperata innocenza provoca la rassegnata osservazione di Beatrice: e se dal fummo foco s'argomenta. Nel Paradiso, e in uno dei momenti più alti, troviamo l'ultima occorrenza; è la risposta di Cacciaguida al timore di D., e in questa risposta viene dipinta con grave giudizio quella parte di umanità che sentirà il forte agrume delle parole della Commedia: Coscïenza fusca / o de la propria o de l'altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca (Pd XVII 124).