SANMINIATELLI, Cosimo Andrea
– Nacque a Pisa l’8 settembre 1792, primo dei dieci figli di Giovan Francesco e di Luisa Seghieri Bizzarri, appartenente a una nobile famiglia cittadina.
Dalla terra di San Miniatello, presso Montelupo, un avo del casato paterno si era stabilito a Pisa nel 1518 dopo la riconquista fiorentina della città, dove diversi suoi discendenti ricoprirono nel tempo importanti cariche pubbliche. Questa ascesa sociale fu suggellata nel 1686 dall’ingresso nell’Ordine di Santo Stefano, attraverso la fondazione di un ricco baliato comprendente poderi e altri fondi, di cui nel 1792 fu investito Giovan Francesco, tenente delle guardie nobili.
Fu in quel contesto segnato da un notevole attaccamento ai valori nobiliari che si formò Cosimo, influenzato in profondità anche dalla spiccata religiosità paterna che davanti alla politica ecclesiastica napoleonica si tradusse in un ‘misogallismo’ oltremodo ostile all’intera esperienza della dominazione francese. Un rapporto poliziesco del 1814 ne registrava dunque la «vita ritiratissima, e le sue occupazioni consistenti in cantar messe, e Vespri insieme col Padre nella sua Cappella privata» (Pertici, 1992, p. 250). Dal 1808 nel frattempo frequentava insieme al fratello Donato, destinato a una brillante carriera amministrativa nel Granducato, la facoltà di diritto dell’Università cittadina, dove si laureò nel 1812.
La predisposizione di Cosimo Andrea verso prese di posizione e studi di carattere politico ebbe modo di manifestarsi già al tramonto del governo imperiale. Autore di un proclama che, ergendosi a difesa della piccola patria cittadina, diede voce al disappunto dei pisani per il rinvio della tradizionale festività del patrono san Ranieri, fino ad accusare di disprezzo per la religione il gonfaloniere e il consiglio della comunità appena restaurati, parallelamente si mise a concepire disegni politici per la penisola postnapoleonica, fra cui un organico progetto di federazione italiana.
In quella fase di epocali trasformazioni, in linea con una copiosissima pubblicistica sul tema, questo progetto del 1814 cercava un difficile equilibrio fra l’ostilità a ogni ipotesi unitaria, incompatibile per Sanminiatelli con il policentrismo della penisola e con quei principi di legittimità dinastica di cui auspicava un integrale rispetto, e un sentimento patriottico fondato su certe idee di primatismo esclusivamente culturale e religioso, che guardavano a una qualche forma di indipendenza e di solidarietà fra italiani. La soluzione venne da lui individuata in una confederazione di dodici Stati in cui non si assegnava al papa, ma all’imperatore d’Austria un ruolo di rilievo, riconoscendo all’autorità di Vienna un protettorato che mirava probabilmente a superarne l’opposizione al disegno federativo.
Se in questi elaborati giovanili non mancarono spunti italianisti e in qualche caso persino vagamente liberali, essi si inserivano tuttavia in un quadro di motivi di fondo non in contrasto con la futura nomea di Sanminiatelli: l’avversione feroce contro la Francia e ciò ch’essa rappresentava, il carattere religioso e arcade, più che politico, del suo patriottismo, una simpatia mai accantonata per l’Austria quale baluardo della conservazione e dell’equilibrio.
Meno di un decennio più tardi la sua fama di reazionario era infatti ormai consolidata, favorita da ulteriori esperienze e conoscenze che ne accentuarono l’identificazione con un’ideologia rigidamente nobiliare; nel 1820 vestì l’abito stefaniano come cofondatore con il padre di commenda con il titolo di baliato, e di lì a poco il granduca Ferdinando III lo nominò suo ciambellano di corte; ma soprattutto, in quegli stessi anni, fece una conoscenza decisiva, quella con Antonio Capece Minutolo principe di Canosa, stabilitosi dal 1817 a Pisa dopo la fine del suo primo ministero di Polizia a Napoli.
Per quanto l’amicizia da lui rapidamente stretta con il nobile napoletano non implicasse un immediato passaggio ad agente delle trame di Canosa, la crescente familiarità con il massimo esponente del sanfedismo italico ne consolidò fra i suoi concittadini la fama di spia e di delatore che condusse a una sua progressiva emarginazione nella società locale. Fra gli anni Venti e i primissimi anni Trenta andò incontro alla dura ostilità degli ambienti liberaleggianti pisani, non priva di atti violenti verso la sua persona, di cui restano esemplificativi gli ‘scherzi’ derisori dedicatigli dal poeta Giuseppe Giusti, memore degli umori che agitavano diversi studenti nei suoi anni universitari. Al contempo toccò con mano pure la distanza dal più flemmatico tradizionalismo del notabilato pisano, assai più in linea con il cauto conservatorismo della Restaurazione e ai cui membri riservò in tutta risposta l’epiteto di «legittimisti di moda» (Pertici, 1992, p. 263). Malgrado l’attivismo di Sanminiatelli nell’Ordine, gli altri cavalieri pisani ne limitarono in diverse occasioni ogni reale ascesa entro il sodalizio stefaniano.
Tale isolamento e la volontà, dopo il trauma del luglio del 1830 e degli effetti da esso prodotti in Europa e nella penisola, di dare un profilo più chiaramente impegnato al suo legittimismo, lo spinsero ad abbandonare nella primavera del 1832 la Toscana per trasferirsi nello Stato simbolo del movimento reazionario. Grazie alla protezione e alla raccomandazione di Canosa riuscì a ottenere un posto di bibliotecario all’Estense di Modena, da dove cominciò a collaborare alacremente con le riviste sorte sotto la protezione di Francesco IV, La Voce della Verità e L’Amico della gioventù, nonché con La Voce della ragione di Monaldo Leopardi.
In un gran numero di articoli e opuscoli pubblicati da allora alla metà degli anni Trenta difese in maniera quantomai inflessibile il principio di legittimità e, primeggiando in polemica e in toni apocalittici, ne teorizzò l’inevitabile trionfo. Ai rischi di sovversione sacrificò persino le sue convinzioni religiose, arrivando a difendere il sultanato contro l’insurrezione greca e a non guardare con eccessiva simpatia neppure alla causa dei cattolici irlandesi opposti all’Inghilterra anglicana e liberale. Ebbe modo di polemizzare furiosamente con tutti, con Giuseppe Mazzini e le sue idee unitarie, con le molteplici ma – ai suoi occhi – subdole iniziative ispirate all’incivilimento ottocentesco e all’ideologia del progresso dei moderati, con quanti, come Pietro Colletta e la sua Storia del Reame di Napoli e Niccolò Tommaseo, rivolsero attacchi diretti al suo protettore Canosa.
A dimostrazione di quanto la cultura dell’intransigentismo controrivoluzionario fosse ben lontana dal rappresentare la reale incarnazione dello spirito della Restaurazione sancita a Vienna, egli fu tra i più fermi e incalzanti assertori della convinzione che con le nuove idee non fosse possibile alcuna ipotesi di patteggiamento, rigettando ogni forma di politica dell’amalgama. Con notevole veemenza redarguì re e imperatori per l’abrogazione di privilegi e istituti di antico regime, arrivando ad esempio a condannare la sostanziale indifferenza con cui l’Europa guardò alla cancellazione della legge salica in Spagna (Sulla recente abrogazione della legge salica operata in Spagna, s.l. 1833). Solo due sovrani in Europa furono realmente degni allora dei suoi elogi e della loro corona: l’immortale monarca di Spagna Ferdinando VII e l’incomparabile Francesco IV «che solo seppe conservare in Italia il fuoco sacro della legittimità» (Brevi considerazioni sulla politica Europea al principio dell’anno 1833, Italia 1833, p. 23).
Ma fu proprio il salire di tono di questa polemica interna al proprio campo, che giunse fino a biasimare le potenze della Santa Alleanza per non aver fatto guerra alla Francia orleanista scaturita dalla rivoluzione di luglio, a metterlo in gravi difficoltà. Il punto di non ritorno fu la definizione di «quadrupede» e di «quadrupedi», riservata ai contraenti del trattato della quadruplice alleanza liberale sottoscritto nell’aprile 1834 fra Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo e scritta in un opuscolo mentre era alla macchia (Il re Carlo V trionfante in Spagna ed il trattato dei contraenti quadrupedi agonizzante in Europa, s.l. 1834); rischiando di mettere diplomaticamente in gravi imbarazzi il piccolo Ducato emiliano, offrì un argomento forte ai suoi avversari entro lo Stato estense, a partire dal potente ministro Girolamo Riccini già in rotta di collisione con il suo protettore Canosa. Questi chiese la proibizione dello scritto e ottenne l’allontanamento di Sanminiatelli da Modena. Licenziato per i suoi eccessi, scaricato anche dalla Voce della Verità, nella seconda metà del 1834 si stabilì a Pesaro attorno al cenacolo legittimista del cardinal legato Tommaso Riario Sforza e dell’editore Annesio Nobili. Nel luglio del 1835 provò a rientrare nel territorio estense, stabilendosi questa volta a Reggio, dove vivevano i genitori della moglie Giuseppa Rabascini, figlia di un funzionario delle Dogane di simpatie canosiane sposata nel 1832 e con la quale ebbe un anno più tardi il figlio Raniero, futuro pubblicista e letterato dilettante amico di Giosue Carducci. L’incaricato provinciale di polizia e Riccini si opposero però alla sua permanenza in città, e meno di due mesi più tardi fu costretto a tornare nello Stato pontificio, il cui governo fu peraltro messo in guardia dall’influente ministro estense sui rischi derivanti dall’ospitare un «accendi fuoco» come Sanminiatelli (Giusti, 1932, I, p. 176), sempre in grado di inimicare i sovrani legittimi agli occhi dei propri popoli. Trascorsi circa due anni a Bologna, le gravi difficoltà economiche in cui versava ormai dai tempi del licenziamento subito a Modena lo costrinsero nel 1837 a un umiliante ritorno nella ripudiata Toscana. Alla ricerca di una qualche forma di aiuto fra i membri della famiglia d’origine, le condizioni finanziarie lo portarono in quell’anno persino alla rottura con l’amato Canosa, cui si rifiutò con ostinazione di restituire un precedente debito di cento scudi romani.
Stabilitosi definitivamente a Firenze vi morì il 2 febbraio 1850.
Fonti e Bibl.: L’Archivio della famiglia Sanminiatelli, depositato dal 2005 presso l’Archivio di Stato di Pisa (su cui si veda B. Casini, Notizie degli archivi toscani, in Archivio storico italiano, CXVIII (1960), pp. 386 s.), conserva alcuni documenti appartenuti a Cosimo Andrea. Lettere di Sanminiatelli a Canosa si trovano in Archivio segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Carte Canosa, b. 4; alcune sue lettere al canonico Epifanio Giovannelli si conservano nella Biblioteca comunale A. Saffi di Forlì, Fondo Piancastelli (su cui si rimanda a G. Mazzatinti - A. Sorbelli, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, XCVIII, Firenze 1980, p. 11). Inoltre: Brevi cenni sulla genealogia e storia della nobile famiglia Sanminiatelli, Roma 1898; Genealogia della nobile famiglia patrizia dei conti Sanminiatelli, Roma 1900; G. Giusti, Epistolario di Giuseppe Giusti, raccolto e ordinato da F. Martini, Firenze 1932, I, p. 309, II, p. 39; F. Martini, Il balì Samminiatelli, ibid., IV, pp. 172-177; E. Michel, S. C.A., in Dizionario del Risorgimento nazionale, IV, Milano 1937, p. 191; W. Maturi, Il principe di Canosa, Firenze 1944, ad ind.; G. Roncioni, Progetto di Federazione italiana sotto l’egida dell’Austria compilato dal famoso sanfedista pisano Balì C.A. S., in Bollettino storico pisano, s. 3, XXX (1961), pp. 291-301; G. Giusti, Poesie, a cura di N. Sabbatucci, Milano 1962, pp. 29, 32, 60, 627; R. Pertici, C.A. S. e il legittimismo italiano dell’età della Restaurazione, in L’Ordine di santo Stefano nella Toscana dei Lorena, Roma 1992, pp. 242-309; M. Manfredi, Devozione, carità e classicismo di antico regime. Cultura della tradizione e forme della politica in una città della Restaurazione (Pisa 1799-1861), Pisa 2016, ad indicem.