COSIMO di Domenico di Bonaventura (Cosmè, Gusmè [del] Tura)
Il padre Domenico, "callegaro", era originario di Guarda nel Ferrarese dove suo padre, Bonaventura, era fattore (Righini, 1946-49, p. 94). Nacque, probabilmente a Ferrara, prima dei 12 luglio 1430, data in cui venne redatto un testamento che lo nominava erede di una casa in quella città; questo testamento è citato in un documento del 1431 che trasferisce la casa da C., "infans", al padre (A. Venturi, in Arch. stor. d. arte, VII [1894], pp. 52 s.); con l'ipotesi che C. fosse non solo minorenne, ma infante nel 1431 concorda la notizia che Domenico era ancora vivo nel 1471 e che l'unico figlio di C. di cui sappiamo nacque nel 1480 o più tardi.
C. è definito pittore per la prima volta nel 1451 quando è arbitro per il prezzo di pennoni, fatto che non implica, però, un livello particolare di reputazione come pittore (Venturi, 1888, p. 3 n. 1).
Dal 1452 risulta stipendiato dal duca di Ferrara (Cittadella, 1866, p. 8 n. 1); nel 1464 comprava una casa con due solai, cortile, pozzo, cisterna e loggia; in un testamento del 1471 lasciava i suoi disegni e i suoi attrezzi a un pittore sconosciuto, senza dubbio un suo aiuto, mentre i suoi averi erano destinati in parte al padre, o, quando questi fosse morto, alla costruzione di una chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano; e i rimanenti beni ai poveri di Venezia. In due testamenti posteriori, del 1487 e 1491, si fa parola di un suo studio di pittura in una torre delle mura cittadine (ibid., pp. 13 s.).
La sua domestica, Orsofina, gli diede un figlio, Damiano; C. pagava per il loro alloggio in un'abitazione diversa dalla sua; ma nel 1487 legittimò il figlio. Dal 1480 alla morte spesso prestò soldi ad "artefici" e così fecero i suoi esecutori testamentari dopo la sua morte per conto di suo figlio (ibid., pp. 9 s., 14).
Sia in una cronaca del sec. XVI (cit. in Campori, 1886, p. 562) sia in documenti commerciali (Cittadella), C. è indicato con termini onorifici altisonanti. Queste testimonianze di prosperità sono contraddette solo da una lettera del 1490 di C. al duca in cui chiedeva il saldo per alcune pitture e menzionava le sue condizioni di bisogno (Venturi, 1888, pp. 30 ss.). Questa lettera, certamente importante sia come autografo sia come documentazione di pitture, è stata, tuttavia, sopravvalutata dai biografiche ne hanno dedotto l'idea di una vecchiaia povera di Cosimo. Raramente egli si allontanò da Ferrara; spesso viene citata una visita a Brescia nel 1469 per vedere gli affreschi di Gentile da Fabriano, ma il documento parla solo dell'invito. Sono documentati solo due viaggi a Venezia: nel 1469 (per comprare colori e oro) e nel 1472 (per accordarsi con un argentiere che doveva eseguire alcuni suoi progetti). D'altra parte il lascito ai poveri di Venezia nel testamento del 1471 indica legami più stretti con la città: sarebbe suggestivo pensare che fosse vissuto a Venezia negli anni per i quali mancano documenti a Ferrara (1453-55) e collocare così le sue origini artistiche nella cerchia di Squarcione, Mantegna, Donatello, ma d'altra parte questi artisti stavano a Padova e nel 1452 C. era già un pittore affermato. La vicinanza cronologica tra le visite a Venezia e il lascito testamentario ai poveri di Venezia è importante e potrebbe suggerire che l'agiato artista avesse semplicemente risposto a un appello (per tutti i documenti non citati in particolare, cfr. Venturi, 1888).
C. morì a Ferrara nell'aprile del 1495 e fu sepolto in S. Lorenzo oltre Po (Campori, 1886, p. 562).
L'opera di C. si può dividere in tre gruppi. Il primo gruppo comprende opere di arte applicata - e progetti ad esse relativi - tutte per gli Este all'infuori di poche dei primi anni della sua attività.
Esistono numerosi pagamenti compresi negli anni 1452 e 1485 (Venturi, 1888) per oggetti pressoché tutti perduti: un elmo da torneo, uno stendardo, piccole scatole da indorare, moltissimi disegni per tessuti (gli unici due sopravvissuti sono di soggetto religioso: due Lamentazioni a Colonia, coll. Dumont, e nel Cleveland Museum of Art), finimenti per cavalli, un letto nuziale ducale e, più minuziosamente `descritto, un servizio da tavola d'argento in trenta pezzi con figure di uomini selvaggi, grifoni, delfini, ecc. (disegni di Giulio Romano ci permettono forse di visualizzare questo genere di lavori frequenti all'epoca). Nel 1459 C. lavorò per l'entrata trionfale a Ferrara dei giovane Gian Galeazzo Sforza e fu forse in seguito a ciò che questi chiese a Borso d'Este di poter mandare un garzone a studiare con lui (come l'anno prima ne aveva mandato uno a studiare da Rogier vari der Weyden) e che Filarete, intorno al 1465, incluse C. in un elenco di buoni pittori italiani.
Poco di più resta del secondo gruppo formato dalle numerose commissioni estensi per pitture datate tra il 1460 e il 1485. I primi documenti testimoniano una modesta attività di C., nel 1460 e 1463, nello studiolo della villa di Belfiore; prima di lui (1449-55) vi aveva lavorato Angelo Maccagnino dei quale non restano opere sicure. Da Ciriaco d'Ancona (1449: cfr. Gombosi, 1933) sappiamo che le pitture della villa iniziate dal Maccagnino rappresentavano le Muse;e Carbone, più tardi [1474], scrive che furono terminate da Cosimo. Molti studiosi, e più concretamente Gombosi (1933), hanno giustamente collegato queste notizie con otto dipinti ferraresi di questo periodo, tutte allegorie femminili, di dimensioni, composizione e mano diverse.
Erano state interpretate come allegorie di stagioni, virtù, o divinità classiche così che si era pensato che nello studiolo fossero raffigurati vari cicli (Nicolson, 1951, p. 10). Ma studi recenti (Baxandall, 1965; Eörsi, 1975; Boskovits, 1978) hanno appurato che queste pitture corrispondono a un eccentrico programma di rappresentazione delle Muse presentato nel 1447 dal Guarino al marchese Lionello perché lo utilizzasse nel suo studiolo. Uno dei dipinti in questione (Tersicore, cosiddetta Carità, Milano, Museo Poldi Pezzoli) proviene dallo studiolo perché, come già aveva riconosciuto Longhi (1934, p. 26), è il frutto di collaborazione di C. con un artista sconosciuto sotto l'influsso di van der Weyden: proprio la stessa singolare situazione che risulta dalla commissione. Anche la Talia (cosiddetta Primavera), nella National Gallery di Londra, può provenire dallo studiolo: le figure dei delfini sul trono, connessi a un simbolismo marino, costituiscono un tipico ornamento di troni molto diffuso. Gli altri sei quadri provengono da serie diverse di altri artisti che copiavano la stessa iconografia.
Negli anni 1469-72 C. decorò una cappella nella villa di Belriguardo con pochi affreschi ma molti ornati, fra i quali centoventuno Serafini in stucco e ottomilasettecentocinquantacinque foglie d'oro; documentato nei minimi dettagli (A. Venturi, in IlBuonarroti, XVI [1884-87], p. 61), questo lavoro è andato perduto. Dal 1472 C. (Venturi, 1888) dipinse numerosi ritratti della famiglia ducale spesso in duplicato, spesso offerti ad altre corti più che altro in occasione di alleanze matrimoniali; molti di questi ritratti rappresentavano bambini.
Un ritratto del Metropolitan Museum di New York è comunemente attribuito a C. ed è considerato, per spiegare la diversità di stile da tutti gli altri, opera molto giovanile, del 1450 circa. Ma poiché questa datazione non corrisponde al vestito del personaggio, che non è anteriore al 1470 (H. Wehle, Catalogue of Ital. paintings in the Metropolitan Museum, New York 1940, p. 129), il ritratto in questione non può essere di C. ed è invece da attribuire a Baldassarre d'Este (H. Faberman, comunicazione orale).
Documenti dell'anno 1475 descrivono (Venturi, 1888) un piccolo trittico pieghevole per il duca Ercole I con la Madonna e Quattro santi all'interno e altri Quattro santi all'esterno.
Può corrispondere a un disegno di, o da, C. nel British Museum che presenta la stessa insolita combinazione di ornamentazione all'antica e doratura (Reproductions of drawings by old masters in the British Museum, I, London 1888). Meno probabili i nessi con l'Annunciazione e due Santi, in quattro cornici, della National Gallery di Washington: in questo caso l'altarolo portatile dovrebbe consistere in un pentittico con un pannello centrale con la Madonna più largo che alto, struttura questa che non si ritrova nell'ambiente di Cosimo.
Con maggiore possibilità di riferimento si possono collegare al disegno di un nudo femminile nel Kupferstichkabinett di Berlino Dahlem i pagamenti del 1481 (Venturi, 1888) per tre nudi femminili, nonché per ritocchi su altre quattro figure femminili, sempre nello studiolo ducale.
Già nel 1931 Haertzsch (p. 2) aveva riconosciuto nel disegno di Berlino un'allegoria della Carità,ma alcuni studiosi posteriori non hanno accettato questa identificazione forse perché non erano state spiegate le ragioni che permettono di individuare in questa immagine la tipica raffigurazione della Carità di quel periodo (per uno studio su questa iconografia, v. R. Freyhan, in Journal of the Warburg and Courtauld Inst., XI [1948], pp. 68-86).
I due attributi più importanti, una fiamma nella mano destra e un bambino trattenuto con la sinistra, sono solo della Carità e alludono ai due aspetti di essa: amor Dei e amor proximi. C. esprime in modo esplicito il valore superiore dell'amor Dei (Matteo, XXII, 36-40) disegnando il braccio destro alzato, il bambino che, dal suolo, si allunga verso di esso, il globo sotto un piede della figura femminile che è alata e nuda, come l'Amor sacro di Tiziano. Le Virtù svestite non sono frequenti, ma trovano riscontro nelle medaglie con la Speranza dell'Antico e con la Fede di Lisippo. Questa sottigliezza allegorica è tipica della cultura ferrarese (Schifanoia; tarocchi); la Carità, come una delle tre virtù teologali collegate con le quattro cardinali, corrisponde esattamente alla serie menzionata nel documento del 1481.Il terzo gruppo di opere di C. è costituito dalle pitture per chiese che, pur essendo meno documentate, sono quasi tutto quel che sopravvive della sua opera. Dato che gli oggetti conservati nelle chiese sono stati meno soggetti ad essere distrutti, attraverso i secoli, rispetto a quelli dei palazzi gentilizi, si può dire che l'idea che noi abbiamo dell'opera di C., come di altri artisti, è distorta.
I documenti cominciano solo col 1467-68 (Cittadella, 1868, II, p. 145) e si riferiscono ad affreschi e ad una pala d'altare nella cappella Sacrati nella cattedrale. Nel 1469 furono pagate le ante d'organo tuttora conservate nella cattedrale di Ferrara: esse costituiscono l'unica base sicura per ogni altra attribuziong a Cosimo.
È concordemente riferito al 1484 il S. Antonio nella Galleria di Modena, proveniente da S. Niccolò a Ferrara, perché è ragionevolmente identificato con il quadro che C., in una lettera del 1490 (Venturi, 1888, pp. 30 ss.), afferma di aver dipinto per quella chiesa sei anni prima; nella stessa lettera sono citate anche "certe altre Cosse" non identificate. Il Vasari (1568) ricorda, di C., una cappella in S. Domenico e le ante d'organo dei duomo. Il Guarini (1621) documenta la scialbatura degli affreschi nella capp. Sacrati avvenuta nel 1616 ed è l'ultimo a ricordare la pala d'altare. Per il Superbi (1620) C. era autore delle due pale- d'altare in S. Giorgio, parzialmente superstiti e senz'altro autentiche. Sino al 1620, quindi, la tradizione era accurata e fondatamente riferiva a C. poche opere;. una nuova fase antiquaria ha inizio con il Baruffaldi che scrisse negli anni 160-1750 (due versioni della sua vita di C. furono pubblicate nel 1836 e 1844).
Egli aggiunge alle quattro opere ricordate dagli scrittori precedenti due importanti ma false attribuzioni: Schifanoia e una pala d'altare che è invece di Ercole de' Roberti come era già átato ipotizzato ai suoi tempi. A queste Baruffaldi aggiungeva due opere già perdute allora, due altre che sono andate disperse nel frattempo (la data 1458 che egli attribuiva alla tavola - non affresco - con la Natività sopra una porta della sacrestia della cattedrale era inserita sull'architrave e più probabilmente si riferiva al portale), una pala d'altare non identificabile, e inoltre una serie di Quattro stagioni comprendente forse la Primavera di Londra.
Più interessante è la descrizione che il taruffaldi fa delle due pale di.S. Giorgio: quella - di S. Maurelio (due tondi della predella sono ora nella Pinac. nazionale di Ferrara) e quella della famiglia Roverella (la parte centrale è nella National Gallery di Londra, la lunetta al Louvre, un laterale a Roma nella Gall. Colonna, un frammento di altro laterale a San Diego in California, Fine Arts Gallery). Il Baruffaldi trascrive un'iscrizione in versi della pala, nella quale i Roverella chiedono al Bambino dormiente di levarsi e di farli entrare in Paradiso, e identifica uno dei donatori con il vescovo Lorenzo Roverella, che morì nel 1474, sulla base della somiglianza fisionomica con la sua effigie tombale nella stessa chiesa; benché nel quadro questo donatore non appaia vestito da vIescovo, una datazione attorno all'anno 1474 è stata spesso considerata attendibile, ma l'unico fatto su cui è veramente possibile basarsi è che l'autore dei versi nacque nel 1454 e quindi si deve escludere che la pala fosse opera giovanile di C. (Davies, 1961). Tre tondi con scene dell'Infanzia di Cristo (New York, Metropolitan Museum; Boston, I. S. Gardner Coll.; Cambridge, Mass., Fogg Museum) sono spesso considerati parti della predella di questa paia, benché il Baruffaldi abbia scritto che essa rappresentava Storie di s. Bernardo e s. Benedetto.
Amatori e collezionisti della fine del XVIII e del XIX sec. moltiplicarono le attribuzioni a C. di opere oggi non identificabili. Solo con il Cavalcaselle (1871) cominciano attribuzioni più puntuali, più che altro di piccole tavole a soggetto religioso che si è tentato (Ricci, 1905; Ruhmer, 1958) di raggruppare in polittici e di identificare con quelli ricordati dalle guide del Settecento e del primo Ottocento; tentativi deboli, anche perché ai tempi di C. i polittici non erano più molto in voga e in ogni modo le misure di questi pannelli sono molto piccole rispetto a quelle di opere conosciute di C.; è più giusto allora considerarli come probabilmente provenienti da cappelle di ville estensi, raggruppati in complessi più piccoli.
Due pannelli che non sono mai stati separati con S. Sebastiano e S. Cristoforo (Berlino-Dahlem) possono essere collegati alla notizia riportata da Gruyer (1897, II, p. 18) che il duca Borso nel 1456 fece dipingere il suo stemma nel castello di Lugo tra le figure dei due santi. Il S. Giacomo in trono di Caen, che può essere unito al S. Antonio del Louvre, che ha una cornice analoga, e al S. Domenico degli Uffizi, fa pensare alla speciale devozione per s. Giacomo del padre di Borso, che infatti andò in pellegrinaggio a Compostella (Cappelli, 1864, p. 282). La proposta (Ricci, 1905, seguito da altri) di includere la Madonna dell'Accademia Carrara di Bergamo in questi complessi è suggestiva perché spesso queste pale rappresentano la Madonna, ma bisognerebbe presumere che la tavola sia stata tagliata in maniera non suggerita né dal suo disegno né in altro modo.
È difficile tracciare una cronologia dello stile di C. per scarsezza di opere datate - anche se la pala Roverella è considerata tale - e per la spesso notata uniformità stilistica. Ciò dipende non solo dalla posizione di C. di fondatore della tradizione locale, ma forse anche dal fatto che la sua carriera di pittore di tavole (forse soltanto 1460-1484) fu più breve della sua vita adulta (1450-1495).
Solo la pala di Aiaccio (Museo Fesch) è stata a ragione considerata in qualche modo diversamente (Longhi, 1934, p. 160 n. 45). Essa è stata ritenuta più tarda tenendo conto, in mancanza di altre motivazioni, della tendenza a un realismo flessibile; ma ora (Boskovits, 1978) il confronto con la Tersicore permette di collocarla in un periodo antecedente alle altre; essa inoltre rivela una stretta imitazione della pala di S. Zeno del Mantegna, del 1459, sia nelle figure sia nella definizione dello spazio, sia nello strano motivo del piede alzato nella figura a sinistra della Madonna. Lo stile di C. può essere quindi visto come svolgentesi da una tale flessibilità verso un manierismo intensamente artefatto nell'isolamento, culminante nel S. Antonio (Modena, Gall. Estense) del 1484: una sindrome (la stessa che si riscontrerà con maggiore evidenza nella carriera del Greco) forse influenzata dal poco più anziano Taddeo Crivelli, un collega in "arti minori", piuttosto che il contrario (come vorrebbe Salmi, 1957, p. 15). La Madonna della National Gallery di Washington (coll. Kress, già Pratt) è stata spesso considerata più antica a causa degli ornati gotici, d'altra parte limitati agli intagli della cornice. Sia qui sia nella Madonna di Venezia (Gall. dell'Accademia) il Bambino dormiente puo derivare dalla pala Roverella dove la didascalia in versi potrebbe indurre a credere che si tratti di una invenzione; tutti e tre questi Bambini dormono seduti, una posizione diversa da quella usuale dei Bambini nel Vivarini, nel Bellini, ecc., che dormono giacendo. Haertzsch (1940, p. 153) ha studiato anche le figure zodiacali sullo sfondo dei cielo della Madonna di Venezia.
La fama goduta da C. trova conferma negli apprezzamenti elogiativi di alcuni poeti contemporanei tra i quali ricordiamo T. V. Strozzi (in Carmina, Eroticon, lib. IV, 1513, cit. in Baruffaldi, 1844, p. 82) e G. G. Giraldi (Historiae poëtarum tam Graecorum quam Latinorum Dialogi X, in Opera... omnia, Basileae 1580, II, pp. 3 ss.).
Fonti e Bibl.: Per una ricca bibl. agli anni indicati si veda, oltre che Venturi, 1914, G. Gombosi, in U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XXXIII, Leipzig 1939, pp. 482 S. (s. v. Tura, Cosimo); Salmi, 1957; Molajoli, 1974. Ma vedi anche: A. Averlino detto Filarete, Trattato di architettura [1465], a cura di A. M. Finoli-L. Grassi, Milano 1972, I, p. 258; L. Carbone, De Amoenitate... [1474],in Atti e mem. della Deput. ferrarese di st. patria, XXIV (1919), p. 34; G. Vasari. Le vite ... [1568], a cura di G. Milanesi, II, Firenze 1878, p. 142 (p. 143 ss., Commentario); A. Superbi, Apparato degli uomini ... di Ferrara, Ferrara 1620, p. 122; M. Guarini, Compendio ... di Ferrara, Ferrara 1621, p. 89;G. Baruffaldi, Vita di Tura [sec. XVIII], Bologna 1836; Id., Vite de' Pittori ferraresi, I, Roma 1844, pp. 63 ss.;L. Lanzi, Storia Pittorica della Italia [1808], a cura di M. Capucci, III, Firenze 1974, pp. 149 s.; H. Delaborde, Etudes sur les beauxarts, Paris 1864, I, p. 33; L. N. Cittadella. Ricordi e documenti... di Cosmé Tura, Ferrara 1866; Id., Notizie... relative a Ferrara…, I-II, Ferrara 1868, ad Ind.; G. B. Cavalcaselle-J. A. Crowe, A History of painting in Northern Italy [1871], a cura di T. Borenius, London 1912, II, pp. 224-31; A. Cappelli, Notizie di U. Caleffini, in Atti e mem. d. RR. Deput. di st. patria per le prov. modenesi e parmensi, II (1864), pp. 282, 312;G. Campori, I pittori degli Estensi nel sec. XV, ibid., III (1886), 2, ad Indicem dell'estratto; A. Venturi, Cosmè Tura, in Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen, IX (1888), pp. 3-33;G. Gruyer, L'artferrarais..., Paris 1897, I-II, ad Indicem;H. Hermann, Die Gemälde des Cosmè Tura in der Bibliothek des Pico, in Jahrbuch der Kunsthist. Samml. des ... Kaiserhauses, XIX(1898), pp. 207-16; C. Ricci, Tavole sparse di un polittico di Tura, in Rass. d'arte, V (1905), pp. 145 s.; A. Venturi, Storia d. arte ital., VII, 3. Milano 1914, pp. 50658; P. Wescher, Buchminiaturen im Stil Turas, in Berliner Museen, XLI (1930), pp. 78-81; A. Moschetti, Un frammento di Tura, in Boll. d. Museo civico di Padova, VII (1931), p. 100; G. Gombosi, A Ferrarese Pupil of Piero della Francesca, in The Burlington Magaz., LXII (1933), pp. 66-78; O. Haertzsch, Katalog der echten und falsch zugeschriebenen Werke des Tura, Diss., Hamburg 1931 [1935]; N. Barbantini, La pittura ferrarese del Rinasc. (catal.), Ferrara 1933, pp. 44-66; R. Longhi, Officina ferrarese, Roma 1934, ad Indicem; O. Haertzsch, C. Tura, in Pantheon, XXVI (1940), pp. 153-61; S. Ortolani, C. Tura, Cossa, Roberti, Milano 1941, pp. 5-82; G. Bargellesi, Palazzo Schifanoia, Bergamo 1945, pp. 12 ss.; G. Righini, C. Tura a S. Giorzio, in Atti emem. d. Deputaz. Prov. ferrarese di storia patria, IV (1946-49), pp. 89-115; B. Nicolson, The Painters of Ferrara, London 1951, pp. 9 ss.; M. Davies, Tura's Virgin and Child Enthroned, in The Burlington Magaz., XCIV (1952), p. 168; A. Neppi, C. Tura, Milano 1952; Cavalcaselle: Come lavorava un critico dell'800, in Sele arte, I (1952), 2, pp. 3-8; C. Padovani, La critica d'arte e la pittura ferrarese, Rovigo 1954, pp. 96 ss.; M. Salmi, C. Tura, Milano 1957; E. Ruhmer, C. Tura, London 1958; Id., Zur plastischen Tätigkeir des C. Tura, in Pantheon, XVIII (1960), pp. 149-53; National Gallery Catalogues, M. Davies, Early Ital. Schools, London 1961, pp. 513-21; P. Bianconi, Tutta la pittura di C. Tura, Milano 1963; E. Riccomini, C. Tura, Milano 1965; M. Baxandall, Guarino, Pisanello and Manuel Chrysoloras, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XXVIII (1965), pp. 187 ss., B. Berenson, Ital. pictures of the Renaissance, Central Ital. and North Italian Schools, London 1968, I, pp. 432 s.; II, ill. 722-28; E. Guidoni-A. Marino, Cosmus Pictor. in Storia dell'arte, I (1969), 4, pp. 388-416; R. Molaioli, L'opera completa di C. Tura, Milano 1974; A. Eörsi, Lo studiolo di Lionello d'Este…, in Acta historiae artium..., XXI (1975), pp. 23 ss.; M. Boskovits, Ferrarese Painting about 1450…, in The Burlington Mazazine, CXX (1978), pp. 370-85.