GHERI (Ghieri, Gieri), Cosimo
Nacque a Pistoia il 1° ag. 1513 dal matrimonio di Evangelista di Baronto con Piera di Lorenzo Grifoni, contratto il 9 giugno 1512.
Non sembra possibile confermare quanto riferito nelle biografie di Morandi e di Capponi circa l'appartenenza dei genitori del G. a due distinti rami della famiglia Gheri. Gregorio - o Goro -, infatti, segretario di Lorenzo de' Medici duca d'Urbino nonché collaboratore devoto di Leone X e di Clemente VII, non era lo zio materno del G., ma il fratello minore di suo padre Evangelista. Originari di Larciano, nel contado pistoiese, i Gheri erano divenuti cittadini intorno alla metà del XV secolo e avevano poi guadagnato l'ascrizione alla nobiltà distinguendosi nelle più importanti cariche pubbliche di Pistoia, il cui governo, minato dalle secolari lotte di fazione tra Panciatichi e Cancellieri, cadde dal 1401 nell'orbita del dominio fiorentino. Nel 1490 i Gheri figuravano tra le principali famiglie della parte panciatica, filomedicea.
Le scarse notizie sull'infanzia del G. non permettono una dettagliata ricostruzione del periodo precedente il soggiorno a Padova, dove si trasferì nel 1530 per attendere a una compiuta educazione umanistica. Con ogni probabilità fu avviato agli studi sotto la guida di un precettore domestico, tale Raffaele da Scarperia, ricordato come "homo di bone lettere, boni costumi et honorevole presentia, ben otto anni alla custodia mia" nella lettera che il G. indirizzò nel novembre 1529 al capitolo di Fano per caldeggiarne la candidatura a canonico (Bartoccetti, 1926, p. 196). Presto, ma forse non prima dell'agosto 1525, quando fu emancipato dal padre, il G. dovette raggiungere a Bologna lo zio Goro, nominato da Clemente VII governatore della città e vicelegato della Romagna e dell'esarcato di Ravenna.
Uomo di notevole statura politica e nello stesso tempo esperto di diritto e cultore delle lettere, Goro curò l'educazione del giovane nipote, ma soprattutto lo avviò alla carriera ecclesiastica procurandogli le protezioni e i mezzi per il suo mantenimento. Il 17 febbr. 1524, infatti, Goro aveva rinunciato al vescovato di Fano, di cui era stato investito sei anni prima da Leone X, ottenendo la successione per il nipote, il G. appunto, allora adolescente.
Clemente VII attese a nominare il G. vescovo di Fano fino al 24 genn. 1530, affidando la diocesi in amministrazione perpetua al cardinale Ercole Gonzaga. In realtà, già dal 1528, anno della morte di Goro, il G. si era presentato alla Comunità di Fano in qualità di vescovo eletto e il 12 apr. 1530 ne prese formale possesso attraverso il suo procuratore Carlo Gualteruzzi. Da questa data e per tutto il periodo trascorso a Padova, il G. governò attraverso vicari e negotiorum gestores, che lo informavano costantemente delle questioni relative alla sua diocesi. Nella città veneta il G. giunse negli ultimi mesi del 1530, accompagnato dal bolognese Ludovico Beccadelli. È infatti registrato negli Acta graduum come studente e testimone al dottorato di Alessandro Zilioli il 9 dicembre.
L'esperienza formativa maturata nell'ambiente patavino, dove rimase fino all'agosto 1536, fu decisiva non solo per gli interessi umanistici, letterari e filosofici, consolidati dalla frequenza ai corsi dello studio tenuti da Lazzaro Bonamico, Nicolò Leonico Tomeo e Benedetto Lampridio, ma anche per le numerose conoscenze e amicizie contratte all'interno dei vari circoli culturali, prima fra tutte quella di Pietro Bembo, che subito si affezionò al giovane vescovo, il cui zio egli aveva frequentato a Bologna. Nella cerchia di Bembo e di Lampridio, Beccadelli e il G. frequentarono presto Trifone Gabriele, Galeazzo Florimonte, Alvise Priuli, Giovanni Agostino Fanti, Benedetto Ramberti, Reginald Pole, con i quali condivisero innanzitutto un'appassionata dedizione agli otia studiorum. Una descrizione di questi sodalizi appare nella Poetica del lucchese Bernardino Daniello, dove viene rievocata la discussione sulla poesia e sui poeti, avvenuta nel 1533 in casa del G. a Padova, da parte di "una brigata di dotti e molto giudiciosi uomini" (Della poetica…, pp. 10-13) tra i quali figuravano, oltre al G., Giovanni Brevio, Domenico Morosini, A. Priuli e B. Lampridio. Ben integrato nell'ambiente culturale padovano, il G. dette presto prova di grandi capacità negli studi, tanto da apparire a Bembo "non solo amato ma anco riverito da tutta questa città" (Bembo, Lettere…, III, n. 1388). Gli impegni degli studi, tuttavia, non gli impedirono di occuparsi con assiduità dei problemi della sua diocesi e di assicurarsi che a Roma fossero tutelate le "bisogne" di Fano - questioni di decime, rapporti con il capitolo, liti beneficiali - grazie alla protezione del cardinale Gonzaga e alle avvedute consulenze di Gualteruzzi. Fu proprio quest'ultimo a prospettare al G., dall'agosto 1532, l'eventualità di un primo ingresso in diocesi e a dettare le norme cerimoniali previste per tale occasione. A metà ottobre il G. si mise in viaggio per Fano e lì rimase con Beccadelli fino a dicembre. Dal gennaio al settembre del 1533 il G. trascorse con l'ormai inseparabile amico un lungo periodo a Bologna e nella villa di campagna che questi possedeva a Pradalbino, non lontano dalla città, dove gli amici più intimi del bolognese si trasferivano durante i mesi estivi per dedicarsi a comuni esercizi poetici e per approfondire lo studio dei classici.
Il G. fece quindi ritorno allo Studio patavino per l'inizio dell'anno accademico e vi rimase, sempre vicino a Bembo, dall'ottobre del 1533 al maggio del 1535, con la sola interruzione dell'estate 1534, quando, morto il padre ai primi d'agosto, si recò a Pistoia per provvedere alle necessità della famiglia. A Padova rientrò, dopo una sosta a Bologna, non più tardi del 10 ott. 1534. La visita a Fano nell'autunno-inverno 1532 aveva certo sensibilizzato il G. a una più attenta riflessione sui doveri e gli impegni di vescovo. Risale infatti a quel soggiorno la richiesta del G. di precisi chiarimenti sull'"articolo del cresimare" e le delucidazioni di Gualteruzzi sull'uso della mitria e degli altri ornamenti episcopali (Parma, Bibl. Palatina, Pal. 1026/3). Il G. dovette soprattutto far tesoro dei suggerimenti che l'amico Florimonte, al servizio del vescovo Matteo Maria Giberti, gli spediva da Verona nel novembre 1533. Spinto dall'ammirazione per la sua natura virtuosa, Florimonte descriveva le qualità consone a un buon vescovo e dopo avergli raccomandato di trascorrere qualche tempo in diocesi e di allenarsi a vivere sotto gli occhi del gregge, lo sollecitava caldamente alla lettura di un "libretto" sui doveri del vescovo che il veneziano Gasparo Contarini aveva scritto, circa un ventennio prima, per Pietro Lippomano.
Se resta difficile valutare l'influenza del trattato contariniano sull'attività pastorale del G., non si può non constatare che alcuni suoi atteggiamenti e interventi rispecchiano l'immagine ideale del vescovo delineata nel De officio episcopi, il pastor ovium della lezione evangelica, residente in diocesi, impegnato nelle opere assistenziali e caritative, nella lotta contro l'empietà e la superstizione e particolarmente attento all'educazione dei giovani.
Ancora nel giugno 1534 Florimonte inviava al G. l'"ordine dell'ufficio divino" e gli ricordava l'omelia di s. Giovanni Crisostomo, "piena di ricordi per uno che vuol essere buon vescovo" (ibid., 1033/31, cc. 10r-11v). Nel settembre 1535, dopo un'estate trascorsa tra Bologna e Pradalbino, il G. visitò di nuovo Fano, ma questa volta senza Beccadelli che aveva seguito a Roma Contarini - cardinale dal maggio precedente - in qualità di segretario. Oltre a provvedere a faccende amministrative quali l'organizzazione dei lavori per sistemare il coro del duomo o il controllo dei proventi della vendita del grano, nella diocesi il G. tentò di avviare l'unione degli istituti di carità, realizzata più tardi, nel luglio del 1537, secondo un progetto che prevedeva di destinare le entrate assegnate alle attività assistenziali non più alle varie confraternite ma a due principali istituti, la scuola di S. Michele per gli orfani e gli abbandonati e l'ospedale di S. Croce per gli infermi.
A Fano il G. rimase poco più di un mese; dalla metà di ottobre riprese gli studi a Padova, seguendo per quell'anno le lezioni di Marcantonio Genova sulla Physica aristotelica, gli incontri con R. Pole e A. Priuli, le visite e gli scambi epistolari con Bembo, il quale, interessandolo alle composizioni poetiche, gli inviava da villa Bozza sonetti suoi e di Vittore Soranzo. Si occupò inoltre degli impegni familiari, rivolti con particolare premura all'educazione dei fratelli minori.
Sotto la sua guida e quella di Beccadelli, Bembo e talvolta di T. Gabriele, furono educati nelle esercitazioni sui classici greci e latini Filippo e Vincenzo Gheri (probabilmente giunti da Pistoia dopo la morte del padre), Goro, figlio di Gualteruzzi, Pandolfo Rucellai, nipote di Giovanni Della Casa, Girolamo nipote di Alvise Priuli e Giovanni, altro fratello del G. giunto da Pistoia nel dicembre 1535. Nella serena atmosfera delle conversazioni e degli studi, il G. dovette presto difendere la sua scelta padovana di fronte ai ripetuti inviti di Gualteruzzi ad abbandonare la città, non tanto per adempiere ai doveri pastorali a Fano, ma per trasferirsi alla corte papale secondo i desideri del cardinale Gonzaga suo protettore. "A questo tempo ci è bisogno d'uomini et grande" (Parma, Bibl. Palatina, Pal. 1026/3) gli aveva scritto, già il 4 nov. 1532, l'amico fanese, spingendolo a una decisione che, sebbene presa in considerazione, fu sempre fermamente respinta.
La determinazione non accennò a diminuire neanche all'indomani dell'inserimento di Beccadelli nella familia cardinalizia di Contarini. Anzi, lo scontento, misto di nostalgia per i comuni studi, che egli riusciva a cogliere nelle lettere dell'amico bolognese non fece che rafforzare la sua scelta. Dall'ottobre 1535 all'agosto 1536 il G. rimase quindi a Padova. Se ne allontanò solo ad aprile-maggio per passare la settimana santa a Fano e raggiungere a Bologna Beccadelli, che era riuscito a tornare per qualche tempo agli studi padovani, per trascorrere insieme soltanto alcuni mesi. Il G. - come scriveva a B. Ramberti il 31 ag. 1536 -, "persuaso da vecchi pensieri et da nuove occorrentie" (Lettere volgari…, c. 29v), aveva deciso dall'agosto 1536 di tornare a Fano per risiedere stabilmente nella diocesi e di abbandonare lo studio senza, per quanto risulta, avere conseguito il dottorato. Le nozze della sorella Alessandra resero necessaria una breve sosta a Pistoia, ma il 31 ottobre seguente, accompagnato da Beccadelli e da Fanti, giunse a Fano, deciso a occuparsi con maggiore impegno dei problemi della diocesi. Egli continuò a perorare la causa della riforma degli ospedali, la cui pessima gestione danneggiava solo i più poveri: "Nelle persone basse […] sta occultamente Iesu Christo", precisava a Beccadelli il 14 marzo 1537 (Monumenti…, p. 287), illustrando i suoi interventi caritativi. Per un altro problema, la dilagante piaga delle usure, il G. criticò duramente l'invio nel territorio diocesano di commissari pontifici e i loro discutibili mezzi di persuasione.
Il male generato da questa pratica andava risolto, a suo avviso, non tanto con l'applicazione di multe agli usurai, ma con un'azione radicale che non doveva risparmiare neppure confessori e predicatori, i cui richiami ammonitori avrebbero forse con più efficacia guadagnato le coscienze. Le preoccupazioni amministrative del vescovato e gli accresciuti impegni familiari - nel marzo 1537 erano giunti a Fano la madre Piera, una delle due sorelle, il cognato e il fratello Giuliano, in fuga dai disordini scoppiati a Pistoia - non gli impedirono di compiere, dalla settimana successiva alla Pasqua fino a metà maggio circa, la visita dell'intera diocesi.
Nell'aprile del 1536 Federico Fregoso aveva già espresso a Bembo la sua fiducia che il giovane avrebbe onorato "in gran parte questo ordine de' Vescovi… hora molto negletto" (Lettere… a P. Bembo, IV, n. 5). Fu appunto il Fregoso, incontrato nella sua diocesi di Gubbio durante la visita pasquale del 1536, che spinse il G. a organizzare gli studi coltivando parimenti "et quelli della dottrina et quelli della pietà" (Oxford, Bodleian Library, Ital. C.24, c. 251r). Soprattutto furono proficui per la sua evoluzione spirituale i mesi trascorsi in compagnia di George Bucker, familiare inglese del vescovo martire John Fisher, che dopo fortunose vicende - non ultimo un omicidio commesso durante un soggiorno a Roma - giunse a Fano, raccomandato da Pole e da Priuli, all'inizio di marzo del 1537 e vi rimase almeno fino a metà luglio. Ascoltato dal G., dal precettore Nicolò Colonio e dal maggiore dei fratelli, Filippo, Giorgio "Inglese", proprio allora impegnato nella stesura dei due trattati De oratione e De praedestinatione et libero arbitrio, iniziò con l'Epistola ai Romani le sue quotidiane letture sugli scritti paolini, presto intercalate dalle riflessioni intorno "alla vera et viva dottrina di Iesu Cristo" (Monumenti…, p. 294).
Con grande soddisfazione il G. ascoltava le sue parole sulla fede e sull'amore dovuto a Dio, dette, sosteneva, non dalle labbra ma "di mezzo il cuore" (ibid., p. 293). Non si stancò mai, infatti, di ribadire a Beccadelli la necessità di una interiorizzata spiritualità. All'amico di sempre ritornato in corte e "agli splendori del mondo" (ibid., p. 277), il G. aveva da tempo suggerito di accendere nel cuore "l'ignicolo d'amore verso Dio" (ibid., p. 221) per scorgere il vero lume della salvezza.
La forte impronta cristocentrica che pervade la spiritualità del giovane prelato fu certamente stimolata dalle letture paoline e dagli insegnamenti di Giorgio "Inglese", ma non minore peso ebbero sulla sua esperienza religiosa i rapporti intessuti nell'arco di otto anni con Bembo, Contarini, Pole, Fregoso e Jacopo Sadoleto. Le radici della spiritualità e della sensibilità del G. al dibattito religioso dell'epoca si devono infatti ricercare senz'altro nella Padova degli anni Trenta.
Il G. morì nella sua diocesi il 24 sett. 1537. Nei mesi seguenti si sparse la voce che il dolore causato dalle violenze subite da parte di Pier Luigi Farnese, capitano generale della Chiesa in visita a Fano il 25-27 maggio 1537, avesse provocato, con il concorso di una debole e malferma salute, la sua immatura fine.
La notizia dello stupro, che il Varchi, sulla base di precise indicazioni ricevute con ogni probabilità da Beccadelli, aveva narrato con dovizia di particolari nel XVI libro della Storia fiorentina, e della cui diffusione Oltralpe Ottaviano De' Lotti aveva informato nel novembre 1538 il cardinale Gonzaga, fu presto accolta nelle pasquinate coeve a dileggio delle tendenze sodomitiche di Pier Luigi Farnese.
La strumentalizzazione della vicenda per fini di propaganda antifarnesiana - ancora nel Diálogo entre Caronte y el ánima de Pedro Luis Farnesio di Diego Hurtado de Mendoza è proprio l'"obispo" di Fano, il G. appunto, a informare il nocchiero infernale delle abitudini violente del figlio del papa - non basta a respingere l'autenticità di un episodio ritenuto comunque verosimile e come tale ampiamente diffuso, su cui da allora si sono moltiplicate discussioni che non hanno in verità chiarito le oscure circostanze di quella morte, e hanno invece contribuito a impedire una più completa comprensione del G., impedendo che questi potesse emergere per il notevole rilievo della sua esperienza spirituale nell'ambito della religiosità pretridentina. Tuttavia le allusioni contenute in una lettera, segnalata da G. Fragnito, che il 5 genn. 1538 Bembo scrisse da Padova a Beccadelli, sembrano confermare il resoconto del Varchi: "Delle cose seguite avanti la morte [del G.] le quali erano sparse qui per bocca di molti et io non le credea et faceamene beffe grandi; intesi poscia da messer Flaminio [Tomarozzo], che da voi le havea havute: non voglio dir parola. Dij, si qua est coelo pietas, quae talia curet; praemia digna ferant" (Fragnito, 1972, n. 788). Beccadelli non accennò mai alle circostanze della morte del G., volendo in qualche modo preservare il ricordo dell'intensa quanto breve vicenda spirituale dell'amico scomparso. Nella cosiddetta Vita et costumi del rev. mons. vescovo di Fano, scritta all'inizio del 1538, egli ricordava un sogno fatto dal G. poco prima di morire, che prefigurava la sua futura sorte. A differenza dei compagni - Bembo, Contarini e Pole - con i quali si era avviato su per un "monte erto e spinoso" il G. invano tentava, raggiunta la sommità del monte, di forzare le porte del paradiso che gli altri avevano facilmente aperto. Aiutato da un "venerando Vecchio […] il quale li aperse una gran porta" (Monumenti…, pp. 178 s.), apprese che, sebbene ultimo a entrare, sarebbe arrivato nel consesso celeste prima dei suoi compagni. Non alla Vita, tuttavia, dove la descrizione della vicenda biografica è finalizzata innanzitutto a fornire un ritratto esemplare del vescovo, il Beccadelli era disposto ad affidare la memoria della religiosità del Gheri. In un secondo suo scritto, la Visione di mons. Cosimo Gerio, una lettera non datata e indirizzata a Filippo Gheri, sviluppava il tema del sogno nell'interpretazione che ne dette lo stesso Gheri. "Quello forzarsi d'entrar dentro a quelle grate di ferro indarno […] era il volere con l'opre nostre guadagnare il paradiso" (Fragnito, 1985, p. 48), riferiva Beccadelli, evidenziando l'estrema conferma della fiducia del G. nell'unicità della grazia di Cristo ai fini della salvezza dell'anima.
Opere. Un repertorio delle opere del G., disperse, è contenuto in V. Capponi, Bibliografia pistoiese, Pistoia 1874, pp. 205 s. Accanto a esercitazioni filosofiche sull'opera aristotelica, sono ricordate le Meditazioni sopra gli Evangeli e un Tractatus de duplici lumine. Il 27 genn. 1538 Cola Bruno scriveva a Beccadelli di aver ricevuto la copia trascritta da Filippo Gheri del "dotto e santo trattatello" del defunto G. (Parma, Bibl. Palatina, Pal. 1019/2, c. 32r). L'opera, circolata tra gli amici più intimi del G., certamente Bembo e Fregoso, fu inviata tramite Donato Rullo all'abate benedettino Gregorio Cortese. Già dal 12 nov. 1537 egli, infatti, richiedeva da Padova a Contarini copia dell'opera "di quella santa anima dell'episcopo di Fano… intitolata De lumine naturali et supernaturali" (Gregorius Cortesius, Omnia, quae huc usque colligi potuerunt sive ab eo scripta, sive ad illum spectantia, I, Patavii 1774, pp. 123 s.).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Pistoia, Opera di S. Jacopo, Ricordi di contratti gabellevoli, 5, c. 110; Libri dei battezzati, 1111; Priorista Franchi, 11, cc. 253r-261v; Parma, Bibl. Palatina, Arch. Beccadelli, Fondo Pal., 1019/2, 1019/10, 1019/11, 1022/2, 1022/3, 1022/4, 1022/5, 1022/9, 1025/2, 1026/3, 1031/8, 1033/31; Carteggio di Lucca, Autografi Pal., scat. 2; Oxford, Bodleian Library, Italian mss., C.24-25; Pistoia, Bibl. com. Forteguerriana, Fondo Forteguerriano, B.69, c. 83r (P.L. Franchi, Memorie di famiglie pistoiesi); F.435, c. 95 (Id., Alberi delle famiglie di Pistoia); Firenze, Bibl. nazionale, Rossi-Cassigoli 77, c. 201 (Matrimoni seguiti in Pistoia messi insieme da Alf.o Brunozzi); Magl. XXXVII.25, cc. 1r-7r (Vita et costumi di monsignor vescovo di Fano); B. Daniello, Della poetica, Vinegia 1536, pp. 10-13; J. Sadoleto, Epistolarum libri sexdecim, Lugduni 1554, pp. 359 s.; Epistolae clarorum virorum selectae…, Venetiis 1556, cc. 49, 58, 59, 65-70, 106-109; Lettere da diversi re e principi e cardinali e altri uomini dotti a mons. Pietro Bembo scritte, Venezia 1560 (ed. anast. a cura di D. Perocco, Sala Bolognese 1985), l. IV, n. 5; l. V, nn. 8-12; Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni, II, Vinegia 1564, cc. 28v-30r; G.P. Valeriano, Hieroglyphica, sive de sacris Aegyptiorum aliarumque gentium literis commentarii, Basileae 1575, c. 217; Epistolarum Reginaldi Poli S.R.E. cardinalis et aliorum ad ipsum collectio, a cura di A.M. Querini, II, Brescia 1744, pp. 8 s.; Monumenti di varia letteratura tratti dai manoscritti originali di mons. Lodovico Beccadelli, arcivescovo di Ragusa, a cura di G. Morandi, I, 1, Bologna 1797, pp. 196-338; B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di L. Arbib, Firenze 1844, pp. 371-379; B. Segni, Istorie fiorentine dall'anno MDXXXVII al MDLV, Firenze 1857, pp. 454 s.; Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1500, a cura di E. Martelozzo Forin, III, 2, Padova 1970, n. 1691, p. 189; Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, I, Roma 1981, pp. 273, 331; II, 1, ibid. 1984, p. 554; Pasquinate romane del Cinquecento, a cura di V. Marucci - A. Marzo - A. Romano, Roma 1983, I, pp. 480, 530; II, pp. 604 s., 629 s.; P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, III, Bologna 1992, nn. 1230, 1235, 1451, 1485, 1600, 1681, 1722, 1724-1726, 1799.
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