COSIMO I de' Medici, duca di Firenze, granduca di Toscana
Nacque a Firenze, il 12 giugno 1519, da Giovanni, detto delle Bande Nere, discendente da un ramo cadetto della famiglia Medici, e da Maria Salviati, discendente per via materna dal ramo principale di quel casato e nipote di Leone X. Trascorse buona parte della sua infanzia e lunghi periodi dell'adolescenza nella villa paterna del Trebbio, situata nel Mugello, non distante da Cafaggiuolo.
Qui con la moglie Maria Soderini ed i figli Giuliano e Lorenzo (il futuro uccisore del duca Alessandro) viveva Pierfrancesco, cugino di Giovanni ed amministratore del non vasto patrimonio comune, lasciato in fedecommesso dal nonno. Gli ultimi discendenti del ramo cadetto dei Medici possedevano ed abitavano a tratti anche un palazzo a Firenze, in via Larga; ma nella loro marcata preferenza per le dimore lontane dalla città si palesava la loro sostanziale estraneità dalla vita politica fiorentina e la loro emarginazione dalla compagine familiare.
Al Trebbio C. godette di una vita libera, ricca di esercizi all'aria aperta; praticò la caccia, l'uccellagione, la scherma, la lotta, il maneggio dei cavalli, la pesca, il nuoto; crebbe, come apparirà da adulto a Filippo Cavriana, suo biografo, "statura procera, firmis torosisque membris".
La presenza del padre, che pur è stato descritto nell'atto di trasmettere precocemente a C. il culto dell'ardimento ed il gusto dei rischio propri del mondo della milizia (avrebbe ordinato che il figlio di un anno gli fosse lanciato tra le braccia dall'alto di una finestra di palazzo Salviati a Firenze, rallegrandosi che non avesse pianto), fu in realtà assai fugace; tenuto lontano dalla famiglia dai suoi impegni di condottiero e dalla sua vita dissipata, morì il 30 dic. 1526, allorché C. aveva appena sette anni. Ben più forte fu l'impronta della madre, donna austera e profondamente religiosa, orgogliosa della propria appartenenza alla famiglia Medici, attenta alle vicende fiorentine e romane, e dispiaciuta, come essa stessa scriveva, dell'indifferenza del marito per "le cose della banda di qua", che a lei apparivano "molto più stabili" che non quelle cui Giovanni legava le proprie fortune oltre gli Appennini; preoccupata per la situazione finanziaria della famiglia, che la vita dispendiosa di Giovanni e la cattiva gestione patrimoniale del cugino avevano minato; ansiosa di trovare per i suoi benessere, sicurezza e prestigio sotto la protezione medicea.
Fin dalla prima infanzia C. condivise con la madre una vita segnata dalle difficoltà economiche e dai debiti, e la seguì nei viaggi che ella fece ripetutamente a Firenze e nel 1524 a Roma, in cerca di aiuto. A Roma fu presentato a Clemente VII, da cui Maria ottenne il pagamento dei debiti del marito, ma per il figlio soltanto carezze non impegnative.
La madre affidò l'educazione di C. al "piovano" pratese Pierfrancesco Ricci. Più tardi, quando C. lo nominerà proprio segretario ed incaricherà di trattare gli affari concernenti letterati ed artisti, il Ricci risulterà un personaggio di un certo interesse in campo culturale e religioso, vicino all'evangelismo italiano, immeritevole dei giudizi acri formulati su di lui con qualche animosità personale dal Cellini, dal Varchi e dal Vasari. Quando fu scelto come precettore era però persona modesta ed oscura, conunisurata alle ridotte possibilità della famiglia. C. ricevette da lui un'istruzione limitata al latino, ad un po' di greco, alla lettura del Petrarca come buon modello di lingua italiana; né molto di più dovette imparare dalla "radunanza de' più dotti e buoni uomini secolari e frati della città", che, secondo un biografo più tardo, Lorenzo Cantini, presiedette alla sua educazione a Firenze dopoil 1530, se nella sua maturità al Cavriana appariva "literis mediocriter imbutus".
Più importanti per la sua formazione furono le vicende stesse della sua infanzia e della sua adolescenza, trascorse sullo sfondo delle guerre d'Italia, ed investite, seppur indirettamente, dai rivolgimenti che segnarono in quegli anni la storia di Firenze. Il giorno stesso in cui ricevette ia notizia della morte del marito, Maria Salviati fece partire C. per Venezia, insieme al Ricci ed ai cugini Lorenzo e Giuliano, o non havendogli detto - narra Scipione Ammirato - cosa veruna": decisione precipitosa, accolta con acuto turbamento dal bambino e dettata probabilmente dai timori che suscitavano nella madre la minacciosa avanzata dei lanzichenecchi, sotto i cui colpi era caduto Giovanni, l'incertezza dei dominio mediceo a Firenze, ed infine la freddezza, se non addirittura l'ostilità, che Clemente VII, nel suo affetto esclusivo per i nipoti illegittimi Alessandro ed Ippolito, manifestava per i discendenti legittimi del ramo cadetto dei Medici. A Venezia C. fu accolto con la simpatia e gli onori dovuti al figlio del defunto capitano generale della Repubblica: festeggiato dalle più eminenti famiglie patrizie, ricevuto dal doge, solennemente introdotto presso il Consiglio dei dieci. Nel maggio del 1527 i giovani Medici furono raggiunti dalle madri, e poco più tardi dalla nonna Lucrezia, indotte a fuggire a loro volta da Firenze dalla restaurazione della Repubblica; ma ben presto il peggioramento dei rapporti tra Venezia e Clemente VII costrinse tutto il gruppo ad una nuova avventurosa fuga. Mentre Lucrezia riparava ad Imola, C. e la madre ritornavano al Trebbio. Di qui dovettero allontanarsi ancora una volta nel 1529, in seguito allo sconfinamento di alcune bande bolognesi ed alla spedizione diretta contro di queste per conto della Repubblica da Otto di Montauto, gravida di pericoli per chiunque portasse il nome dei Medici. Questa volta la meta fu prima Bologna, dove C. ebbe occasione di assistere all'incoronazione di Carlo V e di incontrare Clemente VII ed i cugini Ippolito ed Alessandro, poi Roma.
La restaurazione del dominio medicco a Firenze nel 1530 segnò anche per C. tempi più sereni. Incluso, seppur in posizione remota, tra i successori di Alessandro dal diploma imperiale che nominava quest'ultimo duca di Firenze (maggio 1530, C. alternò da allora i soggiorni al Trebbio con quelli alla corte ducale. Nel 1532 seguì Alessandro a Bologna, dove questi incontrò Carlo V, e scortò poi con lui l'imperatore fino a Genova. Nel 1536 ebbe modo di assistere allo scontro che si svolse a Napoli davanti a Carlo V tra il duca e gli ambasciatori inviati dai fuorusciti a denunciarne il malgoverno, ed al trionfo politico del primo, unito allora in matrimonio alla figlia illegittima dell'imperatore, Margherita d'Austria. Nel 1536 a Genova fu presente ad un altro incontro tra l'imperatore ed il genero.
Testimone di eventi importanti, C. fu tuttavia cortigiano appartato ed oscuro; superato di gran lunga nel favore del duca dal cugino maggiore Lorenzo; dal papa considerato con perdurante diffidenza e richiamato all'osservanza della sua condizione subalterna. Così l'orgoglioso ricordo delle proprie origini diverse ed il nebuloso disegno di ricostruire intorno a sé le milizie paterne, che C. manifestava, a quanto racconta Scipione Ammirato, con il vestire e procedere o in tutte le sue azioni da cavaliere" e con il tenere "continuamente appresso di sè molti soldati et capitani del padre" - dovettero cedere all'ordine di Clemente VII di "lasciar quelle usanze forastiere et volgari e vestir l'abito civile che gli altri cittadini della sua patria costumavano". Soltanto dopo la morte del pontefice C. poté abbandonare l'umiliante "lucco" per la cappa e la spada.
La mediocrità della sua posizione si rifletteva anche nell'incertezza delle prospettive che sembravano aprirsi per il suo futuro e nelle difficoltà che incontravano i progetti. pur relativamente modesti, accarezzati per lui dalla madre.
Così il disegno di matrimonio con Maddalena Sanseverino, figlia di Maddalena Cibo e del defunto conte di Caiazzo ed erede del feudo materno, perseguito da Maria e dallo stesso giovanissimo C. durante il suo soggiorno a Bologna nel 1532, non si realizzò, per le resistenze della Cibo e la mancanza di pressioni adeguate da parte dei Medici e dei Saiviati. Non più fortunato C. fu nei confronti di Elisabetta Guicciardini, agli occhi dei cui padre, Francesco, egli appariva pretendente scarsamente qualificato, a causa della sua sisituazione patrimoniale. Solo negli ultimi anni del principato di Alessandro, infatti, C. riuscì a superare le difficoltà finanziarie che avevano pesato sulla sua infanzia e la sua adolescenza, grazie alla conclusione favorevole di una causa in corso da tempo contro i cugini Lorenzo e Giuliano per la divisione dei patrimonio comune.
L'assassinio di Alessandro ad opera di Lorenzo de' Medici (detto Lorenzino), avvenuto il 6 genn. 1537, aprì a C. orizzonti del tutto imprevisti. Poiché il duca non lasciava discendenza maschile legittima e Lorenzino ed il fratello Giuliano decadevano ovviamente dal loro diritto, la sua designazione alla successione scaturiva dallo stesso diploma imperiale del 1531. Essa però non fu automatica né incontrastata. Costituì invece lo sbocco di una crisi breve ma acuta che, se non mise immediatamente in questione la sopravvivenza del principato, investì per certo i rapporti che si erano instaurati al suo interno.
La restaurazione di un governo repubblicano popolare, pur vagheggiata dagli ultimi seguaci del Savonarola ed agitata in conventicole di piazza, fu forse sogno per gli uni e spauracchio per gli altri assai più che non possibilità reale, "non havendo il popolo - scriverà G. B. Adriani - nè armi nè guida nè aiuto". Tra gli ottimati rimasti a Firenze anche dopo che il carattere "tirannico" del principato di Alessandro si era fatto palese, le correnti antimedicee erano d'altra parte nettamente minoritarie, e dalle riunioni tenute in casa dello zio dello stesso C., il repubblicano Alamanno Salviati, emerse un attendismo rassegnato. Inoltre, prima ancora che si diffondesse la notizia dell'assassinio (tenuta accuratamente segreta per parecchie ore), i consiglieri ducali avevano fatto affluire a Firenze le milizie fedeli ai Medici e si erano assicurati l'appoggio del loro comandante generale, Alessandro Vitelli, garantendosi così gli strumenti per far fronte ad eventuali disordini. Tuttavia l'esistenza di forti nuclei di fuorusciti fiorentini a Roma, Venezia, Bologna ed altrove; la ripresa fin dalla primavera del 1536 della guerra tra Francia e Spagna e le minacce che tornavano quindi a gravare sulla stabilità dell'area di influenza spagnola in Italia; l'ostilità del pontefice Paolo III Farnese verso i Medici, la sua aspirazione a creare uno Stato farnesiano nell'Italia centrale e la politica di neutralità attiva tra le grandi potenze da lui perseguita aggravavano la pericolosità del momento.
In questo quadro la successione fu al centro di un conflitto sotterraneo ma aspro. Da un lato il gruppo dei consiglieri del duca defunto, guidati dal "forestiero" cardinale Innocenzo Cibo, parente dei Medici ed uomo di fiducia di Carlo V, mirava all'elezione di Giulio, figlio illegittimo treenne di Alessandro, ed alla concessione della tutela al cardinale stesso: la direzione della vita politica fiorentina sarebbe così passata nelle mani di uomini di corte ed alti funzionari estranei al contesto cittadino, fautori di una linea di stretta osservanza imperiale e di rigido accentramento. Dall'altro, intorno a Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Matteo Strozzi, Roberto Acciaiuoli, gli ottimati fiorentini filomedicei, dopo breve sconcerto iniziale, si schierarono per Cosimo.
Ai loro occhi l'attuazione delle disposizioni imperiali appariva come l'unica alternativa possibile al disegno del Cibo, ed il governo diretto di un Medici come realistica condizione per una maggior autonomia di Firenze. Essi confidavano inoltre che l'inesperienza giovanile di C., la sua parziale estraneità agli ambienti di corte, i legami di parentela ed amicizia che egli aveva con alcuni dei "grandi", il peso stesso dell'appoggio dato alla sua elezione consentissero loro di recuperare lo spazio politico perduto negli anni precedenti e di realizzare quel principato temperato, condizionato dall'oligarchia cittadina, cui avevano vanamente aspirato dopo il 1530.
Nel clima di timore che il vuoto di potere provocato dalla morte di Alessandro suscitava in entrambi i gruppi, gli eventì si succedettero con estrema rapidità. Dopo che l'8 gennaio una prima seduta del Senato dei Quarantotto, supremo organo del governo cittadino, si era conclusa con un nienie di fatto, i capi ottimati, tramite Maria Salviati, mandavano a chiamare C., che si trovava al Trebbio. Questi nel frattempo, avuta notizia dell'assassinio di Alessandro, si era spontaneamente messo in viaggio per Firenze. Giunto in città, si recava immediatamente dal Cibo, e, pur senza porre esplicitamente la propria candidatura, gli offriva con reverenza "quegli aiuti che i bisogni della patria richiedessero". La presenza del giovane Medici, sostenuto dagli ottimati, da "ragunate d'affezionati e partigiani" e da spontanee manifestazioni della milizia, creava una situazione di fatto da cui era impossibile prescindere. Così il 9 genn. 1537, in una città percorsa da inquietudine, dove - scriverà il Varchi - "si vedeva preso e guardato da soldati non solo il Palazzo, ma i canti e tutte le bocche della via Larga", il Senato lo designò alla successione. La proposta fu avanzata dallo stesso Cibo, (con il quale C. si era impegnato a mantenersi fedele all'imperatore, a tutelare la vedova ed il figlio di Alessandro ed a perseguirne l'uccisore) e fu sostenuta da Francesco Vettori. Pochissime furono le voci dissenzienti.
Gli agiografi ducali hanno spesso esaltato la precoce fermezza politica di C. e la rapidità con cui seppe imporre la propria autorità a Firenze. La realtà però appare più sfumata. Agli inizi la sua posizione fu fragile, minata dall'esterno dal pericolo costituito dai fuorusciti, dall'ostilità dei Francesi e del papa, nonché dalla diffidenza dello stesso Carlo V; condizionata internamente dall'azione dei gruppi eterogenei che avevano concorso all'elezione: ad un osservatore avvertito come Filippo de' Nerli sembrava che C. fosse "stato fatto signore come si fanno i signori delle compagnie di Carnovaleo e che il suo governo procedesse "in su trespoli".
Il 10 gennaio, dando forma ufficiale alle condizioni poste a C. all'atto dell'elezione, il Senato deliberava che egli non avesse il titolo di duca, ma solo quello di "capo e primario della città"; che, diversamente da Alessandro, dovesse scegliere il proprio luogotenente tra gli stessi membri del Senato; che il suo appannaggio non superasse i 12.000 scudi annui. Era il fragile tentativo di limitarne per via legale i poteri, a favore dell'oligarchia cittadina. Questa inoltre gli affiancò non solo il Consiglio a rotazione, già previsto dalla costituzione del 1532 (il Magistrato supremo), ma anche un Consiglio segreto, composto da ottimati di grande autorità, come Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Roberto Acciaiuoli, Matteo Niccolini e Matteo Strozzi, che avrebbe dovuto guidarne le operazioni.
La notte tra il 9 e il 10 Alessandro Vitelli, d'altra parte, aveva occupato con un colpo di mano la Fortezza da basso, dichiarando di tenerla a nome di Carlo V e dello stesso C., purché questi restasse fedele all'imperatore: simbolo della tutela imperiale, la fortezza diventò anche base del potere personale del Vitelli, nonché del Cibo, che vi si rifugiò: un potere imposto con arroganza al giovane principe, ed ambiguamente renitente alle stesse direttive imperiali. Un'azione analoga fu condotta poco dopo anche a Livorno. Contemporaneamente confluivano in Toscana da Lerici 1.500 soldati spagnoli, sotto il comando di Francesco Sarmiento, mentre il marchese del Vasto, comandante delle forze imperiali nell'Italia settgntrionale, inviava a Firenze il capitano Pirro Colonna, con il compito di dirigere eventuali operazioni militari.
D'altro lato, benché C. non esitasse a dichiarare di voler "riposare nell'ombra dell'imperatore", e già il 12 gennaio gli inviasse un'ambasciata per chiedergli la concessione del titolo ducale nonché la mano della duchessa vedova Margherita d'Austria in segno della sua protezione, Carlo V, come rivelano i documenti conservati a Simancas, esitò a lungo tra l'opportunità di riconoscere il nuovo principato e quella di restaurare la repubblica, per sottrarre i fuorusciti fiorentini all'influenza francese.
Ancora nel maggio il conte di Cifuentes, inviato come ambasciatore imperiale a Firenze, aveva in realtà l'incarico segreto di valutare la situazione e giudicare se non fosse il caso di ridimensionare il potere di C.; e quando gli riconobbe, sia pure con una formula ambigua e con riserva dell'approvazione imperiale, la stessa autorità di cui aveva goduto Alessandro, lo fece in deroga alle istruzioni ricevute. Al tempo stesso, sulla base di una convenzione stipulata con Alessandro nel 1536, egli costringeva C. a cedere ufficialmente a Carlo V le fortezze di Firenze e Livorno, lasciandogli solo quella meno rilevante di Pisa.
Se al disegno dei fuorusciti di piegare la costituzione fiorentina in senso repubblicano ed alle loro propensioni filofrancesi C. oppose sempre con fermezza il proprio attaccamento al potere che gli era stato accordato e la propria lealtà verso l'imperatore, non è però facile individuare una sua linea politica personale nei loro confronti: con qualche ragione lo zio, il cardinale repubblicano Iacopo Salviati, gli rinfacciava a questo proposito di "dependere in tutto da altri".
In effetti nei tentativi iniziali di conciliazione verso Filippo Strozzi e verso i cardinali Salviati, Ridolfi, Gaddi durante il loro viaggio a Firenze, nello stesso indulto pubblicato il 30 gennaio in nome di C. traspaiono piuttosto le pressioni dell'oligarchia cittadina, legata ai fuorusciti da affinità politiche e spesso da vincoli di amicizia e di famiglia; mentre nelle resistenze opposte con qualche successo a questi tentativi emergono l'ostilità e la volontà di rottura, diversamente accentuate, degli esponenti imperiali a Firenze ed in Italia. Pochi mesi più tardi la mediazione condotta (in verità con scarso impegno e scarsi risultati) dal conte di Cifuentes, e l'ernanazione di un secondo indulto obbedivano alle disposizioni dello stesso Carlo V, incline ad una politica che precludesse ogni possibilità di intervento ai Francesi ed incontrasse l'approvazione del papa. Quando infine, nel luglio, i fuorusciti, rotti i lunghi indugi, con l'appoggio dei Francesi, la partecipazione militare di Piero Strozzi ed il decisivo concorso finanziario di Filippo, organizzarono una spedizione contro Firenze e penetrarono disordinatamente entro i confini dello Stato, la rapida azione militare condotta vittoriosamente contro di essi il 1º agosto a Montemurlo fu coordinata e diretta da Alessandro Vitelli. Da lui fu anche voluto, o almeno consentito, il massacro delle bande della fazione dei Cancellieri, che nel Pistoiese avevano appoggiato l'impresa degli esuli: sconfitte nello stesso giorno dalle truppe fiorentine, ed abbandonate, con i loro capi, alla ferocia della fazione avversa dei Panciatichi.
Allo scarso rilievo personale assunto da C. nella questione dei fuorusciti fa però riscontro il vigore con cui egli affrontò i problemi del governo interno, acquistando rapidamente autorità sulle magistrature cittadine ed assurgendo a fermo punto di riferimento per la rete dei commissari e dei rettori incaricati di reggere lo Stato e far fronte ai disordini ed alle lotte di'fazione che si intrecciarono pericolosamente alle vicende degli esuli non solo nel Pistoiese, ma anche nella Romagna fiorentina, a Borgo San Sepolcro, Anghiari. Così a chi, come gli oratori senesi residenti a Firenze, lo considerava entro il quadro della vita cittadina, C. ben sembrò essere e far "tutto" e sostituirsi di fatto agli organi costituzionali. In ciò fu sostenuto dalla madre, e soprattutto da un gruppo di abili e fedeli collaboratori, provenienti dal servizio privato di Maria Salviati, come il Ricci, o maturati già al servizio di Alessandro, se non addirittura di Lorenzo duca di Urbino e di Clemente VII., come Francesco Campana da Colle, Ugolino Griffoni da San Miniato, il giurista Lelio Torelli da Fano, Agnolo Marzi Medici, vescovo di Assisi. In questi uomini, talvolta di estrazione fiorentina ed aristocratica, ma più spesso originari di centri minori dello Stato o addirittura forestieri, ed in ogni caso personalmente legati al nuovo principe, che ne aveva promosso o mantenuto la fortuna, C., in qualche misura erede di tradizioni famigliari, trovò un contrappeso al Consiglio segreto posto al suo fianco dagli ottimati, uno strumento personale di governo e in un primo tempo probabilmente una guida.
Il colpo inferto a Montemurlo ai fuorusciti (i cui capi, fatti prigionieri da Alessandro Vitelli, furono consegnati a C. ad eccezione del più ricco e prestigioso di essi, Filippo Strozzi, e nel giro di un mese furono processatì ed in buona parte giustiziati) non dileguò le minacce e le incertezze che gravavano sul principato. Gli esuli superstiti, tra ì quali vì era Piero Strozzi, tentarono a più riprese di ricostituire un esercito con l'appoggio francese nella vicina base della Mirandola. Paolo III d'altro lato non abbandonò le proprie aspirazioni ad uno Stato farnesiano; né il campo imperiale offriva a C. un appoggio chiaro e concorde: ancora alla fine del 1539 circolavano voci inquietanti sulla possibilità che Carlo V trasferisse il ducato nelle mani dei Farnese per agevolare il proprio riavvicinamento al Papato. Dopo Montemurlo tuttavia si aprì a C. uno spazio di manovra di cui seppe avvalersi con abilità, da un lato rafforzando con tenacia, seppur gradualmente, il proprio potere interno, dall'altro impegnandosi nel difficile compito di consolidare la propria posizione internazionale e conquistare una più concreta autonomia nell'ambito del sistema spagnolo.
Già alla fine dell'estate del 1537 C. si proponeva di regolare in modo più favorevole i propri rapporti con Carlo V e gli inviava una legazione diretta da Averardo Serristori, con il compito di chiedere il riconoscimento della propria successione ad Alessandro ed il titolo ducale; la consegna di Filippo Strozzi, che il Vitelli deteneva nella Fortezza da basso ed intorno alla cui sorte si esercitavano numerose contrastanti pressioni; la restituzione delle fortezze, a garanzia dell'indipendenza reale dello Stato di Firenze; infine, ancora una volta, la mano di Margherita d'Austria. Carlo V, sia pure con qualche ritardo, rispose positivamente alla prima richiesta, adeguandosi del resto agli impegni provvisoriamente assunti dal Cifuentes; ed il 30 settembre emanò un privilegio imperiale che legittimava la successione di C. e gli attribuiva il titolo di duca di Firenze; ma sugli altri punti fece solo vaghe promesse. Tuttavia nella primavera del 1538, durante il convegno che ebbe luogo a Nizza tra l'imperatore, il pontefice e Francesco I, e che sfociò nella stipulazione di una tregua decennale tra Francia e Spagna, i rappresentanti di C. I ottennero alcune concessioni ulteriori: Carlo V ribadi la propria intenzione di conservare le fortezze e rifiutò delimitivamente a C. I la mano di Margherita d'Austria, di cui pochi mesi più tardi sarebbero state celebrate le nozze con uno dei più fieri avversari del duca, Ottavio Farnese; ma si impegnò a trovarglì un'altra soluzione matrimoniale conveniente; gli accordò il ridimensionamento delle guarnigioni spagnole, il cui costo gravava sulle esangui finanze fiorentine, e l'allontanamento da Firenze dell'inviso Alessandro Vitelli, che sarebbe stato sostituito con un capitano spagnolo; gli prornise infine la testa di Filippo Strozzi.
Se la lotta tenace che questi aveva intrapreso per la propria salvezza e gli appoggi di cui ancora godeva a corte e tra gli esponenti spagnoli in Italia valsero a ritardare ancora di alcuni mesi la conclusione della vicenda, alla fine dell'anno fu effettivamente emanato l'ordine di ronsegna a C. I, cui conseguì, il 18 dicembre, il suicidio del prigioniero.
Nel frattempo C. I, che aveva rifiutato la mano di Vittoria Farnese, insistentemente offertagli dal papa, si impegnava, tramite il proprio ambasciatore presso Carlo V, nella ricerca di una sposa "bella nobile ricca et giovine" e di parte spagnola; ed il 29 luglio 1539, sotto gli auspici dell'imperatore, si univa in matrimonio con Eleonora, figlia di don Pietro di Toledo, viceré di Napoli e fratello del duca d'Alba.
Il parentado così concluso, pur inferiore a quello cui egli aveva inizialmente aspirato, rafforzava senza dubblo la sua posizione, garantendogli l'appoggio attivo di una delle più potenti consorterie spagnole. Con gli Alba-Toledo egli avrebbe però condiviso negli anni successivi non solo amici e consiglieri (alcuni dei quali avrebbero costituito il seguito stabile ed autorevole di Eleonora a Firenze), ma anche gli avversari che essi contavano a corte ed in Italia, quali il marchese del Vasto o l'ambasciatore imperiale a Roma, il marchese d'Aguilar. Le trattative precedenti le nozze furono ovviamente dominate da considerazioni politiche e finanziarie: in esse tuttavia trovò qualche spazio anche la scelta personale del giovane C. I, irremovibile nel preferire alla primogenita Isabella, brutta e "di cervello il ludibrio di Napoli", la più giovane, aggraziata e saggia Eleonora. A lei C. I restò sempre legato da stima ed affetto profondi; e con lei visse, come scriveva il suo protomedico e biografo Baccio Baldini, "con molto riposo et piacere, lietamente molt'anni". Il loro matrimonio fu coronato, tra il 1540 ed il 1554, dalla nascita di cinque figli maschi e tre femmine.
Con l'acquisita maturità ed il consolidarsi della sua posizione internazionale, C. I veniva anche liberandosi gradualmente, come scriverà un altro dei suoi biografi cinquecenteschi, il Cini, "da balii et da tutori che come fanciullo et pupillo facevano professione di governarlo". Il potere degli ottimati, già incrinato dal fallimento dei loro disegni di conciliazione con i fuorusciti, dopo la sconfitta di questi subì una degradazione naturale: la sopravvivenza, peraltro lunga, del Consiglio segreto fu un puro fatto di forma, ed anche Francesco Guicciardini, forse il più autorevole fra i consiglieri, provò la tristezza dell'emarginazione.
Più difficile fu liberarsi di coloro che esercitavano un'autorità in ragione di un rapporto privilegiato con gli Imperiali: alla fine dei 1537 Alessandro Vitelli, ad esempio, non esitava a far comunicare arrogantemente dal proprio inviato personale presso Carlo V ai legati di C. I, di essere ben disposto a non "disunirsi" da lui, purché egli "per essere giovine o mai consigliato da qualcuno." non facesse "cose da irritarlo o provocarlo". Ma, come si è visto, C. I, nella primavera del 1538 ne ottenne da Carlo V l'allontanamento. Tra il 1539 ed il 1540 riuscì a mettere in disparte anche il Cibo, denunciando con durezza a Carlo V l'indiscrezione di cui egli aveva dato prova, gli intrighi che aveva intessuto a Roma con i ministri imperiali, le insinuazioni calunniose che aveva diffuso a proposito di un piano dello stesso C. I per avvelenare il figlioletto illegittimo di Alessandro. Ridotto a non scambiar con il duca "se non buon di, buona notte e basta", il Cibo si ritirò infine volontariamente a Massa nel maggio 1540. Un anno più tardi, C. I esautorava anche Pirro Colonna, adducendo a pretesto il suo contegno arrogante nei confronti del nano di corte.
Erano, per il duca di Firenze, passi necessari non solo per l'affermazione di principio della propria sovranità, ma anche verso quell'esercizio diretto, personale del potere che caratterizzò il suo stile di governo. Senza modificare la costituzione del 1532, che, a garanzia dei diritti dell'aristocrazia fiorentina, prevedeva il funzionamento di tre Consigli (il Consiglio dei duecento, il Senato dei quarantotto ed il Magistrato supremo) ed attribuiva alle tradizionali magistrature cittadine un ruole, specifico e sostanzialmente autonomo, e prima ancora di creare a supporto della propria azione nuove figure istituzionalizzate di ministri, C. I mirò ad accentrare nelle proprie mani non solo il potere legislativo, come aveva già fatto Alessandro, ma anche l'amministrazione ordinaria: richiese relazioni minuziose sugli affari di polizia, intervenne nelle cause civili e penali, instaurò l'uso di rispondere personalmente alle suppliche dei sudditi. La sua volontà di conoscenza diretta del dominio ed al tempo stesso una nuova pratica di governo, attenta non solo ai problemi della città dominante, ma a quelli delle Comunità soggette, si manifestarono anche nella consuetudine precoce dei viaggi: tra il 1539 ed il 1543 C. I fu ripetutamente a Pisa, dove diede avvio ai primi provvedimenti per il risanamento della pianura; a Pietrasanta, per porre le basi dello sfruttamento minerario della zona; ad Arezzo, per sorvegliare la costruzione della fortezza, nel Casentino, in Valdelsa, a Borgo San Sepolcro.
Nel dominio C. I perseguì con durezza la repressione delle lotte di fazione: a Pistoia in particolare giunse a sospendere gli uffici pubblici cittadini (dal 1538 al 1546) ed a sottrarre all'oligarchia locale l'amministrazione delle entrate, delegando al governo della città commissari e provveditori fiorentini. Negli stessi anni la moltiplicazione delle "bande", ossia delle milizie locali soggette a servizio in caso di necessità e dotate di ampi privilegi fiscali, giurisdizionali, amministrativi che erano state costituite da Alessandro, veniva offrendo a C. I non solo un serbatoio di truppe fedeli, ma anche una rete di supporto capillarmente diffusa nel territorio. Anche le fortezze di cui tra il 1539 ed il 1540 si intraprese il restauro o la costruzione a San Miniato, Arezzo, Pistoia, Prato, Firenze, Fivizzano furono concepite come deterrente interno oltre che strumento di difesa militare.
Del carattere innovativo della sua politica nel dominio C. I fu orgogliosamente consapevole. Nel 1540, scrivendo a Carlo V, a prova della propria capacità di governo e ferma volontà di "perpetuare nello Stato" adduceva in primo luogo i risultati conseguiti nelle "cose di fuora del dominio": il compimento della fortezza di Arezzo, interrotta da Alessandro a lavori appena iniziati; la restaurazione dell'ordine a Pistoia, mentre prima di luì si era sempre ritenuto che "la divisione et discordie di quella città" fossero essenziali al mantenimento dei governo fiorentino.
L'intento di affermare la pienezza delle proprie prerogative sovrane, e quindi la giurisdizione dello Stato, si manifestò anche nella politica seguita da C. I in materia di rapporti tra Stato e Chiesa durante i primi anni del suo principato, con la collaborazione, se non addirittura la guida, di personaggi come Lelio Torelli, Francesco Campana e lo stesso Ricci, ostili alla politica curiale. In primo luogo in questa luce vanno considerati la resistenza opposta tra il 1537 ed il 1540 all'esazione delle decime ecclesiastiche nel ducato; la lunga (ed infine vittoriosa) controversia con il papa per l'attribuzione del lauto beneficio ecclesiastico dell'ospedale di Altopascio; l'istituzione, fin dal 1539, di forme di controllo sull'attribuzione dei benefici da parte dei rettori civili; l'imprigionamento qualche anno più tardi (1545) di venti domenicani di S. Marco, troppo vivacemente memori della tradizione savonaroliana, e l'espulsione dell'Ordine dal convento fiorentino.
Al papa che lo accusava di essere poco cristiano C. I opponeva allora la recisa rivendicazione della propria sovranità politica: "farete liberamente intendere a S. S. - scriveva al suo ambasciatore a Roma - che nelle cose di Stato non solo non harò rispetto a' frati, ma se e' cardinali ne daranno cagione, gli impiccherò per la gola senza farne la minima parlata". Nel 1546 revocava infine l'espulsione; ma più che la minaccia della scomunica papale pesava su di lui il volere di Carlo V, al cui appoggio teneva per questioni "le quali più ci importano".
Nei toni di aspra conflittualità raggiunta in queste dispute si rifletteva però anche la tensione perdurante tra Medici e Farnese sul piano politico. Questa toccò il culmine nel 1540, allorché C. I, durante l'insurrezione di Perugia, consentì a Rinaldo Baglioni, fuoruscito e comandante della cavalleria ducale, di raggiungere la sua città, ed al tempo stesso tentò di proporsi quale intermediario tra il potere pontificio ed i ribelli.
Il tentativo, che fallì per la rapida sconfitta degli insorti e l'atteggiamento ambiguo di Carlo V, esprimeva con chiarezza l'aspirazione di C. 1 ad una presenza più dinamica e più autorevole sullo scacchiere italiano. Fin dal 1538, del resto, tendenze analoghe si erano delineate anche nei rapporti con Lucca, pur saldamente ancorata al campo imperiale, e forte della protezione particolare del del Vasto oltre che della simpatia del pontefice. Mentre nella partecipazione delle milizie ducali ai tradizionali scontri di confine tra Comunità limitrofe e nell'interessamento di C. I alle vertenze che ne nascevano si manifestava una nuova attenzione (non limitata alla Lucchesia) per la definizione ed il rafforzamento delle frontiere incerte e frastagliate dello Stato, il favore accordato ai fuorusciti lucchesi (sull'esempio di Alessandro) e soprattutto l'intervento nella guerricciola scoppiata nel 1538 tra Lucca ed il principato di Massa rivelavano non soltanto l'ostilità di C. I verso la piccola repubblica confinante, ma anche la sua volontà di porsi come garante della concordia tra gli alleati minori di Carlo V e tutore della pace nell'Italia centrale, ed in questo modo di conquistarsi spazio e preminenza politica nell'area imperiale.
Allo stesso disegno di egemonia, se non già di espansione, oltre che alla preoccupazione di bloccare eventuali propositi francesi di intervento, nonché le esplicite mire farnesiane, era dovuto il vivo interesse di C. I per l'area instabile e militarmente debole costituita ai confini meridionali del ducato dalla repubblica di Siena e dal principato di Piombino, piccolo ma rilevante per la posizione strategica delle sue coste e le ricchezze minerarie dell'Elba.
Di qui le reiterate pressioni esercitate a partire dal 1538 su Carlo V per indurlo a sottrarre Piombino agli Appiani ed a cederlo allo stesso Cosimo I. Di qui il tentativo, nel 1540, di scalzare il potere del governatore di Siena, Alfonso Piccolomini, e di erigersi a fautore della pacificazione interna della città; la sua sollecitudine, nel 1541, nel rivelare la congiura filofrancese di Ludovico Dell'Armi e di Giulio de' Salvi. Se C. I non ottenne i risultati voluti, riuscì però a stipulare sotto l'egida imperiale dei patti di amicizia con i due Stati, comportanti l'obbligo reciproco di aiuto in caso di attacco da parte di potenze nemiche di Carlo V (3 giugno 1541 e 10 marzo 1542). Gli si apriva così la strada dell'intervento politico e militare nei loro confronti.
Agli inizi degli anni '40 C. I incominciò ad assumere un ruolo di primo piano tra le forze filoimperiali in Italia: non gli fu quindi arduo trarre profitto dalle difficoltà finanziarie, politiche e militari che Carlo V doveva allora affrontare in seguito alla sconfitta di Algeri (1541), alla ripresa della guerra con la Francia (1542) ed all'addensarsi della minaccia turca sui domini mediterranei della Spagna per ottenere finalmente, dietro esborso di un - spicua somma (da 100.000 a 200.000 scudi) l'ambita restituzione delle fortezze di Firenze e Livorno (accordi di Pavia, 12 giugno 1543).
Ormai interamente padrone deli suo Stato, a partire dal 1543 C. I diede avvio ad una serie di riforme istituzionali ed amministrative, che, pur senza realizzare un disegno organico e complessivo di trasformazione, consolidavano le tendenze all'accentramento di cui si erano visti dopo Montemurlo gli inizi. La creazione nel 1543 delle cariche di auditore fiscale ed auditore delle Riformagioni (in un primo tempo affidate unitamente al pratese Jacopo Polverini; quindi, alla morte di questo, nel 1555. sdoppiate tra il volterrano Francesco Vinta ed il mirandolese Alfonso Quistelli), sancì l'istituzione di ministri dijcali destinati, senza una rigida delimitazione di compiti, a sovrintendere ai diversi settori dell'amministrazione, ed a fungere da tramite tra il duca ed i consigli o le magistrature cittadine. A partire dal 1546, sotto la direzione di Lelio Torelli, succeduto al Campana nella carica di primo segretario e nominato poco dopo anche auditore della Giurisdizione, si moltiplicò anche il numero dei segretari, destinati a svolgere compiti all'interno dello Stato o nelle rappresentanze diplomatiche, tradizionalmente affidate ad aristocratici. In seno alle stesse magistrature cittadine si accrebbero le funzioni ed il numero dei provveditori, segretari, cancellieri. Venne così consolidandosi una nuova burocrazia, largamente aperta ai "provinciali", anche se non costituita esclusivamente da essi.
Formalmente subordinata ai consigli ed alle magistrature riservati all'aristocrazia cittadina (gli auditori, ricorderà all'inizio del secolo XVII un vecchio cortigiano di C., Domenico Mellini, "giammai alla presenza del Magistrato sedettero, ma stando dritti in piede da una testa del banco, quando l'occorrenza la richiedeva trattavano con il Magistrato quanto occorreva"), questa burocrazia costituì in realtà uno strumento di cui C. I si servì per svuotare il dualismo insito nella costituzione del 1532 senza sopprimerlo. Legati a lui da un rapporto di stretta dipendenza, tenuti a riferirgli puntigliosamente tutti gli affari trattati, a sottoporre alle sue decisioni le pratiche istruite e ad eseguire fedelmente i "rescritti" da lui apposti in calce (sul cui valore legale verrà emanata una normativa specifica nel 1561), i collaboratori di C. 1 godettero di una parziale autonomia solo quando egli ne stimasse particolarmente "le rare et lodevoli virtù", come fu per Lelio Torelli, ma in altri casi furono rudemente richiamati, come avvenne al più modesto Alfonso Quistelli, ad eseguire soltanto ciò che egli avesse t di mano in mano" ordinato, al di fuori di ogni disposizione di carattere generale.
Anche la Pratica segreta, il nuovo Consiglio privato in cui si raccoglievano i principali ministri del duca, entrata in funzione di fatto nel 1547, senza che alcuna delibera pubblica ne stabilisse composizione e compiti, ebbe un'attività prevalentemente consultiva, ed operò in materia giurisdizionale ed economica assai più che non politica. C. I continuò a riservarsi non solo il potere legislativo, ma la decisione degli affari più minuti.
A tutto ciò era consacrata la sua lunga ed intensa giornata lavorativa, che l'ambasciatore veneto Vincenzo Fedeli descriverà nel 1561 iniziando all'alba e d'inverno "due o tre ore innanzi giorno", essa scorreva con regolarità dalla chiamata quotidiana a rapporto dell'auditore fiscale e del primo segretario ed auditore delle Riformagioni, alla lettura della corrispondenza e dei dispacci, cui C. I rispondeva spesso "di suo pugno"; dalle udienze riservate ad ambasciatori, nunzi ed "altre persone principali" a quelle concesse a "li particolari ad uno ad uno fino all'ora del desinare". La ricerca del rapporto diretto, paternalistico, con i sudditi fu sempre uno dei tratti caratteristici di C. I, simile in questo più ad un signore quattrocentesco che ai nuovi monarchi assoluti. "Quando egli andava alla Messa fuori di Palagio e a spasso per la città - ricorda ancora il Mellini, forse con qualche amplificazione - cavalcava un cavallino baio molto piccolo, acciocché tutti quelli del popolo che avessero voluto parlargli il potessero fare comodamente".
Sempre al Fedeli nell'amministrazione della giustizia C. I apparirà "principe tremendo et spaventevole". Nella durezza delle leggi emanate al fine di reprimere la violenza pubblica, vietare l'uso privato delle armi, tutelare la persona del sovrano (la "lex polverina" del 1548) e nel rigore della loro applicazione; nella creazione di un'ampia rete di spie e di "sindaci dei malefici", incaricati istituzionalmente di provvedere alle denunce; nel rafforzamento dell'apparato di polizia si esprimevano le tendenze autoritarie di C. I e la sua preoccupazione preminente per la conservazione dell'ordine pubblico. Ma "provvedere et cercare che la justitia sia egualmente administrata fra gli sua suddita" era ai suoi occhi dovere essenziale di un "optimo principe". Al di là dello stereotipo, non nuovo ed ampiamente circolante nella trattatistica ufficiale del ducato (come, ad es., negli scritti del Lottini), i suoi interventi in questo campo espressero anche la sua volontà di rafforzare le strutture dello Stato ed instaurare rapporti parzialmente diversi con le forze sociali preminenti.
Le leggi da lui emanate nel campo dell'alta penalità (sulla bestemmia e sodomia, 1542; sugli omicidi ed atti di violenza, 1543; sui contratti usurari, 1545; sui sicari, 1546; sulla violenza carnale, 1558 ecc.) tesero ad eliminare le disparità di trattamento ancora previste dagli statuti quattrocenteschi di Firenze in ragione del rango degli offesi e degli offensori; a limitare la discrezionalità dei giudici, che sotto la Repubblica era stata strumento di una giustizia di parte; a favorire l'uniformazione legislativa dello Stato, mediante l'applicazione delle nuove norme a tutto il dominio. A quest'ultimo fine mirò anche l'estensione della giurisdizione di alcuni tribunali, in primo luogo della Ruota fiorentina, come supremo tribunale d'appello civile, ma anche dei Conservatori di legge, per le cause riguardanti poveri ed "impotenti a litigare" (1545) e degli Otto di guardia e balia in campo penale (1550): magistrature di origine repubblicana e di composizione cittadina, che le ripetute riforme di carattere procedurale ed amministrativo promosse da C. I a partire dagli anni '40 subordinarono al potere dei funzionari ducali e sottoposero a norme più rigide.
Ma al disopra delle magistrature ordinarie (che egli non si peritò di licenziare quando il loro operato gli fosse sgradito, come accadde nel 1558 agli Otto di guardia e balia), al disopra degli auditori, in conformità con il proprio modo di intendere funzioni e prerogative sovrane, C. I anche in questo campo si riservò ampio spazio di intervento personale ed autoritario: depositario del supremo diritto di grazia, come i monarchi assoluti coevi, e di una giurisdizione straordinaria in campo civile (al cui espletamento fu delegato il Magistrato supremo, ridotto al ruolo di tribunale duciale), egli fu anche puntiglioso controllore dell'operato dei magistrati ordinari e non esitò ad interferire nelle loro sentenze, "alterando leggi e statuti", come scriveva con dimesso consenso il Quistelli e "arbitrando altrimenti le pene". I suoi propositi di uniformazione legislativa restarono d'altra parte frammentari e furono contraddetti dal suo rispetto per le autonomie ed i privilegi locali; è significativo che nel 1546 egli ordinasse a tutte le Comunità che non vi avessero ancora proceduto di riordinare i propri statuti e consegnarne una copia a Firenze, affermando che la loro applicazione nei vasti settori in cui la nuova legislazione ducale non aveva tolto loro vigore era condizione essenziale per una retta giustizia.
C. I in effetti non operò una trasformazione complessiva delle strutture giurisdizionali ed amministrative del dominio ereditate dalla Repubblica, caratterizzate da un grado di accentramento superiore a quello che tra '400 e '500 era stato generalmente raggiunto negli altri Stati italiani, ma fondate pur sempre sul riconoscimento dei poteri locali e l'attribuzione ad essi di funzioni rilevanti in campo amministrativo e fiscale. In un contesto di formale fedeltà alle istituzioni comunali vigenti, si propose però di controllarne il funzionamento dal centro. L'esautoramento degli organi cittadini attuato a Pistoia nel 1538 costituì un provvedimento del tutto eccezionale e temporaneo, ma fu non di rado avocata dal duca la nomina a cariche di particolare rilievo finanziario, come quella di governatore dei Ceppi di Prato e di Pistoia. Egli, inoltre, rafforzò ed estese il controllo amministrativo e contabile esercitato su tutte le Comunità dai Cinque Conservatori del contado e del distretto, alla cui riforma in senso accentuatamente burocratico provvide con ripetuti interventi legislativi, nel 1548, 1551, 1552. In conformità con la propria ideologia del principato, C. I amava presentare gli interventi così attuati come tutela degli interessi collettivi (e di quelli dei poveri) contro la gestione di parte dei gruppi dominanti nelle Comunità; ma in realtà egli acquisiva in questo modo uno strumento da un lato per interferire nei conflitti locali, dall'altro per regolare le finanze comunali, "conservare et accrescere le entrate et i denari e risecar le spese del publico".
Questa nuova capacità di controllo dei territorio acquistava un rilievo non secondario anche nel quadro della politica fiscale che C. I veniva elaborando nello stesso arco di anni, e da questa usciva d'altra parte ulteriormente rafforzata. Sotto il peso delle crescenti esigenze finanziarie per il consolidamento delle strutture burocratiche e la politica internazionale e militare del ducato, egli non solo ricorse a mezzi tradizionali, come la tassazione straordinaria ed in buona parte arbitraria dei redditi commerciali "arbitri") ed i prestiti forzosi redimibili o in perdita "accatti"); ma si preoccupò di ampliare e consolidare le basi ed i sistemi del prelievo ordinario.
Di qui le misure di più rigoroso accertamento della ricchezza, il riordinamento della decima, l'imposta fondiaria fiorentina, cui C. I diede avvio per il contado subito dopo la sua elezione; il rifacimento da parte degli organi centrali dell'estimo fondiario di tutto il contado di Pisa, iniziato nel 1547 e compiuto nel 1551. Di qui la distribuzione delle spese per alloggiamenti militari e mantenimento delle milizie ducali tra tutte le Comunità, in base a parametri prestabiliti (1545). Di qui, infine, quando già incombeva la preparazione dell'intervento militare a Siena, l'istituzione delle gabelle sulle farine (1552) e sulle carni macellate (1553), imposte gravanti sui consumi popolari, ma profondamente rispondenti all'idea cosimiana dell'uguaglianza dei sudditi, perché percepite in modo regolare ed uniforme in tutto lo Stato, senza tener conto di alcun privilegio od esenzione territoriale o personale. Le due gabelle, concepite dapprima come tasse straordinarie, costituirono poi le voci di entrata più rilevanti nel bilancio statale.
Con una commistione tra interessi pubblici e privati usuale in quei tempi, che si rifletteva nel duplice ruolo della Depositeria come cassa centrale sia dello Stato sia del patrimonio mediceo, alle spese pubbliche contribuirono in misura non indifferente anche le rendite del vasto patrimonio fondiario di C. I ed i profitti delle attività mercantili che egli incominciò a svolgere in proprio negli anni '40. Queste attività (finora assai scarsamente studiate) furono d'altra parte sostenute dal potere interno di C. I, che praticava l'incetta in deroga ai divieti ed appoggiava la vendita o la distribuzione coatta dei grano raccolto nelle fattorie medicee o importato alle istituzioni pubbliche, gestiva in proprio la "magona" del ferro e miniere di argento, di allume e di rame. La sua posizione internazionale d'altro lato gli consentiva di tessere una vasta rete di affari nei domini spagnoli, di godere di appalti proficui (come quello dei sale per lo Stato di Milano nel 1548), di esercitare su larga scala il commercio dei metalli connesso con le industrie militari; di accedere a prestiti cospicui o praticarli. Il forte incremento del patrimonio fondiario mediceo fu infine dovuto in buona parte all'accaparramento di terre paludose, prima appartenenti alle Comunità, ed alla loro bonifica (quando non fosse preferibile riservarle alla pesca o all'impianto di risaie).
Gli stessi interventi che C. I operò nel dominio, per valorizzarne le risorse agricole e minerarie, favorirne lo sviluppo commerciale e manifatturiero, promuovere la bonifica ed il popolamento di alcune aree, non furono certo senza rapporto con i suoi interessi privati, fondiari e commerciali. Essi assunsero tuttavia in alcuni casi notevole organicità e rilievo economico.
Di particolare interesse furono i provvedimenti emanati tra il 1546 ed il 1551 a favore di Pisa e del guo contado: alla concessione di privilegi a chi introducesse nella città la I., vorazione della lana, agli inviti rivolti a, ebrei e marrani perché vi stabilissero la loro residenza, all'apertura dell'arsenale, si affiancarono la promessa di esenzioni ed immunità a tutti i nuovi immigrati urbani e rurali e l'emanazione di misure volte a promuovere opere di bonifica, mediante una più equa distribuzione delle spese ed un miglior funzionamento dell'organo preposto (Ufficio dei fossi). Contemporaneamente C. I dava avvio a lavori per migliorare le fortificazioni di Livorno. Pisa, residenza invernale della corte e sede dell'università, conobbe così sotto C. I una vivace ripresa economica e demografica, e costitui, con le sue campagne ed il vicino scalo livornese, un secondo polo economico del ducato. Benché Firenze per molti aspetti conservasse i privilegi politici, fiscalì, giurisdizionali che erano l'eredità del passato repubblicano, la capacità di intervento nel dominio di C. I conferiva al suo Stato dei caratteri ormai regionali.
Maturava intanto anche una nuova politica culturale, consapevolmente tesa a rafforzare le istituzioni operanti in questo campo e ad egemonizzare gli intellettuali del ducato. Nel 1543 C. I riapriva l'università a Pisa, e le affiancava il Collegio di Sapienza, destinato agli studenti poveri del ducato. Già nel 1541-42 egli aveva promosso la trasformazione dell'Accademia degli Umidi, sorta come aggregazione spontanea e ristretta di dotti e letterati fiorentini, in organo ufficiale del regime, posto sotto l'alta protezione ducale. Era così nata l'Accademia fiorentina, la cui attività veniva finalizzata a compiti di rilevanza politica: la diffusione della lingua "toscana", la fondazione di una storiografia ducale, le discussioni politiche, la panegiristica. Nel 1546-47 l'Accademia veniva riformata in senso oligarchico e più rigidi regolamenti fornivano lo strumento per imporre che i lavori si svolgessero "con ordine e in silenzio", sotto il controllo dei vertici graditi al duca. Contemporaneamente questi promuoveva la fondazione di una stamperia ducale, concedendone il monopolio al fiammingo Torrentino.
Dopo il recupero delle fortezze, non senza connessioni con il processo di consolidamento dello Stato, C. I diede avvio ad una politica internazionale più aggressiva, contrassegnata da chiare mire egemoniche, se non addirittura espansionistiche. Se verso Lucca neppure nei momenti di tensione provocati dalla congiura antimedicea di Francesco Burlamacchi (1546) andò al di là di un tono di contenuta minaccia; se ai confini nordoccidentali poté soltanto acquistare alcune Comunità precedentemente infeudate ai Malaspina. cume Rocca Sigillina (1546), Filattiera (1549), Corlaga (1550); se con lo Stato pontificio i rapporti, già migliorati negli ultimi anni di Paolo III, conobbero una svolta assai positiva dopo la morte di quest'ultimo e l'elezione di Giovan Maria Ciocchi Del Monte (Giulio III, 1550), suddito e candidato mediceo. decisa ed aspra fu invece la pressione esercitata da C. in direzione di Piombino e, in forme diverse, di Siena.
In quest'area però incontrò la dura opposizione non solo dei poteri locali e di chi, come la Repubblica di Genova, temeva la preponderanza ducale nel medio Tirreno, ma degli stessi rappresentanti imperiali che sotto la guida di Ferrante Gonzaga, governatore dello Stato di Milano, e di don Diego de Mendoza, rappresentante di Carlo V a Siena, sostenevano la necessità di un più vigoroso impegno spagnolo in Italia e dell'assoggettamento diretto così degli Stati minori toscani come di quelli padani: di qui le ambiguità della condotta dello stesso Carlo V. A Piombino nel 1543 C. I intervenne secondo gli accordi contro la minaccia di un attacco di Khair ad-dīn, detto il Barbarossa, capo dei corsari ottomani, e provvide al restauro delle fortificazioni che gli Appiani avevano lasciato deteriorarsi, addossandosi il costo dei lavori. Ma neppure dopo la morte di Iacopo V (1545) ottenne la cessione del piccolo Stato, tenacemente difeso dalla vedova, Elena Salviati e dal giovane figlio, Iacopo VI; e le speranze concepite nel 1546, allorché l'imperatore, impegnato in Germania nella guerra contro i principi protestanti, gliene promise solennemente l'infeudazione, con l'Elba e Pianosa, in cambio di un prestito di 200.000 scudi, andarono per diverso tempo frustrate. Nel 1548 C. I ottenne l'Elba, ma solo a titolo di deposito temporaneo e con il gravoso impegno di procedere alla fortificazione di Portoferraio. Quanto a Piombino, il diploma di investitura emanato poco dopo dall'imperatore fu ritrattato nel giro di un mese.Se il profondo risentimento di C. I per l'assenza di compensi politici alla costosa azione di appoggio che gli veniva richiesta ed ai debiti enormi accumulati da Carlo V nei suoi confronti, per "il tropo stirachiato modo di far ogni cosa meco" non giunse al punto di provocarne l'uscita dal campo imperiale, fu tale però da indurlo ad un riavvicinamento segreto con la Francia e da ripercuotersi gravemente sulla sua politica senese.
A Siena nel 1546, in occasione della sommossa di parte popolare contro il Monte dei Nove, proprio il deciso sostegno militare ducale aveva consentito alla guarnigione spagnola di ritirarsi indenne dalla città. Ma negli anni successivi C. I non esitò a distinguere le proprie posizioni da quelle del Mendoza, fino a giungere nel 1551 ad una vera e propria rottura. Dopo la rivolta antispagnola del 27 luglio 1552, riluttante a schierarsi accanto al contestato rappresentante imperiale e contro le forze repubblicane che sapeva sostenute dai Francesi, C. I ritirò rapidamente le proprie truppe e nel giro di pochi giorni, scavalcando gli Spagnoli, firmò con la Repubblica una capitolazione che le riconosceva l'indipendenza, mentre essa si impegnava a non partecipare ad eventuali azioni ostili contro Firenze (4 agosto). Contemporaneamente sottoscriveva un trattato segreto con Enrico II, impegnandosi ad una stretta neutralità tra Francia ed Impero.
Non si trattò, tuttavia, di una netta scelta di campo: i timori di C. I nei confronti dei Francesi, tradizionali alleati dei fuorusciti fiorentini, non si dileguarono; e la sua insistenza sulla segretezza dell'accordo, la sua preoccupazione di giustificare il proprio mancato intervento agli occhi di Carlo V (sottolineando al tempo stesso le responsabilità dei Mendoza), i preparativi militari avviati nel ducato indicavano con chiarezza i limiti e l'ambiguità della svolta. In effetti il declino del prestigio del Mendoza e del Gonzaga ed il prevalere alla corte imperiale della linea di maggior disponibilità nei confronti dei principi alleati sostenuta dal duca d'Alba e dai Toledo, aprì la strada ad un lento riavvicinamento: ne furono segni, da parte di Carlo V, la concessione di Piombino a C. I, sia pure a titolo temporaneo; da parte di C. I la richiesta di revoca del patto con la Francia nel mese di novembre; l'assunzione al proprio servizio., con il consenso di Carlo V, di Giangiacomo de' Medici, marchese di Marignano, suddito e capitano imperiale (febbraio 1553).C. I tuttavia era ormai deciso a porre condizioni preliminari al proprio intervento, a chiarirne con l'imperatore i termini militari, finanziari e politici: la riconquista di Siena doveva significare ai suoi occhi non la semplice costosa restaurazione della guarnigione spagnola, ma l'occasione di ingrandimenti territoriali per sé, o almeno di un ampliamento della propria sfera di influenza politica. Così egli mantenne un atteggiamento assai cauto nei confronti della spedizione guidata all'inizio del 1553 da Pietro di Toledo (destinata a concludersi nel mese di giugno con il ritiro delle truppe napoletane che assediavano Siena): dopo la morte del suocero, avvenuta nel febbraio, rifiutò di assumerne il comando, passato quindi al figlio Garcia, ed aderì invece al tentativo di mediazione svolto da Giulio III. Quando nell'autunno del 1553 trattò infine con Carlo V l'organizzazione di una nuova spedizione, C. 1 volle assicurarsene la direzione personale ed esclusiva, chiedendo al grande alleato solo la concessione di un congruo aiuto militare (4.000 fanti e 300 cavalieri) e la garanzia che Siena sarebbe rimasta nelle sue mani, finché tutti i debiti imperiali non gli fossero stati saldati o non gli fossero stati concessi adeguati compensi territoriali.
L'attacco scattò tra il 26 ed il 27 genn. 1554, cogliendo di sorpresa i Francesi, tratti in inganno dalle trattative di pace condotte con la mediazione del pontefice, alle quali C. I aveva finto di aderire. La guerra, condotta sotto il comando supremo del Marignano e secondo i piani che C. I aveva elaborato con lui, con Francesco di Toledo e pochi altri collaboratori 1 fu lunga e durissima: alla rapida conquista del forte di Camollia, alle soglie della città, ed al blocco parziale di questa, seguì un assedio protratto ed un'opera capillare di distruzione degli approvvigionamenti e dei raccolti, di devastazione delle campagne, di perseguimento dei contadini che si fossero arrischiati a portare vettovaglie in città. Nel giugno-luglio Piero Strozzi, luogotenente del re a Siena, diresse due sortite spettacolari; dapprima riuscì a condurre le sue truppe fin nel cuore del ducato, alle porte di Prato ed in Valdinievole, ai confini con la Repubblica di Lucca, inseguito con cauta lentezza dal Marignano; ma infine fu rovinosamente sconfitto a Scannagallo, vicino ad Arezzo (2 agosto). Siena resistette all'assedio ancora circa otto mesi; poi, abbandonata dai Francesi, si arrese a C. I il 17 apr. 1555. Se la guerra lasciò sull'economia cittadina e sul territorio di Siena segni non facilmente cancellabili, al ducato essa richiese uno sforzo militare e finanziario altissimo (stando alle cifre fornite dai contemporanei furono impegnati 20.000 uomini e 1.000 cavalli, tra bande ducali e truppe mercenarie) e fu un indubbio banco di prova per la solidità dello Stato mediceo. C. I affiancò al Marignano come proprio commissario Bartolomeo Concini, funzionario di umili origini, che aveva dato le prime prove della sua abilità nelle trattative con Carlo V e negli anni a venire sarebbe diventato il più ascoltato ministro e consigliere ducale. Fedele alle proprie abitudini, C. I, informato dal Concini, seguì di persona le operazioni più minute, criticando spesso rudemente le esitazioni, le lentezze, le scelte tattiche del vecchio comandante.
La capitolazione, sottoscritta da C. I senza consenso preventivo di Carlo V (che la ratificò soltanto nel mese di giugno, non senza obiezioni e resistenze), stabiliva che Siena tornasse sotto la protezione dell'imperatore, alle condizioni vigenti nel 1552; dovesse accettare una guamigione imperiale e fosse privata delle fortezze. Riconosceva a Carlo V il diritto di procedere alle riforme che avesse ritenuto opportune, nel rispetto, tuttavia, delle istituzioni repubblicane fondamentali. C. I non mancò di porre un'ipoteca sulla città, nominandovi un proprio governatore e occupando le fortezze: a lui, del resto, erano ancora affidate le operazioni per eliminare le guarnigioni francesi rimaste in Maremma e soprattutto nella zona di Porto Ercole.
Le sue speranze, ora abbastanza chiaramente orientate verso l'acquisto della repubblica, sembrarono destinate ad una nuova frustrazione, allorché Carlo V, pochi mesi più tardi, ne creò vicario imperiale il figlio Filippo. Avevano premuto in questo senso gli stessi Senesi, ostili alla prospettiva di un'annessione. al ducato. C. I tuttavia seppe approfittare con grande abilità delle difficoltà in cui Filippo si trovò dopo l'abdicazione del padre, di fronte al perdurare delle guerre con la Francia in Italia e nelle Fiandre, alla bellicosa politica antispagnola del nuovo pontefice eletto nel maggio 1555, Paolo IV Carafa, ed alla grave crisi finanziaria della Spagna. Nel 1557, preoccupato anche per le voci circolanti sull'eventualità di una cessione di Siena ai Farnese o addirittura ai Carafa, C. I ne richiedeva con grande energia la subinfeudazione, ricordando gli enormi debiti accumulati con lui dalla Spagna (più di 2 milioni di scudi) e minacciando, qualora non gli fosse stata data soddisfazione, di "provvedere in altro modo ai propri interessi", cioè di riavvicinarsi alla Francia ed a Paolo IV.Il 3 luglio 1557 fu concluso l'accordo: C. riceveva lo Stato senese in feudo, ad eccezione dei castelli di Talamone, Porto Ercole, Orbetello e di tutto l'Argentario, sui quali la Spagna manteneva il dominio diretto; doveva restituire i territori di Piombino e. dell'Elba, dove tuttavia gli veniva lasciato Portoferraio, la "Cosmopoli" che egli aveva dispendiosamente e faticosamente costruito e popolato a partire dal 1548. In cambio C. I annullava i debiti spagnoli. Contemporaneamente si stabiliva una lega di assistenza militare tra la Spagna ed il ducato mediceo in Italia. Due anni dopo (1559) la pace di Cateau-Cambrésis poneva termine all'ultimo focolaio di resistenza antimedicea, la Repubblica di Montalcino.
All'alleanza con Filippo II C. I restò fondamentalmente fedele fino alla morte, senza cedere alle sollecitazioni che in diversi momenti gli giunsero da parte francese. In quest'ambito negli anni successivi alla pace di Cateau-Cambrésis egli aspirò con tenacia alla preminenza tra gli Stati italiani: di qui il suo impegno nella annosa controversia sulla precedenza con gli Estensi (iniziata già nel 1541 e trascinatasi fino al 1569); la sua aspirazione, esplicita fin dal 1560, ad un titolo che lo elevasse al disopra degli altri principi italiani. Essenziale fu per lui il rapporto privilegiato che si instaurò con il Papato a partire dal 1559, quando, dopo la morte di Paolo IV, dal conclave abilmente condotto dal Concini fu eletto il cardinale Giovanni Angelo Medici (Pio IV), candidato spagnolo e mediceo: un rapporto che C. I tenne a conservare anche sotto il rigido successore, Pio V, eletto nel 1566. Così si spiega (oltre che per la sua religiosità personale, profonda e crescente) la politica ecclesiastica e religiosa di C. I nei suoi anni maturi: l'azione svolta nel 1560 a favore della riapertura del concilio, tramite i propri diplomatici e recandosi personalmente dal pontefice a Roma; il suo attivo allineamento sulle posizioni pontificie negli anni successivi, e le mediazioni svolte quando queste contrastassero con i punti di vista spagnoli; la rapida accettazione dei decreti tridentini; l'attenuazione delle tendenze che avevano caratterizzato i primi anni del suo governo, ed il favore concesso alle grevi aggiunte apportate da Pio V alla bolla In coena Domini;L'irrigidimento verso gli eretici, di cui fu episodio culminante la consegna di Pietro Carnesecchi all'Inquisizione romana (1566).
Il legame con la Spagna non impedi d'altro lato a C. I di attuare iniziative autonome; né mancarono momenti di acuta tensione. Se nel 1558 egli riuscì ad acquistare senza difficoltà dai Piccolomini di Siena, in nome della moglie Eleonora, Castiglione della Pescaia e l'isola del Giglio, il tentativo compiuto nel 1560-62 di entrare in possesso del feudo imperiale di Pitigliano, o almeno di legarlo a sé attraverso un patto di accomandigia, e i progetti di annessione della Corsica insorta contro Genova accarezzati tra il 1564 ed il 1567 (a ripresa di un interesse per l'isola mediterranea che C. I aveva già dimostrato nel 1553) irritarono profondamente Filippo II. Il veto opposto dal sovrano spagnolo indusse C. I ad abbandonare le due imprese; ma l'aspirazione a rafforzare il proprio peso militare e politico in seno all'alleanza per renderla tendenzialmente paritaria rappresentò una direttrice costante della sua azione negli anni '60. Consapevole del ruolo che il Mediterraneo e la pressione turca stavano assumendo nell'impero di Filippo II, C. I si preoccupò ora prevalentemente del rafforzamento delle strutture marinare del ducato.
"Le cose del mare - egli scriveva poco dopo l'annessione di Siena, delineando una sorta di programma politico per il futuro - non sono di manco reputazione e utile alli stati che quelle di terra". Di qui l'appassionato interesse per la costruzione delle galere, cui egli amò presenziare personalmente fino ai suoi anni più tardi, ed il programma di potenziamento della flotta di Stato; di qui la sua cura per le fortificazioni di Livorno e per lo sviluppo dell'arsenale di Pisa. Di qui, anche, l'istituzione nel 1562, con l'autorizzazione e l'appoggio di Pio IV, dell'Ordine cavalleresco di S. Stefano, con sede a Pisa, del quale il duca stesso fu gran maestro. Dalla sua attività, consona, per usare le parole di un altro biografo cinquecentesco di C., il Mannucci, a "un onorato esercizio di armi" e ai "cortesi costumi de' gentil'uomini", oltre che allo spirito di crociata del secolo, dalla sua partecipazione alle imprese di Filippo II contro i Turchi (spedizioni di Orano, nel 1563, di Malta nel 1565) C. I si riprometteva, forse con qualche illusione, una trasformazione in senso paritario dei vincoli che lo legavano al sovrano spagnolo. L'apertura dei ranghi dell'Ordine, attraverso il sistema delle conimende, ai membri non solo dell'aristocrazia fiorentina, ma dei gruppi dominanti delle città e terre del dominio, ne faceva d'altro lato uno strumento importante di unificazione dei ceti dirigenti del ducato.
Dopo l'annessione di Siena il ducato conobbe comunque un lungo periodo di pace. La situazione delle finanze migliorò nettamente, e C. I poté abolire l'"arbitrio", che tra i tipi di imposizione era ai suoi occhi il più iniquo ed il più impopolare (1561). Perfezionò il sistema statale delineato precedentemente, con alcune ulteriori riforme nei campi preminenti dell'amministrazione della giustizia (riorganizzazione del fisco, 1563) e della sovrintendenza al dominio (sostituzione dell'unico Magistrato dei Nove conservatori della giurisdizione e del dominio fiorentino ai due uffici dei Cinque conservatori e degli Otto di pratica, le cui competenze si erano spesso sovrapposte, 1560). Pur nel rispetto dell'autonomia da Firenze e delle istituzioni cittadine precedentemente in vigore imposto dalla capitolazione del 1555 e dall'atto di infeudazione del 1557, C. I procedette a una ampia riforma dello Stato di Siena (1561), in cui si riflettevano significativamente gli stessi criteri che avevano guidato il suo governo a Firenze.
Istituì un governatore, che volle strettamente dipendente da sé, conferendogli "quella e quanta autorità ci parrà alla giornata, per le lettere della sua elettione o in altro modo"; avocò a sé le nomine ai Consigli ed alle magistrature più rilevanti; creò la nuova magistratura dei Quattro conservatori, destinata, come i Nove a Firenze, a sovrintendere all'amministrazione delleComunità del contado. Più tardi, nel 1571, procederà anche alla riorganizzazione giurisdizionale del contado, sostituendo, secondo il modello, fiorentino, alla vasta congerie di perduranti autonomie locali una rete più regolare di giusdicenti cittadini, largamente sottoposti al controllo accentrato del governatore e del capitano di Giustizia di Siena.
Furono anni di grandi interventi sul territorio, non più soltanto fiorentino ma anche senese. Ad essi il duca continuò a sovrintendere anche di persona, con lunghi viaggi pressoché annuali: così tra il 1560 ed il 1562 visitò la Valdichiana, la Maremma senese (progettandovi bonifiche e ripopolamento ed accaparrando al tempo stesso terre incolte ed impaludate), Grosseto, Livorno, Pisa e le sue campagne.
La rete delle fortificazioni cui C. I aveva dato avvio fin dai primi anni del suo principato si articolò ulteriormente: ai numerosi restauri, alla costruzione di nuove cinte bastionate intorno a terre e città, di torri e fortini lungo le coste si aggiunse la costruzione di due città-fortezza, Terra del Sole, avamposto della Romagna ducale (1564), e Sasso di Simone, inerpicato su una montagna di 1.200 metri ai confini col ducato di Urbino (1569). Nello "Stato nuovo" veniva edificata una cittadella a Siena (1561) e si avviava la fortificazione di Grosseto e Radicofani. Procedettero con slancio i lavori di bonifica del piano dell'Arno e di raddrizzamento del corso del fiume; ad essi si affiancarono tentativi più frammentari e scarsamente fruttuosi nella Maremma senese. Nel 1560 fu dato avvio al canale dei Navicelli, destinato a collegare per via d'acqua Pisa a Livorno.
In campo culturale all'Accademia fiorentina fu affiancata nel 1563 l'Accademia del disegno, alla quale fu affidato un compito analogo di direzione ufficiale ed uniformazione dell'attività artistica nel settore che le era proprio. A C. I la propria opera sembrava in qualche misura compiuta: ed alla sua esaltazione, nei suoi aspetti centralizzatori e regionali, egli indirizzava le più notevoli iniziative di quegli anni in campo architettonico e figurativo. Nel 1560 prendeva avvio, sotto la direzione del Vasari, la costruzione degli Uffizi; nel 1565 sempre il Vasari, con la decorazione allegorica del salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, celebrava unitamente lo Stato e l'opera di C. I ed esaltava in lui l'"optimus princeps" che regnava "pacata Etruria, aucto imperio, constituta civitate".
All'immagine del principe che ha raggiunto i suoi fini si intreccia agli inizi degli anni '60 quella di uda vita famigliare e privata piena, libera e felice. Nel 1561 Vincenzo Fedeli (cui più tardi faranno eco numerosi biografi di C. I), accanto alla sua intensa giornata di lavoro, ricorda il suo amore per le "cose ove bisogna agilità, forza, destrezza", il maneggio delle armi, i tornei, la caccia; la sua passione spontanea per la pesca ed il nuoto, nei quali "è la totale sua ricreazione". Ed al severo rigore che caratterizza il suo personaggio pubblico contrappone il lieto abbandono alla semplicità giocosa dei rapporti privati, "talmente che è fatto proverbio nella città che il duca si disduca e s'induca quando vuole". Alla "grandezza" della corte, di cui pure proprio per quegli anni ci è noto l'ampissimo "ruolo", C. I preferiva ora un modo di vita più dimesso: "come un grandissimo padre di famiglia" mangiava "con la moglie e con i suoi figliuoli con una tavola moderatamente ornata", mantenendo la stretta unità del suo nucleo famigliare e del suo seguito, contro le consuetudini principesche generalmente in voga. Anche "nell'andar fuori o per la città o in campagna, dove va il duca va la moglie e figliuoli e tutta la casa", notava ancora il Fedeli, con il seguito delle guardie, dei cavalleggeri, dei capitani pensionati e stipendiati.
Un anno più tardi, però, tra il novembre ed il dicembre 1562, proprio nel corso di un viaggio attraverso il ducato, C. I perse in rapida successione i figli Giovanni (morto a Livorno il 20 novembre) e Garzia (morto a Pisa il 12 dicembre), colpiti da febbri malariche, e la moglie Eleonora, da tempo ammalata di tubercolosi (morta a Pisa il 17 dicembre).
Egli reagì con la pubblica compostezza del sovrano; ma, scriverà il protomedico Baldini, era stato "carnalissimo della moglie et dei suoi figliuoli mentre che eglino vissino", e molto sofferse della loro morte. Lo provano anche le lettere che C. I inviò al primogenito Francesco, che allora si trovava alla corte di Filippo II a Madrid, nelle quali si professa "un vero cristiano che da Dio riconosce il tutto", ma si dilunga poi nel racconto particolareggiato, realistico e dolente, delle tre morti, come se fosse tutto preso dal ricordo di queste. Le voci relative a cupe tragedie famigliari rapidamente diffuse dalle cerchie dei fuorusciti fiorentini residenti a Roma, recepite negli ambienti del concilio tridentino, e di qui propagate altrove, rivelano soltanto l'ostilità di cui era ancora circondato Cosimo I.
Il 1º maggio 1564 C. I cedette il governo e le rendite dello Stato al figlio Francesco, riservandosi il titolo ducale, il diritto di nomina alle cariche più importanti, i beni allodiali e i capitali commerciali, nonché il diritto di beneplacito nelle questioni politiche di maggior rilievo.
Se al papa egli adduceva il proprio desiderio di servire meglio Dio ed a Filippo II ricordava l'esempio di Carlo V, alla sua decisione contribuirono probabilmente diverse ragioni pubbliche e private: il suo precoce logoramento fisico (egli soffriva di "pietra e renella"); la sua crescente aspirazione ad una vita ritirata; il suo desiderio di facilitare la successione di Francesco al trono. nonché forse la concessione del titolo più elevato cui ambiva, sostituendo a se stesso, che della dinastia era il fondatore, il figlio, principe per diritto ereditario. Proprio nel 1564, d'altra parte, stavano felicemente concludendosi le trattative per il matrimonio di Francesco con Giovanna d'Austria sorella dell'imperatore Massimiliano II, in cui C. I, dopo il fallimento del progetto di unione con Giovanna, infanta di Spagna e principessa vedova di Portogallo (1560), vedeva un riconoscimento essenziale della preminenza raggiunta dal suo casato. In effetti le nozze principesche furono poi celebrate nel dicembre 1565, con festeggiamenti pubblici alla cui preparazione sovrintese lo stesso Cosimo I.
Il precoce ritiro di C. I fu lungi pero dall'essere totale. Egli continuò a dirigere la politica estera del ducato, a sovrintendere all'attività marinara della flotta di Stato e dell'Ordine di S. Stefano (fino alla partecipazione delle galere toscane alla battaglia di Lepanto sotto le bandiere pontificie). Seguì personalmente le lunghe 1 trattative (affidate ancora una volta al Concini) che, dopo i veti opposti negli anni precedenti da Spagna ed Impero alla concessione del titolo regio o arciducale da parte di Pio IV, condussero infine Pio V ad insignire nel 1569 C. I del titolo di granduca di Toscana ed incoronarlo solennemente a Roma il 5 marzo 1570. Ancora C. I negli anni successivi fece fronte al risentimento dell'imperatore e di Filippo II, per il pregiudizio portato agli altri principi italiani ed agli arciduchi tedeschi; il procedimento volutamente unilaterale seguito dal pontefice; la natura del titolo attribuito, che implicava la sostituzione alla disgiunta sovranità su Siena e Firenze di quella unitaria sulla Toscana. Il privilegio imperiale, necessario per la sua effettiva validità, verrà emanato soltanto dopo la morte di C. I, a favore di Francesco, nel 1576.
Con il figlio C. I ebbe però rapporti non facili. Già nel 1561, dopo avergli affidato, come addestramento alla pratica del governo, proprio la risposta alle richieste di grazia cui attribuiva tanta importanza, C. I rimproverava Francesco per il modo in cui aveva assolto fl compito, da cui era stato costretto ad esonerarlo: "non durò molto che per Fiorenza si diceva che le gratie le facevono i tuoi servitori et ancora si vendevono", gli scriveva con collera; e lo richiamava all'opportunità di tenere "li servitori come servitori".
Lo separava in effetti dal figlio un modo diverso di concepire la funzione del principe ed il ruolo della corte e dei ministri. Nel 1568, in una lettera indirizzata al Magistrato supremo e diffusa agli altri organi pubblici, C. I ricordava la "buona usanza" da lui introdotta nel passato di ricevere personalmente lettere e suppliche indirizzate "in nostra man propria" e provvedere in segreto alle richieste così pervenute; ne constatava con rimpianto il declino, "pensando forse le genti che noi non volessimo più negotiare"; protestava la volontà sua e del principe a "durar ogni sorta di fatica" pur di tornare all'antica consuetudine, chiedendo perciò paradossalmente l'aiuto degli organi pubblici.
Con amarezza egli assisteva, in questo come in altri campi, al tramonto di quel rapporto paternalistico e diretto con i sudditi che gli era stato tanto a cuore, ed alla crescita dei poteri di mediazione dei ministri e della corte. A questa, nella versione accentuatamente spagnolesca che le fu propria sotto Francesco e Giovanna, egli, pur amante di feste, spettacoli e balli, si sentiva estraneo.
Creavano d'altra parte dissapori anche gli amori che C. I intrecciava pubblicamente, senza i riguardi che secondo i figli erano dovuti al suo grado. La relazione con Leonora degli Albizzi (1565-67), dalla quale nacque il figlio don Giovanni, si concluse con l'allontanamento della donna, e le sue nozze, volute da C. I, con un cittadino fiorentino, Bartolomeo Panciatichi.
Ad essa però, ed ai contrasti con Francesco, è legato l'assassinio di Sforza Almeni, compiuto da C. I il 22 maggio 1566, in un violento accesso di collera: l'Almeni, da lungo tempo primo cameriere segreto e intimo del duca, da lui lautamente beneficiato con case, poderi e monopoli mercantili, si era probabilmente reso colpevole di qualche indiscrezione nei confronti del suo vecchio signore, e del tentativo, simile ad un tradimento, di ottenere il favore del nuovo principe.
Ben più durevole ed impegnativo fu il legame con Camilla Martelli, dalla quale C. I nel maggio 1568 ebbe la figlia Virginia. Nel 1570, dopo la sua incoronazione granducale, C. I confessò al papa i suoi scrupoli, e ne fu esortato a rompere il concubinato. "Padre Santo gli rispose a quanto egli stesso scrive la mia coscienza non mi detta così". Tornato a Firenze, "per la quiete dell'anima e del corpo", la sposò in forma riservata, senza concederle alcun titolo.
Alla collera di Francesco ed agli altezzosi rimproveri della nuora Giovanna, che gli trasmetteva l'indignazione dell'imperatore, C. I opponeva il ricordo della propria generosa dedizione nei confronti del figlio, cui aveva dato "gli stati et quanto havevo" e la propria disponibilità a "strascicarsi" sempre per la sua grandezza; ma rivendicava con fermezza la propria libertà privata ed il proprio diritto "d'esser lasciato vivere".Licenziata la sua corte, trascorse i suoi ultimi anni con Camilla a Pisa e nelle ville di Castello e Poggio a Caiano in forma ritiratissima: dedito ancora, per quanto gli era possibile, a brevi viaggi, ed alle attività all'aria aperta, attraverso le quali, scriverà il Baldini, aveva maturato la conoscenza profonda ed appassionata di "tutte le parti et tutti i paesi degli Stati suoi, non altrimenti che se egli fusse stato confinovamente presente in tutti"; sorretto da una religiosità sincera, ancora attenta alle "cose a benefitio de' poveri"; ma tormentato in misura crescente dalla gotta e, a partire dal 1568, da una serie di colpi apoplettici, che negli ultimi anni lo ridussero ad una condizione di invalidità; immalinconito dal confronto quotidiano con la moglie troppo giovane ed amante dei divertimenti, scarsamente incline ad assisterlo.
Morì a seguito di un ultimo colpo apoplettico nella villa di Castello, presso Firenze, il 21 apr. 1574.
Fonti e Bibl.: Tra le fonti ms. relative alla storia del ducato al tempo di C. I hanno particolare interesse biogr. i carteggi, registri di lettere e minutari di C. I, in Arch. di Stato di Firenze, Me diceo del Principato (cfr. Arch. di Stato di Firenze, Arch. Mediceo del Principato. Invent. sommario, Roma 1951, e Id., Carteggio universale di C. I, I, 1536-1541, a cura di A. Bellinazzi-C. Lamioni, Firenze 1982). Rilevanti sono anche i fondi Carte Strozziane (cfr. Le carte strozziane del R. Arch. di Stato di Firenze, Inventario, serie I, I-II, Firenze 1883-1891); Miscell. medicea, Diplom. mediceo. Per le fonti di parte spagnola, cfr. R. Magdaleno, Estados Pequefios de Italia (siglos XVI-XVIII). Catalogo XXVII del Archivo de Simancas, Valladolid 1978. Per la bibl. e le fonti a stampa, cfr. i repertori di D. Moreni, Serie d'autori di opere riguardanti la celebre famiglia Medici, Firenze 1826, passim;e S. Camerani, Saggio di bibliografia medicea, Firenze 1964, pp. 96-105. Per gli studi più recenti, cfr. le rassegne di storia toscana di F. Diaz, Recent studies on Medicean Tuscany, in The Journal of Italian History, I (1978), pp. 95-110; e di G. Spini, Bilancio di un "trend" storiogr., in Potere centrale e strutture perifer. nella Toscana del '500, Firenze 1980, pp. 7-25. In questa sede ci si limita a fornire le indicazioni più rilevanti. Gli atti legislativi di C. I sono in buona parte pubbl. in Legislaz. toscana raccolta e illustrata da L. Cantini, I-VIII, Firenze 1800-1803. Dal suo carteggio è tratto Cosimo I de' Medici, Lettere, a cura di G. Spini, Firenze 1940. Tra le fonti diplom. cfr. Relazioni degli ambasc. veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, I, Firenze 1839, pp. 321-400 (relaz. di V. Fedeli, 1561) e s. 2, II, Firenze 1841, pp. 57-93 (relaz. di L. Priuli, 1566); Legazioni di Averardo Serristori, ambasciatore di C. I a Carlo V ed in corte di Roma, a cura di G. Canestrini, Firenze 1853; C. Paoli-E. Casanova, C. 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Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550e 1568, testo a cura di Bettarini, 4 voll., commento a cura di P. Barocchi, 3 voll., Firenze 1966-76, passim. Tra le biografie ined. di C. I. sono di qualche interesse, Firenze, Bibl. nazionale, Magliab., cl. XXV, cod. 49: F. Cavriana, Cosmi Medices Magni Ducis Hetruriae vita; Ibid., cl. VIII, cod. 1401, cc. 42-62: M. Adriani, Vita del granduca C.;tra le biogr. edite quelle coeve di B. Baldini, Vita di C. M. primo granduca di Toscana, Firenze 1578; G. B. Cini, Vita del serenissmo signor C. de' M., Primo granduca di Toscana, Firenze 1611; S. Ammirato, Opuscoli, Firenze 1642, III, pp. 206-34; D. Mellini, Ricordi intorno ai costumi, azioni e governo del serenissmo granduca C. I, Firenze 1820; A. Mannucci, Vita di C. de' M. granduca di Toscana, Pisa 1823; G. B. Adriani, Vita di C. de' M., in Scelta di curiosità letter. ined. o rare dal secolo XIII al XVII, CXXI, Bologna 1871, pp. 1-114. Cfr., inoltre, tra le biografie o studi di particolare rilevanza biografica più tardi: L. Cantini, Vita di C. de' M., primo granduca di Toscana, Firenze 1805 (con appendice docum.); L. A. Ferrai, C. I de'M. duca di Firenze, Bologna 1882 (con append. docum.); G. E. Saltini, Tragedie medicee domestiche (1557-1587), Firenze 1898, passim;G. E. Young, The Medici, London 1909, pp. 237-303 (trad. it., Firenze 1934); G. Pieraccini, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, Firenze 1947, I, pp. 501-07; II, 1, pp. 1-54; G. Spini, C. I dei M., in Libera cattedra di storia della civiltà fiorentina, Firenze 1958, pp. 163-78. Forniscono indicazioni biografiche le storie generali coeve di P. Giovio, Historiae sui temporis, Basileae 1560, passim;G. B. Adriani, Istoria de' suoi tempi (1573-1574), Firenze 1583, passim;S. Ammirato, Istorie fiorentine, con l'aggiunte di Scipione Ammirato il giovine, Firenze 1647, II, pp. 437-563; B. Varchi, Storia fiorentina (1527-1538), Colonia 1721, pp. 587-640; B. Segni, Istorie fiorentine (1527-1555) Augusta [Firenze] 1723, passim;F. de' Nerli, Commentari de'fatti civili dal 1215 al 1537, Augusta [Firenze] 1728, pp. 291-302; I. Nardi, Istorie della città di Firenze, a cura di L. Arbib, II, Firenze 1842, pp. 367-410. Tra le storie o studi complessivi posteriori, cfr. G. Bianchini, Dei granduchi di Toscana della real Casa de' Medici protettori delle lettere e delle belle arti, ragionamenti istorici, Venezia 1741, pp. 1-31; R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, Firenze 1781, I-II, passim;F. Inghirami, Storia della Toscana, Fiesole 1841-43, X, pp, 88-253; XII, pp. 498 s.; A. von Reumont, Gesch. Toskanas seit dem Ende des florentinischen Freistaates, Gotha 1876-77, I, pp. 69-294; R. Caggese, Firenze dalla decadenza di Roma al Risorg. d'Italia, Firenze 1912-13, III, pp. 50-124; A. Panella, Storia di Firenze, Firenze 1949, pp. 202-22; F. Diaz, Ilgranducato di Toscana. I Medici, Torino 1976, pp. 66-229; E. 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Rossi, Francesco Guicciardini e il governo fiorentino dal 1527 al 1540, Bologna 1896, pp. 273-329; A. Anzilotti, La crisi costituz. della Repubblica fiorentina, Firenze 1912, pp. 121-48; A. Otetea, François Guichardin. Sa vie Publique et sa Pensée Politique, Paris 1926, pp. 302-15; R. von Albertini, Das florentin. Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern 1955 (trad. it., Firenze d alla repubblica al principato, Torino 1970, pp. 280-305 e passim);R. Ridolfi, La vita di Francesco Guicciardini, Roma 1960, pp. 386-95, 400, 411, 415; Id., Francesco Guicciardini e C. I, in Arch. stor. ital., CXXII(1964), pp. 567-606; G. Spini, C. Ie l'indip. del Principato mediceo, Firenze 1980. Sulle riforme istituz., la politica interna e gli interventi nel territorio attuati da C. I, cfr. A. Anzilotti, La costituz. interna dello Stato fiorentino sotto C. I duca di Toscana, Firenze 1910; I. Ferretti, L'organizzaz. militare toscana durante il governo di Alessandro e C. I, in Riv. stor. d. archivi toscani, I (1929), pp. 248-75; II (1930), pp. 58-80; D. Marrara, Studi giurid. sulla Toscana medicea, Milano 1965, ad Ind.;A. D'Addario, Lo Stato fiorent. alla metà del '500, in Arch. stor. ital., CXXI ( 1963), pp. 362-456; E. Fasano Guarini, Lo Stato mediceo di C. I, Firenze 1973; G. Pansini, IlMagistrato supremo e l'ammin. della giustizia civile durante il Principato mediceo, in Studi senesi, LXXV (1973), pp. 283-315; Architettura e politica da C. I a Ferdinando I, a cura di G. Spini, Firenze 1976, ad Ind.;A. D'Addario, La formazione dello Stato moderno in Toscana da Cosimo il Vecchio a C. I de' M., Lecce 1976, pp. 193-245; E. Fasano Guarini, Città soggette e contadi nel dominio fiorentino tra Quattrocento e Cinquecento, in Ricerche di storia moderna, I, Pisa 1976, pp. 1-94 passim;Id., Potere centrale e comunità soggette nel granducato di C. I, in Riv. stor. ital., LXXXIX (1977), pp. 490-538; Id., Consideraz. su giustizia, Stato e società nel ducato di Toscana del Cinquecento, in Florence and Venice: comparisons and relations, II, Cinquecento, Firenze 1980, pp. 135-68; La nascita della Toscana. Dal convegno di studi Per il IV centenario della morte di C. I de' M., Firenze 1980, passim; Potere centrale e strutture Periferiche nella Toscana del '500, a cura di G. Spini, Firenze 1980, passim. Sulla polit. religiosa ed eccles. di C. I, cfr. anche L. Bruni, C. I de' M. e il processo di eresia del Carnesecchi, Torino 1891; L. von Pastor, Storia dei papi, V-IX,Roma 1914-1925, ad Ind.; C. Capasso, Paolo III (1534-1549),Messina 1923-24, I, pp. 322 s., 527-33, 634-38; II, pp. 89-91, 218-22, 566-76 e passim;A.Amati, C. I e i frati di S. Marco, in Arch. stor. ital., LXXXI (1923), pp. 226-77; A. Panella, L'introduzione a Firenze dell'Indice di Paolo IV, in Rivista storica degli archivi toscani, I (1929), pp. 11-25; H. Jedin, La polit. conciliare di C. I, in Riv. stor. ital., LXII (1950), pp. 345-74, 477-96; A. D'Addario, Aspetti della Controriforma a Firenze, Roma 1972, passim;S. Caponetto, Aonio Paleario e la riforma protestante in Toscana, Torino 1979, pp. 42-57; A. De Maddalena, Le Piaghe di Roma ("Pareri" di. C. de' M. primo granduca di Toscana), in Giornale degli economisti e Annali di economia, XXXVIII (1979), pp. 709-18. Sulla sua polit. estera e le sue imprese militari, oltre a G. Spini, C. I e l'indipendenza del Principato mediceo, cit., cfr. G. Livi, La Corsica e C. I de' M., Firenze 1885; A. De Morati, La Corse, Cosme Ier de Médicis et Philippe II, Bastia 1886; L. Cappelletti, Storia della città e Stato di Piombino, Livorno 1897, pp. 156-222; C. Manfroni, Storia della marina milit. del granducato mediceo, Roma 1897, passim;E. Palandri, Les négociat. politiques et religieuses entre la Toscane et la France à l'époque de Cosme Ier et de Cathérine de Médicis, Roulers 1908, pp. 1-169; L. Romier, Les origines Politiques des guerres de religion, Paris 1913-14, ad Ind.;N. Giorgetti, Le armi toscane e le occupaz. straniere in Toscana, Città di Castello 1916, I, pp. 17-300; A. D'Addario, Il problema senese nella storia ital. della prima metà dei Cinquecento, Firenze 1958, passim;G. Guarnieri, I cavalieri di S. Stefano, Pisa 1960, pp. 41-105; R. Cantagalli, La guerra di Siena, Siena 1962, passim;M. Berengo, Nobili e mercanti..., Torino 1962, pp. 203-3, 223 ss., 228-34; F. Angiolini, Diplomazia e politica dell'Italia non spagnola nell'età di Filippo II, in Rivista stor. ital., XCII (1980), pp. 432-69. Sulla politica finanziaria internazionale di C. I, cfr. G. v. Pölnity, C. I M. und die europäische Anleihepolitik der Fugger, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XXXII (1942), pp. 207-237. Sulla questione della precedenza e l'acquisizione del titolo granducale, cfr. G. Mondaini, La questione di precedenza tra il duca C. I e Alfonso II d'Este, Firenze 1898; V. Maffei, Dal titolo di duca di Firenze e di Siena a granduca di Toscana, Firenze 1905; V. Bibl, Die Erhebung Herzog C.s von M. zum Grossherzog von Toscana und kaiserliche Anerkennung (1569-1576), Wien 1911; L. Carcereri, C. I granduca, Venezia 1926. Sulla polit. culturale di C. cfr., oltre a R. von Albertini, cit., e Architett. e politica, cit., A. Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, II, Pisa 1792, pp. 3-40; G. Prezziner, Storia del pubblico Studio e delle società scientif. e letter. di Firenze, II, Firenze 1810, pp. 3-39; D. Marrara, L'università di Pisa come università statale nel granducato mediceo, Milano 1965, pp. 7-40; E. Borsook, Art and politics at the Medici Court: The funeral of C. I de' M., in Mitteil. des kunsthistor. Institutes in Florenz, XII (1965-66), pp. 31-54; A. Minor-B. Mitchell, A Renaissance entertainment. Festivities for the marriage of C. I duke of Florence in 1539, Columbia, Missouri, 1968; K. W. Forster, Metaphors of Rule. Political Ideology and History in the Portraits of C. I de' M., in Mitteil. des kunsthistor. Institutes, in Florenz, XV (1971), pp. 65-104; M. Plaisance, Une Première affirmation de la polit. culturelle deCosme Ier. La transformation de l'Académie des "Humidi" (1540-42), in Les ecrivains et le pouvoir en Italie à l'éPoque de la Renaissance, s. 1, Paris 1973, pp. 361-438; Id., Culture et polit. à Florence de 1542 à 1551, ibid., s. 2, Paris 1974, pp. 149-242; C. Di Filippo Bareggi, In nota alla politica culturale di C. I: L'Accad. fiorentina, in Quaderni storici, VIII (1973), pp. 527-74; M. B. Hall, Renovatio and Counter - Reformation, Vasari and Duke C. in S.ta Maria Novella and S.ta Croce (1567-1571), Oxford 1979, pp. 1-90; G. Cipriani, Il mito etrusco nel Rinascimento fiorentino, Firenze 1980, pp. 71-112.