COSIMO I granduca di Toscana
Nacque da Giovanni de' Medici delle Bande Nere e da Maria di Iacopo Salviati, il 12 giugno 1519. Aveva sette anni, quando il padre moriva per ferite riportate combattendo contro i luterani del Frundsberg a Borgoforte. La cacciata dei Medici da Firenze, dopo il sacco di Roma, costrinse madre e figlio a una vita randagia, cessata soltanto con la restaurazione medicea e la proclamazione di Alessandro, figlio spurio di Lorenzo duca di Urbino, a duca di Firenze. L'assassinio di questo per opera del cugino Lorenzino fece convergere su C., sebbene diciassettenne e appartenente allo stesso ramo mediceo del tirannicida, l'attenzione come possibile successore. E la sua nomina fu accettata e ratificata dall'imperatore Carlo V (1537).
Il nuovo duca trovava uno stato costituito su basi malferme, insidiato dalle tendenze autonomistiche dei comuni soggetti, dall'odio antimediceo dei fautori di una restaurazione repubblicana, dalle macchinazioni dei fuorusciti capeggiati da Filippo Strozzi, i quali avevano trovato benevolo appoggio nella monarchia francese. Una volontà ferma e un regime di forza, non disgiunti da imparziale giustizia, misero fine al disordine, e C. fu il vero fondatore dello stato toscano.
Ai fuorusciti, che, armato un esercito, tentarono di assalire Firenze, inflisse una grave sconfitta a Montemurlo con l'aiuto delle milizie imperiali. I capi, fatti prigionieri, finirono quasi tutti sul patibolo; Filippo Strozzi fu trovato ucciso nel carcere. I falliti conati dei fuorusciti e l'ancor vivo spirito di rivolta dei nemici interni indussero Cosimo a una politica di rigore, per cui anche le ultime parvenze della costituzione repubblicana vennero lentamente a scomparire.
Già questa nel 1532, con l'avvento al potere di Alessandro, aveva subito una profonda trasformazione. Al posto della Signoria era sottentrato il Magistrato supremo, cioè il duca e il suo luogotenente con quattro consiglieri; al Consiglio maggiore il Consiglio dei dugento; al Consiglio minore un Senato composto di quarantotto membri; magistrature formate tutti di cittadini ligi ai Medici. C. conservò gli istituti, ma tolse ad essi ogni autorità di fatto, ríducendoli a organi esecutivi della volontà assoluta del principe coadiuvato dai suoi ministri, cioè l'auditore delle Riformagioni, l'auditore del R. Diritto, intelligenti strumenti della sua azione di governo. Più tardi, un maggiore accentramento di potere e l'esautoramento completo dei vecchi istituti si ebbero con la creazione della pratica segreta formata dagli auditori, dai soprintendenti alle Finanze del ducato, nonché da un piccolo numero di uomini pratici degli affari di stato. Questi ultimi peraltro avevano un'importanza di gran lunga inferiore a quella degli altri membri.
Il sistema accentrato applicò C. anche rispetto alle città e terre del dominio, sia per distruggere le sopravviventi tendenze separatiste, sia per conferire unità allo stato, parificando nei diritti e nei doveri i sudditi, senza distinzione tra cittadini della dominante e cittadini del territorio soggetto. Le vecchie magistrature della repubblica soprintendenti al dominio (i Cinque conservatori del contado e del distretto e gli Otto di pratica) furono dapprima trasformate; infine restarono assorbite nella nuova magistratura dei Nove conservatori della giurisdizione e dominio fiorentino. Queste e altre riforme di capitale importanza diedero allo stato unità politica e amministrativa, giudiziaria, finanziaria.
Anche la politica economica fu condotta con criterio unificativo, affinché, scomparso il vecchio spirito particolaristico del periodo comunale, potessero rifiorire dappertutto le industrie cadenti. Privilegi e diritti furono concessi senza distinzioni e limitazioni a tutte le città della Toscana, affinché tutte potessero beneficiare di un rinvigorimento dell'attività industriale e commerciale del paese. Ai contrasti municipali per l'esclusività della produzione e della conquista dei mercati sottentrava la comunanza degl'interessi di tutti i sudditi. Oltre che a Firenze, le cure furono rivolte all'incremento delle industrie pisane e a fare di Livorno uno scalo commerciale. Cosimo I aspirava insomma, come osserva il Galluzzi, a rendere la Toscana il centro restauratore della "desolata mercatura d'Italia". Se fallì all'intento, non fu per mancanza di volontà, ma a causa di circostanze esterne, non essendo più possibile, per quanta diligenza egli vi adoperasse, vincere difficoltà che nascevano da un profondo mutamento delle condizioni economiche dei paesi d'Europa, dove un tempo l'Italia aveva potuto tenere il primato.
Più utile, perciò, riuscì l'opera che C. diede per lo sviluppo dell'agricoltura, sia con provvedimenti fiscali, sia con lavori di bonifica e col ripopolamento delle terre incolte: politica che, continuata dai suoi successori, fece della Toscana una delle più fiorenti plaghe d'Italia.
Fedele alle tradizioni di famiglia, C. esercitò anche il mecenatismo artistico, del quale restano segni in opere monumentali, soprattutto a Firenze: il grandioso palazzo degli Uffizî costruito dal Vasari, il ponte di S. Trinita dell'Ammannati, il completamento del palazzo Pitti che acquistato da C. per la moglie Eleonora e congiunto col Palazzo vecchio mediante il lungo corridoio che cavalca l'Arno, diventò residenza dei sovrani toscani fino alla caduta del granducato.
Cosimo I aspirò anche a estendere territorialmente lo stato di sua creazione fino a comprendere tutta la regione toscana. Perciò cercò di ridurre in suo dominio le città che la repubblica non era riuscita ad assoggettare: Lucca e Siena. Ma alla prima, sebbene più volte vi avesse posto la mira intromettendosi negli affari interni della repubblica, specialmente durante la congiura del Burlamacchi, dovette rinunziare. Non così alla seconda, contro la quale condusse una logorante guerra dal gennaio 1554 all'aprile del 1555 col suo esercito comandato dal milanese Iacopo de' Medici, marchese di Marignano. Siena, quantunque sostenuta da milizie francesi, condotte da Pietro Strozzi, fu costretta a cedere per fame dopo un lungo assedio. Filippo II nel 1557 legalizzava l'acquisto, infeudando la città al duca.
Legato alla Spagna da vincoli di gratitudine, perché a quella doveva particolarmente la sua fortuna, C. non poteva tenere nella politica estera una condotta di piena autonomia. Tuttavia in più di una circostanza si mostrò geloso della sua sovranità, difendendo con energia i proprî interessi. Né gli mancò la volontà di avviare il suo stato a maggiore grandezza. Ne sono prova il tentativo di creare una flotta e l'istituzione dell'ordine militare di Santo Stefano, che, rivaleggando con quello gerosolimitano, avrebbe dovuto dare alla Toscana la gloria sul mare e la possibilità di espansione fuori della penisola italiana. La sua fama di principe illuminato e accorto aveva del resto valicato i confini del ducato, tanto che nel 1567 i Còrsi, ribelli al dominio genovese, gli offrirono la corona di re; ma le opposizioni della Francia e della Spagna lo costrinsero a rifiutarla. Tre anni dopo, nonostante le proteste e il rifiuto opposto al riconoscimento da parte dei sovrani italiani e stranieri, riusciva a ottenere da Pio V il titolo di granduca di Toscana.
Nel 1539, C., scartati o falliti altri progetti matrimoniali, sposò Eleonora di Toledo, figlia di don Pedro viceré di Napoli; e non vi furono estranei motivi d'ordine politico, mirando egli così ad assicurarsi maggiormente il protettorato della Spagna, mentre non ancora si era stabilmente consolidato sul trono.
Sulle sciagure domestiche di C. si formò ed ebbe per lungo tempo credito un alone di leggenda, dovuto a malignità di nemici politici. Due figlie, Maria nubile e Isabella maritata a Paolo Giordano Orsini, furono accusate di rapporti incestuosi col padre, dal quale sarebbero poi state avvelenate. E pure fu sospettata morta di veleno l'altra figlia Lucrezia, moglie di Alfonso II d'Este duca di Ferrara. Il figlio don Garzia sarebbe stato trafitto da C. in un impero d'ira alla presenza della madre, perché colpevole di avere ucciso il fratello Giovanni in una partita di caccia. Ma recenti studî hanno dimostrato la falsità di questi racconti. Di essi, tolto il contorno di tragedia, non resta che la realtà di una serie di lutti domestici i quali contribuirono a fiaccare innanzi tempo la forte tempra del primo granduca mediceo. Il quale, di poco passati i quarant'anni, sentendosi stanco, affidò la cura degli affari pubblici al primogenito Francesco, col titolo di principe reggente, senza peraltro rinunziare alla corona granducale e al potere.
Nel 1562, moriva la moglie Eleonora vittima della tisi. C. si cercò delle amanti: prima Eleonora degli Albizzi e poi Camilla Martelli. Quest'ultima sposò per consiglio del papa, sebbene i figli si opponessero. Morì nella sua villa di Castello, presso Firenze, il 21 aprile 1574.
Bibl.: R. Galluzzi, Storia del granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, Livorno 1781, I-III; L. A. Ferrai, Cosimo I, Firenze 1910; G. Pieraccini, La stirpe de' Medici di Cafaggiolo, Firenze 1924, II, pp. 5-53; L. Carcereri, Cosimo I granduca, Verona, I, 1926.