CASTRIOTA, Costantino
Sono ignoti data e luogo della nascita di questo discendente indiretto di Giorgio Castriota Scanderbeg, e quindi risulta incerta anche l'attribuzione della sua paternità che viene ricondotta da fonti diverse a don Alessandro, dei marchesi di Atripalda, oppure al consigliere regio Alfonso, acquirente, nel 1512, delle terre d'Atripalda presso Avellino (già possesso degli Orsini di Nola e dei Caracciolo), che l'avrebbe educato - secondo i più antichi biografi - nel cavalcare e nella "moral disciplina".
Dagli spunti autobiografici presenti nelle opere si desume la forte e costante incidenza nella sua vita di cavaliere e di letterato della relazione col marchese di Vasto, il quale, giudicando essere il C. "atto a ciascuna cosa che comandar si potesse",ne fece il proprio fedele accompagnatore, paggio e famigliare nelle campagne sostenute in appoggio alle guerre italiane di Carlo V. Nel 1538 il C., ancora giovinetto, risulta al seguito del marchese ferito nella battaglia di Capodorso, e già nel 1530 si rivela la sua disposizione all'avventura e all'intrigo politico se lo vediamo costretto a riparare in Francia per aver dato asilo al sicario utilizzato da Ferrante di Sanseverino per uccidere il marchese di Polignano. Scarsa è però la documentazione relativa al periodo della sua più intensa attività cortigiano-diplomatica presso il Vasto: lo troviamo a Torino nel 1543 al centro di operazioni militari e nel 1547 a Napoli, ove si registra la sua dissociazione dalle proteste popolari contro il viceré per l'introduzione in città del S. Uffizio; poco dopo è in missione presso Carlo V, ma anche la sua partecipazione al fronte spagnolo finirà per incrinarsi in seguito a oscure faccende politiche, culminate in un assalto alla sua abitazione napoletana. Il primo documento concreto dell'attività del C., che vale a metterne in evidenza i tratti di poligrafo enciclopedico tipicamente tardorinascimentale, è del 1552, anno in cui si stampa a Napoli presso Cilio Allifano il trattato Il Sapere utile e dilettevole.
Nella prefazione il C. dichiara la sua intenzione di "racor quanto fra i più lodati riportai di buono, fuggendo il costi, chenti, altresì ed altre affettationi" ponendo la sua poetica esplicitamente anticlassicista (al classicismo corrisponderebbe una povertà di "soggetti") al servizio di un ideale di educazione confezionata specialmente per gli "ignoranti",per le "femine" e per i "fantini". Appunto all'esatta calibratura teorica di una "giusta" nozione di "sapere" sono dedicati due dei sette libri del trattato: ammessa l'inclinazione al sapere come humanitas ("Èdivino il trascorrere, il speculare et l'investigare") e riconosciute le connessioni tra sapere, valore e potere, la definizione delle scienze "naturali" e "morali" quale conoscenza delle "proprie cose" introduce un limite preliminare nell'investigazione sui "fini" ultimi. Poiché - ferma restando l'autorità di Aristotele e in genere degli "esperti" - "investigar il fine delle scienze speculative è sciocchezza",il C. collega la sua lode della divulgazione, come chiusura della "ricerca",alla definizione della fissità dei caratteri umani ("collerici","sanguinei","flemmatici","melanconici") e alla impossibilità di sfuggire alle inclinazioni da essi rigidamente condizionate. Gioverà dunque ai destinatari del libro un "sapere" mediocre, che sappia tenersi lontano sia dallo studio "politico" della storia sia da una speculazione filosofica che non si vesta degli addolcimenti della poesia; e la poesia stessa - suscettibile di provocare lascivia - varrà nella sua forme, di travestimento esopico di moralità, nella misura in cui il "favoloso" riesce a fungere da temperamento del "ragionare".
Toccato il topos demosteneo del popolo "mala bestia",il C. può anche suscitare la tesi delle origini "basse" del ceto nobiliare, ma solamente nella chiave - che gli è più propria - di attenzione alle origini dei nomi: indice di un interesse, comune a tanta parte della cultura del pieno Cinquecento, per i simboli e per le imprese, per quella araldica che riesce a connettere la retta interpretazione delle insegne nobiliari alla teoria aristotelica degli influssi e a metodologie di pertinenza astrologica. L'indicazione della centralità dell'astrologia quale "conoscimento della natura d'i cieli,di le stelle, de reggioni, herbe, arbori, uccelli, pesci e pietre" consente al C. - dal libro terzo alla fine - di abbandonarsi liberamente alla costruzione di un ampio repertorio iconografico relativo agli emblemi e di un elenco enciclopedico di oggetti vegetali, minerali e animali (fino all'uomo) considerati sistematicamente nella loro "natura" (virtù e caratteri fisici e simbolici, sinonimi, qualità e utilità), nelle proprietà di "remedi" (qualità guaritrici, onorifiche e ornamentali, significati propiziatori e sacrali), nelle loro "origini" (derivazioni mitologiche). L'insieme risulta dunque il frutto di un accumulo indiscriminato di episodi favolistici, mitici, storico-geografici per i quali vengono utilizzati i materiali più eterogenei (moralità, exempla, storie bibliche, definizioni, quesiti, onomastica, regole del comportamento, rilievi antiquari o folklorici) con un procedimento di giustapposizione che è sempre al confine con la casualità, ma funzionale agli scopi di divulgazione attraverso la "varietà",coerentemente enunciati dal C. all'inizio del suo libro omnibus.
Contemporaneamente al Sapere è la pubblicazione, secondo il Bresciano - che ne segnala la rarissima presenza presso la Biblioteca nazionale di Napoli -,del trattato De Cavaglieria, in cui il C. dispiega specificatamente la sua perizia nelle questioni cavalleresche e si impegna nel dare ordine, in cinque libri, a una materia in tutto degna della biblioteca attribuita da Cervantes a don Chisciotte.
Si trascorre dal carattere delle ingiurie alla qualità del giudice e delle scuse, dai modi di soluzioni onorevoli alle procedure protocollari, allo stile dei duelli. Nella dedica, indirizzata al viceré don Pedro de Toledo, si rivela anche una sorta di nostalgico rammarico per il destino dei "cavaglieri",la cui norma è "l'ordine della vita" e la cui obbligazione è "la difesa d'honore" -,ma che sono costretti a ignorare il proprio mestiere "per non l'oprar mai".
La vocazione cavalleresca del C. ha modo di tradursi in prassi dopo la sua adesione (ottobre 1561) all'Ordine dei gerosolimitani, giudicata sì dalla marchesa di Vasto un espediente tale da permettergli di "fuggire i litigi co' figliuoli",di "stare sciolto di pene di casa sua" e di vivere "tutto l'anno nelle osterie di varii regni senza sospetto",ma in realtà occasione atta a dimostrare il suo non spento valore militare nella difesa della fortezza maltese di Sant'Elmo assediata dai Turchi (1565) e in responsabilità castrensi di vario genere nonostante il C. fosse "più tosto stimato d'un cervello gagliardo, e feroce, che di ragionevole, e considerato soldato". La menzione della difesa di Sant'Elmo e una coincidenza letterale col Sapere hanno permesso al Volpicella di riconoscere nel C. quel Filonico Alicarnasseo, autore pseudonimo di undici Vite di diverse illustrissime persone, esempio di un ibrido filone storiografico che culminerà nelle Vite di Silvio e Ascanio Corona.
Tra esse, rimaste manoscritte (Bibl. Apost. Vat., Barb. lat. 4873 e Ferraioli 425),ma discretamente diffuse, è stata più volte pubblicata a parte la Vita di Vittoria Colonna, che costituisce un buon campione del consueto procedere compositivo del curioso biografo (v. ediz. a cura di S. Volpicella, in Museo di scienze e letteratura, n. s., I [1844], 9, pp. 42-51; 10, pp. 116-189).Esclusa ogni possibilità di un suo inserimento nella tradizione "concreta" - individuata dal Colapietra - del diarismo impegnato nell'ambito della storiografia meridionale, essa è piuttosto vicina a certo taglio cronistico-mondano, vivacizzato da un tono di esperienza diretta ma gravemente appesantito dal costante divagare, dalla prolissità dell'erudizione unita al gusto metaforico, alle complicazioni generate da una non rara imperizia linguistica. Al di là della funzionalità testimoniale, perfino pettegola, la Vita della Colonna - come le altre - si trasforma regolarmente in un pretesto per disquisizioni pseudofilosofiche (la "profeticità" della poesia è contrapposta alla "gravità" del filosofare attraverso i citati auctores:Aristotele, Stazio, Ovidio) o per l'esibizione di un catalogo di sentientiae esemplari della biografata, totalmente indipendenti da una eventuale organicità di costruzione narrativa.
Registrata la presenza nella Bibl. Ventimiliana di Catania di un manoscritto cinquecentesco con le sue Lettere considerate Amorose e Famigliari, nessuna ulteriore notizia risulta intorno ad altre opere del C. (se non i possibili titoli: Dell'Adulazione, Dialogo d'arme e d'amore, Lettere geroglifiche)né alla sua attività posteriore al 1566. Sono ignoti luogo e data di morte.
Fonti e Bibl.: G. Bosio, Dell'istoria della sacra relig. e della ill.ma milizia di S. Giovanni Gierosolimitano, Roma 1594, II, pp. 551 s., 579, 646, 726, 777; P. A. Ferraro, Cavallo Frenato, Venezia 1620, p. 52; G. B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1770, III, pp. 81 s.; B. Chioccarellus, De illustr. script.,Napoli 1780, p. 138; S. Volpicella, Di Filonico Alicarnasseo, biografo napol. del sec. XVI, in Studi di letter., storia ed arti, Napoli 1876, p. 37 (recens. di A. v. Reumont, in Arch. st ital., s. 4, I [1878], pp. 318 s.); C. Minieri Riccio, Mem. stor. degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1884, p. 90; D. Tordi, Supplem. al carteggio di Vittoria Colonna, Torino 1892, pp. 93 s.; G. Bresciano, Di tre rarissime stampe napol. del sec. XVI sconosciute ai bibliofili, in Revue des bibliothèques, IX (1899), pp. 21-34; G. M. Tamburini, I manoscritti della R. Bibl. Ventimiliana di Catania, in Arch. st. per la Sicilia orient., IV(1912), 2, pp. 248 s.; R. Colapietra, La storioriografia napol. del secondo Cinquecento, in Belfagor, XV (1960), p. 435.