Costantino e i re della prima Età moderna (1493-1705)
Imperatore cristiano o re sacerdote?
Secondo il suo biografo Eusebio, l’imperatore Costantino sarebbe vissuto anche dopo la sua morte. Lo storico che studi la memoria di Costantino tra i secoli XVI e XVII è portato a dargli ragione, tanto pervasiva è la sua presenza nell’elaborazione delle idee di regalità e nel loro concreto esercizio durante la prima Età moderna. L’ombra proiettata dalla figura di Costantino sui monarchi europei ebbe, tuttavia, dei contorni molto sfumati1.
Certo, ci furono dei punti attorno ai quali l’edificazione del ricordo del primo imperatore cristiano si addensò in modo condiviso. Basti pensare al ruolo di Costantino come cerniera tra la giustizia dell’Impero romano e la verità della religione cristiana, che costituisce la sottotrama di tutti i discorsi su Costantino elaborati in Età moderna. Un altro aspetto condiviso da chi trovò in Costantino un’essenziale pietra di paragone per i sovrani dei secoli XVI-XVII fu la centralità della sua conversione dal paganesimo al cristianesimo. Come si vedrà, una parte importante nella costruzione dell’immagine costantiniana, nell’epoca della frattura dell’unità religiosa europea, sarà svolta da figure che erano passate da una confessione all’altra, e che di conseguenza videro nella conversione del sovrano un’inedita possibilità di influire sulle scelte religiose dello Stato, specialmente negli anni che seguirono la pacificazione di Augusta (1555) e lo stabilimento del principio del cuius regio eius religio.
E tuttavia, su una serie di altri aspetti, l’immagine di Costantino fu utilizzata per una pluralità di scopi estremamente differenti tra loro. Tale ambiguità riflette la stessa vicenda storica del primo imperatore cristiano, che nell’immaginario continuava a essere un Giano bifronte. Da una parte stava la faccia del sovrano il quale, con la donazione che da lui prendeva il nome, aveva dato inizio al potere temporale dei papi (nonostante la confutazione elaborata, tra gli altri, da Lorenzo Valla; infatti nel Cinquecento i controversisti cattolici insistettero ancora molto sull’importanza storica di quel documento2). Dall’altra si poteva riconoscere il profilo dell’epískopos tōn ektós, come egli stesso si definì, cioè di un sovrano temporale che, a prescindere dal significato profondo di quella formula (‘vescovo di quelli di fuori’ o ‘delle faccende esterne alla chiesa’?), aveva posto le basi per il cesaropapismo3.
Tale ambiguità si accentua nella riappropriazione della figura di Costantino tra XVI e XVII secolo, soprattutto nella misura in cui essa viene assunta dai sovrani come propria autorappresentazione, oppure a loro viene proposta come modello da seguire da parte di intellettuali di formazione ecclesiastica, o dal potere papale stesso. Nel primo caso non ci si sofferma su certi elementi – in primo luogo la tanto discussa donazione – che invece nel secondo vengono enfatizzati come monito della sottomissione del potere temporale a quello spirituale. Ciò viene alla luce chiaramente, seguendo la varia fortuna dell’immagine di Costantino nella dinastia degli Asburgo.
Il primo imperatore proveniente dalla casata degli Asburgo, Massimiliano I, volle esplicitamente presentarsi come nuovo Costantino, al fine di rivendicare una politica ecclesiastica aggressiva e volta a porre la Chiesa sotto il proprio controllo (tanto da aspirare alla cumulazione nella sua persona delle cariche di imperatore e di pontefice).
Il pittore Bernhard Strigel lo raffigurò al seguito di Costantino, mentre l’imperatore romano portava la croce di Cristo a Gerusalemme. A tal punto arrivò questa volontà di identificazione di Massimiliano d’Asburgo in Costantino, che sua madre si faceva chiamare Elena4.
Al nipote di Massimiliano, Carlo V, sovrano di un impero mondiale e deciso a perseguire un ruolo di pacificatore nelle divisioni religiose iniziate con la Riforma, accadde esattamente l’opposto. L’accostamento del suo nome a quello di Costantino fu di rado qualcosa di deliberatamente perseguito a fini propagandistici. Esso fu promosso invece soprattutto dai pontefici romani, interessati a limitare il ruolo di giudice e arbitro delle controversie religiose che Carlo V intendeva arrogarsi.
Erede dell’imperatore Massimiliano, dei re cattolici Ferdinando e Isabella e, per parte di madre, del ducato di Borgogna, Carlo V, una volta divenuto imperatore in giovane età, si propose il rinnovamento del sogno universalistico di un impero cristiano che abbracciasse tutto il mondo conosciuto. Tale programma imperiale fu il risultato dell’elaborazione di un gruppo di intellettuali (Erasmo da Rotterdam, Antonio de Guevara, Alfonso de Valdés, Mercurino Arborio Gattinara) che riconobbero nel giovane Asburgo l’unico in grado di ridare corpo al fantasma dell’impero cristiano universale.
In tale costruzione ideologica la figura di Costantino svolse certamente una parte importante. Gattinara individuò nel neoeletto imperatore il più grande sovrano dai tempi della divisione dell’Impero romano, mettendolo così in competizione con Costantino5. Al sovrano si continuavano poi ad indicare la liberalità e la pietà di Costantino quali modelli da seguire, come faceva, ad esempio, Antonio de Guevara nel Ragionamento fatto all’Imperatore Carlo Quinto nel giorno della Epiphania sopra quel che ’l Re è obligato a fare per l’amministratione e buon governo de’ popoli6. Più incerta è la possibilità che il celebre ritratto di Carlo V di ritorno dalla battaglia di Mühlberg eseguito da Tiziano (1548) serbi, nella sua iconografia dell’imperatore, un riferimento alla lancia santa, preziosissima reliquia della crocifissione che la tradizione voleva portata in Occidente proprio dall’imperatore Costantino. Se davvero la corta lancia impugnata da Carlo V fosse, come alcuni sostengono, la sacra lancia con cui si diceva che il centurione avesse trafitto il costato di Cristo, è chiaro che l’inserimento di un tale particolare, in un dipinto dai dettagli simbolici estremamente curati, servirebbe a «establecer un vínculo con el emperador Constantino»7.
L’immagine di Costantino non aderì però mai perfettamente a quella di Carlo V. Come è stato detto, sacralità imperiale germanica e cattolicità monarchica spagnola corrono affiancate in Carlo e danno, in tal modo, alla sua azione politica in campo religioso, una consistenza che richiama effettivamente altri momenti e altre esperienze di grande intensità nei rapporti tra Chiesa e Stato a livello dei maggiori sovrani europei da Costantino in poi. Ma le componenti di questo suo ruolo sono molteplici ed eterogenee, e scarsamente riducibili al modello carolingio, così come ad altri modelli storicamente determinabili8.
Nel caso di Carlo V, al contrario, sull’assunzione consapevole dell’immagine costantiniana prevalse, piano piano, la sua utilizzazione da parte papale come freno alle pretese religiose dell’imperatore asburgico9. La strettissima identificazione con Costantino in chiave cesaropapistica, che l’imperatore Massimiliano I aveva reclamato per sé, aveva evidentemente fatto impressione sul papato, che si era deciso a far sì che fatti del genere non si ripetessero più.
Ciò si apprezza in maniera evidente proprio nel momento in cui il potere di Carlo V sembrava non avere rivali e stava celebrando il suo trionfo universalistico: il momento dell’incoronazione papale a Bologna nel 1530. Come è noto, tale evento doveva segnare la distensione dei rapporti tra Carlo V e papa Clemente VII Medici, dopo gli eventi del Sacco di Roma del 1527, quando i lanzichenecchi imperiali – molti dei quali di confessione evangelica – avevano messo a ferro e fuoco Roma, costretto il pontefice a rifugiarsi a Castel S. Angelo e, penetrati negli appartamenti papali, erano arrivati a incidere parole inneggianti a Lutero sopra gli affreschi delle Stanze di Raffaello. Tale fragilità dei rapporti di forza tra Carlo V e Clemente VII, in equilibrio precario tra il trionfo imperiale e la volontà del papa di mantenere intatte le sue prerogative spirituali, ha una sua espressiva figurazione negli apparati per celebrare il trionfo di Carlo V. Il primo arco di trionfo era accompagnato da due colonne, sopra le quali erano state poste le statue di Carlo Magno e Costantino. Il fregio era ornato da tre scene della vita di Costantino, riprese dagli affreschi di Giulio Romano nella Sala di Costantino in Vaticano. Si trattava della celebre apparizione della croce con la scritta in hoc signo vinces, di una scena di guerra in cui Costantino metteva in fuga i suoi nemici proprio grazie a uno stendardo ornato di una croce e, infine, della scena del battesimo dell’imperatore da parte di papa Silvestro, al quale Costantino consegnava lo scettro e la corona10. È stato giustamente affermato che il messaggio globale lanciato da Clemente VII non poteva essere più chiaro: Carlo V avrebbe dovuto seguire le orme dei precedenti imperatori e dei suoi stessi avi combattendo i nemici della Chiesa cattolica ma non i principi cristiani e tanto meno il papa stesso, ponendo cioè la propria spada a servizio del pontefice. Le immagini classiche, imperiali, vennero qui per la prima volta utilizzate non per celebrare direttamente Carlo V ma per indicare all’imperatore la retta via da seguire nei rapporti con il papato e, più in generale, con la cristianità11.
Tale riutilizzo di Costantino in senso limitativo delle pretese religiose di Carlo V sarebbe continuato sotto il successore di Clemente VII, Paolo III Farnese. Per celebrare il passaggio di Carlo V da Roma nel 1536 venne restaurato l’arco di Costantino. Nello stesso anno Paolo III fece trasferire sul Campidoglio tre delle quattro statue di Costantino che si trovavano sul Quirinale. Due di esse furono poste sulla scala del convento di S. Maria in Aracoeli, la terza venne collocata lungo la salita alla Rupe Tarpea. Mentre è stato messo in luce il significato soprattutto giuridico di tale risistemazione architettonica, volta a conferire maggiore autorità all’esercizio dell’attività giudiziaria, non è comunque da escludere che dietro tale reviviscenza dell’eredità costantiniana continuasse a vivere il monito figurato lanciato a Carlo V da Clemente VII in occasione della sua incoronazione imperiale a Bologna. Tale impressione è confermata dagli estremi cronologici della riscoperta costantiniana attuata da papa Farnese. Essa, infatti, ebbe inizio con il suo primo incontro con Carlo V a Roma nel 1536 e terminò nel 1544, anno in cui l’uso propagandistico da parte papale della figura di Costantino in chiave anti-asburgica raggiunse il suo apice.
Infatti, a seguito della terza dieta di Spira (1544), in cui Carlo V aveva concesso una momentanea parità tra cattolicesimo e protestantesimo, Paolo III aveva pubblicato un breve, dal significativo titolo di Paterna Admonitio, in cui correggeva («castigat») Carlo V per essersi mostrato troppo tenero con i luterani («quod se Lutheranis praebuerit nimis facilem»). Contro questa politica attendista, ma comunque attiva, dell’imperatore nelle faccende religiose relative alla Riforma, Paolo III gli indicava nell’imperatore Costantino un modello da seguire. Questi, infatti, nonostante fosse stato richiesto «ab ipsis sacerdotibus» di offrirsi come giudice nelle loro controversie, se ne tenne sempre fuori, consapevole com’era che il potere di giudicare i «sacerdotes» spettava solo a Dio. Fu per questo motivo – continuava il documento papale –, più ancora che per i suoi successi militari, che Costantino meritò il titolo di «magnus». Il modello di Costantino viene proposto all’imitazione del sovrano («cui te, Caesar, in omnibus persimilem esse cupimus et optamus») esattamente in quanto egli aveva saputo mostrarsi docile nei confronti del potere papale12.
Nel rispondere al papa, Calvino, che in quel momento era in lotta per il riconoscimento giuridico della parità della confessione ginevrina, lo invitò a comprendere meglio le «ecclesiasticae historiae», della cui testimonianza aveva ammantato la sua interpretazione di un Costantino che avrebbe assegnato ai «sacerdotes» il ruolo di essere i soli a giudicare delle materie di fede. Quando pronunciò quelle parole, infatti, l’imperatore non era ancora «valde exercitatus in scripturis» e «adhuc catecumenus». Del resto, il suo comportamento successivo avrebbe dimostrato un atteggiamento tutt’altro che arrendevole nei confronti del potere spirituale. Al contrario, se quel pazzo («Frenesius», frequente gioco di parole con il cognome del pontefice) pensa di aver trovato lo scudo di Achille con quel suo paragone tra Costantino e Carlo V, deve stare molto attento – così lo ammonisce il riformatore – a che quello stesso paragone non gli si ritorca contro e che Carlo V, comportandosi davvero come Costantino, non si decida a punire, come aveva dichiarato l’imperatore romano nella lettera ai nicomediesi, i pastori indegni.
La figura di Costantino poteva, in breve, essere impugnata tanto dal pontefice per garantire le sue prerogative, quanto per erodere quelle stesse prerogative da parte dei suoi avversari: sia dai riformatori tedeschi, sia dagli ambienti gallicani francesi, presso i quali «il nome di Costantino e l’esempio del Concilio di Nicea sono in grande auge [...], in scoperta polemica con quel Concilio di Trento che, anche per la grande potenza accordata ai papi e per la scarsa o nessuna funzione esercitata su di esso dall’autorità temporale, era oggetto della più ostile diffidenza del mondo parlamentare»13.
È stato giustamente notato come il paragone tra Costantino e Carlo V potesse funzionare in un’altra direzione, rispetto a quella controversistica, e cioè nella creazione di una «fede dinastica» e nella «costituzione della domus divina su fondamenta religiose»14. Come si vedrà nei casi di Filippo II e, successivamente, di Leopoldo I, nella dinastia asburgica si mantenne ben vivo il ricordo dell’imperatore romano. L’identificazione con Costantino si trasmetteva però anche ai rami cadetti della discendenza di Carlo V.
Il suo figlio illegittimo, don Juan d’Austria, comandante della flotta della Lega Santa, prima di partire per Lepanto ricevette dei vessilli benedetti dal pontefice Pio V Ghislieri (1566-1572) con la scritta costantiniana in hoc signo vinces. Al ritorno gli venne riservato l’onore – già toccato a Carlo V – di passare in trionfo sotto l’arco di Costantino. Non sorprende che l’idea di crociata richiamasse immagini costantiniane: la battaglia di Lepanto, infatti, fu vista da più parti come l’occasione per riconquistare Costantinopoli e recuperare quell’unità del mondo cristiano che i turchi prima e la Riforma in seguito avevano compromesso. Le cose però erano profondamente mutate dai tempi di Clemente VII e Carlo V. Se trentacinque anni prima il passaggio del corteo imperiale sotto l’arco di Costantino aveva il significato di un richiamo alla conservazione dell’equilibrio tra papato e impero, al tempo di Pio V, l’inquisitore divenuto papa e deciso sostenitore del potere universale del pontefice, il gesto era, ancora una volta, mutato di segno. L’arco era, infatti, ornato da un’iscrizione che dichiarava esplicitamente chi fosse la controparte moderna di Costantino. Chi passava sotto quell’arco poteva leggere il paragone tra il «primus romanorum imperatorum» che «crucis vexillo usus / cum acerrimis christiani nominis hostibus / felicissime certavit» e il «primus romanorum pontificum pius v» il quale «eodem salutari signo fultus / victoriam contra maximam turcarum classem / consecutus est laetissimam»15. Dopo aver usato la figura di Costantino come ammonimento in funzione anti-imperiale, il papato romano se ne impossessava completamente, iscrivendo se stesso come migliore continuatore della Roma costantiniana, vincitrice sui nemici interni ed esterni e portatrice di una vocazione imperiale.
L’impero su cui il sovrano pontefice vantava le sue pretese andava identificandosi sempre più con il territorio della penisola italiana. Non sorprende dunque che la simbologia costantiniana continuasse a informare le scelte del successore di Pio V, papa Gregorio XIII Boncompagni. Quest’ultimo, infatti, fece ornare la volta della Galleria delle carte geografiche – un luogo che rappresentava visivamente le istanze di dominio papale sulla penisola – proprio con degli affreschi delle storie di Costantino.
Ci fu però anche chi si servì dell’immagine di Costantino come di uno stereotipo negativo, per stigmatizzare il comportamento di Filippo II nei confronti del figlio Don Carlos, che la Leyenda negra antispagnola voleva fosse morto per avvelenamento ordinato dal padre, dopo che quest’ultimo aveva scoperto la sua relazione amorosa con la matrigna Isabella di Valois. È molto probabile, infatti, che tale stereotipo sia stato costruito sull’episodio dell’uccisione da parte di Costantino del figlio Crispo, che aveva visto cadere sul proprio capo l’analoga accusa di adulterio con la matrigna Fausta16.
Anche sul principe di uno Stato regionale, come Carlo Emanuele I di Savoia, agiva con forza il paragone con il primo imperatore cristiano. Pure in questo caso si faceva riferimento a eventi dal sapore leggendario, come il passaggio di Costantino da Torino e la presenza nella legione tebea – decimata dall’imperatore Massimiano per essersi rifiutata di massacrare dei cristiani – di un soldato che portava lo stesso nome del futuro imperatore, per fare sì che «l’immagine del Cesare protettore del cristianesimo e difensore della Chiesa, ma anche nemico del paganesimo e persecutore dell’eresia [...] divenisse nel ducato di Savoia l’icona di un sovrano moderno che della difesa dell’ortodossia cattolica aveva fatto il suo paradigma etico e politico»17.
L’identificazione con Costantino non valeva però solamente per il sovrano di uno Stato periferico come il ducato di Savoia: essa agiva anche sui re dei grandi Stati nazionali europei in costruzione.
La simbologia costantiniana che aveva contrassegnato i trionfi di Carlo V continuò ad accompagnare, ad esempio, anche il figlio Filippo II nei viaggi attraverso il suo regno (che comprendeva la Spagna e i suoi possedimenti in Europa e oltre oceano)18. Particolarmente significative furono la sua entrata a Lille e quella ad Anversa (1549). In quest’ultima circostanza la simbologia è più complessa rispetto ai motivi tradizionali della devozione al papa, della sconfitta degli eretici e della battaglia contro gli infedeli. Negli apparati di Anversa Costantino e la madre Elena sono presentati come primo e secondo onore dell’Inghilterra19: particolare quasi profetico, se si pone attenzione al fatto che Filippo II tre anni dopo, grazie al matrimonio con Maria Stuart, sarebbe divenuto re d’Inghilterra.
Invece, per ironia della storia, fu proprio la guerra tra la cattolica Spagna e l’Inghilterra (1585-1604) a segnare la svolta nella competizione tra il più grande impero del secolo XVI e quello destinato a dominare nei secoli successivi e a sancire il passaggio della figura di Costantino dalle mani asburgiche a quelle dei sovrani Tudor20.
Tale passaggio di consegne inizia a emergere nei festeggiamenti in onore di Robert Dudley, conte di Leicester, che aveva dato inizio alle ostilità tra le due potenze guidando una spedizione inglese a sostegno della rivolta delle province unite contro Filippo II (1585). Nei festeggiamenti in onore del Leicester (in verità, c’era ben poco da festeggiare, visto che la spedizione fu per lui un autentico disastro finanziario) tenutisi a L’Aia nel 1587, Costantino venne rappresentato mentre vegliava sugli inglesi in battaglia contro l’Invencible Armada.
Nel mito di Costantino britannico si apprezza al massimo grado l’intreccio tra le implicazioni nazionalistiche e universalistiche che tale discorso poteva rivestire21. Già Enrico VIII si era servito della Anglica Historia di Polidoro Virgilio per enfatizzare la sua discendenza da Costantino e rivendicare così da un lato le pretese imperiali dell’Inghilterra e dall’altro un comportamento insofferente di ogni limitazione della sua sovranità nella sfera spirituale22. La credenza sarà accolta ed estesa, come si vedrà, nel Book of Martyrs (1563) di John Foxe, diffusissimo martirologio protestante, dove Elena è chiamata «an Englysche woman», e passerà indenne sia attraverso l’analisi degli antiquari23 sia attraverso le relazioni di viaggio24. Solo nell’anno in cui l’impero inglese dovette difendersi dalla secessione delle colonie americane, tale credenza venne definitivamente spazzata via a opera del capolavoro della storiografia illuministica, il Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1789) di Edward Gibbon25.
Chi trapiantò definitivamente la figura di Costantino sul suolo inglese fu Elisabetta I. Come notava Frances Yates, «non si insisterà mai abbastanza sull’importanza, per la comprensione del simbolismo Tudor e Stuart, del fatto che il diritto divino dei re al governo sulla Chiesa e sullo Stato derivava dalla pretesa degli imperatori romani ad essere rappresentati nei concili ecumenici»26. In tale visione Costantino ebbe un ruolo preponderante27. Come scrisse nell’Apology for the Church of England (1560) il vescovo Jewel, noi non lusinghiamo il nostro principe con qualche potere straordinario di recente invenzione: gli concediamo solamente quella prerogativa e quella preminenza che da sempre gli erano dovute per comando e parola di Dio; e cioè di essere il tutore della religione di Dio; di fare leggi per la Chiesa; [...] di imporre ai vescovi e ai preti l’adempimento dei loro doveri, e di punire coloro che non vi si attengano. Così il pio imperatore Costantino sedette per giudicare una causa ecclesiastica [...] Maggiore autorità di quanta ebbe e usò Costantino i nostri principi non la richiedono. Questa, io ritengo, non è certo una grande eresia28.
Con il Libro dei martiri di John Foxe, dove, come si è visto, si accoglieva la leggenda delle origini inglesi di Costantino, l’identificazione di Elisabetta e Costantino veniva consacrata. Ancora una volta, un particolare è la rappresentazione più efficace di questo sforzo ideologico-propagandistico: l’iniziale C della voce Constantine racchiude, infatti, un ritratto della regina, la quale, forte dell’autorità imperiale che le derivava dalla successione costantiniana, metteva sotto i suoi piedi la tiara del pontefice e ne spezzava le chiavi29. Con tale rappresentazione, che sarebbe stata ripresa nei General and rare memorials pertayning to the perfect arte of navigation di John Dee (1577), siamo evidentemente agli antipodi rispetto all’uso che dell’immagine di Costantino aveva fatto il papa nei confronti dell’imperatore, tanto che pare lecito parlare di una «controstoria»30 dell’imperatore Costantino, in cui con gli stessi mattoni si costruivano edifici diversissimi e le stesse fonti di legittimazione dell’avversario erano utilizzate per demolirne completamente la storia.
L’identificazione del sovrano inglese con Costantino continuò al passaggio dalla dinastia Tudor agli Stuart. Al primo esponente della nuova casa regnante, Giacomo I, venne dedicata da Richard Crakanthorpe l’opera di controversia anticattolica The defence of Constantine (1621). In essa continuava a permanere il parallelo tra Costantino e il re d’Inghilterra, svolto soprattutto intorno a due punti. In primo luogo Giacomo I, con la sua versione della Bibbia e con il rifiuto della tolleranza per cattolici e puritani, aveva saputo comportarsi da vescovo del suo regno («Bishop of them all»), dimostrandosi un nuovo Costantino. In secondo luogo, a giudizio di Crakanthorpe, Costantino, nell’aver spostato il centro dell’Impero da Roma a Bisanzio, aveva fornito un importante precedente a chi, come Giacomo I, aveva sfidato l’egemonia della nuova Roma papale31.
E tuttavia, non si poteva dimenticare che Costantino era stato un imperatore bellicoso, mentre Giacomo I tese sempre a presentarsi come un re pacifico. Non sorprende, dunque, che nel corso del suo regno il modello costantiniano venga via via sostituito da un altro esempio di regalità, quello di Salomone, il saggio e pacifico re che aveva portato a termine la costruzione del Tempio. O meglio, «it is not just that one image replaced the other, rather there was a tension between those who wished to see James as a Constantinian emperor, leading Protestant Europe, and those who saw him as a peacemaker. It must be stressed that at various times in his career, James accepted or endorsed both images»32. E, di fatto, l’immaginario costantiniano nato intorno al primo Stuart terminò solamente con la sua morte nel 1625, quando il predicatore Daniel Price, diede, con la sua Heartie Prayer, l’ultimo saggio del fortunatissimo accostamento:
as all in Alexanders time, did affect Chivalry, because hee was a Souldier; and Poetry in Augustus time, because hee loved Poets; and Musicke in Nero’s time, because hee was a Musitian; and Fencing in Commodus time, because hee delighted in Fencers; so all were forward in Christianity in Constantine’s time, because hee loved Christians33.
Negli anni della Prima rivoluzione inglese iniziò a emergere una visione negativa di Costantino, come di colui che avrebbe dato inizio al dannoso matrimonio tra Chiesa e Stato, che stava celebrando i suoi fasti con l’assolutismo degli Stuart. Non furono solamente le ali più radicali a sostenere questo tipo di discorso, ma anche l’opposizione parlamentare a Carlo I utilizzò la figura di Costantino come arma polemica nei confronti del sovrano. Tali tendenze ebbero la loro manifestazione più alta nell’Of Reformation Touching Church Discipline in England (1641) di John Milton, scritto pochi mesi prima dell’inizio della rivoluzione, che avrebbe portato al rovesciamento e all’esecuzione di Carlo I e alla dittatura di Oliver Cromwell (1649).
La riappropriazione della figura di Costantino da parte degli ambienti parlamentari in chiave anti-Stuart continuò sotto il regno del figlio di Carlo I, Carlo II, che, tornato in Inghilterra alla testa delle truppe realiste, aveva restaurato la monarchia e la chiesa anglicana dopo il periodo cromwelliano (1660). Il puritano moderato Andrew Marvell, infatti, rovesciò su Carlo II le stesse accuse che il suo più celebre amico John Milton aveva rivolto al padre del restauratore dell’assolutismo Stuart. Lo fece, tuttavia, come era solito, con un tono più moderato, quello stesso che aveva usato per salvare Milton dalla condanna capitale per i suoi scritti antimonarchici, nel Mr. Smirke or The Divine in Mode (1676). Secondo Marvell Carlo II, che avrebbe avuto la possibilità di essere, come Costantino, l’apostolo universale della cristianità, si era trasformato in un burattino nelle mani dei vescovi anglicani, cioè nella versione caricaturale che dell’imperatore avevano diffuso le gerarchie cattoliche34.
Sotto il segno di Costantino venne posto il concordato (1517) stabilito tra papa Leone X e il re di Francia Francesco I, che andava a sanare il cosiddetto scisma gallicano iniziato da Carlo VII con la prammatica sanzione del 1438 e ad allentare considerevolmente la politica aggressivamente antifrancese del suo predecessore Giulio II. Le medaglie commemorative coniate per l’occasione portavano, infatti, l’insegna della croce con la scritta in hoc signo vinces35.
Il recupero di rapporti concilianti con la Chiesa fece sì che Leone X insistesse su Francesco I per la convocazione di una crociata contro i turchi, che in quegli stessi anni, sotto la guida del sultano Selim I, avevano intrapreso una politica fortemente espansionistica. L’organizzazione della crociata si risolse in un fallimento completo. Ciò non toglie che essa fosse stata accompagnata da un intenso investimento simbolico. Due anni prima, a questo proposito, il papa aveva donato al re di Francia un reliquiario con un frammento della Vera Croce, una reliquia dalle potenti risonanze costantiniane, visto che si tramandava fosse stata portata in Occidente da sua madre Elena. Anche l’appello alla crociata ebbe Costantino per ispiratore. È significativo che la stessa immagine usata per le medaglie commemorative del concordato finisse sul frontespizio dell’Incitamentum ad bellum in Turcas (1518) del minore Jean du Mont36.
Che l’ingombrante silhouette di Costantino si prestasse meglio a essere sovrapposta al ‘re cristianissimo’ piuttosto che ai riottosi imperatori della casata d’Asburgo emerge da un particolare rivelatore. L’arcivescovo di Nazareth, il francescano Giorgio Benigno dei Salviati, fu autore dell’opera profetica Vexillum Christianae victoriae, in cui «paraître en filigrane, derrière François Ier, la grand figure de Constantin»37. Ebbene, nella sua prima stesura (1507) l’opera era dedicata a Massimiliano. In seguito Salviati mutò dedicatario e compose una seconda versione indirizzata direttamente a Francesco I, invitandolo a seguire il «vexillum» di Costantino nella crociata contro i turchi: «in hoc signo (mihi crede) invictissime Francisce vinces, ac immortalem gloriam, sempiternamque famam consequeris»38.
Per gli uomini del XVI secolo il paragone tra la tarda antichità e il presente non funzionava solo nel senso di sottolineare la somiglianza del conflitto tra paganesimo e cristianesimo con quello tra Roma, Wittemberg e Ginevra o tra una cristianità sempre più divisa e l’impero ottomano. Com’era noto, l’imperatore Costantino aveva dovuto altresì convocare un concilio a Nicea per dirimere le controversie nate in seno al cristianesimo intorno alla natura divina di Cristo. Ebbene, se quel tema all’epoca era stato rimesso in discussione solamente dalle frange più estreme della galassia protestante, il ruolo di pacificazione del sovrano tra le varie fazioni religiose in lotta poteva trovare un importante precedente proprio nella figura di Costantino39. Ciò avvenne in una delle fasi più delicate delle guerre religiose tra cattolici e ugonotti in Francia. Il cancelliere reale, la «bouche du Roy», Michel de L’Hospital, uomo di grande dottrina e spirito tollerante, aveva riunito nel settembre 1561 un sinodo religioso nella cittadina di Poissy nel tentativo di sanare le dispute tra cattolici e ugonotti. Nell’aprire la riunione, che vedeva presenti i più autorevoli rappresentanti delle due confessioni al cospetto di Caterina de’ Medici, reggente in attesa della maggiore età del figlio Carlo IX, L’Hospital si era rivolto al sovrano «espérant qu’il en sortiroit pareil fruict que sortit par la remontrance de Constantin-le-Grand au concile de Nice, auquel il présida»40. La storia sarebbe andata in modo diverso rispetto all’esito del concilio di Nicea, il cui simbolo segnò in maniera indelebile il cristianesimo medievale in oriente e in occidente. Dopo i colloqui di Poissy, infatti, Caterina de’ Medici emanò sì l’editto di Saint-Germaine-en-Laye, con cui si concedeva agli ugonotti libertà di culto nei sobborghi cittadini, ma, di lì a poco, la strage di Wassy – preludio della terribile notte di S. Bartolomeo di dieci anni dopo – diede inizio al periodo più violento degli scontri religiosi in Francia.
Questa somiglianza si faceva ancora più sorprendente se tale sovrano, nel caso specifico Enrico IV, si era convertito, proprio come aveva fatto Costantino, da una religione all’altra. Poco importa se la direzione presa dall’imperatore Costantino andasse dalla religione più vecchia a quella in ascesa e quella di Enrico IV nella direzione opposta (anche se non mancò chi, come l’ecclesiastico di corte Renaud de Beaune, arrivò a puntualizzare che il re era cattolico in spirito ben prima della sua conversione pubblica41). Il paragone tra Costantino e il Borbone dimostrò una grande vitalità, tanto che Enrico IV venne spesso associato a Costantino42, soprattutto nei segni che, nella visione dei panegiristi, avrebbero accompagnato il suo giuramento di mantenere la pace religiosa, «les mesmes signes [...] influez à Constantin le Grand». Anche quando il paragone era soprattutto con Carlo Magno – come nel Carolus magnus redivivus (1592) dell’umanista zurighese Johann Wilhelm Stucki – non si mancava di indicare a Enrico IV l’esempio di Costantino, che aveva convocato un concilio per appianare le divisioni che disgregavano la cristianità. Lo stesso aveva fatto, in maniera ancora più autorevole, François Hotman, auspicando che il sovrano «imite tous les bons Roys Chrestiens et entr’autres l’Empereur Constantin le Grand, qui tint le mesme langage aux Evesques orthodoxes et eterodoxes de son tems, lors du Concile de Nice»43.
L’identificazione di Enrico IV con Costantino non si limitò alla Francia. L’esempio più lampante va individuato in una sua raffigurazione statuaria nei panni di un imperatore romano, a opera di Nicolas Cordier, artista francese attivo a Roma. Pur nell’assenza di particolari iconografici rivelatori, ciò che porta a sostenere l’identificazione con Costantino è in primo luogo la reazione di un contemporaneo alla vista di quella statua. Il predicatore Mathieu d’Abbeville, infatti, ricordando quella «image de ce grand Henri, qui se voit entouré de palmes, parsemé de lauriers, faisant fleurir ses lys entre les aigles de l’Empire», esaltò il legame tra la Chiesa di Roma e il regno di Francia. Il ruolo attribuito al sovrano di «bras de l’Eglise» lo poneva in una posizione di superiorità rispetto a tutti gli altri monarchi contemporanei, all’altezza della dignità imperiale44. Che tali allusioni all’autorità imperiale non fossero generiche, ma si riferissero concretamente a Costantino, è confermato poi dal luogo in cui la statua di Enrico IV venne collocata: il portico della basilica di San Giovanni in Laterano. Il Laterano, sede episcopale del papa, era altresì il luogo in cui la tradizione – rinvigorita in tempi vicini a quelli dagli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio – voleva che fosse avvenuto il battesimo di Costantino45. La recente sistemazione di Sisto V Peretti (1588) aveva fatto sì che proprio nella piazza antistante venisse collocato l’obelisco egizio fatto trasportare a Roma dal figlio di Costantino, Costanzo II46. Alla sua base un’iscrizione celebrava la gloria immortale dell’imperatore Costantino, il suo battesimo, la sua vittoria su Massenzio e la sua attività al servizio della propagazione della gloria di Dio («constantinus / per crucem / victor / a silvestro hic / baptizatus / crucis gloriam / propagavit»47).
Nell’attiguo palazzo del Laterano sempre Sisto V aveva fatto eseguire da Cesare Nebbia e Giovanni Guerra un ciclo di affreschi delle gesta di Costantino, che comprendeva la scena in cui l’imperatore offriva al pontefice l’officium stratoris (cioè l’incarico di condurre il cavallo del papa) e si concludeva con la scena della donazione. Infine nella nuova loggia delle benedizioni, rivolta alla piazza e destinata a sostituire quella progettata da Bonifacio VIII, Sisto V fece dipingere il battesimo di Costantino da un lato e la donazione dall’altro. In mezzo troneggiava un affresco raffigurante la battaglia di Lepanto, evento rispetto al quale la figura di Costantino fu oggetto di un intenso investimento ideologico.
Il luogo, insomma, era saturo di simbologie costantiniane. Enrico IV, donando ai canonici lateranensi l’abbazia di Clairac e facendosi ritrarre vestito all’antica nel portico, veniva a sancire il suo ruolo di nuovo Costantino come protettore della Chiesa e inaugurava un rapporto privilegiato tra il Laterano (e quindi il pontefice) e il regno di Francia48. Enrico IV, infatti, fu il primo tra i ‘re cristianissimi’ (come venivano designati dal Medioevo i re di Francia) a essere fregiato del titolo di protocanonico lateranense, che da allora (anche se nessuno tra i re di Francia dopo di lui ne prese mai effettivamente possesso) ha continuato a essere attribuito ai monarchi francesi. Nella Quarta Repubblica tale tradizione è stata riportata in vigore da René Coty e l’ultimo ad esserne insignito, nel 2007, è stato Nicolas Sarkozy, che nell’occasione ha tenuto il suo controverso discorso sulla ‘laicità positiva’.
La presenza di Costantino nel pantheon ideale dei re di Francia continuò sotto il figlio e successore di Enrico IV, Luigi XIII il Giusto. Si prenda il caso dell’Histoire de la délivrance de l’Eglise par l’empereur Constantin et de la grandeur et souveraineté temporelle donnée à l’Eglise romaine par les Roys de France pubblicata dall’oratoriano Jean Morin nel 1630 e dedicata proprio al re. Già il titolo poneva l’opera dei re di Francia e specialmente del loro ultimo rappresentante (nonché dedicatario dell’opera) in perfetta continuità con quella di Costantino. Se quest’ultimo aveva liberato la Chiesa, i primi erano stati gli artefici del mantenimento e dell’accrescimento della sua sovranità (per Morin la cosiddetta donazione di Costantino è un falso medievale, il che gli permette di ricondurre ai re franchi l’inizio del potere temporale del pontefice). Tale continuità aveva nel frontespizio dell’opera la sua illustrazione più efficace, dato che nell’ordine superiore era rappresentato il pontefice assiso sul trono, alla sinistra del quale stava l’imperatore Costantino, intento a contemplare la visione celeste della croce, mentre dall’altra parte – verso cui il papa era rivolto – era raffigurato un re di Francia (lo si riconosce dai gigli che trapuntano il suo mantello) che, nel consegnargli una carta geografica dell’Italia, lo rassicurava con il motto virgiliano Italos parere iubebo. Ma è forse l’immagine in basso a destra nel frontespizio a rendere meglio il miscuglio di memoria tardoantica e storia contemporanea che caratterizza l’Histoire de la délivrance. La raffigurazione della «Gentilitas victa» e degli idoli pagani mandati in pezzi dai cristiani ricorda, infatti, in maniera impressionante le contemporanee immagini della strage della notte di San Bartolomeo, tanto che la si può annoverare tra le «images qui tendent à se superposer» tipiche del periodo delle lotte religiose in Francia49. Parte integrante di questa difesa della Chiesa in cui si era distinto Luigi XIII consisteva, infatti, proprio nel «vanger les blasphemes que cette infame heresie vomissoit contre le Ciel»50. Reprimendo «les Heretiques & les ennemis de l’Estat»51 il re giusto non si era adoperato solo nella difesa della Chiesa, ma, dato che il crimine di eresia coincideva con il crimen laesae maiestatis, aveva difeso anche il proprio Stato52. Non erano però solo la difesa dello Stato e quella della Chiesa a essere due fili intrecciati in uno stesso nodo. La difesa della Chiesa cattolica in Francia coincideva con la difesa della Chiesa di Roma stessa, dato che «il y a neuf cens ans que les Roys de France sont en cette possession [...] come un sacré depost que le Ciel a mis entre leur mains». Tale «sacré depost» era stato messo nelle mani dei re di Francia dal primo imperatore cristiano: «Constantin a donné la liberté aux Chrestiens; les Roys de France ont brisé le joug des Grecs & des Lombards, sous lequel le col des souverains Pontifes estoit incessamment courbé»53. I re di Francia erano stati però superiori a Costantino nella difesa dei «souverains Pontifes», perché, mentre gli imperatori romani venuti dopo di lui avevano spesso tiranneggiato la Chiesa, i re di Francia le avevano mantenuto intatta fedeltà. Certo – ammette Morin – qualche episodio di tensione c’era stato, ma andava imputato al fatto che «la colere des amans estoit un renouvellement d’amour»54.
Se, nella visione radicalmente gallicana dell’oratoriano Morin, Luigi il Giusto era il miglior successore di Costantino per la sua indefessa attività di protettore della Chiesa e combattente contro l’eresia, è invece molto più incerto se il ciclo di dodici arazzi sulle storie di Costantino realizzato da Rubens intorno al 1621 sia stato commissionato da Luigi XIII e quindi possa rivestire un significato allegorico, allusivo alle sue imprese55. Anche chi ha negato che l’iniziativa provenisse direttamente dagli ambienti reali, ha dovuto riconoscere che «there can be no doubt that Comans and de la Planche commissioned the Constantine series in the hope that Louis XIII, their most prestigious client, would order one or more editions». Allo stesso tempo, però, «since the entrepreneurs knew that the French king was a bad payer who anyway had very little interest in art patronage and collecting, the series had to appeal to other customers in Paris or elsewhere»56. Di fatto, come si vedrà, le previsioni dei committenti non erano sbagliate, dato che il re non si sarebbe mostrato troppo interessato al paragone iconografico di sé stesso con Costantino.
L’episodio degli arazzi con le storie di Costantino mostra al meglio la concorrenza tra papato e potere secolare intorno all’appropriazione della figura dell’imperatore romano. In un primo momento, infatti, Luigi XIII volle intervenire direttamente sul programma iconografico, cambiando gli ultimi episodi della serie, che dovevano rappresentare il trionfo di Roma, e sostituendoli con un soggetto meno politicamente connotato, come la morte di Costantino57. Successivamente lo stesso re decise di donare al cardinal nipote Francesco Barberini, che si trovava in Francia in qualità di legato dello zio Urbano VIII, sette dei dodici arazzi, ai quali il Barberini ne fece aggiungere altri cinque, confezionati proprio dalla sua manifattura personale su bozzetti di Pietro da Cortona, per ricostruire il ciclo.
Il passaggio degli arazzi dalla mano del re a quella del cardinale nipote e il successivo destino del ciclo costantiniano, destinato a rivaleggiare con la Sala di Costantino dipinta da Raffaello su commissione di Leone X, sono due elementi importanti, che mostrano come il sovrano pontefice fosse un concorrente molto agguerrito nel riappropriarsi dell’immagine di Costantino.
Nemmeno lo sforzo compiuto dagli antiquari di recuperare un passato il più vicino possibile alla sua materialità rimase immune dalle pressioni congiunte del potere ecclesiastico e secolare. Quest’ultimo mirava a fare della figura di Costantino un precursore di un impero con voce in capitolo nelle vicende spirituali, il primo continuava ad additarlo quale protettore di una Chiesa tutt’altro che rassegnata a un ruolo sempre più minoritario nel novero delle potenze europee. Tale competizione per le spoglie immateriali di Costantino tra Luigi XIII e Urbano VIII ha una sua icastica descrizione nella Historia augusta di Francesco Angeloni (1641), un’opera antiquaria sulle monete degli imperatori romani, che aveva in «Costantino il Magno» il suo culmine. L’opera era dedicata al re di Francia Luigi XIII, ma il vero destinatario dell’opera, fatto oggetto di elogi sperticati per il restauro del battistero del Laterano, in cui la leggenda voleva si fosse battezzato Costantino stesso, era proprio papa Barberini, che diventava così il più fedele custode della memoria costantiniana.
L’intreccio fra la monarchia francese e l’immagine di Costantino non si sarebbe interrotto nemmeno sotto il nipote di Enrico IV, Luigi XIV58. Ancora una volta, nella botte vecchia si versava del vino nuovo e la stessa immagine di Costantino veniva dipinta con colori diversi. Infatti, durante i festeggiamenti romani dell’editto di Fontainebleau (1685), che comportava la revoca del precedente editto di Nantes (1598), con cui proprio Enrico IV aveva concesso libertà di culto agli ugonotti, il Re Sole veniva accostato a due grandi imperatori romani che, come lui, avevano meritato il titolo di ‘grande’. Si trattava appunto di Costantino e di Teodosio. L’accostamento dei due imperatori non deve passare inosservato: se, infatti, l’immagine di Costantino, imperatore convertitosi dal paganesimo alla religione cristiana e fattosi garante della parità giuridica della nuova fede, poteva benissimo attagliarsi alla figura di Enrico IV, con Luigi XIV le cose erano parzialmente diverse. Al di là della differente esperienza biografica dei due sovrani, Luigi XIV non aveva riconosciuto, nemmeno a livello formale, alcuna parità tra le diverse confessioni e quindi non stupisce come, accanto all’ «example du pieux Constantin», egli potesse essere identificato in Teodosio, l’imperatore che con l’editto di Tessalonica (380) aveva fatto del cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero59.
Anche Jacques-Bénigne Bossuet, in occasione della revoca dell’editto di Nantes, parlò di Luigi XIV come di un «nouveau Constantin» e il paragone venne poi continuato dal giurista Henri-François Daguesseau, che salutò nel Re Sole il nuovo «destructeur de l’hérésie, vengeur de la foi, auteur de la paix, plein de ce double esprit qui forme le grands rois et le grands évêques, roi et prêtre tout ensemble»60. Se, come ha insegnato Ernst Kantorowicz, i re avevano due corpi, quello mortale della persona e quello immortale dell’istituzione61, i «grands rois», come Costantino e Luigi XIV, dovevano avere due spiriti, quello del re e quello del sacerdote.
Non bisogna tuttavia dimenticare che il regno di Luigi XIV fu anche teatro della «querelle des anciens et des modernes» che, lungi dall’essere una semplice disputa accademica sulla superiorità dei classici greci e romani sui contemporanei, coinvolse le linee di forza della politica, visto che chi stava dalla parte degli antichi era spesso critico verso l’assolutismo monarchico, mentre i partigiani dei moderni vedevano nel «grand siècle» inaugurato dal Re Sole un’età di splendore politico superiore perfino a quella di Augusto. Con Luigi XIV, dunque, il parallelo con Costantino – che fino a quel momento aveva visto i due termini su un piano di parità – si apprestava ad alterare il suo equilibrio a favore del primo. Chi espresse meglio questa tensione fu l’arcivescovo di Parigi François de Harlay, che esaltò il sovrano per «avoir conçu ce noble dessein d’imiter, de surpasser même s’il se peut, les Constantin, les Théodose, les Charlemagne et les saint Louis»62.
Forse anche a causa della sua contestata elezione imperiale Leopoldo I (1658-1705) fu un imperatore attentissimo alla cura della sua immagine pubblica e alla propaganda63. L’identificazione con Costantino fu perseguita fin dai primi giorni del suo impero, per il quale era stato scelto in tenera età, superando la concorrenza di un altro giovane candidato come Luigi XIV, il quale a sua volta, come si è visto, avrebbe investito molto sul paragone con Costantino. L’incoronazione di Leopoldo era stata, infatti, festeggiata dalla stesura di un’opera di un gesuita trentino, Niccolò Avancini, la Pietas victrix, dedicata proprio alla vittoria di Costantino su Massenzio64.
Nel 1677 il langravio Federico d’Assia, convertitosi al cattolicesimo e divenuto cardinale, inviò a Leopoldo I un armadietto decorato con scene della vita di Costantino65. Al di là dei motivi di autorappresentazione del langravio Federico stesso (la cui conversione dal protestantesimo al cattolicesimo poteva di certo spingerlo a identificarsi con Costantino), l’iconografia del manufatto pone dei problemi: se, infatti, la caratterizzazione dell’imperatore all’antica fa pensare immediatamente a Costantino, l’assenza di precisi attributi iconografici dell’imperatore romano non esclude la possibilità che lo spettatore non lo identificasse in modo troppo deciso, e quindi lascia aperta la strada dell’identificazione con Leopoldo66.
Identificazione che Leopoldo I incarnò ben al di là delle rappresentazioni propagandistiche. Tutto il suo lungo impero fu, infatti, contrassegnato da quelle due spinte divergenti già individuate dietro l’immagine di Costantino in Età moderna: essere un imperatore cristiano e, al tempo stesso, garantire l’autonomia del potere religioso. Leopoldo I rappresenta al meglio queste due correnti parallele, ma difficilmente conciliabili. Personalmente, infatti, egli fu un uomo estremamente pio (ci è rimasto un suo libretto di preghiere manoscritto pieno di manifestazioni di intensa religiosità) e zelante nel portare a termine la ricattolicizzazione dell’impero iniziata dai suoi predecessori. E tuttavia, sotto il suo impero, «la Chiesa militante era anche una Chiesa di stato» e, se Leopoldo «per il fatto che era stato educato alla carriera ecclesiastica, fu un imperatore di un clericalismo oltremodo spinto», «sarebbe stato un ecclesiastico quanto mai imperioso», visto che «influenze dinastiche possenti si fecero sentire in tutta l’organizzazione del cattolicesimo nei paesi della monarchia»67.
Soprattutto la fortissima pressione dei turchi – fu sotto il suo impero che ebbe luogo l’assedio di Vienna da parte delle milizie ottomane nel 1683 – continuò a rendere politicamente effettiva l’identificazione di Leopoldo con Costantino. Negli stessi mesi in cui aveva inizio la riscossa delle truppe imperiali, il predicatore boemo Tobias Johannes Becker rispolverò l’emblema dell’in hoc signo vinces per indicare all’imperatore la via da percorrere contro coloro che avevano usurpato la città che da Costantino prendeva il nome e infranto per sempre l’unità imperiale da lui sognata68. Difficilmente accertabile è la notizia secondo cui un non meglio identificato incisore di nome Christian Dittmas, negli ultimi anni del XVII secolo, avrebbe ritratto Leopoldo I nei panni di Costantino vittorioso su turchi, eretici e ribelli69. Tale notizia è importante perché ci mostra i tre elementi fondativi dell’immagine che Leopoldo I – sovrano di un impero dove fortissimo era il peso della controriforma cattolica, specie ad opera della Compagnia di Gesù – intese sovrapporre a quel variegato impasto di lingue e religioni che erano i suoi domini: la crociata contro il turco, la conseguente affermazione di una forte identità cattolica, la repressione di ogni tentativo di allentare le maglie dell’autorità imperiale70.
L’idea di crociata, la lotta all’eresia e il disciplinamento delle spinte centrifughe erano altresì gli elementi che avevano maggiormente caratterizzato l’immagine di Costantino nei secoli precedenti. L’impero di Lepoldo I, che sembrava segnarne il punto di maggior splendore, ne vedeva in realtà la più completa sclerotizzazione. Nei duecento anni trascorsi tra l’incoronazione di Massimiliano d’Asburgo e la morte di Leopoldo I abbiamo visto Costantino utilizzato di volta in volta dal potere politico e da quello ecclesiastico. Se ci si sposta dall’approfondimento sincronico dei diversi contesti politici all’analisi sul più lungo periodo delle linee di forza su cui si è mossa l’immagine di Costantino, si possono osservare alcune tendenze di fondo.
I re della prima Età moderna si percepiscono – e mirano a farsi riconoscere – come dei nuovi Costantino, ma, allo stesso tempo, tendono a superarne la figura, togliendo in misura sempre maggiore quel tanto di dipendenza dal potere papale (battesimo, donazione) che sussisteva nel modello della regalità costantiniana. Quanto più si accentuava lo sforzo di rendere assoluto il potere del re, tanto meno adatta si rivelava per questo scopo l’autorappresentazione ispirata al modello regale costantiniano, perennemente esposto al rischio di richiamare con sé l’idea di una legittimazione da parte papale.
Per il caso del potere ecclesiastico accade l’esatto contrario. Nella misura in cui tale sforzo di reimpiego propagandistico della figura di Costantino da parte del pontefice romano si faceva più intenso, tanto minore presa esso aveva sulla realtà. Sarebbero bastati, infatti, pochi anni per mostrare quali fossero le vere forze in atto dietro la retorica imperiale dei papati Boncompagni e Barberini. L’esclusione dei legati pontifici dai negoziati della pace di Westfalia (1648), che avrebbe concluso quegli scontri religiosi in cui la figura di Costantino era stata arruolata alla testa delle diverse forze contrapposte, segnò altresì un colpo durissimo per la pretesa papale di esercitare la potestas indirecta in temporalibus. Da quel momento in poi e per un secolo e mezzo, la riappropriazione dell’eredità costantiniana sarebbe rimasta un fantasma senza corpo71.
In reazione alla dissoluzione morale e sociale introdotta dalla Rivoluzione francese, la Chiesa cercò di instaurare dei rapporti di forza con i poteri politici dell’età della restaurazione che fossero improntati al modello costantiniano. A partire dalla pace di Tilsit (1807), che segnò l’allentarsi della tensione con la Russia e con la Prussia, i vescovi francesi iniziarono a proporre a Napoleone non più il modello del re persiano Ciro, costruttore di un impero basato sulla pacificazione e sulla libertà accordata ai suoi popoli (primi fra tutti gli ebrei, prefigurazione del novus Israel cristiano), ma il più tradizionale Costantino.
Tale svolta nella rappresentazione della sovranità dell’imperatore dei francesi è stata interpretata correttamente come un passaggio tra due atteggiamenti diversi nei confronti del nuovo potere napoleonico. Fino al 1807 prevalse la speranza di una pacificazione dopo il periodo delle guerre rivoluzionarie e della scristianizzazione forzata. In seguito si fece sempre più strada nell’episcopato francese una forte disillusione verso le guerre intraprese da Napoleone, combattute più per l’impero che per la protezione di quella che, dopo il concordato del 1801, era di nuovo ufficialmente «la religion de la grande majorité des citoyens français». A quel punto il recupero della figura di Costantino si rese necessario, dati i rapporti di forza, per cercare ancora una volta di creare un mutuo sostegno tra il potere politico e quello religioso. Ciò non toglie che quest’ultimo fosse in posizione di forte minorità, visto che la sua principale funzione era quella di limitarsi a «sanctifier» le guerre indette dal «moderne Constantin»72.
Tale modello di equilibrio, tuttavia, si rivelò sempre più inapplicabile nel corso del XIX secolo. Di fronte alla minaccia congiunta di liberalismo e socialismo, la Chiesa cattolica cercò di rinnovare il sogno della cristianità costantiniana sperimentando nuove forme di controllo integrale sulla società, che avrebbero dovuto portare al ‘regno sociale di Cristo’. Attraverso la promozione di nuovi tipi di devozione – tra cui quella per il Sacro Cuore, significativamente definito dai suoi promotori «nuovo labaro di Costantino»73 – la Chiesa avrebbe continuamente cercato di risolvere a proprio favore l’equilibrio a cui il modello costantiniano di cristianità poteva dare adito.
Tale revival costantiniano in pieno XIX e XX secolo esula dai nostri confini cronologici, ma merita di essere ricordato, perché mostra la lunga durata di quella che è forse l’unica costante nella mutevole fortuna dell’immagine di Costantino tra i re dell’Età moderna. Per uno in particolare di questi monarchi – il sovrano pontefice – Costantino fu invariabilmente, al di sotto del continuo cambiamento della società e della politica, il modello da indicare a un potere secolare che doveva essere soggetto alla guida della Chiesa. Singolare destino per un imperatore che si era proclamato ‘vescovo di quelli di fuori’.
1 Per una visione complessiva della ricezione di Costantino tra Medioevo ed Età moderna si rimanda a quattro recenti volumi collettanei di sintesi: Konstantin der Große. Geschichte – Archäologie – Rezeption, Internationales Kolloquium (Trier, 10.-15. Oktober 2005) hrsg. von A. Demandt, J. Engemann, Mainz 2007; Konstantin der Grosse. Das Bild des Kaisers im Wandel der Zeiten, hrsg. von A. Goltz, H. Schlange-Schöningen, Köln-Weimar-Wien 2008; Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Bonamente, G. Cracco, K. Rosen, Bologna 2008; Costantino il Grande: dall’antichità all’umanesimo, Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), 2 voll., a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata-Roma 1992.
2 Sulla critica valliana alla donazione di Costantino basti rimandare a C. Ginzburg, Lorenzo Valla sulla donazione di Costantino, in Id., Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano 2000, pp. 69-85.
3 L’importanza della formula nicena, al di là della sua fortissima ambiguità, per la legittimazione sacrale dei sovrani europei tra Medioevo ed Età moderna era stata segnalata già nel 1924 da M. Bloch, I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra, Torino 1973, p. 272, che ne aveva mostrato l’applicazione ai re di Francia da Clodoveo addirittura fino al 1766.
4 Cfr. R. Quednau, Ein römischer Kabinettschrank mit Szenen Konstantins des Großen für Kaiser Leopold I. in Wien. Zum Nachleben Konstantins d. Gr. im Bild, in Konstantin der Grosse, cit., in partic. 191 segg.
5 Cfr. l’edizione, curata da Carlo Bornate, dell’Historia vite et gestorum per dominum magnum cancellarium, in Miscellanea di storia italiana, 48 (1915), pp. 233-568, in partic. 404-405.
6 Libro primo delle lettere dell’illustre signore Antonio di Guevara [...] nuovamente tradotto dal S. Alfonso Ulloa, Venetia, Heredi di Vicenzo Valgrisi, 1575, pp. 104-112.
7 A. Kohler, Carlos V (1500-1558). Una biografía, Madrid 2000, p. 112, dove si rimanda a ulteriore bibliografia.
8 G. Galasso, Il progetto imperiale di Carlo V (2000), in Id., Carlo V e Spagna imperiale. Studi e ricerche, Roma 2006, p. 19.
9 È importante ricordare come proprio all’iniziativa papale si debba il risveglio iconografico dei temi costantiniani dopo due secoli di pausa, con la commissione da parte di Leone X della Sala di Costantino in Vaticano (1519-1524), iniziata da Raffaello e portata a termine da Giulio Romano. Cfr. J. Freiberg, In the Sign of the Cross: The Image of Constantine in the Art of Counter-Reformation Rome, in Piero della Francesca and His Legacy, Proceedings of the symposium «Monarca della pittura: Piero and His Legacy» (Washington 4-5 december 1992), ed. by M. Aronberg Lavin, Hannover-London 1995, pp. 67-87. Il «significato politico» della «sostituzione delle scene del Battesimo e della Donazione di Costantino, pensate in origine per i monocromi bronzei, alla Presentazione dei prigionieri dopo la battaglia e Costantino rifiuta il bagno di sangue dei bambini innocenti per guarire dalla lebbra, destinate in un primo momento alle pareti», è stato opportunamente segnalato da M. Firpo, F. Biferali, ‘Navicula Petri’. L’arte dei papi nel Cinquecento (1527-1571), Roma-Bari 2009, p. 37.
10 Si veda la descrizione in J. Jacquot, Panorama des fêtes et cérémonies du règne. Évolution des thèmes et des styles, in Les fêtes de la Renaissance, II, Fêtes et cérémonies au temps de Charles Quint, Paris 1975, pp. 413-486.
11 S. Leydi, Sub umbra imperialis aquilae. Immagini del potere e consenso politico nella Milano di Carlo V, Firenze 1999, p. 81; J. Freiberg, In the Sign of the Cross, cit., p. 70, ha collegato al ricordo dell’incoronazione la presenza di un ciclo costantiniano eseguito da Prospero Fontana nel palazzo del legato papale a Bologna.
12 Admonitio paterna Pauli III ad Caesarem Carolum V, qua eum castigat, quod se Lutheranis praebuerit nimis facilem: deinde quod in cogenda synodo, tum in definiendis fidei controversiis aliquid potestatis sibi sumpserit, in Ioanni Calvini opera quae supersunt omnia, ed. G. Baum, A.E. Cunitz, E. Reuss, Braunschweig 1863-1900, VII, pp. 278-279. Il documento è stato ben analizzato da M. Turchetti, Concordia o tolleranza? François Bauduin (1520-1573) e i ‘Moyenneurs’, Milano 1984, pp. 119 segg.
13 C. Vivanti, Lotta politica e pace religiosa in Francia tra Cinque e Seicento, Torino 1963, p. 156.
14 J. Vogt, Pagani e cristiani nella famiglia di Costantino il Grande, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo, a cura di A. Momigliano, Torino 1968, pp. 61-62.
15 «Il primo degli imperatori romani», «servendosi del vessillo della croce combatté con esito felicissimo contro gli acerrimi nemici del nome cristiano»; «Il primo dei pontefici romani Pio V»; «illuminato dallo stesso segno di salvezza ha conseguito una lietissima vittoria contro una grandissima flotta turca».
16 La controversa fama postuma di Filippo II è tratteggiata da G. Parker, Un solo re, un solo impero. Filippo II di Spagna, Bologna 1985, pp. 237-251, dove si rimanda a ulteriore bibliografia.
17 P. Cozzo, Costantino nella storiografia ecclesiastica del ducato di Savoia nella prima età moderna, in Costantino il Grande tra Medioevo e età moderna, cit., pp. 264-265.
18 L’uso politico del passato nella Spagna asburgica è oggetto del recente volume di R.L. Kagan, Clio and the Crown. The Politics of History in Medieval and Early Modern Spain, Baltimore 2009.
19 W.J. Mulligan, The British Constantine. An English Historical Myth, in Journal of medieval and Renaissance Studies, 8 (1978), pp. 257-279; A. Harbus, Helena of Britain in Medieval Legend, Cambridge 2002.
20 L’identificazione con Costantino continuò invece nelle terre della Nuova Spagna, ad esempio nelle cerimonie per la morte di Filippo IV (1666) organizzate a Città del Messico dall’Inquisizione locale, che, per sottolineare la grandezza del sovrano appena defunto, fece porre intorno al catafalco le immagini dei quattro sovrani temporali e spirituali più grandi della storia: Alessandro, Leone Magno, Carlo Magno e Costantino. Cfr. V. Minguez, Los ‘Reyes de las Américas’. Presencia y propaganda de la Monarquía Hispánica en el Nuevo Mundo, in Imagen del rey, imagen de los reinos. Las ceremonias públicas en la España Moderna (1500-1814), ed. por A. González Enciso, J.M. Usunáriz Garayoa, Pamplona 1999, p. 240.
21 La fusione tra dimensione nazionale e imperiale nell’Inghilterra dei Tudor è ben analizzata da S. Mottram, Empire and Nation in Early English Renaissance Literature, Cambridge 2008. Per i riferimenti a Costantino si veda l’indice.
22 Cfr. R. Koebner, ‘The Imperial Crown of this Realm’: Henry VIII, Constantine the Great, and Polydore Vergil, in Bulletin of the Institute of Historical Research, 25 (1953), pp. 29-52.
23 John Leland, A learned and true assertion of the original life, actes and death of the most noble, valiant, and renoumed prince Arthur, king of Great Brittaine, London 1582, p. 34; Id., Principvm, ac illustrium aliquot et eruditorum in Anglia virorum, Enconomia, Trophaea, Genethliaca, et Epithalamia, I, Londini, apud Thomam Orwinum typographum, 1859, p. II.
24 Richard Hakluyt, The principall navigations, voiages, and discoveries of the English nations, Imprinted at London by George Bishop and Ralph Newberie, deputies to Christopher Barker, printer to the Queen’s Most Excellent Majestie, 1589, pp. 1-3.
25 E. Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, London 1994 (I ed. 1776-1789), II, pp. 190-191.
26 F.A. Yates, Astrea. L’idea di impero nel Cinquecento, Torino 1978 (I ed. London-Boston 1975), pp. 52-53.
27 Cfr. anche P. Collinson, ‘If Constantine, then also Theodosius’: St Ambrose and the Integrity of the Elizabethan Ecclesia Anglicana, in Id., Godly People: Essays on English Protestantism and Puritanism, London 1983, pp. 109-133.
28 Ivi, pp. 53-54.
29 Ibidem.
30 Nel senso di «systematic exploitation of the adversary’s most trusted sources against their overt intent», così come è stato formulato da A. Funkenstein, Theology and Scientific Imagination from the Middle Ages to the Seventeenth Century, Princeton 1989, pp. 273 segg. (trad. it. Torino 1996).
31 Disseminazione della scrittura, lotta all’eresia e infaticabile attività di costruzione di chiese erano i tre elementi che accomunavano Giacomo I e Costantino nel Panegyrick (1613) di Joseph Hall, composto in occasione del trentesimo anniversario dell’ascesa al trono di Giacomo I e ben analizzato da J. Doelman, King James I and the Religious Culture of England, Oxford 2000, p. 82.
32 Ivi, p. 81.
33 Ivi, p. 1.
34 Come afferma Mark Goldie, «Marvell did not wish to unking his prince: he wished him to be one» (corsivo nel testo), M. Goldie, Priestcraft and the Birth of Whiggism, in Political discourse in early modern Britain, ed. by N.T. Phillipson, Q. Skinner, Cambridge 1993, p. 228.
35 Lo ricorda A.M. Lecoq, François Ier imaginaire. Symbolique et politique à l’aube de la Renaissance française, préface de M. Fumaroli, Paris 1987, p. 264.
36 Ibidem.
37 Ivi, p. 275.
38 Ivi, p. 278.
39 G.M. Vian, Usare l’imperatore. L’immagine di Costantino tra protestanti e cattolici, in Mediterraneo antico, 6 (2003), pp. 273-295.
40 Oeuvres complètes de Michel de l’Hospital, chancelier de France, I, éd. par P.J.S. Duféy, Paris 1825, p. 485.
41 Lo ricorda V.J. Pitts, Henry IV of France: His Reign and Age, Baltimore 2009, p. 170.
42 Cfr. M. Fumaroli, Cross, Crown, and Tiara: The Constantine Myth between Paris and Rome (1590-1690), in Piero della Francesca and His Legacy, cit., pp. 89-102.
43 Gli esempi sono riportati da C. Vivanti, Lotta politica e pace religiosa, cit., pp. 84, 182-183, 216. Per ulteriori approfondimenti si veda anche Id., Henry IV, the Gallic Hercules, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 30 (1967), pp. 176-197, in partic. 182. Come ha mostrato R. Mousnier, L’assassinat d’Henri IV, Paris 1964, p. 235, e come si può vedere più diffusamente in J. Hennequin, Henri IV dans ses oraisons funèbres ou la naissance d’une légend, Paris 1977, Enrico IV fu paragonato a Costantino anche nei panegirici seguiti alla sua morte per mano del sicario Ravaillac (1610). Il funerale del re di Francia, del resto, era impregnato di simbologie costantiniane fin dai tempi dei Valois, come nota, a proposito del funerale di Francesco I (1547), R.E. Giesey, The Royal Funeral Ceremony in Renaissance France, Genève 1960, pp. 150 segg. Per i rinvii a Costantino nel monumento funebre di Luigi XII (1462-1515) si veda K. Cohen, Metamorphosis of a Death Symbol: the Transi Tomb in the Late Middle Ages and the Renaissance, Berkeley-Los Angeles-London 1973, pp. 155 segg.
44 Cit. in P. Mironneau, Henri IV, Paris 2005, p. 59.
45 Per una visione complessiva si rimanda a C. Pietrangeli, San Giovanni in Laterano, Firenze 1997.
46 Molti elementi in C. Mandel, Sixtus V and the Lateran Palace, Roma 1994.
47 Cit. in V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edificii di Roma dal secolo XI fino ai giorni nostri, Milano 1889-1893, XII, p. 201.
48 Occorre ricordare che nel 1595, in occasione della conversione, a Roma venne innalzata una colonna in suo onore con la scritta in hoc vinces.
49 D. Crouzet, Les guerriers de Dieu. La violence au temps des troubles de religion (vers 1525-vers 1610), Seyssel 1990, I, figg. 30-33.
50 J. Morin, Histoire de la délivrance de l’Église chrétienne par l’empereur Constantin et de la grandeur et souveraineté temporelle donnée à l’Église romaine par les Roys de France, Paris 1630, a iiir.
51 Ivi, a ivr.
52 Per l’elaborazione di tale concetto giuridico si rimanda a M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna, Milano 1974.
53 J. Morin, Histoire de la délivrance de l’Église, cit., p. 437.
54 Ivi, p. 439.
55 L’opinione che il committente del ciclo di arazzi fosse Luigi XIII è stata sostenuta per la prima volta da M. Rooses, L’Oeuvre de P.P. Rubens: histoire et description des ses tableaux et dessins, III, Antwerp 1886-1892, pp. 216-219. Più volte messa in discussione, è stata di recente negata da K. Brosens, Who Commissioned Rubens’s ‘Constantine Series’? A New Perspective: The Entrepreneurial Strategy of Marc Comans and François de la Planche, in Simiolus. Netherlands Quarterly for the History of Art, 33 (2007-2008), pp. 166-182. Cfr. anche Id., Rubens. Subjects from History. The Constantine Series, in Corpus Rubenianum Ludwig Burchard, XIII/3, London-Turnhout 2011.
56 K. Brosens, Who Commissioned Rubens’s, cit., p. 182.
57 M. Fumaroli, Cross, Crown, and Tiara, cit., p. 92.
58 Sull’immagine pubblica di Luigi XIV si veda P. Burke, The Fabrication of Louis XIV, New Haven 1992 (trad. it. Milano 1993).
59 Cfr. F. Bluche, Louis XIV, Paris 1986, p. 209.
60 Cit. in P. Blet, Le clergé du Grand Siècle en ses assemblées (1615-1715), Paris 1995, p. 374.
61 E.H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale (1957), Torino 1989.
62 Cit. in P. Blet, Le clergé de France. Louis XIV et le Saint Siège de 1695 à 1715, Città del Vaticano 1989, p. 27.
63 J. Schumann, Die andere Sonne. Kaiserbild und Medienstrategien im Zeitalter Leopolds I, Berlin 2003.
64 Cfr. la recente edizione bilingue Pietas victrix. Der Sieg der Pietas, hrsg. von L. Mundt, U. Seelbach, Tübingen 2002.
65 Oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, Kunstkammer, Inv. KK 3395. L’episodio è stato studiato con dovizia di particolari da R. Quednau, Ein Kabinettschrank, cit.
66 Ibidem.
67 R.J.W. Evans, Felix Austria. L’ascesa della monarchia asburgica (1550-1750), Bologna 1981, p. 177.
68 M. Goloubeva, The Glorification of Emperor Leopold I in Image, Spectacle and Text, Darmstadt 2000, p. 133.
69 Ne parla P.S. Fitchner, Terror and Toleration: The Habsburg Empire confronts Islam (1526-1850), London 2008.
70 Come sostiene sempre R.J.W. Evans, Felix Austria, cit., p. 185, «l’imposizione di una sola chiesa su tutta la comunità delle genti che abitavano i domini asburgici – che avevano conosciuto il disarticolato particolarismo medievale e la frammentazione protestante [...] – non poté mai essere attuata in tutta la sua completezza».
71 Fatto salvo l’esempio dei giansenisti, per i quali il modello politico ideale per i regnanti era ancora Costantino. Cfr. S. Maruti, Teologia e politica nel giansenismo lombardo, Milano 1998.
72 B. Plongeron, Cyrus ou les lectures d’une figure biblique dans la rhétorique religieuse de l’Ancien Régime à Napoléon, in Revue d’histoire de l’Église de France, 68 (1982), p. 56.
73 Ph. Clement, L’image du Sacré-Coeur, Paris 1897, cit. in D. Menozzi, Sacro Cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Roma 2001, p. 223.