Costantino e i templi
Negli anni successivi all’emanazione dell’editto di Milano del 313 d.C., con il quale Costantino e Licinio avevano reso il cristianesimo religio licita in tutto l’Impero, il paganesimo rappresentava ancora una componente ben radicata non solo all’interno delle famiglie ricche e di grande prestigio sociale, ma anche tra gli strati più bassi della popolazione urbana e delle campagne. Alla fine del IV secolo, nonostante vescovi come Giovanni Crisostomo e Teodoreto proclamassero che la tirannide dei demoni si era ormai conclusa – e assieme a essa anche il tempo degli altari, dei templi e delle feste degli dei –, in realtà la situazione si presentava più variegata e complessa di come i Padri della Chiesa intendessero descriverla1. Gli imperatori infatti, se da una parte promossero la condanna del culto pagano attraverso la proibizione dei sacrifici, delle arti magiche e della divinazione – come testimoniato da numerose leggi conservate nel Codice Teodosiano –, dall’altra dovettero confrontarsi con la presenza dei templi pagani che costituivano, sia in città che in campagna, il punto di riferimento della vita pubblica in quanto luoghi di culto ma anche centri politici, culturali e sociali2. Poiché essi rivestivano un ruolo così importante nella società del tempo, valutare quale sia stata la loro sorte a partire dai provvedimenti presi dal ‘primo imperatore cristiano’ permette di indagare ambiti molteplici, che vanno oltre il problema strettamente religioso.
Evidenti distorsioni nell’interpretazione degli atti compiuti verso gli edifici sacri furono operate non solo dalle fonti letterarie di matrice cristiana, per le quali ogni tempio abbattuto diventava anche metafora della schiacciante vittoria del cristianesimo sul paganesimo, ma pure da alcuni autori pagani – come ad esempio il retore antiocheno Libanio –, i quali amplificarono i casi di distruzione violenta allo scopo di dimostrare la perfidia degli imperatori e dei funzionari cristiani.
L’idea tradizionale secondo la quale tutti gli edifici sacri, a partire da Costantino, furono demoliti o trasformati in chiese, ovvero demoliti per essere trasformati in chiese, viene in parte smentita da alcune ricerche recenti, che non solo riconsiderano il fenomeno della distruzione nella sua complessità, ma permettono anche di prendere in considerazione almeno altri due aspetti nelle vicende occorse ai templi, ovvero le confische e le trasformazioni che essi subirono, tenendo conto del fatto che queste ultime non furono necessariamente conversioni in chiese, ma anche in edifici per uso pubblico o privato3.
La complessità della situazione, pertanto, richiede un attento vaglio delle testimonianze a disposizione. L’intento del presente saggio è quello di riesaminare gli atti compiuti da Costantino nei confronti dei templi nelle varie città dell’Impero allo scopo di dimostrare, attraverso una mappatura dei casi noti di distruzione o trasformazione degli stessi, che la politica religiosa dell’imperatore non fu caratterizzata dalla distruzione sistematica dei santuari, ma da un incisivo intervento a danno delle loro risorse finanziarie – testimoniato dalla confisca dei beni mobili e immobili – e del loro prestigio, attuato attraverso l’impiego di statue di culto per l’abbellimento e la monumentalizzazione della nuova capitale d’Oriente.
Il saggio sarà dunque articolato in due sezioni principali: nella prima verranno considerati i provvedimenti legislativi tramandati dai Codici (Teodosiano e Giustinianeo) riguardanti la conservazione o meno degli edifici di culto pagani in un arco temporale compreso tra il regno di Costantino e quello di Giustiniano; un discorso a parte verrà invece fatto per il ruolo e la funzione di una delle branche amministrative più importanti di epoca tardoantica, ovvero la res privata. La seconda e ultima parte condurrà direttamente in medias res, dal momento che sarà analizzato l’atteggiamento di Costantino nei confronti dei templi come tramandato dalle fonti cristiane e pagane: saranno presi in considerazione i casi di distruzione, di spoliazione attraverso la ‘confisca’ dei beni mobili e immobili, di trasformazioni in chiese – ma anche in edifici a uso civico –, e infine di costruzioni ex novo. L’intento è quello di dimostrare il carattere articolato e multiforme della politica religiosa condotta dall’imperatore.
L’arco cronologico entro il quale viene di solito considerata la legislazione antipagana4 è quello compreso tra le prime disposizioni di Costantino nel 320 d.C. sull’aruspicina e la chiusura della scuola di Atene con Giustiniano nel 5295. Tra i molteplici provvedimenti emanati dagli imperatori allo scopo di promuovere il passaggio dalla religio populi Romani tradizionale al cristianesimo, di grande importanza furono quelle leggi raccolte nella decima rubrica del sedicesimo libro del Codice Teodosiano, significativamente intitolata De paganis, sacrificiis et templis6.
Dalla lettura delle venticinque costituzioni ivi contenute, appare subito evidente l’assenza di norme repressive nei confronti dei templi espressamente dovute a Costantino: dell’imperatore, infatti, è stata conservata una sola costituzione, riguardante l’intervento degli aruspici in caso di caduta di un fulmine sul Palatium o sugli edifici pubblici7. Le motivazioni di questa scelta potrebbero ravvisarsi o nell’effettiva mancanza di costituzioni emanate da Costantino sul tema dell’uso dei templi, o nella difficoltà dei compilatori di reperirle. Di fatto, l’elenco dei provvedimenti antipagani inizia con una legge emanata da Costante e Costanzo II nel 341 d.C., che pure rinvia a una precedente di Costantino («legem divi principis parentis nostri»)8. La notizia riportata da Girolamo nel suo Chronicon, e riproposta tale e quale da Orosio nella Historia adversus paganos, di un editto emanato dall’imperatore nel 331 d.C., per mezzo del quale egli avrebbe imposto la distruzione di tutti i templi pagani allora esistenti9, risulta contraddittoria se confrontata con la normativa e con alcune testimonianze coeve, che in realtà mostrano Costantino nell’atto di esercitare la sua funzione di Pontifex Maximus, ovvero di responsabile e garante di tutte le religioni licitae presenti nell’Impero. Un esempio di questa ‘tolleranza religiosa’ è costituito dalla Lettera ai Provinciali d’Oriente del 324 d.C.: attraverso questo importante documento, l’imperatore concedeva che gli appartenenti a religioni differenti rispetto a quella cristiana, pur non essendo ancora giunti alla verità, potessero mantenere intatti e frequentare liberamente i propri luoghi di culto, senza che fossero compiuti sacrifici10. Se dunque vi fu mai un editto di Costantino contro i templi pagani nei termini riportati da Girolamo e Orosio, si dovrebbe pensare che esso sia stato applicato solo nei confronti di alcuni santuari pagani, per la dismissione dei quali era stato richiesto un intervento specifico da parte dell’imperatore, e che dunque non avesse il carattere di una lex generalis messa in pratica in tutto l’Impero, come dimostrerà l’esame dei casi presi in considerazione in questo saggio.
Un importante documento legislativo di Costantino, conservatosi in una delle più discusse epigrafi di IV secolo, è invece il rescritto di Spello, scoperto nella cittadina umbra nel 1733 presso il santuario di Villa Fidelia11. Attraverso questo sacrum rescriptum l’imperatore rispondeva alla richiesta degli abitanti di Hispellum di poter effettuare una celebrazione, che essi avevano già in comune con i Tusci, nella propria città anziché recarsi a Volsinii, dove in precedenza si svolgeva annualmente. La motivazione principale di tale petizione consisteva apparentemente nella volontà di evitare lunghi e faticosi percorsi stradali per raggiungere la suddetta località; essi, inoltre, esprimevano l’auspicio di essere autorizzati a costruire un tempio in onore della gens Flavia. Per mezzo di questo provvedimento, Costantino per gran parte venne incontro alle richieste degli abitanti di Spello, stabilendo che il tempio in onore della sua gens potesse essere edificato purché «ne aedis nostro nomini dedicata cuiusquam contagios‹a›e superstitionis fraudibus polluatur».
Alla morte di Costantino le fonti registrano un inasprimento della politica antipagana a opera dei suoi figli, specialmente a partire da Costanzo II. Sua è infatti la legge rivolta al prefetto del pretorio Tauro, nella quale, accanto al divieto di compiere sacrifici, è ordinata la chiusura dei templi («claudi protinus templa») impedendo l’ingresso a essi per ragioni di culto12. Il fenomeno della negazione della funzione stessa dei templi, dovuto alla loro chiusura, non si riscontra però in maniera omogenea e regolare nelle varie rubriche del Codice Teodosiano. Le motivazioni di tale disomogeneità vanno ricercate e nella mancanza di una progettualità ben definita nella politica antipagana condotta dai vari imperatori, e nella scarsa applicazione delle normative imperiali da parte delle autorità locali per carenza di impegno e molto più spesso per connivenza con i colpevoli13, ma anche perché molti casi di spoliazione o distruzione dei templi erano dovuti all’azione di singoli gruppi o comunità cristiane14. A questo proposito, già durante il regno di Costanzo II le fonti attestano numerosi episodi del genere: ad esempio, il dux Aegypti Artemio, su sollecitazione di Giorgio, vescovo di Alessandria, fece entrare i suoi soldati nel Serapeo saccheggiandone le statue e gli ornamenti15, mentre in Siria il vescovo Marco di Aretusa trasformò il tempio principale della città in una chiesa cristiana16. Quest’ultimo caso risulta dunque paradigmatico dell’aporia esistente, almeno per tutto il IV secolo, tra la ratio della politica religiosa imperiale, genericamente orientata alla chiusura dei templi e alla proibizione dei sacrifici, e la mancanza di autorizzazioni ufficiali a distruggere e saccheggiare gli edifici di culto: mentre infatti Gregorio di Nazianzo sosteneva che Marco di Aretusa avesse agito con il beneplacito delle leggi imperiali, lo storico ecclesiastico Sozomeno presentò l’azione del vescovo come frutto degli eccessi compiuti dallo stesso. Complessivamente, nonostante egli abbia condotto una politica religiosa decisa, come testimoniato dalla rimozione dell’altare della Vittoria dalla Curia in occasione della sua visita a Roma nel 337 d.C.17, di Costanzo II non sono conservati, nei codici, provvedimenti che abbiano promosso la distruzione dei templi18, quanto piuttosto disposizioni volte alla tutela degli edifici dal punto di vista architettonico. Così quella indirizzata al prefetto dell’Urbe Catullinus, con la quale, pur ribadendo e sottolineando che ogni superstitio dovesse essere estirpata, prescriveva la salvaguardia dei templi dell’Agro romano, poiché da alcuni di questi avevano tratto origine i ludi circensi e gli agoni; la conservazione della priscarum sollemnitas voluptatum testimonia che l’imperatore non disconosceva l’importante funzione religiosa, politica e sociale che i templi continuavano a svolgere ancora nel IV secolo e che, pertanto, non era utile convellere19.
Con l’avvento di Giuliano (361-363) i punti fondamentali della politica religiosa mutarono: l’intento dell’imperatore era infatti quello di restaurare l’autonomia finanziaria delle città – indebolita dalla precedente ridefinizione e risistemazione della res privata20 – e di rendere di nuovo accessibili i templi dotandoli di risorse adeguate al sostegno del culto pagano21. Nonostante il progetto di Giuliano abbia incontrato una strenua opposizione, testimoniata in primis dal tentativo di obliterazione delle sue riforme da parte delle fonti legislative e storiografiche22, si conoscono alcune sue disposizioni grazie al retore antiocheno Libanio, che fornisce dati interessanti sul recupero di edifici templari precedentemente affidati a privati, e all’imperatore stesso, che ne parla in alcune epistole indirizzate agli abitanti di Bostra e di Edessa23. Significativa risulta inoltre la costituzione del 29 giugno 362 inviata al prefetto del pretorio Secundus, nella quale si impone la priorità del restauro dei templi rispetto alle altre opere pubbliche24.
Il periodo che va dalla morte di Giuliano fino all’ascesa al trono di Teodosio I non registra invece una recrudescenza della legislazione antipagana; soprattutto nella Roma dei Valentiniani, quando all’interno del Senato erano presenti esponenti tradizionalisti assieme a coloro che avevano aderito al cristianesimo, si produssero le condizioni per il recupero del culto tradizionale e per l’attuazione di una politica edilizia orientata al restauro dei templi pagani25.
Con Teodosio I si manifestò con grande chiarezza il duplice carattere della politica antipagana degli imperatori di IV secolo. L’imperatore infatti, accanto a una recrudescenza della legislazione nei confronti di alcune minoranze religiose quali manichei e criptomanichei26, mantenne un atteggiamento di relativa ‘tolleranza’: pur vietando in maniera assoluta il culto pagano attraverso la proibizione dei sacrifici, delle arti magiche e della divinazione, promosse la conservazione degli edifici sacri proclamando come motivazione il rispetto per il loro valore artistico e la loro funzione ludica e folcloristica27. Un esempio è rappresentato dalla famosa costituzione del 382 diretta al dux Osdroenae Palladio, con la quale l’imperatore concedeva il libero accesso al tempio presente in quella provincia dal momento che esso possedeva simulacri degni di ammirazione («simulacra feruntur posita artis pretio»), e inoltre permetteva che continuassero al suo interno le adunate popolari28. Agli anni Novanta risalgono invece Cod. Theod. XVI 10,10, indirizzata al prefetto del pretorio Albinus, nella quale si ribadiva il divieto di sacrificare, di visitare i templi e di ammirare le statue di culto in essi contenute, e Cod. Theod. XVI 10,11, inviata Evagrio praefecto Augustali et Romano comiti Aegypti, nella quale si confermava ai due funzionari d’Egitto il divieto di compiere sacrifici, di entrare nei templi e di adorare le statue di culto («Nulli sacrificandi tribuatur potestas, nemo templa circumeat, nemo delubra suspiciat»29. Entrambe le costituzioni non solo non autorizzavano alcuna distruzione di edifici templari, ma davano per scontato che essi fossero agibili.
Negli stessi anni ad Alessandria si scatenava l’azione del vescovo Teofilo, che mobilitò forze ufficiali e truppe arruolate dal monachesimo per promuovere la clamorosa distruzione del Serapeo30, degli edifici di culto nel territorio e dello stesso centro religioso di Canopo31. Ma non solo. Nel corso del IV secolo, infatti, si crearono le condizioni in base alle quali anche funzionari troppo energici non perdevano occasione per danneggiare e distruggere templi pagani, pur senza specifiche autorizzazioni da parte dell’imperatore. Ancora sotto Teodosio I ricordiamo l’azione di Cinegio, prefetto del pretorio d’Oriente: costui appoggiò infatti Marcello, vescovo di Apamea, nella distruzione del famoso tempio di Zeus lì presente, e fece demolire anche il santuario del distretto di Aulon.
Nonostante il loro rigore e la loro insistenza, le costituzioni di Teodosio I non fecero scomparire del tutto le pratiche pagane, come si evince da Cod. Theod. XVI 10,12, emanata a Costantinopoli nel 392 e indirizzata al prefetto del pretorio Rufino, nella quale è vietato agli uomini di qualsiasi status sociale e in qualsiasi luogo essi si trovino, di compiere sacrifici e adorare gli idoli. Nella specificazione che la multa prevista dalla legge sarebbe stata comminata a coloro che avessero commesso reato «in templis fanisve publicis», si presupponeva, ancora una volta, l’agibilità dei templi32.
Con l’usurpazione di Eugenio, ben accolta da alcuni esponenti dell’aristocrazia senatoria di Roma, si aprì un breve periodo nel quale si verificarono ferventi opere di restauro dei monumenti propri della religione pagana33. A questo proposito, secondo una singolare notizia proveniente dal Curiosum urbis Romae, una descrizione della città di Roma che sembrerebbe risalire, insieme alla Notitia regionum urbis XIV, al tempo di Costantino, alla fine del IV secolo sarebbero stati presenti a Roma ancora più di trecento templi, quando in Oriente invece si iniziava ad attuare la loro distruzione34.
Dopo la sconfitta di Eugenio al Frigido nel 394, si verificò un ulteriore irrigidimento della legislazione imperiale antipagana, come si evince dalla costituzione emanata da Arcadio a Costantinopoli il 7 agosto 395, in cui si annunciava l’inasprimento delle norme contro eretici e pagani («nunc acrius exequendum»35), e da quella del 396 inviata al prefetto del pretorio Cesario, in cui si cancellavano i privilegi precedentemente concessi ai vari tipi di sacerdoti pagani36.
La ‘spartizione’ dell’Impero tra i figli di Teodosio I, Onorio e Arcadio, suggellò un indirizzo differente della legislazione relativa ai templi per la parte occidentale dell’Impero rispetto a quella orientale. Mentre infatti Onorio nel 399, mediante le due costituzioni inviate in Spagna, nelle Gallie e in Africa, continuava a tutelare gli edifici pubblici e proibiva la distruzione dei templi se privi degli oggetti di culto quali statue e altari37, in Oriente Arcadio, con una legge emanata a Damasco nel 399 e indirizzata al prefetto del pretorio Eutichiano, autorizzava il proprio funzionario a passare all’azione diretta distruggendo i templi che potevano essere ancora rimasti nelle campagne, con la sola prudenza che l’operazione venisse effettuata «sine turba ac tumultu»38.
Intanto la situazione in alcune province dell’Impero, a seguito dell’intensificarsi delle distruzioni dei templi pagani, si complicava sempre di più: in Africa, al concilio di Cartagine del 401, venne richiesta la demolizione sistematica dei templi e degli idoli, mentre in Palestina si stava generando una nuova ondata di devastazioni. Il vescovo di Gaza, Porfirio, aveva infatti ottenuto da Arcadio il permesso di chiudere tutti i templi della sua sede episcopale; poiché il funzionario che doveva mettere in pratica il decreto si lasciò corrompere dai pagani risparmiando i templi di Marnas, Porfirio, con l’aiuto di Giovanni Crisostomo, ottenne dall’imperatore un nuovo provvedimento che gli permetteva di distruggere i templi, bruciando egli stesso il Marneion e usando il recinto esterno per innalzarvi una chiesa cristiana39.
L’emanazione di una legge cornice, data a Roma e indirizzata al prefetto del pretorio Curzio il 15 novembre 407, permise di stabilire alcuni punti fondamentali quali la concessione degli edifici dei templi pubblici per usi civici – mentre quelli di proprietà privata andavano distrutti –, unita allo smantellamento degli altari e all’obbligo di togliere qualsiasi statua che fosse oggetto di culto40; nel 423 d.C. Teodosio II dovette intervenire più volte per mitigare le pene previste per i pagani e specialmente per impedire gli abusi e le sopraffazioni nei loro confronti («Iudaeis ac paganis in quiete degentibus […] contra securos»41).
La costituzione, emanata a Costantinopoli da Teodosio II e Valentiniano III il 14 novembre 435 e indirizzata al prefetto del pretorio Isidoro, chiuse la fase delle disposizioni imperiali contro i templi pagani. Con questa disposizione l’imperatore, oltre a ribadire il divieto di compiere sacrifici e ogni altra pratica proibita minacciando addirittura la condanna a morte, ordinava che, qualora fossero rimasti intatti dei templi pagani, questi venissero «distrutti e purificati con l’apposizione di un segno della venerabile religione cristiana»42.
Tale provvedimento, in realtà, non rappresentò l’ultima parola sulla sorte dei santuari pagani in questo periodo; già durante il regno dell’imperatore Marciano, una costituzione del 452 data al prefetto del pretorio Palladio condannava la riapertura illegale di alcuni templi43, mentre nel 458, dopo il saccheggio a opera di Genserico, la Novella 4 di Maggiorano esortava il prefetto dell’Urbe a tutelare i monumenti dotati di valore artistico, tra cui i templi, punendo la distruzione e la presa di possesso di tali beni pagani con una multa di cinquanta libbre d’oro44.
La breve sintesi qui proposta sulla normativa relativa agli edifici di culto pagani mostra come, ancora due secoli dopo l’affermazione della liceità del cristianesimo da parte di Costantino, il problema rappresentato dalla conservazione o meno dei templi non fosse stato ancora risolto. La complessità e la varietà delle situazioni che gli imperatori dovettero affrontare nelle differenti aree dell’Impero fecero sì che provvedimenti diversi fossero stabiliti di volta in volta, a seconda delle circostanze. Tale sorta di contraddittorietà è evidente già a partire da Costantino: nonostante l’immagine di ‘distruttore di templi’ veicolata dalle fonti cristiane, gli interventi dell’imperatore furono diversi a seconda delle differenti esigenze locali.
Prima di addentrarsi nello studio dei singoli interventi attuati da Costantino nei confronti dei templi, è utile definire il profilo giuridico e amministrativo di questi ultimi, per una migliore comprensione delle complesse funzioni della res privata nell’amministrazione dei fundi di pertinenza dei santuari pagani e del loro eventuale trasferimento alle chiese cristiane.
Una premessa importante è costituita dal fatto che i templi erano considerati beni di diritto pubblico, sui quali l’imperatore poteva avere giurisdizione indiretta – in quanto res publica delle città – o diretta, mediante collaboratori periferici. Per questo motivo egli era autorizzato a intervenire sui tesori, sulle statue, sui fundi templorum e sugli edifici stessi con la possibilità di darli in gestione, oppure di devolverne i proventi a soggetti pubblici o infine di attribuirli alle chiese e ai privati per il tramite della res privata. Quest’ultima era un’importante branca dell’amministrazione imperiale, che in età tardoantica costituì lo strumento principale sia della politica antipagana che di quella a favore delle chiese. La natura di bene pubblico dei fundi iuris templorum, come degli stessi edifici dei templi, era stata ribadita, quale premessa necessaria per la consacrazione, in un testo di Ulpiano già al tempo dei Severi45. Un altro elemento da sottolineare è che l’amministrazione dei fundi iuris templorum e degli edifici dei templi era di competenza delle rispettive città, come per i fundi iuris rei publicae veri e propri; nei loro confronti, pertanto, non si deve parlare di confisca, ma di trasferimento da un ambito all’altro dell’amministrazione con il principale intervento della res privata46.
In quanto branca fondamentale dell’amministrazione imperiale, la res privata, conobbe momenti in cui la sua funzione si rese particolarmente evidente, come al tempo di Giuliano l’Apostata, con Graziano e sotto il governo di Onorio e Teodosio II47. L’attribuzione a Costantino del passaggio sistematico della gestione dei fundi iuris templorum dalle città alla res privata, sembra fondata sulla combinazione delle notizie relative alla sua politica antipagana in generale e dei cospicui finanziamenti alle chiese, piuttosto che sulla base di documenti noti48. Sotto Costanzo II l’organizzazione della res privata raggiunse un alto grado di efficienza e diffusione, come testimoniato da una legge del 358, con la quale l’imperatore ordinò al vicario della diocesi d’Africa Martiniano di versare alle città una parte dei vectigalia per il restauro e la manutenzione degli edifici pubblici49.
Con Giuliano l’Apostata iniziò invece la restituzione generalizzata, alle singole città a titolo di possessio, dei fundi templorum che avevano contribuito a formare la res privata; tale politica si inquadrava bene nell’intento dell’imperatore di ripristinare l’autonomia finanziaria delle città e sovvenzionare i culti pagani con adeguate risorse50. Di carattere opposto fu invece la normativa di Valentiniano I e Valente, che prevedeva la restituzione alla res privata dei beni dei templi e di quelli tornati sotto l’amministrazione delle città; lo testimoniano una costituzione inviata a Milano al comes rei privatae Cesario nel 364, nella quale si fa riferimento in maniera specifica ai templi51, e una seconda emanata il 23 dicembre dello stesso anno e indirizzata al prefetto del pretorio Mamertino, nella quale è sottolineato che i beni dei templi erano stati del patrimonio privato dell’imperatore già in precedenza52. A queste si aggiungono due rescritti inviati ai proconsoli d’Asia Eutropio e Festo, datati fra il 370 e il 372 e rinvenuti a Efeso, che specificavano come tutti i fundi propri della res privata dovessero essere amministrati dagli uffici imperiali, mentre le città acquisivano soltanto una parte della rendita53. Le attribuzioni dei beni dei templi alla res privata si fecero sempre più frequenti all’epoca di Teodosio I: lo si evince, in primo luogo, dalla costituzione indirizzata nel 383 al comes rerum privatarum Nebridio, alla quale sembrerebbe ricollegarsi il disposto, inviato allo stesso dignitario e riportato dal Codice Giustinianeo, che si fonda su una definizione di carattere generale: «universi fundi templorum ad rationalium rei privatae sollicitudinem curamque pertineant»54.
Nella legislazione, un punto di riferimento per il funzionamento della res privata si trova nella legge emanata da Onorio e Teodosio II nel 415, per mezzo della quale gli imperatori, in accordo con una precedente costituzione di Graziano, stabilivano che fossero annessi ai domini imperiali (res privata) tutti gli immobili i cui proventi erano destinati al culto pagano («omnia loca, quae sacris error veterum deputavit»), specificando che l’ordine non valeva soltanto per l’Africa, ma per tutte le regioni dell’Impero; che le rogazioni a vantaggio del culto pagano venissero soppresse; e che andavano recuperati tutti i redditi fondiari che un tempo erano stati destinati ad associazioni cultuali (come i frediani o i dendrofori), ora considerate illegali55.
«Quelli ordinavano di adornare i templi in modo magnifico, mentre egli distruggeva dalle fondamenta soprattutto gli edifici che erano tenuti nella più alta considerazione dai superstiziosi»56. Il passo riportato fa parte di una lunga serie di paragoni che Eusebio di Cesarea, all’inizio del terzo libro della Vita Constantini, propone tra la religiosità di Costantino – e quindi i provvedimenti da lui presi per favorire i cristiani – e le efferatezze commesse dai suoi predecessori, che invece li perseguitarono. Attraverso questo espediente retorico, il vescovo intendeva consegnare alla sua generazione e ai posteri un’immagine ben definita del ‘primo imperatore cristiano’, ovvero quella di un ‘distruttore di templi’ e, di converso, quella di un ‘edificatore di chiese’.
Le opere nelle quali soprattutto Eusebio delineò la politica antipagana di Costantino sono il Triakontaeterikos Logos, ovvero l’orazione scritta nel 336 d.C. per i trent’anni di regno dell’imperatore, e la Vita Constantini. La lettura incrociata delle notizie riportate da entrambi i testi mostra che, nonostante il ricorrere di affermazioni di principio che parlano di devastazioni sistematiche e generalizzate di templi e statue pagane (v.C. III 57,1: «osservarono nei fatti l’abbandono in cui giacevano dappertutto i templi e le statue»), in realtà la politica dell’imperatore si snodò in tre punti fondamentali: la chiusura di alcuni templi; la requisizione degli oggetti, dei materiali preziosi e delle statue al loro interno; la distruzione di un numero esiguo di santuari57. Nell’esposizione eusebiana la presenza di un doppio registro tra le enunciazioni di carattere generale e la descrizione precisa dei singoli e concreti casi di intervento imperiale è riferita sia al divieto di sacrificare – in linea di principio rivolto a tutti, ma di fatto obbligatorio solo per quei soggetti citati specificatamente nelle costituzioni58 –, sia al tema della spoliazione, chiusura e distruzione dei templi pagani.
Un’analisi dei singoli casi di intervento da parte di Costantino risulta dunque necessaria per verificare la complessità e il carattere multiforme della politica dell’imperatore nei confronti degli edifici sacri dell’antica religio.
La distruzione di un tempio – sia essa intesa come la sua mera demolizione o come la trasformazione in qualcos’altro – fu un fenomeno articolato e caratterizzato da differenti livelli di percezione dell’atto stesso, che non si riduceva soltanto a un gesto concreto, ma comportava una serie di cambiamenti nelle relazioni religiose e nel sistema politico e sociale tardoantico. A partire, infatti, dal famoso articolo di Friedrich Wilhelm Deichmann pubblicato nel 1939 e contenente una lista di 89 casi di trasformazioni di templi in chiese cristiane, la ricerca si è concentrata su due aspetti in particolare delle vicende che occorsero ai santuari pagani: da una parte, lo studio dei fenomeni di ‘distruzione’, sottolineando la difficoltà di valutare il grado di verità delle fonti letterarie cristiane quando ricordano atti di violenza perpetrati ai danni di luoghi di culto pagani e non escludendo l’ipotesi che gli ‘attentatori’ non colpissero tutto il tempio, ma singoli settori o elementi simbolici dal punto di vista religioso e ideologico come l’altare, le statue e gli ornamenti59; dall’altra, invece, una particolare attenzione è stata rivolta ai casi di trasformazione dei templi pagani in edifici propri della nuova religione, ovvero chiese e martyria60. Questo ambito di indagine ha prodotto risultati interessanti non solo sul riutilizzo di edifici sacri e sull’impatto che la cristianizzazione ebbe nel nuovo assetto topografico delle città e delle campagne, ma anche nello studio di aree specifiche e ben documentate anche a livello archeologico, come ad esempio la Grecia o la Cilicia.
In ordine di trattazione, il primo caso di cui Eusebio parla è quello del tempio di Afrodite (Astarte) in Gerusalemme, al posto del quale fu costruito il complesso edilizio del Santo Sepolcro61. Tale notizia fornisce al vescovo l’occasione per un’esposizione dettagliata della rimozione degli edifici di culto precedenti; la narrazione prende infatti le mosse dal racconto dell’occultamento della zona del sepolcro di Cristo da parte dei pagani, i quali vi edificarono un tempio in onore della ‘lussuriosa’ Afrodite. Questo rimase intatto fino all’epoca di Costantino, quando l’imperatore, ispirato da Dio, decise di ‘ripulire’ il luogo procedendo alla distruzione delle strutture pagane e delle statue al loro interno, e promuovendo la costruzione di un oikos eukterios. La descrizione della chiesa del Santo Sepolcro fornita da Eusebio, pur non essendo esaustiva, rappresenta una delle poche testimonianze coeve all’epoca in cui essa fu costruita, oltre a quella del pellegrino di Bordeaux che visitò il sito nel 333 d.C. Al di là dell’enfasi eusebiana nel presentare Costantino come il prescelto investito da Dio del compito di obliterare il paganesimo in qualsiasi forma esso si fosse presentato, dal racconto emerge un elemento importante della politica costantiniana, ovvero la consacrazione di Gerusalemme – e in generale dei luoghi santi della Palestina – come ‘capitale cristiana’; ciò avvenne attraverso la mobilitazione di risorse economiche e tecniche per un importante programma edilizio, che prevedeva non solo la costruzione del Santo Sepolcro, ma anche quella di alcune chiese a Betlemme e il ritrovamento (leggendario) delle reliquie della croce da parte della madre Elena. Di seguito al racconto del Santo Sepolcro, il vescovo di Cesarea continua con l’enumerazione delle chiese edificate da Costantino: a Costantinopoli, anche se rimane piuttosto vago e non fornisce alcun nome per l’identificazione delle fondazioni; a Nicomedia, che era stata rasa al suolo nel 303 per ordine di Diocleziano; la grande basilica ad Antiochia; e infine la chiesa di Mambre, costruita sul luogo dell’apparizione di Dio ad Abramo. Come nel caso di Gerusalemme anche per quello di Mambre è riportata la lettera con la quale l’imperatore avvertiva i vescovi della Palestina di aver ordinato al comes Acacio di liberare il luogo da ogni statua di culto e dall’ara62.
Il secondo caso riguarda il tempio di Afrodite ad Afaca, nel Libano, all’interno del quale, stando alla testimonianza di Eusebio, veniva praticata la prostituzione sacra, essendo il santuario «una vera e propria scuola di perversione per chiunque fosse dissoluto»63. La notizia è riportata non solo nella Vita Constantini, ma anche nel Triakontaeterikos logos: in entrambi i testi si fa riferimento al fatto che il tempio si trovava distante dai centri abitati e dalle strade – dove, secondo Eusebio, avrebbe avuto solo valore di ornamento, mentre la sua posizione defilata ne aumentava il grado di pericolosità –, e che per la distruzione del santuario Costantino inviò un contingente militare, che rase al suolo l’edificio dalle fondamenta.
L’esempio successivo è quello del tempio di Asclepio in Aigai di Cilicia: il santuario, legato alla figura di Apollonio di Tiana, come anche i due più famosi di Pergamo ed Epidauro, oltre a essere un luogo di culto era una sorta di sanatorio rinomato per le cure miracolose. I malati che si recavano al santuario per ottenere la guarigione spesso ricorrevano alla pratica dell’incubazione, che consisteva nell’addormentarsi nel tempio, o nelle sue vicinanze, affinché la divinità si mostrasse in sogno e suggerisse una cura. Anche in questa circostanza, Costantino ordinò all’esercito di distruggere il tempio dalle fondamenta per liberare il luogo da un corruttore di anime che per molto tempo aveva messo in atto i suoi inganni, definito dal vescovo né un demone né un dio64. Nonostante la dichiarazione di Eusebio sulla demolizione a fundamentis della struttura, una fonte tarda riporta che il tempio di Asclepio con molta probabilità sarebbe rimasto attivo almeno fino al tempo di Giuliano65. Siffatta notizia risulta pertanto esplicativa del grado di retoricità delle fonti cristiane che parlano di fenomeni di distruzione di templi pagani: se del tempio di Asclepio in Cilicia si ebbe notizia fino al tempo dell’Apostata, è probabile che l’intervento di Costantino interessasse soltanto una parte della struttura, che venne obliterata, mentre il resto continuò a sopravvivere ancora per qualche tempo.
L’ultimo esempio che i testi eusebiani tramandano riguarda invece il tempio di Afrodite nei pressi di Heliopolis, in Fenicia. Anche qui, secondo il racconto di Eusebio, veniva praticata la prostituzione sacra: chi in nome di Afrodite era dedito al piacere e alla dissolutezza, consentiva alla propria moglie e alle proprie figlie di prostituirsi66. Rispetto agli altri casi riportati, in questo non si parla di demolizione del tempio, ma della costruzione di una grande e magnifica chiesa; dal momento che Heliopolis era un importante centro pagano e tale rimase a lungo, l’intento del vescovo sembrerebbe quello di sottolineare come Costantino fosse riuscito a ottenere concretamente, e per la prima volta, che una città di pagani superstiziosi ricevesse l’onore di presbiteri e diaconi cristiani al suo interno.
«L’imperatore, quale vicario del Grande Re, si rivolse contro coloro che erano stati vinti, spogliando questi che erano morti e distrutti da tempo e distribuendo generosamente le spoglie ai soldati del Vincitore»67. Con tali enfatiche parole Eusebio promuoveva l’immagine di Costantino come «delegato del Grande Re» che, dopo aver sconfitto gli antichi dei, poteva procedere alla spartizione delle spoglie dei templi tra i soldati del Dio vincitore. Si introduce in questa maniera uno degli aspetti fondamentali della politica religiosa di Costantino, ovvero quello finanziario legato alle prime ‘confische’ dei beni mobili e immobili a danno dei templi pagani. Infatti, mentre il vescovo di Cesarea, attraverso affermazioni di principio, sembra concentrare l’attenzione solo sull’attività di demolizione degli edifici pagani da parte dell’imperatore, in realtà la lettura delle sue opere suggerisce che il punto focale della politica di Costantino nei confronti dei templi fu la spoliazione sistematica dei loro ornamenti e delle statue di culto.
In alcuni passi del Triakontaeterikos Logos (8,1-7) Eusebio presenta la requisizione degli idoli d’oro e d’argento dei templi come necessaria per rimuovere la venerazione e il timore nei loro confronti, e descrive dettagliatamente le procedure adottate da Costantino: esse prevedevano l’invio di una delegazione di due persone di fiducia dell’imperatore allo scopo di redigere un inventario di tutte le statue di culto presenti nei templi, con l’ordine di spogliarle di tutto ciò che di valore conservavano, di fondere i materiali utili e di confiscare le statue di bronzo68. L’intero brano si ritrova tale e quale in Vita Constantini (III 54,4-3; 55,5), con la differenza che in questo caso l’attenzione è posta su Costantinopoli e sui suoi simulacri: il vescovo di Cesarea, per giustificare il trasferimento di questi dalle varie zone dell’Impero alla capitale sul Bosforo, voluto da Costantino, insiste nel considerarli alla stregua di ‘fantocci’, la cui unica prerogativa è quella di provocare il riso e il divertimento degli spettatori69. In realtà studi recenti stanno dimostrando che né la scelta degli oggetti d’arte recuperati nelle province, né la loro collocazione in determinati spazi della città furono casuali70.
La confisca massiccia di oro e di argento riferita da Eusebio fu notata anche dall’Anonimo del De rebus bellicis, il quale ne parla all’interno di una riflessione economica di ampie dimensioni. Due sono gli elementi fondamentali che emergono dalla lettura del testo: in primo luogo l’oro e l’argento venivano presi dai templi; in secondo luogo essi erano destinati alla monetazione, senza alcun riferimento alla distruzione delle statue o dei templi stessi71.
Il tema della depredazione dei santuari pagani da parte di Costantino torna ricorrente anche nelle fonti pagane e cristiane successive a Eusebio. A pochi anni di distanza dal De errore profanarum religionum, in cui Firmico Materno esortava gli imperatori a confiscare i beni dei templi, Giuliano l’Apostata scrisse il Discorso contro il cinico Eraclio (362 d.C.), nel quale, oltre a giustificare il proprio programma di restaurazione religiosa del paganesimo, affermava che «i templi aviti furono messi a sacco dai figli dopo che il padre li aveva disprezzati e spogliati dei doni che vi avevano posto molti altri»72. Pur avendo disprezzato i templi depredandoli, dunque, Costantino non li distrusse, come invece fecero i suoi figli a partire da Costanzo II. L’eco di tali considerazioni si trova ripetutamente anche in Libanio, il quale ripropone ambedue gli aspetti di Costantino, definito come ‘colui che ha spogliato i templi’ in contrapposizione a Costanzo II, che ne è stato il reale ‘distruttore’73.
Tale topica, come anticipato, fu registrata anche da autori cristiani come Rufino di Aquileia – che segnala una cesura tra la politica di Costantino, improntata al disprezzo della religio tradizionale, e quella di Costanzo II, volta alla distruzione di oggetti e luoghi di culto – e dagli storici ecclesiastici Socrate, Sozomeno e Teodoreto74. Mentre Socrate svolge il tema della politica antipagana di Costantino adducendo argomentazioni di carattere apologetico (ad esempio la contestazione del culto di Serapide e la distruzione dei templi a Heliopolis, Aphaca e in Cilicia), senza parlare dell’asportazione dei tesori dai templi, Sozomeno, viceversa, tralascia le argomentazioni di natura ideologica per concentrarsi sulla descrizione dettagliata della ‘confisca’ dei beni dei templi. Di carattere differente è invece l’informazione di Teodoreto: costui, infatti, non riferisce i dati delle spoliazioni, ma pone l’accento sul fatto che Costantino non può essere ricordato come ‘distruttore di templi’, dal momento che «egli non abbatté i loro templi, ordinò solo che fossero inaccessibili».
Nella gamma degli interventi attuati da Costantino nei confronti dei templi, il caso di Antiochia risulta significativo, in quanto costituisce uno dei pochi esempi di adattamento dei santuari pagani in edifici a uso civico, e non religioso come chiese e martyria. Da Malala, profondo conoscitore della storia di Antiochia, dei suoi monumenti e della sua ornamentazione, si apprende infatti che nel 335 d.C. il tempio delle Muse, risalente con molta probabilità alla fase antica della città e collocato al centro di essa, divenne il praetorium del primo comes Orientis, mentre due anni più tardi il tempio di Hermes fu trasformato nella cosiddetta basilica di Rufino75.
Casi simili si incontrano, ad esempio, a Costantinopoli, anche se testimoniati in epoche successive: sempre Malala informa che i templi situati sull’acropoli dell’antica Bisanzio, all’epoca di Teodosio I, non solo rimasero intatti, ma subirono un processo di trasformazione che li rese edifici a uso civico e non religioso: più precisamente, quello di Apollo divenne un’aulé oikematon donata alla chiesa di Santa Sofia, quello di Artemide una sala per il gioco dei dadi e infine quello di Afrodite una rimessa per il carro del prefetto del pretorio, con accanto un ospizio per le prostitute povere76. Al tempo di Teodosio II una costituzione del 425 (Cod. Theod. XV 1,53) ordinava invece che fossero concesse ulteriori ‘sale’ ai ristoranti che già si affollavano nella zona del Capitolium. L’edificio infatti, dopo aver perso la sua funzione religiosa, diventò per un periodo di tempo sede dell’università di Costantinopoli, e i vani adiacenti furono appunto occupati da popinae. In questo caso, come in quello di Antiochia, si trattava con molta probabilità di trasformazioni che non miravano a disprezzare il tempio in quanto elemento rappresentativo del paganesimo, ma rispondevano a esigenze sia di carattere pratico – dato che si preferiva conservare, anche se per un utilizzo diverso, le strutture esistenti – sia di risistemazione consapevole degli spazi allo scopo di non alterare in maniera traumatica la percezione che i cittadini avevano della topografia e della tradizione che gli edifici stessi avevano incarnato nel corso del tempo.
L’ultima parte di questa voce prende in considerazione l’atteggiamento che Costantino ebbe verso i templi presenti nella città che da lui prese il nome, Costantinopoli, inaugurata l’11 maggio 330 d.C. Nonostante la propaganda cristiana si fosse impegnata a presentare la nuova capitale d’Oriente come philochristos polis – ovvero, stando a Eusebio, una città dedicata al Dio dei martiri, in quanto l’imperatore vi aveva costruito martyria e chiese dentro e fuori le mura77 –, in realtà gli atti compiuti da Costantino al momento della sua fondazione sembrerebbero riflettere una situazione differente.
Per quanto riguarda infatti i templi di Apollo, di Artemide e di Afrodite situati sull’acropoli, Malala informa che questi, per ordine di Costantino, divennero achrematistoi, ovvero furono privati delle loro fonti di reddito78. Tale provvedimento richiama alla memoria ciò che Libanio affermava nella Pro templis (30,6): «egli [scil. Costantino] utilizzò le ricchezze dei templi per costruire la città alla quale consacrò tutto il suo zelo, ma non apportò alcun mutamento al culto ufficiale; nei templi regnava la povertà, ma era facile vedere che tutto il resto si svolgeva normalmente», confermando che gli antichi santuari continuavano a funzionare anche se in modo rallentato, dal momento che non ricevevano più le sovvenzioni ufficiali ed erano lasciati all’iniziativa privata.
Ma Costantino non si limitò a mantenere intatti gli antichi templi della Bisanzio pagana: egli, infatti, promosse la costruzione di un Capitolium «ad imitazione di quello di Roma» e di un tempio della Tyche presso la basilica cittadina79. Per il primo caso, quasi tutti gli studiosi concordano nell’affermare l’origine costantiniana della fondazione e il suo carattere pagano: nel 407 d.C., infatti, l’edificio fu esaugurato con l’apposizione di una croce, e successivamente fu utilizzato come sede dell’università di Costantinopoli. Non si è tuttavia sottolineato a sufficienza che, con la fondazione di un tempio in onore di Giove-Giunone-Minerva, l’imperatore si poneva in linea di continuità simbolica con la tradizione pagana romana, così da poter collegare idealmente la nuova capitale con Roma, perpetuando in Oriente la romanità urbica.
È quanto conferma la ricostruzione delle vicende del tempio in onore di Tyche nei pressi della basilica cittadina, per il quale la ricerca ha prodotto esiti anche più interessanti per comprendere il tessuto concettuale del programma urbanistico costantiniano. Pur risalendo anche questo tempio alla fase leggendaria di Bisanzio, fu Costantino a realizzarlo nella forma tramandata da Zosimo, ovvero ponendovi all’interno una statua di Rea presa da Cizico e una di Fortuna fatta venire da Roma. Nel primo caso si trattava di una statua molto antica – che la tradizione voleva fosse stata realizzata dagli Argonauti secondo lo schema della potnia theron, ovvero con il polos in testa e i leoni ai lati della figura –, che Costantino fece modificare togliendo i due leoni e ruotando i palmi delle mani verso l’alto. Zosimo interpretò l’intervento come volontà di cristianizzare il simulacro trasformando Rea-Cibele in una Madonna; con molta probabilità, però, lo storico bizantino fu spinto a pensare che Costantino avesse voluto trasformare Rea in Madonna orante a causa della diffusione del culto della Theotokos nel momento in cui egli scriveva: nel VI secolo era un argomento di grande attualità; nel 330 d.C., tuttavia, era ancora del tutto sconosciuto80. L’operazione sulla statua di Rea-Cibele, viceversa, mostra l’attaccamento di Costantino alle strutture cultuali e religiose tradizionali.
La casistica finora esaminata ha mostrato non solo che la politica di disincentivazione del paganesimo da parte di Costantino non si caratterizzò per la chiusura dei templi ma per i provvedimenti emanati a danno delle loro risorse finanziarie e del loro prestigio, ma anche – e soprattutto – che l’imperatore agì nel pieno svolgimento della sua funzione di garante delle religioni licitae dell’Impero. La varietà degli interventi, come si è visto, si può ricondurre ai casi specifici che egli era stato chiamato a risolvere.
1 Chrys., hom. in Ps. 109,5; Thdt., h.e. I 2; V 21.
2 Cfr. ad es. Lib., Or. 30,9: «i templi infatti, o imperatore, sono l’anima delle campagne, i primi edifici in esse innalzati e attraverso molte generazioni affidati a noi che ora viviamo».
3 La varietà del fenomeno della progressiva obliterazione del paganesimo, in relazione alla sorte dei templi pagani, è stata considerata dagli studiosi sotto molteplici punti di vista. Si veda l’articolo di R. Klein, Distruzioni di templi nella tarda antichità. Un problema politico, culturale e sociale, in Il Tardo Impero. Aspetti e significati nei suoi riflessi giuridici, Convegno internazionale in onore di Arnaldo Biscardi (Spello, Perugia, Gubbio 7-10 ottobre 1991), Napoli 1995, pp. 127-152, che offre un quadro sintetico della storia della distruzione dei templi nella tarda antichità articolato negli ambiti politico, culturale e sociale, mentre un’analisi complessiva della sorte dei templi da Costantino a Teodosio II si trova in G. Bonamente, Politica antipagana e sorte dei templi da Costantino a Teodosio II, in Trent’anni di studi sulla Tarda Antichità: bilanci e prospettive, a cura di U. Criscuolo, L. De Giovanni, Napoli 2009, pp. 25-59; il profilo giuridico della ‘confisca’ dei beni e degli edifici è stato invece efficacemente riformulato da T. Spagnuolo Vigorita, Konfiskation, in RAC, XXI, cc. 355-416. L’importanza dello studio delle trasformazioni dei templi in chiese o martyria è stato proposto, con nuovi approcci al problema, da S. Emmel, U. Gotter, J. Hahn, “From Temple to Church”: Analysing a Late Antique Phenomenon of Transformation, in From Temple to Church. Destruction and Renewal of Local Cultic Topography in Late Antiquity, ed. by S. Emmel, U. Gotter, J. Hahn, Leiden-Boston 2008, pp. 1-22, mentre l’interesse nei confronti delle «negative evidences» – ovvero i casi di ‘trasformazione’ di templi pagani in edifici destinati a un uso differente rispetto a quello religioso – è stato sollecitato da J.B. Word-Perkins, Reconfiguring Sacred Space: From Pagan Shrines to Christian Churches, in Die spätantike Stadt und ihre Christianisierung, hrsg. von G. Brands, H.-G. Severin, Wiesbaden 2003, pp. 285-290. Un bilancio che tiene conto dei più tardi fenomeni anche in Gallia in R. Lizzi Testa, L’Église, les domini, les païens rustici: quelques stratégies pour la christianisation de l’Occident (IVe-VIe siècle), in Le problème de la christianisation du monde antique, ed. by H. Inglebert, B. Dumézil, S. Destephen, Paris 2010, pp. 77-113.
4 Con l’espressione ‘legislazione antipagana’ si intende l’insieme delle norme attraverso le quali gli imperatori, dopo la proclamazione della liceità del cristianesimo, hanno cercato di arginare e successivamente estirpare il paganesimo; esse erano dunque rivolte contro la magia, la divinazione, i sacrifici e i templi pagani intesi come insieme di beni mobili (statue, altari, oggetti preziosi) e immobili (l’edificio stesso).
5 Sull’aruspicina cfr. Cod. Theod. IX, 16,1-2 e gli studi di L. De Giovanni, L’imperatore Costantino e il mondo pagano, Napoli 2003, e R. Delmaire, La legislation sur les sacrifices au IVe siècle: un essai d’interprétation, in Revue historique de droit français et étranger, 82,3 (2004), pp. 319-334. Sulla chiusura della scuola di Atene cfr. J. Gaudemet, La législation anti-païenne de Constantin à Justinien, in Cristianesimo nella Storia, 11 (1990), pp. 449-468.
6 Si ritrova lo stesso titolo anche in una rubrica del Codice Giustinianeo (Cod. Iust. I 11) contenente dieci costituzioni, sei delle quali presenti già nel Codice Teodosiano; pertanto il numero complessivo delle costituzioni relative a questo capitolo è quello di ventinove provvedimenti legislativi. Studi specifici sul XVI libro del Codice Teodosiano sono quelli di L. De Giovanni, Chiesa e stato nel Codice Teodosiano. Saggio sul libro XVI, Napoli 1980, e di R. Delmaire, Le lois religieuses des empereurs romains de Constantin à Théodose II (312-438), I, Code Théodosien XVI, Paris 2005.
7 Cod. Theod. XVI 10,1 (17 dicembre 320).
8 Cod. Theod. XVI 10,2 (341 d.C.); cfr. G. Bonamente, Sviluppo e discontinuità nella legislazione antipagana: da Costantino il Grande ai figli, in Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo d.C.), a cura di G. Bonamente, R. Lizzi Testa, Bari 2010, pp. 61-76, in partic. p. 69, e ora R. Lizzi Testa, Costantino come modello, nelle fonti legislative e patristiche, in Costantino prima e dopo Costantino, Convegno Internazionale (Perugia, Spello 27-30 aprile 2011), a cura di G. Bonamente, N. Lenski, R. Lizzi Testa, in corso di stampa.
9 Hier., chron. a. Abr. 331: edicto Constantini gentilium templa subversa sunt. Il lemma è preceduto dalla notizia della dedica di Costantinopoli («dedicatur Constantinopolis omnium paene urbium nuditate») ed è seguito da quella della vittoria sui goti. La notizia è quindi ripresa da Oros., hist. VII 28,28: «Tum deinde primus Constantinus iusto ordine et pio vicem vertit: edicto siquidem statuit citra ullam hominum caedem paganorum templa claudi».
10 Eus., v.C. II 56. I contenuti della Lettera ai Provinciali d’Oriente richiamano alla mente un passo di Lattanzio (Lact., mort. pers. 48,2-6), che già qualche anno prima del 324 parlava della concessione, da parte di Costantino, della possibilità di professare il proprio culto in maniera libera e incondizionata non solo ai cristiani, ma anche ai rappresentanti delle altre religioni.
11 CIL XI 5265 = ILS 705. Numerosi sono stati gli studi effettuati sul rescritto nel tentativo di risolvere i problemi interpretativi posti dal documento. Tra i tanti ricordiamo J. Gascou, Le rescrit d’Hispellum, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité, 79 (1967), pp. 609-659; L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano. Studi di politica e legislazione, Napoli 1980, pp. 132-149; K. Tabata, The Date and Setting of the Constantinian Inscription of Hispellum, in Studi Classici e Orientali, 45 (1995[1997]), pp. 369-410 e 378-381; F. Coarelli, Il rescritto di Spello e il santuario federale degli Umbri, in Umbria Cristiana. Dalla diffusione del culto al culto dei santi (secc. IV-X), Atti del XV Congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo (Spoleto 23-28 ottobre 2000), Spoleto 2001, pp. 39-51. Da ultimo il contributo di G.A. Cecconi, Il rescritto di Spello: prospettive recenti, in Costantino prima e dopo Costantino, cit., al quale si rimanda per le nuove linee interpretative e una dettagliata bibliografia precedente. Si veda inoltre il contributo di G.L. Gregori e A. Filippini in questa stessa opera.
12 Cod. Theod. XVI 10,4 (346 d.C.): «Placuit omnibus locis atque urbibus universis claudi protinus templa et accessu vetito omnibus licentiam delinquendi perditis abnegari. Volumus etiam cunctos sacrificiis abstinere». Mentre la datazione al 346 si ricava dalla subscriptio, gli anni 353 e 354 sono variamente proposti dagli studiosi; cfr. P.O. Cuneo, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1997, pp. 152 e 308.
13 G. Bonamente, Prefetti del Pretorio, vescovi e governatori all’opera nell’applicare la legislazione anti-pagana, in Poteri centrali e poteri periferici nella tarda antichità. Confronti conflitti, Atti della giornata di studio (Messina 5 settembre 2006), a cura di L. Di Paola, D. Minutoli, Firenze 2007, pp. 13-34.
14 Tra gli studi che hanno ricondotto gli atti di illegittimità e violenza compiuti nelle varie comunità alle carenze normative, si veda J. Hahn, Gewalt und religiöser Konflikt. Studien zu den Auseinandersetzungen zwischen Christen, Heiden und Juden im Osten des römischen Reiches (von Konstantin bis Theodosius II), Berlin 2004.
15 Al tempo di Giuliano si crearono le condizioni perché il vescovo Giorgio venisse linciato: Iul., Ep. 60; Amm., XXII 11,2; Socr., h.e. III 2; Soz., h.e V 10,9; Thdt., h.e. III 18,1. Cfr. F.W. Deichmann, Frühchristliche Kirchen in antiken Heiligtümern, in Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts, 54 (1939), pp. 105-136, in partic. 110.
16 Gr. Naz., or. 4,88-91; Lib., Ep. 819,6; Thdt., h.e. III 7,6-10; Soz., h.e V 4; 10; 11; Chron. Pasch. a.m. 362 (PG 92, c. 740); Bibliotheca Hagiographica Graeca 2248 e 2250. Cfr. F.W. Deichmann, Frühchristliche Kirchen, cit., p. 115.
17 Symm., rel. 3,3-7; Ambr., epist. 18,32. Lo stesso Simmaco, tuttavia, ricorda l’ammirazione che il sovrano manifestò verso gli edifici dell’antico culto e il fatto che riempì con nuovi membri tutti i posti vacanti nei collegia sacerdotali.
18 Viceversa, Libanio (Or. 30,38) riportava questo di Costanzo II: «egli diede in dono i templi ai suoi cortigiani, come se fossero stati cavalli o schiavi o cani o coppe d’oro, doni non convenienti né per chi li faceva né per chi veniva a riceverli».
19 Cod. Theod. XVI 10,3 (1 novembre 346): «tamen volumus, ut aedes templorum, quae extra muros sunt positae, intactae incorruptaeque consistant».
20 Cfr. il paragrafo successivo, Ruolo e funzione della res privata.
21 Amm., XXV 4,15.
22 A questo proposito soltanto l’autore della Historia acephala (3,1) riporta un editto, emanato ad Alessandria il 4 febbraio 362, per mezzo del quale l’imperatore ordinava che fossero restituiti ai templi pagani i beni e le statue che erano stati sottratti ad essi: «iubebatur reddi idolis et neochoris et publicae rationi quae praeteritis temporibus illis ablata sunt». Cfr. Lib., Or. 18; 129; Amm. 22,5,2; Soz., h.e. V 3,1; Zonar. XIII 12,31. Per un esame dei singoli casi (tempio di Helios a Emesa, templi di Gaza, Apamea e Hierapolis) cfr. J. Arce, Reconstrucciones de templos paganos en época del emperador Juliano (361-363 d.C.), in Rivista Storica dell’Antichità, 5 (1975), pp. 201-215; G. Bonamente, Le città nella politica di Giuliano l’Apostata, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata, 16 (1983), pp. 37-101, in partic. 43 segg.
23 Lib., Ep. 724 e 828; Iul., Ep. 114 e 115.
24 Cod. Theod. XV 1,3 (29 giugno 362): «Provinciarum iudices commoneri praecipimus, ut nihil se novi operis ordinare ante debere cognoscant, quam ea conpleverint, quae a decessoribus inchoata sunt, exceptis dumtaxat templorum aedificationibus».
25 Sul governo di Roma e la politica edilizia condotta al tempo dei Valentiniani cfr. R. Lizzi Testa, Paganesimo politico e politica edilizia: la ‘cura Urbis’ nella tarda antichità, in Centralismo e autonomie nella tarda antichità, XIII Convegno internazionale in memoria di André Chastagnol (Perugia 1-4 ottobre 1997), Napoli 2001, pp. 671-707; R. Lizzi Testa, Senatori, popolo, papi. Il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004.
26 Cod. Theod. XVI 5,7 (8 maggio 381); Cod. Theod. XVI 5,9 (31 marzo 382); Cod. Theod. XVI 5,11 (25 luglio 383).
27 Cod. Theod. XVI 10,7 (21 dicembre 381) contro i sacrifici diurni e notturni; Cod. Theod. XVI 10,9 (25 maggio 385) che proibiva i sacrifici e l’immolazione di vittime a scopo divinatorio.
28 Cod. Theod. XVI 10,8 (30 novembre 382). La legge esprimeva chiaramente il senso dell’ideologia ufficiale dell’Impero, volta alla salvaguardia del patrimonio artistico ereditato dal passato, purché purificato e scevro di qualsiasi significato religioso pagano. Cfr. C. Lepelley, Le musée des statues divines. La volonté de sauvegarder le patrimoine artistique païen à l’époque théodosienne, in Cahiers Archéologiques, 42 (1994), pp. 5-15.
29 Cod. Theod. XVI 10,10 (24 febbraio 391); Cod. Theod. XVI 10,11 (16 giugno 391).
30 Per la datazione al 392 d.C., anziché al 391, cfr. J. Hahn, Vestustus error extinctus est. Wann wurde das Serapeion von Alexandria zerstört?, in Historia: Zeitschrift für Alte Geschichte, 55 (2006), pp. 368-383 (con bibliografia precedente). Cfr. Hier., epist. 107,2; Rufin., h.e. XI 23; 30; Eun., VS 6,11,1-5; Socr., hist. V 16,1; 7; Soz., h.e. VII 15,7-10; Thdt., h.e. V 22,3.
31 Rufin., hist. XI 28; Eun., VS 6,11. Cfr. J. Hahn, Gewalt und religiöser Konflikt, cit., p. 101. È stato ipotizzato, in base a una notizia riportata da Socr., h.e. V 16,1, che Cod. Theod. XVI 10,11 fosse il pròstagma inviato dall’imperatore al vescovo Teofilo, con il quale lo autorizzava a procedere contro i templi di Alessandria; cfr. R.M. Errington, Christian Accounts of the Religious Legislation of Theodosius I, in Klio, 79,2 (1997), pp. 398-443. In realtà la ratio specifica della costituzione non contemplava la distruzione dei templa, che peraltro era previsto fossero frequentati da un iudex; cfr. G. Bonamente, Politica antipagana, cit., p. 43.
32 Cod. Theod. XVI 10,12 (8 novembre 392).
33 I restauri dei monumenti legati alla religione pagana furono favoriti dall’elevazione al consolato, per il 394 d.C., di Virio Nicomaco Flaviano e dalla nomina del figlio alla praefectura urbi; cfr. G. Bonamente, Politica antipagana, cit., p. 54.
34 R. Klein, Distruzioni di templi, cit., p. 145.
35 Cod. Theod. XVI 10,13 (7 agosto 395).
36 Cod. Theod. XVI 10,14 (7 dicembre 396).
37 Si tratta di Cod. Theod. XVI 10,15 (29 gennaio 399), data a Ravenna e indirizzata a Macrobio, vicarius del prefetto del pretorio della diocesi Hispaniarum, e a Procliano, vicarius Quinque provinciarum: «Sicut sacrificia prohibemus, ita volumus publicorum operum ornamenta servari»; e di Cod. Theod. XVI 10,18 (20 agosto 399), data a Padova e indirizzata al proconsole d’Africa Apollodoro: «Aedes inlicitis rebus vacuas nostrarum beneficio sanctionum ne quis conetur evertere. Decernimus enim, ut aedificiorum quidem sit integer status». La volontà da parte di Onorio di salvaguardare gli edifici pagani in virtù del loro valore artistico, almeno in Africa, si conciliava bene con l’intenzione di porre un freno alle pressanti sollecitazioni dei cristiani più fanatici e radicali come i conti Giovino e Gaudenzio che, proprio nel 399, imperversarono nella zona a nord del continente demolendo e chiudendo un gran numero di templi; cfr. E. Testa, Legislazione contro il paganesimo e cristianizzazione dei templi (sec. IV-VI), in Liber Annus, 41 (1991), pp. 311-326, in partic. 317.
38 Cod. Theod. XVI 10, 16 (10 luglio 399): «Si qua in agris templa sunt, sine turba ac tumultu diruantur. His enim deiectis atque sublatis omnis superstitioni materia consumetur». Una simile precauzione indurrebbe a pensare che vi fossero ancora timori da parte del potere nei confronti di un paganesimo rurale forte e pronto a reagire.
39 Marc. Diac., v. Porph. 26; 48; Soz, h.e. VII 15,14-15. Cfr. F.W. Deichmann, Frühchristliche Kirchen, cit., p. 118; E. Testa, Legislazione contro il paganesimo, cit., p. 318.
40 Cod. Theod. XVI 10,19 (15 novembre 407).
41 Cod. Theod. XVI 10,24 (8 giugno 423). È interessante notare che le leggi del 423 consideravano il paganesimo come un fenomeno di residuo, sostenendo, in maniera retorica, che non vi fossero più esponenti dell’antica religio in tutto l’Impero, ma in realtà attestandone in questo modo la persistenza; cfr. Cod. Theod. XVI 10,22 (9 aprile 423): «Paganos qui supersunt, quamquam iam nullos esse credamus»; Cod. Theod. XVI 10,23 (8 giugno 423): «Paganos qui supersunt».
42 Cod. Theod. XVI 10,25 (14 novembre 435): «cunctaque eorum fana templa delubra, si qua etiam nunc restant integra, praecepto magistratuum destrui conlocationeque venerandae Christianae religionis signi expiari praecipimus».
43 Cod. Iust. I 11,7 (452): «Nemo venerantis adorantisque animo delubra, quae olim iam clausa sunt, reseret: absit a saeculo nostro […] redimiri sertis templorum impios postes».
44 Novell. Iust. 4 (11 luglio 458).
45 Dig. I 8,9,1-2: «Sacra loca ea sunt, quae publice sunt dedicata, sive in civitate sint sive in agro. Sciendum est locum publicum tunc sacrum fieri posse, cum princeps eum dedicavit». Anche il retore antiocheno Libanio (Or. 30,43) ricordava che «i templi sono dell’imperatore».
46 G. Bonamente, Politica antipagana, cit., pp. 45-46.
47 Tra gli studi sulla funzione e l’evoluzione della res privata si vedano F. Millar, The Privata from Diocletian to Theodosius: Documentary Evidences, in Imperial Revenue, Expenditure and Monetary Policy in the Fourth Century A.D. The Fifth Oxford Symposium on Coinage and Monetary History, ed. by C.E. King, London 1980, pp. 125-140; R. Delmaire, Largesses sacrées et res privata. L’aerarium impérial et son administration du IVe au VIe siècle, Paris 1989.
48 Eus., v.C. IV 28; Soz., h.e. I 8,10; Thdt., h.e. I 11,2; Cassiod., hist. I 9,10. Cfr. G. Bonamente, Politica antipagana, cit., p. 38.
49 Cod. Theod. IV 13,5 (14 luglio 358); Amm., XXV 4,15: «vectigalia civitatibus restituta cum fundis, absque his quos velut iure vendidere praeteritae potestates». Cfr. A. Chastagnol, La législation sur les bien des villes au IVe siècle à la lumière d’une inscription d’Éphèse, in Aspects de l’Antiquité tardive, Roma 1994, pp. 143-170. Dalla disposizione di Costanzo II si potrebbe dedurre che i beni di pertinenza della res publica fossero già gestiti dall’amministrazione centrale.
50 R. Delmaire, Largesses sacrées, cit., pp. 645-657.
51 Cod. Theod. X 1,8 (4 febbraio 364): «Universa loca vel praedia, quae nunc in iure templorum sunt quaeque a diversis principibus vendita vel donata sunt retracta, ei patrimonio, quod privatum nostrum est, placuit adgregari».
52 Cod. Theod. V 13,3 (23 dicembre 364): «Universa, quae ex patrimonio nostro per arbitrium divae memoriae Iuliani in possessionem sunt translata templorum, sollecitudine sinceritatis tuae cum omni iure ad rem privatam nostram redire mandamus».
53 AE 1906, 30-31.
54 Cod. Theod. X 3,4 (18 gennaio 383) e Cod. Iust. XI 66,4.
55 Cod. Theod. XVI 10,20 (30 agosto 415). Cfr. L. De Giovanni, Chiesa e stato, cit., pp. 149 seg.
56 Eus., v.C. III 1,5.
57 Le parti delle opere prese in considerazione sono Eus., l.C. 7-8 e v.C. III 54-58.
58 Eus., v.C. II 44 (divieto di sacrificare per i governatori di provincia e i prefetti del pretorio); II 45,1 (disposizione contro i sacrifici); III 48,2 (divieto di compiere sacrifici a Costantinopoli); IV 23 (obbligo imposto ai governatori di provincia di rispettare la domenica e le festività cristiane); IV 25,1 (divieto generale contro i sacrifici); cfr. G. Bonamente, Politica antipagana, cit., p. 35.
59 Sulla difficoltà da parte degli archeologi di comprendere, in base ai rinvenimenti, se un tempio sia stato distrutto per lo zelo fanatico dei cristiani allo scopo di obliterarne la funzione pagana, o se si sia trattato di una demolizione dovuta allo stato d’abbandono della struttura, si rimanda alle considerazioni di J.B. Ward-Perkins, The End of the Temples: An Archaeological Problem, in Spätantiker Staat und religiöser Konflikt. Imperiale und lokale Verwaltung und die Gewalt gegen Heiligtümer, hrsg. von J. Hahn, Berlin-New York 2011, pp. 187-199.
60 Tra gli studi generali del fenomeno si vedano J. Vaes, Christliche Wiederverwendung antiker Bauten, in Ancient Society, 15-17 (1984-1986), pp. 305-443; J.-P. Caillet, La transformation en église d’édifices publics et de temples à la fin de l’Antiquité, in La fin de la cité antique et le début de la cité médiévale de la fin du IIIe siècle à l’avènement de Charlemagne, éd. par C. Lepelley, Bari 1996, pp. 191-211; B. Caseau, The Fate of the Rural Temples in Late Antiquity and the Christianisation of the Countryside, in Recent Research on the Late Antique Countryside, ed. by W. Bowden, L. Lavan, C. Machado, Leiden-Boston 2004, pp. 105-144.
61 Eus., v.C. III 25-40 (in partic. 26). Cfr. R. Krautheimer, The Ecclesiastical Building Policy of Constantine, in Costantino il Grande. Dall’antichità all’Umanesimo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1992, pp. 509-552.
62 Eus., v.C. III 48; 50; 51.
63 Eus., v.C. III 55.
64 Eus., v.C. III 56.
65 Zonar., XIII 12.
66 Eus., v.C. III 58.
67 Eus., l.C. 7,13.
68 Per un’analisi dettagliata del testo cfr. G. Bonamente, Sulla confisca dei beni mobili in epoca costantiniana, in Costantino il Grande, cit., pp. 171-201.
69 Eus., v.C. III 54. Sulla stessa linea si pone anche Firmico Materno (err. 28,5), il quale, nel famoso passo in cui esorta gli imperatori a confiscare i beni dei templi, denuncia la falsità e l’inefficacia degli idoli pagani, che non sono capaci di opporsi a chi depreda i loro ornamenti; questo, secondo l’apologeta cristiano, costituiva la prova della loro inconsistenza.
70 Per la statuaria di Costantinopoli cfr. A. Bravi, Ornamenta, Monumenta, Exempla. Greek Images of Gods in the Public Spaces of Constantinople, in Divine Images and Human Imaginations in Ancient Greece and Rome, ed. by J. Mylonopoulos, Leiden-Boston 2010, pp. 289-301; per le statue di Tyche presenti nella città cfr. S. Margutti, La Tyche di Costantinopoli tra pagani e cristiani, in Oggetti: forme, funzioni, interpretazioni, Atti del Seminario di Studi (Perugia 14-16 dicembre 2010), in corso di stampa.
71 Anon. de reb. bell. 2,2: «cum enim antiquitus aurum argentumque et lapidum pretiosorum magna vis in templis reposita ad publicum pervenisset, cunctorum dandi habendique cupiditates accendit». Cfr. Anonimo, Le cose della guerra, a cura di A. Giardina, Milano 1989.
72 Iul., Or. 7,228B-C.
73 Lib. Or. 62,8 (« suo padre aveva spogliato gli dei delle loro ricchezze: egli [scil. Costanzo II] atterrò i templi, abolì tutti i riti sacri»); Or. 30,6-7 («Costantino […] si servì delle ricchezze dei templi»); Or. 30,37 («colui che ha spogliato i templi [scil. Costantino]»). Cfr. G. Bonamente, Sviluppo e discontinuità, cit., pp. 68-69.
74 Rufin., hist. II 19; Socr., h.e. I 18; Soz., h.e. II 5; Thdt., h.e. V 20.
75 Malal., Chron. 13,3-4. Cfr. F.W. Deichmann, Frühchristliche Kirchen, cit., p. 115; G. Downey, A History of Antioch in Syria from Seleucus to the Arab Conquest, Princeton 1961, p. 349.
76 Malal., Chron. 13,38.
77 Eus., v.C. III 58,1. Suggestionata da questa immagine tramandata da Eusebio, buona parte della storiografia moderna a partire dal Du Cange, che intitolava non a caso Constantinopolis Christiana la sua monumentale opera, ha visto nella fondazione di Costantinopoli la volontà da parte del ‘primo imperatore cristiano’ di creare una capitale da contrapporre alla pagana Roma e nella quale non vi era più posto per gli dei dell’Olimpo, i cui templi sarebbero stati in alcuni casi distrutti o lasciati nel totale abbandono. Tale interpretazione è stata oggi ridimensionata attraverso studi che hanno dimostrato la compresenza di riti cristiani e pagani nella fondazione di Costantinopoli (cfr. E. Follieri, La fondazione di Costantinopoli: riti pagani e cristiani, in Roma, Costantinopoli, Mosca, Atti del I Seminario internazionale di studi storici «Da Roma alla terza Roma» [Roma 21-23 aprile 1981], Napoli 1983, pp. 217-231) e indagato sul numero reale delle fondazioni cristiane a quel tempo, con molta probabilità l’Apostoleion, la chiesa di Santa Irene e il martyrion di S. Acacio (cfr. P. Blaudeau, Constantinople (IVe-VIe s). Vers l’affirmation d’une cité chrétienne totale?, in SMSR, I (2009), pp. 295-313.
78 Malal., 13, Chron. 13.
79 Per il Capitolium cfr. Esichio 41 (in apparato), 18; per il tempio della Tyche cfr. Zos. 2,31,2-3.
80 A questo proposito cfr. S. Margutti, Costantino e Rea-Tyche: per una reinterpretazione di Zos. II, 31, 2-3, in Costantino prima e dopo Costantino, cit.