Costantino e il Senato romano
Sull’alta asta a forma di croce che Costantino ordinò di erigere nel Foro accanto alla sua statua colossale, un’iscrizione ricordava solennemente che, con quel segno salvifico, la città era stata liberata dal giogo della tirannide, e al Senato e al popolo romano erano stati restituiti, con la libertà, l’antico prestigio e splendore1. Non stupisce, dunque, che lo stesso elogio torni quasi identico nel panegirico anonimo recitato a Treviri nel 313 d.C., dove Costantino era lodato per aver restituito i patrimoni a tutti i privati cittadini «che quel flagello [scil. Massenzio] aveva esiliato dalla patria» e «per aver reso al Senato la pristina dignità»2. Ma il tema era topico, utilizzato già a partire da Augusto (rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi3), tanto che nella seconda metà del IV secolo anche a Giuliano, del quale pure non sono noti particolari interventi nei confronti del Senato romano, Mamertino indirizzò parole del tutto simili a quelle usate dal panegirista di Costantino, elogiandolo per «aver reso al Senato l’antica dignità»4.
Nel 313, all’indomani della vittoria su Massenzio (28 ottobre 312), ben poco Costantino poteva aver fatto per ripristinare in concreto la dignità del Senato. Tuttavia, il tema torna di nuovo nel panegirico che Nazario pronunciò a Roma nel 321, in occasione dei primi quinquennali dei Cesari Crispo e Costantino il Giovane, quando la politica di Costantino verso il Senato romano aveva ormai cominciato a esprimersi con disposizioni concrete. Ed è ivi direttamente collegato con il profilo che l’antico Senato avrebbe assunto grazie a quell’immissione di nuovi elementi provinciali, avviata dalle riforme costantiniane: «accogliesti a far parte della tua curia gli ottimati di tutte le province, in modo che la dignità del Senato non risplendesse solo di nome, ma anche di fatto»5.
A lungo la critica storica ha espresso opinioni che avrebbero sorpreso i panegiristi, condizionata dalla visione gibboniana di un dominato che aveva escluso dai vertici dell’amministrazione fortemente centralizzata il vecchio organismo istituzionale di Roma, giudicato semplicemente inerte rispetto alle innovazioni costantiniane: «Constantine gave the fatal blow to the dignity of the Senate and people»6. Anche la relazione instaurata da Costantino con i membri del Senato era pensata come dominata da astio e diffidenza reciproca, dal momento che fino alla prima metà del XX secolo l’opinione corrente faceva di Costantino un continuatore degli imperatori del III secolo nella politica di esclusione dei membri di quell’ordine dai centri decisionali del potere. Insieme ai motivi politico-sociali che avrebbero condizionato l’operato di Diocleziano, per Costantino furono ipotizzate anche motivazioni di altro tipo, assumendo l’ipotesi che soprattutto nei rapporti con i senatori pagani di Roma pesasse in modo determinante il contenzioso religioso. Si immaginò che sospetti e volontà di esclusione reciproca, e poi, con la creazione di Costantinopoli, rigida indifferenza intercorressero tra Costantino e gli aristocratici romani7.
Molti aspetti di questo quadro storiografico possono dirsi oggi superati in una visione della realtà storica che tende a leggere gli stessi dati prosopografici – molti dei quali nuovi rispetto a ciò di cui disponevano gli storici dell’Ottocento o della prima metà del Novecento – nel contesto generale della vita dell’Impero, e a valutare il problema religioso come una componente non più separata bensì strettamente intrecciata con i fattori politici, le dinamiche economiche, i fatti militari, l’organizzazione amministrativa.
In questi termini saranno studiati gli interventi di Costantino sul Senato e sull’ordine senatorio per verificare quali competenze quell’assemblea riconquistò o continuò a svolgere durante il regno dell’imperatore. Quanto al rapporto con l’aristocrazia senatoria, esso sarà ricostruito non solo tenendo conto dei risultati offerti dalla ricerca più recente, che si basa sulla ricostruzione delle carriere intraprese dai senatori romani durante il regno di Diocleziano e Costantino, ma anche tenendo conto della percezione che le fonti antiche ebbero delle riforme istituzionali del sovrano. Fin da subito esaltato, molto presto denigrato, utilizzato in seguito come modello a seconda della convenienza e delle strategie politiche del momento, il primo imperatore cristiano favorì il formarsi di una tradizione antica poliedrica, che solo parzialmente potrebbe sembrare determinata dalla confessione religiosa. Coloro che giudicarono positivamente o in negativo gli interventi di Costantino nei confronti del Senato romano e della sua aristocrazia non furono infatti condizionati solo da fattori di fede, ma anche dalla considerazione degli effetti molto diversi che la sua riforma degli ordini aveva prodotto sui vari ceti sociali.
La relazione tra il primo imperatore cristiano, il Senato di Roma e la sua aristocrazia appare oggi in modo molto diverso da come la immaginarono alcuni studiosi dell’Ottocento o anche della prima metà del XX secolo. L’apprezzamento storico dei termini di questo rapporto, infatti, è variamente intrecciato con la nuova valutazione dell’epoca tardoantica, che a sua volta è in gran parte frutto proprio delle molteplici ricerche condotte sulla natura dei provvedimenti istituzionali costantiniani, nonché sull’estrazione sociale, la consistenza economica, la qualità politica, l’atteggiamento religioso e culturale dell’aristocrazia senatoria uscita dalla crisi del III secolo e riorganizzata dalle riforme amministrative di età dioclezianeo-costantiniana. Sintomatico della stretta connessione tra questi differenti aspetti della riflessione storica è il volume che Santo Mazzarino pubblicò negli anni Settanta, raccogliendovi i saggi più significativi prodotti in un ventennio8, perché riflette la percezione che a partire dal secondo dopoguerra gli storici maturarono della grande cesura operata da Costantino nell’avviare un’epoca nuova e in sé definita, non più giudicabile esclusivamente sulla scelta delle formule della decadenza e della fine dell’Impero.
I progressi compiuti sono misurabili sull’evoluzione degli studi. Ancora dominato dalle categorie gibboniane, il maggiore lavoro di sintesi di Otto Seeck era principalmente interessato a spiegare come e perché la grande ecumene politica creata da Roma si fosse disintegrata. E poiché, a suo dire, solo lo sterminio dei migliori e l’affermarsi della stupidità potevano spiegare la fine, l’immissione di molti nuovi membri per rinsanguare le file del Senato operata da Costantino non avrebbe affatto invertito la tendenza già dioclezianea a ridimensionare la carriera senatoria. I giudizi sull’influenza del Senato sulla società tardaoantica rimasero dunque a lungo sostanzialmente negativi, nonostante l’ottima qualità di alcuni lavori essenzialmente concentrati sugli aspetti giuridico-amministrativi di quell’istituto9. Per André Piganiol, «l’autorité du Sénat n’est plus q’un mot», essendo l’organo ridotto al consiglio municipale della città di Roma, più noto, ma non più influente di quanto potesse esserlo quello di Antiochia o di un’altra grande città provinciale10. Idee non molto dissimili furono espresse da Arnold H.M. Jones, anche se l’attenzione dello studioso a fornire dati su alcune attività istituzionali, che persino nel V secolo continuavano a essere svolte dall’ordine senatorio, mostra come gli interessi storici proprio in quegli anni stessero cambiando11.
Si deve, infatti, soprattutto alle ricerche sui nuovi criteri di ammissione al Senato e a quelle sulla prefettura dell’Urbe realizzate negli anni Sessanta da un allievo di Piganiol, André Chastagnol12, la nascita di una prospettiva nuova, in relazione se non ancora alle specifiche competenze del Senato, almeno alla grande rilevanza goduta dai suoi membri. La differenza rispetto agli studi di tutta la prima metà del Novecento era data dalla volontà di applicare alla società tardoantica l’approccio prosopografico. Dopo la pubblicazione del primo volume di The Prosopography of Later Roman Empire13, infatti, un saggio di Michael T.W. Arnheim fece registrare un cambiamento forte nella considerazione del rapporto tra Diocleziano e Costantino, e nell’analisi dei loro interventi sull’assemblea senatoria: il primo apparve uomo del III secolo, in cui erano compiutamente maturate la tendenza a privilegiare l’ordine equestre, escludendo dal governo i senatori; Costantino, invece, come l’uomo della svolta, incline ad allargare i ranghi del Senato con provinciali ed equites, e a conferire loro posti con potere decisionale nella gestione dell’Impero14. Anche la tesi prevalente negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, secondo cui Costantino aveva escluso molti pagani dal governo cedendo tuttavia agli inevitabili compromessi religiosi imposti dai potenti senatori del suo tempo, fu rovesciata da Arnheim, per il quale invece egli sarebbe stato mosso dalla costante preoccupazione di accattivarsi le simpatie della nobiltà pagana15.
La nuova visione storiografica, scaturita dai lavori di Chastagnol e in parte da quello di Arnheim, ha costituito la base di partenza degli studi più recenti. Questi, peraltro, rispondono a varie esigenze, già individuate all’indomani della comparsa del volume di Arnheim16: introducono precisazioni nell’analisi dei vari fenomeni innescati da Costantino, tendono a sfumare gli aspetti di discontinuità tra Diocleziano e Costantino, inserendo i dati prosopografici in un contesto che valuti insieme i grandi campi di vita dell’Impero, e riducono l’incidenza del fattore religioso sulle scelte politiche imperiali17. Nonostante l’oggettiva importanza assunta nella ricerca scientifica degli ultimi anni dal tema dei rapporti tra Costantino e il Senato romano, esso è ancora assente in opere sia generali sull’età tardoantica sia anche specifiche sull’età costantiniana, che concentrano piuttosto l’attenzione sullo sviluppo dei vertici dell’amministrazione imperiale: gli uffici centrali della corte e i comandi militari, in varia relazione con l’amministrazione periferica e i governi cittadini18. L’argomento compare invece con un saggio importante nella nuova edizione della Cambridge Ancient History19 e comincia ad avere la dovuta considerazione anche nella manualistica più specializzata, sia in trattati generali di storia romana20 sia in quelli più specifici sul Tardoantico21.
Un panegirista che nel 321 avesse voluto elogiare il suo imperatore, utilizzando anche il tema del ripristino della dignità senatoria, sarebbe stato agevolato nel suo compito perché Costantino era intervenuto sull’ordine e sul Senato con modifiche davvero importanti. Nazario ricordò che allora Roma aveva capito di essere la regina del mondo, perché da tutte le province aveva accolto in Senato il fiore delle municipalità22. Le province, in realtà, erano entrate in Senato già nei secoli precedenti. Superate le remore ancora forti nella prima metà del I secolo, quando Claudio dovette intrattenere i senatori con un lungo excursus storico perché accogliessero tra i loro ranghi alcuni notabili della Gallia Comata23, gli incrementi esterni erano stati così notevoli che, sotto i Severi, i senatori di origine provinciale sembra avessero superato in proporzione quelli di provenienza italica24.
Che cosa sia accaduto in seguito, in quel travagliato III secolo in cui le testimonianze si fanno poche e malcerte, sì da far apparire l’operazione di Costantino tanto rilevante, è stato oggetto di vivaci controversie tra gli storici. Si è sostenuto che quasi tutte le genti di alto lignaggio fossero scomparse nel corso della crisi, sia che molti clarissimi – titolo che a partire dal II secolo d.C. indicava l’appartenenza a una famiglia senatoria – si sottraessero volontariamente alle responsabilità degli honores25, sia che ne fossero progressivamente privati a vantaggio dei membri dell’alter ordo26: impiegati in numero sempre maggiore nell’amministrazione e nell’esercito, perché più competenti nelle funzioni che il dissesto dell’Impero rendeva ormai di vitale importanza. Le ricerche più recenti tendono a negare che si sia verificato un totale degrado delle genti senatorie nel corso del II-III secolo, e parlano di conservazione e sostanziale stabilità27. In pieno IV secolo alcune grandi famiglie aristocratiche si vantavano di incredibili ascendenze fino ai Gracchi e agli Scipioni, ovvero fino a Enea o Agamennone: tutt’altro che inventate dalla verve adulatoria di un Girolamo, di un Rutilio Namaziano o di un Sidonio Apollinare, ininterrotte continuità familiari sembrano restituibili in immensi alberi genealogici28.
Ciononostante è indubbio che la crisi, per quanto intermittente e non generalizzata, abbia avuto un effetto deprimente sulla consistenza dell’ordine senatorio. Scrivendo sotto Costanzo II, Aurelio Vittore individuò in un provvedimento – l’editto con cui l’imperatore Gallieno avrebbe escluso tutti i senatori dalla carriera militare – la causa principale di una irrimediabile emarginazione politica degli appartenenti al ceto senatorio29. Anche se lo storico non sostiene, come pure si è creduto, che i senatori si fossero fatti eliminare dal comando degli eserciti a causa della propria ignavia, la cesura non fu indifferente30. Dopo il tentativo, attuato per il tramite dell’emblematica famiglia dei Gordiani, di riappropriarsi della gestione del vertice, contrastando l’impostazione provinciale-militaristica data all’Impero da Settimio Severo e simbolicamente sfociata nell’acclamazione militare del semibarbaro Massimino, la capacità dell’ordo di contrastare la degenerazione del principato fu oggettivamente pregiudicata31.
La critica oggi corregge la connotazione antisenatoria, che Aurelio Vittore conferì all’editto: in uno dei periodi più convulsi della vita dell’Impero, moltiplicandosi su tutti i confini le emergenze militari, Gallieno avrebbe escluso dal comando delle legioni e dal tribunato laticlavio solo i senatori privi di adeguata preparazione militare32. Se pure quello fosse stato il suo fine, da allora le forze dell’aristocrazia, pur rinnovate dall’afflusso di provinciali (e dunque di equites), cedettero il passo al prepotere della via militare. Tra il 249 e il 260-262 scompaiono dai cursus epigrafici il tribunato di legione laticlavio (totalmente) e la legazione senatoria di legione (quasi completamente), mentre si moltiplicano i comandi legionari equestri. La misura ebbe anche importanti conseguenze amministrative. Nella riorganizzazione augustea, infatti, accanto alle province proconsolari mantenute al governo senatorio (10), anche quelle ‘imperiali’ in cui fossero stanziate legioni (11 in età augustea, 14 sotto Vespasiano, 22 alla fine dell’età adrianea) erano affidate a legati senatorii che avessero almeno rivestito la pretura. Procuratori equestri erano stati scelti da Augusto solo per le aree ove fossero truppe ausiliarie (coorti e ale), il cui comando faceva parte dell’addestramento equestre, e un prefetto equestre era inviato in Egitto, terra di proprietà del principe, interdetta ai senatori33. La coincidenza tra la legazione di legione e il governo di una provincia, all’inizio non automatica, in progressione di tempo lo divenne, cosicché in seguito all’editto di Gallieno tutte le province imperiali pretorie, per tradizione governate da senatori, vennero a essere amministrate da praesides di rango equestre34. Quell’iniziativa incise dunque negativamente non solo sulle potenzialità di potere, sull’immagine e il prestigio del Senato, ma anche sulla concreta disponibilità di posti ricopribili dai giovani rampolli senatorii, riducendo le possibilità di carriera e di conseguenza l’attrattiva stessa dell’ordine.
Alla fine del III secolo, infatti, la presenza senatoria a livello amministrativo era molto ridotta. Tralasciando il vigintivirato, le magistrature ordinarie di questura e pretura (essendo tribunato e edilità scomparse e la censura appannaggio esclusivo del principe35), il consolato suffecto, le curatele dell’Urbe e delle vie della penisola e i grandi sacerdozi, tra le amministrazioni dotate di reale responsabilità un figlio di senatore poteva aspirare al proconsolato d’Africa o d’Asia, al governo della Siria e alla prefettura di Roma. Delle province italiane di nuova formazione dioclezianea, solo alcune furono riservate ai senatori: l’Italia Transpadana, che ebbe vita breve, la Venetia et Histria, forse la Tuscia et Umbria, la Campania. Il consolato ordinario, condiviso con gli imperatori e i membri della famiglia imperiale, era pure lasciato ai chiarissimi perché apparentemente privo (come le altre magistrature tradizionali) di reale potere. Tutte le altre province, ridotte territorialmente e moltiplicate da Diocleziano, erano governate da praesides di origine equestre e a uomini dello stesso ceto – distinti in viri egregii, perfectissimi ed eminentissimi – erano affidate anche la gestione delle unità territoriali più ampie concepite in età tetrarchica (le diocesi, rette da vicarii), così come le prefetture dell’annona, della flotta, d’Egitto e del pretorio36. Ammesso che gli organici dell’assemblea si fossero mantenuti inalterati nel corso del III secolo, secondo il numero tradizionale di circa seicento membri, i notabili provinciali dovevano essere appagati nel percorrere semplicemente una carriera equestre, che offriva una molteplicità e varietà d’incarichi sparsi sul territorio e distinzioni comunque appetibili.
Decidendo di rivitalizzare il Senato e promuovere di nuovo l’ordine senatorio, Costantino dunque sembrò davvero operare una svolta e, almeno dal punto di vista istituzionale, a ragione dovremmo dire che un’età nuova – l’era tardoantica – sia stata inaugurata dall’imperatore. Alcune motivazioni sono perspicue, e sono state già individuate dagli studiosi, ma altre se ne possono aggiungere.
L’opinione di Edward Gibbon, che ritrasse il Senato di Roma come un organo incapace di reagire e opporsi alle innovazioni costantiniane, è attualmente, per così dire, rovesciata. Tralasciando gli eccessi interpretativi che il semplice rovesciamento di tale modello ha provocato37, è oggi generalmente riconosciuto che, nonostante la composizione del Senato fosse cambiata e i suoi membri fossero stati esclusi da molteplici uffici un tempo di loro esclusivo appannaggio, all’inizio del IV secolo il Senato come corpo possedeva ancora enorme prestigio. Costantino doveva esserne cosciente, se cercò proprio dal Senato il suo riconoscimento come primo Augusto38; non meno di Diocleziano, peraltro, alcune riforme del quale sono oggi reinterpretate alla luce della nuova considerazione storiografica della capacità con cui il Senato e l’aristocrazia senatoria avevano resistito alla crisi. Ricerche settoriali, in regioni specifiche dell’Italia altoimperiale, ma i cui risultati sono suscettibili di essere generalizzati, hanno indicato quali strategie fossero messe in atto dalle più vivaci famiglie senatorie per garantirsi una stabile rendita finanziaria e una base di consenso estesa oltre l’ambito prettamente cittadino, fino a coprire intere aree provinciali. Le alleanze matrimoniali consentivano accorpamenti consistenti di patrimoni lungo direttrici territoriali costanti, ove gli interessi economici erano tutelati, consolidati e persino ampliati sia attraverso forme semiufficiali di patrocinio, sia con lo strumento ufficiale dei governatorati39.
Tale modello di controllo economico, sociale e politico di aree anche molto estese – che sarà poi riproposto su più larga scala dal ceto gentilizio postcostantiniano40 – consentì ai senatori dell’Alto Impero di mantenere sostanzialmente intatte le proprie rendite e di perpetuare sui medesimi territori la propria influenza politica e sociale. Ciò dovrebbe indurre a credere che neppure Diocleziano fosse stato insensibile al rischio di alienarsi l’appoggio di tale influente gruppo di proprietari terrieri e patroni41. In tal senso la stessa progressiva limitazione nel corso della seconda metà del III secolo delle amministrazioni senatorie, che Diocleziano mantenne invariate in una situazione militare ed economica ancora difficile, più che ledere gli interessi gentilizi, potrebbe aver sostanzialmente risposto ai loro desiderata, in quanto riflesso della sperimentata abilità di quel ceto nel tutelarsi da rischi maggiori, contrastando la crisi, difendendo patrimoni e risorse e conservando, in attesa di un futuro migliore, quella preminenza economico-finanziaria che da sempre aveva costituito il supporto della sua superiorità politica. Allo stesso modo, l’introduzione dioclezianea del fiscalismo provinciale nella penisola, ricordata esplicitamente da Aurelio Vittore come «il grande male dei tributi esteso all’Italia», non provocò apparentemente polemiche o reazioni di sorta in ambiente senatorio, e non perché i grandi clarissimi fossero ormai passivi di fronte alle disposizioni imperiali bensì perché, come molti di loro avevano potuto sperimentare nelle realtà provinciali extraitaliche, la tassazione scaricata sui coloni spingeva costoro dalla parte del dominus, cementava le clientele, rafforzava la presa del loro patronato sui territori42: quelli che a loro interessava continuare a controllare.
Il rinnovo del Senato, dunque, avvenne quando le circostanze erano mature per un cambio in tal senso. Restituendo prestigio al Senato, Costantino interpretò il segno dei tempi. Dalle iniziative prese a Roma da Massenzio – non solo le vaste opere pubbliche avviate intorno alla zona della Curia, ma anche la nomina a prefetto del pretorio di un senatore di antica famiglia patrizia43 – Costantino comprese che le riforme varate in campo economico e amministrativo in epoca tetrarchica avevano infuso nei membri dell’ordine la fiducia che una partecipazione politica alla vita dell’Impero sarebbe stata per loro nuovamente vantaggiosa. Come Augusto, al momento dell’organizzazione del principato, egli si presentò dunque come il restauratore di quell’ordine, perché esso aveva mantenuto molto del suo prestigio, nonostante l’appannamento provocato dalle vicende dell’ultimo mezzo secolo. Sarebbe stato impossibile, infatti, governare l’Occidente senza l’appoggio delle sue aristocrazie, molti membri delle quali avevano militato nelle file di Massenzio44. Né altri furono i motivi di opportunità politica che lo spinsero a trasformare Bisanzio in Costantinopoli, la nuova città rifondata per commemorare la grande vittoria su Licinio, e a fondare lì un nuovo Senato45: dopo venti anni di governo solo in Occidente, Costantino non sarebbe riuscito a controllare efficacemente un Oriente conquistato con la forza senza l’appoggio degli esponenti delle nobiltà, grandi proprietari locali. In questi ultimi la creazione di un Senato, con la prospettiva di passare a un ordo superiore garante di nuovi privilegi, stimolava ex novo quel desiderio di promozione sociale che nei secoli di prosperità era stato il motore principale della coesione politica e ideologica dell’Impero e anche un formidabile fattore di stabilità, grazie all’adesione all’imperatore che i ceti dominanti avevano saputo suscitare in quelli a loro inferiori.
Le vie del rinnovamento del Senato di Roma furono in parte tradizionali. Dall’età augustea, due erano stati i modi di accesso all’ordine: attraverso le magistrature ordinarie, rivestite da uomini di estrazione senatoria, e mediante lectio straordinaria di persone meritevoli – sia dal ceto equestre sia dalle aristocrazie municipali – a cui il principe conferiva il laticlavio. Si era anche affermata da Claudio in poi la procedura di adlectio, un meccanismo burocratico giuridico attraverso cui il principe, al momento della revisione o dell’integrazione dell’album senatoriale, inseriva direttamente un nuovo senatore nei ranghi superiori a quelli della magistratura d’ingresso, dalla quale pertanto veniva a essere dispensato46.
Come già Augusto, è probabile che Costantino abbia dapprima valorizzato ognuna di queste vie per rimpinguare le file del Senato di equites e provinciali. Come il fondatore del principato, anch’egli probabilmente impegnò la responsabilità senatoria nell’immissione di nuovi senatori47. La Historia Augusta attribuì a Severo Alessandro il merito di tale coinvolgimento senatorio nella prassi di cooptazione: secondo l’opera di fine IV-inizi V secolo, i patres sarebbero stati chiamati a rispondere come padrini o referenti (referentes, precatores, iuratores) della rispettabilità dei nuovi personaggi da introdurre nell’ordine, facendo intervenire prima del voto anche testimoni sotto giuramento, che fornissero particolari garanzie circa l’idoneità del candidato48. Non sappiamo se tale procedura fosse osservata anche sotto i Severi e fosse poi caduta in disuso. È molto probabile, tuttavia, che l’autore della Historia Augusta retrodatasse all’epoca del suo principe ideale un sistema che ricordava i modi in cui l’adlectio fu applicata da Costantino in poi. Infatti, almeno una testimonianza epigrafica di adlectus petitu senatus inter consulares risale al 325-32649 e da un’orazione di Quinto Aurelio Simmaco, recitata per sostenere la candidatura del giovane figlio di un collega, è chiaro che quella era la prassi normale seguita intorno al 38750.
L’ampliamento degli organici senatorii attraverso adlectio/cooptazione e per conferimento del laticlavio a nuovi membri provinciali, che nel 321 appariva a Nazario un aspetto da elogiare della benevola attenzione di Costantino verso l’ordine, fu solo uno (probabilmente il primo in ordine di tempo) tra i provvedimenti presi per restituire al Senato l’antica dignità. Molto più nota, anche se oggi ridimensionata dalla critica, è la cosiddetta riforma degli ordini, che comportò una vera e propria rivoluzione dei gruppi dirigenti e restituì nuova centralità alle responsabilità amministrative e di governo dei senatori. Da una decina di iscrizioni è evidente che cavalieri di rango perfettissimo – appartenenti cioè a quello intermedio dell’ordo equestre, tra gli eminentissimi e gli egregii – ottennero una promozione al clarissimato cambiando classe sociale. Esse riflettono un fenomeno che riguardò nel tempo quasi tutti gli appartenenti al ceto equestre, i cui membri (funzionari e militari di diverso livello) furono portati a confluire ex officio nell’ordine senatorio51. Chastagnol, che definì nelle linee principali consistenza e significato di tale manovra, ritenne che essa fosse stata attuata durante la prima fase del regno di Costantino, dal 312 fino al 326 d.C.: una costituzione che vietava ai curiales di aspirare all’ordo senatorio, minacciando di restituirli alla curia di origine, parve infatti allo studioso la disposizione conclusiva di tutta l’operazione52. L’assemblea sarebbe, dunque, passata da seicento a duemila componenti in poco più di un decennio53.
Oggi siamo molto meno sicuri sulla data in cui partì il riordino delle carriere, ma si propende a crederlo successivo al 325/326, e a situarlo in coincidenza con la riforma della prefettura al pretorio, forse negli anni dell’incarico prefettizio di Flavius Constantius54. Infatti, Costantino intervenne con decisione anche sulla fisionomia e sui poteri dei prefetti al pretorio. Subito dopo la vittoria di ponte Milvio, aveva sciolto quasi tutte le guardie pretoriane, che erano state il braccio armato di Massenzio, e i nuovi prefetti – noti da iscrizioni non sempre ben databili – risultano moltiplicati nel numero (essendo in precedenza solo due con poteri collegiali, a capo di altrettante coorti pretorie), privati dell’imperium militare (dunque dell’autorità sulla disciplina e sulle operazioni militari), decentralizzati rispetto alla Corte e inviati a risiedere nelle medesime sedi dei vicarii55. Nonostante tali limitazioni, il loro potere fu fin dall’inizio enorme, sì da collocarsi rapidamente al primo posto nella gerarchia burocratica dell’Impero tardoantico e con poteri civili estesi su intere macrozone dell’Impero56. Anche nel caso in cui gli elementi principali della trasformazione costantiniana fossero stati solo la moltiplicazione del numero dei prefetti e il loro mandato su un’area amministrativa territorialmente circoscritta, fu a tali personaggi, di rango eminentissimi, che fu concessa la dignità senatoria: non perché nominati al consolato ordinario (come talvolta era accaduto), ma semplicemente da prefetti.
Il quadro elaborato negli anni Sessanta e Settanta, eccessivamente ottimistico circa l’operatività immediata della riforma – ma pure viziato dall’idea che il sovrano postdioclezianeo potesse dirigere dal centro un fenomeno di tale portata –, è stato opportunamente riequilibrato: equites perfectissimi continuano infatti a essere attestati fino all’inoltrato V secolo, conservando però un ridotto ventaglio di funzioni (dunque l’ordo equester di per sé non scomparve), e seppure non siano più attestati epigraficamente i viri egregii (sino ad allora frequenti tra i notabili municipali), non tutti i cavalieri esistenti al tempo di Costantino furono subito assorbiti nell’ordine senatorio57. Per quanto riguarda poi il profilo numerico del Senato, entrambe le cifre – in basso e in alto – risultano oggi eccessive: dall’età di Augusto, i numeri dovevano essere già lievitati gradualmente, pur ammettendo una contrazione nel corso del III secolo58; la massima estensione dell’assemblea romana, ricavabile dalla figura del Senato costantinopolitano di Costanzo II, poi, non era stata ancora raggiunta alla fine degli anni Trenta del IV secolo59.
Anche se in tempi meno rapidi, tuttavia, l’ordine senatorio finì per assorbire i ceti dirigenti, militari e civili, che fino ad allora gli avevano fatto concorrenza. Ai nuovi senatori si aprirono di nuovo tutti gli uffici prima riservati agli equites, e i clarissimi si trovarono a gestire tutte le più importanti amministrazioni dell’Impero: sotto Costantino, quasi sistematicamente, i prefetti del pretorio furono senatori di antica prosapia, come Petronius Annianus, Rufius Volusius, L. Aradius Proculus; molti chiarissimi assunsero il governo delle nuove province della penisola italiana; governatori senatorii appaiono in Byzacena nel 313 e in Numidia nel 321; dopo il 325, i governatori provinciali e vicarii clarissimi furono sempre più numerosi in Oriente e in Occidente; le stesse prefetture d’Egitto, dell’annona e dei vigili furono affidate a clarissimi di origine senatoriale. Solo l’esercito restava nelle mani dei cavalieri, mentre Costantino aveva reso ai senatori tutte le funzioni di governo più importanti60.
Si trattò di una riforma imponente, dagli aspetti rivoluzionari, perché Costantino annullò il principio, invalso da secoli, in base al quale le distinzioni di carriera erano raggiunte secondo l’ordo di appartenenza, laddove d’allora in poi fu la carica a conferire il rango e non più viceversa. L’assimilazione di senatori e cavalieri avviata dalla riorganizzazione costantiniana, continuando incessante nei decenni successivi, provocò, come effetto sociale, la formazione di un ceto dirigente tutto di clarissimi, compiutamente visibile in età teodosiana61. Già durante il suo regno, peraltro, all’inflazione dell’ordine corrisposero altrettanti distinguo, che rapidamente ricrearono al suo interno differenze e subordinazioni: così la distinzione, rimasta forse fino a Costanzo II, tra clarissimi d’Occidente e senatori clari del nuovo Senato di Costantinopoli; o quella tra senatori veri e propri, gli unici a essere realmente presenti alle riunioni dell’assemblea, di cui monopolizzavano i lavori, e clarissimi autorizzati a non avere Roma come residenza ufficiale62. All’epoca di Valentiniano I e Graziano, poi, mentre il clarissimato nelle sue articolazioni era esteso anche ai funzionari di corte e si stabiliva l’equipollenza tra il rango di quanti ricoprivano cariche civili e i capi dell’esercito, si costituì una gerarchia interna all’ordine, nella quale gli illustres occupavano il vertice, seguiti in ordine discendente d’importanza dagli spectabiles e dai semplici clarissimi63.
D’altra parte, mentre dettava le linee di una riorganizzazione sociopolitica dei poteri forti dell’Impero vecchi e nuovi, assimilabile per impatto e importanza (ma non per contenuto) a quella varata secoli prima da Augusto, proprio come il fondatore del principato anche Costantino mantenne in vita le antiche magistrature del cursus tradizionale: naturalmente solo quelle che non fossero cadute nel corso di tre secoli (censura) o che non fossero divenute tanto irrilevanti, o di mera funzione cerimoniale (edilità plebea e curule), da essere ormai scomparse almeno nelle carriere epigrafiche64. E ne rinnovò in qualche modo la funzionalità conferendo loro nuovo prestigio, affinché il Senato continuasse ad accrescersi anche in modo tradizionale. Come Augusto aveva abbassato l’annus legitimus per rivestire questura, pretura e consolato65, così Costantino emanò dopo la conquista dell’Oriente una serie di disposizioni legislative, che per ognuna di quelle magistrature davano indicazioni sull’età richiesta e sugli incarichi da espletare. In particolare ai questori, nominabili già a sedici anni, si chiedeva di organizzare i costosissimi giochi gladiatori previsti per le festività decembrine66; la pretura, che permetteva l’accesso in Senato, era ricopribile anche a meno di venti anni e, oltre all’impegno nei ludi (spettacoli di belve feroci e corse di carri nel circo) in occasione dell’entrata in carica il 1° gennaio, implicava competenze di giurisdizione civile a Roma e nel raggio di cento miglia intorno alla città67. Il consolato suffecto e quello ordinario (o eponimo), che ancora nel III secolo erano rivestiti intorno ai trentadue anni, ebbero un’evoluzione opposta: tra il 301 e il 326, il primo si collocò dopo la pretura e spesso non fu nemmeno rivestito dai membri delle famiglie più importanti68, comportando solo l’allestimento di giochi per il natalizio di Roma quando i suffecti entravano in carica; dopo il 302 il consolato ordinario crebbe invece d’importanza ideale: rivestito spesso dall’Augusto, che sceglieva il proprio collega o la coppia consolare tra i membri della nobiltà senatoria di Roma, a partire dal 326 fu sempre più concepito come il coronamento di una prestigiosa carriera69. Mentre dunque creava un mondo amministrativo tutto nuovo e gonfiava le file del Senato di clarissimi, Costantino rinnovava funzionalità alle più antiche magistrature di Roma e restituiva prestigio al Senato come assemblea.
Un’indagine specifica delle competenze dismesse, conservate, o assunte ex novo dal Senato tardoantico non è mai stata realmente compiuta, poiché continua indirettamente a pesare su tale settore di ricerca la visione ottocentesca di un dominato che avrebbe favorito il completo svuotamento di potere di quello che era stato il principale organismo istituzionale di Roma repubblicana: alcune sue funzioni tradizionali – di tipo amministrativo, elettorale, finanziario e giudiziario –, trasferite alle numerose cariche di istituzione augustea, erano decadute nel corso dell’Alto Impero70; e se già agli inizi del principato parve fortemente pregiudicata la possibilità dell’assemblea di concepire e attuare una politica unitaria ed efficace, ben poco il Senato avrebbe potuto incidere sulla politica imperiale negli ultimi secoli.
Per quanto anche Jones risentisse di questa atmosfera storiografica, tuttavia egli non dimenticò di annotare che, insieme al concistoro, il Senato era uno dei due corpi ufficiali di consiglieri dell’imperatore e, sebbene avesse perso tale funzione da quando il sovrano aveva smesso di risiedere stabilmente a Roma, una fonte quale la Vita di Melania Iuniore alludeva alla consultazione del Senato come a pratica abituale dell’imperatore, mentre al tempo di Giustiniano le sessioni del Senato continuavano con regolarità, anche se Procopio le dice tenute solo per riguardo alle apparenze71: si tratta, comunque, del Senato costantinopolitano nell’Oriente di V-VI secolo.
Riferimenti concreti al funzionamento del Senato tardoantico, sia in quanto organo consultivo dell’imperatore sia in quanto dotato di attribuzioni giudiziarie e legislative – queste ultime, in particolare, evidenti nella sua capacità di sollecitare, discutere e approvare disposizioni imperiali relative ai privilegi dell’ordine, alle elezioni delle magistrature tradizionali o alla revisione dei loro obblighi ludici, nonché ad altri aspetti importanti della vita dell’Urbe, come il suo approvvigionamento o la sua veste architettonica –, ricorrono nelle fonti di tardo IV secolo e affollano le Relationes del prefetto urbano Quinto Aurelio Simmaco72. Tali riferimenti sono stati ricordati nei principali lavori d’insieme sul Senato in età tarda73. In questo contesto, abbiamo inteso verificare quanto Costantino abbia inciso nel rinnovare l’attività istituzionale del Senato di Roma, indirettamente favorendo la tendenza dell’ordine a recuperare alcune proprie antiche attribuzioni; altre che non risultano espletate dal Senato costantiniano, bensì solo e cursoriamente in periodi più tardi, furono infatti rivitalizzate dall’ordine proprio in seguito al processo che Chastagnol definì «decapitalizzazione» di Roma. Avviato con la creazione in età tetrarchica di quattro residenze imperiali ufficiali decentrate verso la periferia settentrionale dell’Impero – Milano, Treviri nella Gallia renana, Sirmium in Pannonia, Nicomedia sulla costa asiatica della Propontide – e sanzionato dalla fondazione di Costantinopoli, il fenomeno allentò ulteriormente i contatti tra Senato romano e imperatore, per un verso deprimendo il ruolo del primo come principale consiglio di Stato, per l’altro permettendo tuttavia all’assemblea di tornare a espletare funzioni non eliminate, ma rese ineffettive durante il principato, e ai suoi membri di riprendere un controllo quasi assoluto sulla plebe urbana.
Un primo caso particolarmente interessante di mantenimento di un’antica attribuzione costituzionale riguarda il diritto di decretare la relatio in numerum divorum del principe defunto. Dall’età cesariana spettava al Senato, infatti, accordare l’apoteosi al sovrano attraverso una probatio che, a partire dalla metà del I secolo (in relazione alla divinizzazione di Claudio74), ne faceva un divus, ovvero decretarne l’abolitio memoriae in quanto tiranno. Conservata nel corso dell’Impero e ben attestata anche per i tetrarchi, è noto che questa procedura non fu abbandonata da Costantino, essendo attestate monete successive al 317/318 in onore di suo padre, il divus Constantius75, come tale ricordato anche da Eutropio e dalla Historia Augusta76. Neppure i figli Costante, Costantino II e Costanzo II contrastarono la perpetuazione della pratica, che decretò la divinizzazione di Costantino. Alcuni compromessi furono escogitati per non urtare troppo né la sensibilità dei pagani, né quella dei cristiani. Fu tale la decisione di Costanzo II di non inviare il corpo del padre a Roma, come evidentemente il Senato sperava (date le lamentele registrate persino da Eusebio77), e di duplicare la cerimonia funebre a Costantinopoli, ove fu organizzato un funus pubblico secondo la liturgia cristiana78.
Per quanto riguarda il contenuto della cerimonia svoltasi a Roma, le testimonianze non offrono un quadro coerente. Di certo, in ogni caso, esse non consentono di pensare che il protocollo tradizionale fosse rispettato solo in parte, anche se da Eusebio potrebbe sembrare che il Senato avesse proclamato la probatio, il iustitium e conferito l’epiteto di divus senza procedere a una consecratio con istituzione del culto, dei templi, dei sacerdoti impiegati nel culto imperiale. Infatti sulle monete per Costantino, come già su quelle per Costanzo Cloro, non compaiono simboli consueti quali l’altare, né la legenda consecratio, ma, fra le dediche monumentali che ricordano l’avvenuta divinizzazione, quella sul fregio e sull’architrave di un tempio del foro di Arles sembra pertinente a una struttura dedicata proprio al culto dell’imperatore79. Né stupisce eccessivamente che tale istituzione fosse mantenuta sotto i figli di Costantino, dal momento che celebranti del culto imperiale (presumibilmente cristiani) sono attestati ancora nell’Africa di V secolo80; e l’epiteto divus, impiegato costantemente nelle fonti legislative fino al V secolo inoltrato, compare ancora in età ostrogota, perché il trascolorare del valore sacrale del vocabolo fu proporzionale all’accrescimento di una sua dimensione prettamente aulica81.
Ciò che importa in questo contesto è che né Costantino né i suoi figli privarono il Senato di un diritto che da secoli era avvertito come una specifica attribuzione costituzionale82. Si ha anzi l’impressione, data la rilevanza che il tema della relatio inter divos assume in fonti come Eutropio o la Historia Augusta, che proprio la difficoltà di espletare il ius principis creandi, esercitato secondo Aurelio Vittore solo fino a Caro83, avesse cooperato a esaltare l’importanza del conferimento dell’apoteosi. Il Senato, dunque, non esercitò più il diritto di conferire al principe all’inizio del regno i titoli che garantivano all’Augusto i poteri legali da cui traeva autorità e legittimità, ma, attraverso il decreto con cui assicurava probatio o abolitio memoriae, continuava a esercitare un atto politico rilevante con implicazioni sulla successione: giudicando un regno, esprimeva infatti un indiretto parere sui successori. Si comprende, in tal senso, quale vantaggio condiviso di Senato e imperatore ne abbia assicurato il mantenimento ancora sotto i figli di Costantino, nella fase della tormentata successione del 337.
Va nella stessa direzione anche l’onore per il quale era un membro dell’ordine a rivestire il ruolo di princeps Senatus, in età repubblicana molto prestigioso perché conferito al più anziano fra quanti ricoprivano il rango più elevato nella gerarchia interna in cui si strutturava l’assemblea84. Il princeps senatus era chiamato per primo a esprimere il suo parere (ius sententiae) e aveva, per questo, grande forza nell’orientare la discussione degli argomenti all’ordine del giorno da mettere al voto. Essendo stato sempre rivestito, dopo Augusto, da tutti gli imperatori, il ruolo aveva perso valore quale prerogativa senatoria nel corso dei primi secoli, sebbene la Historia Augusta sostenga che nel III secolo lo avrebbero ricoperto i futuri imperatori Valeriano e Tacito, nonché Aurelio Fosco, Ulpio Silano, Manlio Staziano85. Questi ultimi personaggi sono del tutto sconosciuti e si è pertanto propensi a interpretare i riferimenti come anacronismi, sembrando semmai più credibili Aurelio Vittore e l’Epitome (che da lui deriva), per i quali fu di nuovo princeps Senatus Pomponio Basso al tempo di Claudio Gotico86. È tuttavia Lattanzio ad attestare una certa attualità della funzione nella prima metà del regno di Costantino: mettendo in ridicolo gli dei pagani, egli ricorda che nel Senato degli dei, a lato di Giove, presidente incontrastato dell’assemblea, Bacco Libero teneva il posto di princeps Senatus87. A meno che non si tratti di una semplice reminiscenza letteraria, il passo potrebbe far pensare che fosse stato proprio Costantino a restituire all’assemblea quella prerogativa: che essa sia tornata in auge con l’abbandono definitivo di Roma come residenza imperiale è confermato da Simmaco, il quale lamentò più volte che essa fosse oggetto di prevaricazione e legata a fattori censitari: si riteneva in diritto di parlare per primo, infatti, chi aveva sostenuto le spese maggiori per le proprie magistrature88.
Maggiori certezze su un intervento realizzato da Costantino vengono da un’iscrizione non conservata, trasmessa in modo incompleto da un manoscritto di epoca carolingia (il Codex di Einsiedeln), che correva sulla base di una statua innalzata per decreto senatorio in Campidoglio (ove non era frequente che fossero collocate statue di senatori) in onore di Ceionio Rufio Albino89. L’uomo ricevette l’alto riconoscimento perché nell’anno in cui i suoi figli chiesero la questura, in qualità di prefetto urbano (335-337), era intervenuto presso Costantino affinché l’imperatore rinunciasse al diritto di nominare i quaestores candidati e il Senato potesse rivendicare a sé l’auctoritas perduta da 381 anni di creare tutti i questori con un suo decreto90. Secondo Mazzarino, il computo dell’ammontare degli anni evocati dall’iscrizione doveva avere per punto di partenza la legge riportata da Dione Cassio (10 dicembre 45 a.C., o la sua applicazione all’inizio del 44 a.C.), quando Cesare osò scegliere lui stesso i magistrati: una data che i senatori avrebbero considerato simbolica per la perdita dell’auctoritas patrum91. Non è un caso che la prerogativa fosse richiesta dopo che Costantino (nel 326/327) aveva riservato ai giovanissimi questori l’unico compito di organizzare i costosissimi giochi gladiatori durante le festività decembrine. Si trattava di una prerogativa importante, non tanto perché restituisse una capacità elettorale, bensì perché permetteva di regolare (senza ingerenze imperiali) gli avanzamenti politici dei membri più giovani della nobiltà, in modo tale che il loro avvio alla carriera degli onori non incidesse senza adeguata previsione sulla consistenza patrimoniale delle loro famiglie.
Le informazioni offerte dall’iscrizione di Ceionio Rufio Albino chiariscono un’altra competenza importante dell’assemblea, di solito trascurata nella considerazione dei poteri conservati da tale istituto. Nonostante la cosiddetta ‘decapitalizzazione’ di Roma, il ruolo del Senato come organo consultivo, pur rallentato, non decadde: esercitato certo a discrezione del principe, era anche tenuto in vita a seconda che i suoi membri volessero o meno interagire con la politica imperiale su aspetti d’interesse per l’ordine. Con l’assenza dell’imperatore da Roma, gli strumenti consueti erano la legazione senatoria per avanzare richieste, ovvero messaggi dell’imperatore (caelestis oratio, divinae litterae) per forme di consultatio.
Una testimonianza di siffatte relazioni, che in alcuni momenti potevano essere particolarmente strette e articolate, è restituita parzialmente dalle leggi ad Senatum (e anche in qualche misura da quelle inviate al prefetto urbano) conservate nel Codice Teodosiano. È oggi infatti più chiara, grazie allo studio condotto sulle Relationes simmachiane, la procedura con cui esse venivano varate: il Senato, ricevuta una oratio o litterae imperiali, era chiamato a discuterne il contenuto e a ratificare il suo parere in un decreto finale (i patrum decreta simmachiani); inviato a Corte, quest’ultimo costituiva un apporto fondamentale alla formulazione definitiva della lex augusta92. Archiviata dal magister memoriae, responsabile della conservazione delle lettere imperiali di natura ufficiale e delle risposte che esse avevano ricevuto, a Roma rimaneva registrata nei monumenta Curiae, dopo esser stata verbalizzata negli acta Senatus che erano comunicati ogni mese all’imperatore93.
Dalle fonti non sembra che Costantino abbia intrattenuto strette relazioni con il Senato di Roma durante il suo regno, anche se sulla base di quanto si ricordava potrebbero essere interpretati come conseguenza di sollecitazioni provenienti da quell’assemblea molti degli interventi legislativi rivolti al prefetto urbano o al Senato. In attesa di uno studio in tal senso, e a parte la richiesta avanzata dal prefetto urbano Ceionio Rufio Albino, si può fare riferimento alla visita del prefetto urbano Settimio Basso alla corte di Nicomedia nel 31894, che alcuni storici hanno messo in relazione con le coeve disposizioni sull’aruspicina, sebbene di quella missione il cronografo non specifichi l’oggetto95. È più certo che la legge successiva – con cui il principe permise che fossero consultati gli aruspici secondo le antiche tradizioni, chiedendo che gli venisse inviato un testo scritto con i risultati di tale consultazione – fosse inviata in risposta a una sollecitazione del prefetto urbano Valerio Massimo Basilio il quale, allorché una folgore aveva colpito il Colosseo, aveva consultato gli aruspici e ne aveva informato il principe attraverso il tribunus et magister officiorum Eracliano96.
La restituzione della senatoria dignitas rappresentava un tema di agevole trattazione per i panegiristi, in quanto sperimentata componente di ogni propaganda imperiale. Come tutti i luoghi comuni, però, partiva da basi di realtà per alcuni principi molto solide: altrimenti, come organo istituzionale, il Senato non avrebbe mantenuto fino all’inoltrato VI secolo competenze di ordine pubblico e persino capacità di legiferare contro i brogli elettorali, allora davvero vivaci solo in occasione dell’elezione del vescovo di Roma, come attestano alcune disposizioni conservate nelle Variae di Cassiodoro97.
Il cospicuo ampliamento dei numeri dell’aristocrazia senatoria avviato da Costantino, che entusiasmò fin dal 313 la retorica dei panegiristi dell’imperatore, non ricevette solo elogi. Giuliano, ad esempio, ebbe modo di esprimersi in termini estremamente negativi anche nei confronti dell’operato istituzionale di Costantino. Nella lettera inviata al Senato di Roma, ove in primo luogo attaccava lo zio Costanzo II98 – ovvero, a mio parere, in un’oratio composta tra Naissus e Costantinopoli per rispondere agli inviti alla moderazione, con cui il Senato aveva reagito alle accuse contenute nella sua prima missiva –, il neoaugusto «attaccò anche la memoria di Costantino, perché aveva innovato e sconvolto le antiche leggi e le tradizioni tramandate dal passato, e lo accusò apertamente di aver per primo elevato i barbari sino ai fasci e alla trabea consolare»99.
Benché del passo siano state date interpretazioni diverse, il confronto anche terminologico con altre fonti conforta nell’idea che, nell’accusare Costantino di essere stato novator turbatorque priscarum legum et moris antiquitus recepti, Giuliano non si riferisse alle sue scelte etico-religiose, o comunque non solo a quelle, bensì denunciasse l’azione di sovvertimento istituzionale operato dalle sue leggi. Per giustificare epiteti quali novator turbatorque, infatti, Giuliano esemplificò ricordando che il suo avo era stato il primo a introdurre in Senato persino i barbari conferendo loro il consolato. Indipendentemente dalla sua veridicità, la critica era dunque rivolta ai provvedimenti costantiniani che avevano implicato qualità e natura dell’ordine senatorio100.
Argomenti polemici contro Costantino sicuramente circolarono fra i suoi oppositori già all’epoca dell’adolescenza di Giuliano101. Nessuno storico, tuttavia, avrebbe avuto l’avventatezza di organizzarli in uno scritto durante il regno del figlio, cosicché Giuliano – mentre ne cancellava molte leggi, con l’intento di riorganizzare in modo diverso alcuni aspetti dell’amministrazione dell’Impero102 – fu probabilmente il primo a criticare apertamente e in forma scritta l’operato istituzionale di Costantino. Lo spunto gli fu fornito a Sirmium dalla formula – invero sintetica e non necessariamente critica – con cui Aurelio Vittore aveva colto l’audacia dei cambiamenti costantiniani: «Egli [scil. Costantino] impegnò il suo spirito, volto a imprese ingenti, nel fondare una città, nel dare disposizioni sugli affari religiosi e parimenti rinnovando l’amministrazione civile e militare dello Stato»103. L’espressione novando militiae ordine richiama da vicino il novator giulianeo: militia infatti includeva non solo i militari, bensì anche tutti i funzionari civili; ordo, a sua volta, indicava sia l’organizzazione istituzionale, sia il gruppo sociale a cui quella era affidata. Per Aurelio Vittore, dunque, Costantino era stato un novator perché con le sue disposizioni aveva provocato una radicale trasformazione delle categorie sociali al servizio dell’Impero, proprio come Giuliano sottolineò rivolgendosi al Senato di Roma.
Gli uomini dell’entourage giulianeo recepirono subito il senso di quella denuncia. Infatti, il primo concreto giudizio sull’operato legislativo di Costantino, formulato subito dopo la morte di Giuliano, ne riflette largamente il pensiero: «emanò molte leggi, alcune valide, nella maggior parte inutili, alcune dure fino alla crudeltà»104. Scrivendo sotto Valente e su sua commissione, Eutropio fece attenzione a non trascendere nelle critiche, ma la consonanza con la visione negativa di Costantino, che per primo Giuliano aveva espressamente formulato, trapela da molte parti del Breviarium ed è chiara nella descrizione della sua attività legislativa: poiché la politica imperiale si valutava sulla base del rapporto con il mos maiorum, che era considerato il valore supremo, il novando militiae ordine di Aurelio Vittore e il novator turbatorque priscarum legum di Giuliano si riflettono nella sintesi eutropiana, che esprime il peggior giudizio che si potesse dare dell’azione riformatrice di un imperatore105.
Le critiche portate all’operato istituzionale di Costantino nei primissimi anni Sessanta del IV secolo non rimasero circoscritte al gruppo di lavoro giulianeo. Dopo un trentennio, l’adesione a quel tipo di analisi si misura sulla scelta di Eunapio di dare ampio spazio a un dibattito che prima di Giuliano era stato trattato cursoriamente dalle fonti panegiristiche, ovvero del tutto trascurato. Se Eunapio derivava tale impostazione da Giuliano e la sua opera fu fonte di Zosimo, si comprende perché nella Storia Nuova l’esemplificazione degli sconvolgimenti operati da Costantino prenda il via dalla riforma della prefettura del pretorio, che fu concomitante con quella degli ordini, e utilizzando una frase che presenta forti analogie proprio con quella di Giuliano riportata da Ammiano: «[Costantino], pertanto, sconvolse anche le cariche pubbliche istituite in antico», ricorda Zosimo, laddove anche solo a livello terminologico il verbo συνετάραξεν echeggia il sostantivo turbator e πάλαι richiama l’avverbio antiquitus106.
Le riforme istituzionali di Costantino, dunque, non furono ben accolte in ambito provinciale, e storici come Aurelio Vittore ed Eutropio, come pure Eunapio qualche decennio dopo, furono pronti a riecheggiare le critiche che Giuliano aveva portato a Costantino su quel versante. I riferimenti sono tali, tuttavia, da far pensare che, se il principe apostata, rivolto al Senato di Roma, pensava essenzialmente alla riforma degli ordini, la tradizione orientale avesse invece di mira la creazione del Senato di Costantinopoli e la forma che esso aveva assunto a partire da Costanzo II: allora l’oratore Temistio (egli stesso adlectus in Senato nel 355) fu incaricato di una campagna di reclutamento tra gli esponenti più ricchi e potenti delle municipalità, per rafforzare numericamente l’assemblea orientale fino a eguagliare quella romana.
Da Libanio parrebbe che le reazioni suscitate da tale iniziativa fossero essenzialmente di tipo culturale, insistendo egli soprattutto sul ruolo del filosofo e sulla necessità del suo disimpegno politico, come se la fondazione di Costantinopoli e del suo Senato avesse acuito il contrasto ideologico tra le antiche tradizioni municipali e l’Impero107. Esse, tuttavia, esprimono con temi retorici il disagio maturato tra i ceti medi cittadini, quando la riforma costantiniana cominciava a mostrare i suoi effetti. Grazie al gruppo di sostegno, creatosi conferendo la dignità senatoria ai più potenti tra i curiali, Costantino aveva potuto governare l’Oriente postliciniano con una forte base di consenso. Nel suo insieme, tuttavia, la nuova organizzazione amministrativa era fortemente lesiva dell’autonomia delle municipalità, offrendo reali vantaggi solo ai ceti più elevati108. L’amministrazione cittadina, infatti, continuava a rimanere distinta da quella provinciale ma funzionari di professione, organizzati negli officia, affiancarono in gran numero i notabili municipali, controllando le finanze cittadine e intervenendo con autorità sulla vita locale. Allorché i più ricchi e potenti dei notabili furono chiamati a far parte del Senato costantinopolitano, godendo delle immunità e dei privilegi del nuovo ordine, la gestione della comunità nell’antica forma del munus risultò eccessivamente gravosa per quanti rimanevano semplici membri delle curie cittadine. La coattività con cui essi erano chiamati ad assumere a proprio carico le funzioni amministrative attinenti alla vita delle civitates – compresa quella di esigere i tributi, che implicava pesanti responsabilità patrimoniali per chi la svolgeva – fece esplodere le gravi contraddizioni di quella riforma; ne furono riflesso le immense difficoltà di conservare il ceto decurionale. Il problema s’intrecciò con quello del reclutamento dei vertici ecclesiastici che, almeno all’origine e per quel che risulta dalla normativa costantiniana, provenivano essenzialmente dal ceto curiale. Costantino stesso, infatti, cercò di risolvere la questione con disposizioni che, senza annullare i privilegi fiscali concessi a sacerdoti e chierici, limitavano le possibilità di accesso agli ordini ecclesiastici dei ceti decurionali109.
Motivazioni religiose possono aver cooperato ad alimentare le critiche verso Costantino di una tradizione provinciale che si vuole sostanzialmente pagana. Esse, tuttavia, veicolavano il diffuso rancore delle municipalità orientali per una riforma che nel tempo aveva acuito gli squilibri economici e sociali all’interno delle città. Se avessimo fonti occidentali di matrice provinciale, i giudizi sugli interventi istituzionali di Costantino sarebbero probabilmente conformi a quello giulianeo. Abbiamo invece la voce del Senato romano, che ebbe toni molto differenti.
Sappiamo da Ammiano che la lettera di Giuliano fu accolta con freddezza, redarguendo in molti il modo in cui il Cesare mostrava irriconoscenza verso Costanzo II, che era stato l’artefice della sua fortuna110. Di fronte alle accuse, poi, secondo cui Costantino aveva ammesso in Senato persino i barbari, i senatori sottolinearono la contraddizione in cui Giuliano era caduto, agendo in modo anche peggiore del suo predecessore:
Rimprovero, questo, senza dubbio sciocco e sconsiderato dato che, sebbene dovesse evitare ciò che aspramente criticava, poco tempo dopo nominò console, assieme a Mamertino, Nevitta, il quale né per nobiltà di natali, né per esperienza, né per gloria era simile a quelli che Costantino aveva insignito di quest’altissima carica: al contrario era ignorante, piuttosto rozzo e, ciò che era insopportabile, crudele nell’esercizio della sua alta autorità111.
Si ritiene normalmente che Ammiano esprimesse non la reazione del Senato, bensì il proprio giudizio personale, carico di astio nei confronti dei consoli del 362112. Poiché tuttavia è noto dallo stesso Mamertino che la sua nomina aveva sollevato molte polemiche, a cui egli tentò di controbattere con una precisazione cronologica davvero insolita in una gratiarum Actio113, si dovrà credere che il passo di Ammiano raccolga le voci ostili del Senato verso Giuliano, perché esse non differivano dalla sua posizione personale.
L’ultimo discendente di Costantino, infatti, aveva posto al centro della sua oratio ad senatum l’analisi del sovvertimento istituzionale operato da quel sovrano, convinto di sollecitare l’adesione dei suoi elementi più conservatori, che poteva presumere fortemente irritati per le conseguenze di confusione e mescolanza sociale che la riforma degli ordini stava producendo. Come tuttavia si era sbagliato nel supporre che il Senato avrebbe accolto con favore la sua denuncia delle complicità di Costanzo II nella strage del 337 d.C., così ancora una volta Giuliano fallì nelle proprie capacità di previsione. Singoli senatori possono senz’altro avere manifestato contingenti motivi d’attrito verso Costantino, ma ciò non fu sufficiente a far maturare una tradizione anticostantiniana di matrice senatoria. Se il primo strato moderatamente pagano dell’Origo Constantini Imperatoris (Anonymi Valesiani pars prior) fu scritto subito dopo la morte di Costantino114, presumibilmente sotto il regno di Costantino II (che era Augustus senior dal 337 d.C.), unico motivo di polemica fatto valere contro Costantino da una fonte senatoria occidentale fu la critica dei costi eccessivi della fondazione di Costantinopoli115. I nobili romani, infatti, rimasero legati a una visione positiva dell’azione istituzionale di Costantino: non solo nell’immediato, e/o per motivi di opportunismo politico, ma soprattutto nei decenni successivi, allorché fu palese che gli interventi istituzionali avviati dall’imperatore non avevano leso gli interessi dell’aristocrazia senatoria, rinsaldandone viceversa le fortune economiche e politiche.
Lo mostra anche un’operetta di Avianio Simmaco, composta tra il 374 e il 375, di cui restano solo cinque epigrammi in una lettera al figlio, ma la cui natura e le cui finalità sono facilmente individuabili. La sequenza nec splendore, nec usu, nec gloria, che Ammiano utilizza per sintetizzare le virtù degli uomini scelti da Costantino rispetto a Mamertino e Nevitta, cui Giuliano aveva conferito il consolato, trova singolare corrispondenza nelle virtù dei clari viri che Avianio Simmaco inserì nella sua galleria di uomini illustri. Opulenza, nobiltà e potere conferivano splendore a ognuno di loro; ognuno aveva utilizzato la propria eccezionale esperienza (l’usus ammianeo) per ottenere admiranda gloria, essendo a tutti comune l’indole eccellente (ingenium), lo spirito penetrante, la grande eloquenza e cultura116.
Gli ottanta uomini che Avianio si accingeva a elogiare, rimandavano a una trentina circa di famiglie, illustrate dai loro capostipiti di età costantiniana117: senatori attivi tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, implicati nella riorganizzazione istituzionale dell’età tetrarchico-costantiniana, la cui celebrazione ancorava alla consistenza di un passato glorioso e alla fierezza di illustri discendenze l’identità del ceto di governo, di recente rafforzato dalla riforma di Valentiniano I. Se già durante il regno di Costanzo II l’ordo senatorio era giunto a comprendere duemila membri, la scelta di Avianio Simmaco di elogiarne solo ottanta fa capire concretamente quanto poco l’inflazione del titolo di clarissimus, provocata dalla generosità delle immissioni costantiniane, avesse danneggiato i nobili senatori di Roma. Quell’aumento degli effettivi, che al momento avrebbe potuto suonare come svantaggioso e forse provocò qualche frizione tra Costantino e i più conservatori, era stato riassorbito dal rapido ricostituirsi di una gerarchia interna all’ordine, sulla cui definizione pesarono in modo rilevante ricchezza, nobiltà di stirpe, capacità di affermazione individuale: le virtù elogiate da Avianio Simmaco, secondo le categorie di giudizio enunciate da Ammiano, le stesse che Costantino aveva saputo valorizzare legando di nuovo a sé e all’ideologia dell’Impero rinnovato l’aristocrazia senatoria d’Occidente.
1 Eus., v.C. I 40,2; Eus., l.C. IX 8-11; Eus., h.e. IX 9,11.
2 Paneg. 9(12)20,1 (ed. D. Lassandro, G. Micunco, Torino 2000): «senatui auctoritatem pristinam reddidisti».
3 Cfr., res gestae divi Augusti I.
4 Paneg. 11(3)24,5.
5 Paneg. 10(4)35,2.
6 E. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, I, London 19126, p. 424.
7 Significativo della temperie della prima metà del Novecento, il volume di O. Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt, Stuttgart 1920, sembra influenzare ancora A. Piganiol, L’Empire chrétien, Paris (1947) 19722, e parzialmente A.H.M. Jones, The Later Roman Empire 284-602. A Social, Economic and Administrative Survey, 3 voll., Oxford 1964 (trad. it. Il tardo Impero romano, Milano 1973-1980), per la scarsa rilevanza attribuita al Senato tardoantico. L’incidenza del fattore religioso sulla politica attuata da Costantino nei riguardi dell’aristocrazia senatoria è al centro del volume di A. Alföldi, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, Oxford 1948, che ribalta la concezione gibboniana. Sebbene le prime recensioni del libro (G. Downey, in American Journal of Philology, 71 [1950], pp. 100-104, e C.H.V. Sutherland, in Classical Review, 64 [1950], pp. 140-142) non fossero di unanime apprezzamento, criticando l’eccessiva fiducia nelle informazioni fornite dalla eusebiana Vita Constantini, la tesi centrale di Alföldi ha avuto grande influenza. Pienamente convinto della sincerità della conversione di Costantino nel 312, Alföldi affrontò il problema della sopravvivenza degli elementi pagani nella politica imperiale dopo la battaglia di ponte Milvio, pensandoli dettati dalla necessità di fronteggiare una forte opposizione senatoria, e, pur ammettendo che la determinazione imperiale nella condanna degli antichi culti fosse aumentata negli anni successivi, egli ritenne che il Senato romano fosse rimasto un fulcro di conservazione pagana (p. 109) e di opposizione, pronto a esplodere nell’ultima reazione organizzata (anche militarmente) contro Teodosio I al Frigido (pp. 77, 123). Le ricerche dei prosopografi e degli archeologi hanno allargato enormemente la conoscenza dell’aristocrazia senatoria dall’età di Costantino, mostrando la scarsa attendibilità della tesi di Alföldi. Quest’ultima, tuttavia, ha ancora qualche influenza su A. Chastagnol, La préfecture urbaine à Rome sous le Bas-Empire, Paris 1960, p. 402 («l’animosité entre l’empereur et le Sénat»), e sulle biografie dedicate a Costantino in quegli anni (J. Vogt, Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, Munich 19602, p. 183, e R. MacMullen, Constantine, New York 1969, pp. 128-131, 142, 245). Una decisa reazione si è avuta con l’importante saggio di D.M. Novak, Constantine and the Senate: An Early Phase of the Christianization of the Roman Aristocracy, in Ancient Society, 10 (1979), pp. 271-310, dalla cui analisi risulta evidente che Costantino non ebbe remore a utilizzare aristocratici pagani già attivi con Diocleziano e Massenzio e l’aristocrazia non produsse alcuna fronda di opposizione organizzata contro l’imperatore cristiano. In tale direzione si muove oggi la ricerca più recente, nutrita dalla convinzione che i rapporti tra Costantino e i gruppi di aristocratici romani non fossero regolati né da cinico realismo né dal desiderio del primo di compiacere il paganesimo dei secondi, ma principalmente da questioni di opportunità politica: G. Clemente, Cristianesimo e classi dirigenti prima e dopo Costantino, in Mondo classico e cristianesimo, Atti del Convegno internazionale (Roma 13-14 maggio 1980), a cura di F. Rovigatti, Roma 1982, pp. 51-64; A. Marcone, Costantino e l’aristocrazia pagana di Roma (1993), in Id., Di Tarda Antichità. Scritti scelti, Firenze 2008, pp. 107-116.
8 S. Mazzarino, Il basso Impero. Antico, tardoantico ed èra costantiniana, 2 voll., Bari 1974-1980.
9 In particolar modo, Ch. Lécrivain, Le sénat romain depuis Dioclétien à Rome et à Constantinople, Paris 1888.
10 A. Piganiol, L’Empire chrétien, cit., pp. 382-383.
11 A.H.M. Jones, The Later Roman Empire, cit., I, pp. 144-146; p. 405 e II, pp. 745-747.
12 A. Chastagnol, La préfecture urbaine, cit.; Id., Les Fastes de la Préfecture de Rome au Bas-Empire, Paris 1962.
13 PLRE I (1971), a cura di A.H.M. Jones, J.R. Martindale, J. Morris, Cambridge 1971.
14 M.T.W. Arnheim, The Senatorial Aristocracy in the later Roman Empire, Oxford 1972, pp. 38-48.
15 Ivi, pp. 49-73, in reazione ad A. Alföldi, The Conversion, cit.
16 G. Clemente, recensione ad Arnheim, in Rivista di filologia e d’istruzione classica, 101 (1973), pp. 506-512.
17 Si segnalano in tal senso: D.M. Novak, Constantine, cit. e i saggi di A. Giardina, Le due Italie nella forma tarda dell’Impero, F. Jacques, L’ordine senatorio attraverso la crisi del III secolo, C. Lepelley, Fine dell’ordine equestre: le tappe dell’unificazione della classe dirigente romana nel IV secolo, in Società romana e Impero tardoantico, I, Istituzioni, ceti, economie, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 1986, pp. 1-3, 80-225, 227-244; il volume di A. Chastagnol, Le Sénat romain à l’èpoque impériale, Paris 1992, pp. 233-324; e il saggio di L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi (III-VI secolo), in Il Senato nella storia, a cura di F.M. D’Ippolito, E. Gabba, S. Roda et. al., I, Il Senato nell’età romana, Roma 1998, pp. 223-375, in partic. 223-289.
18 È assente in H. Brandt, Das Ende der Antike, München 2001, e anche in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lenski, Cambridge 2006, nonché in R. Van Dam, The Roman Revolution of Constantine, Cambridge (MA) 2007.
19 P. Heather, Senators and Senates, in The Cambridge Ancient History, XIII, The Late Empire, A.D. 337-425, ed. by Av. Cameron, P. Garnsey, Cambridge 1998, pp. 184-210.
20 Da segnalare G.A. Cecconi, La città e l’impero. Una storia del mondo romano dalle origini a Teodosio il Grande, Roma 2009, pp. 367-370.
21 Così, per esempio, nella recente Storia di Roma. L’età tardoantica, 2 voll., a cura di L. De Salvo, C. Neri, Roma 2010, pp. 414-436.
22 Paneg. 10(4)35,2: «Sensisti, Roma, tandem arcem te omnium gentium et terrarum esse reginam, cum ex omnibus provinciis optimates viros curiae tuae pignerareris, ut senatus dignitas non nomine quam re esset inlustrior, cum ex totius orbis flore constaret». Ancora un secolo dopo, sebbene senza menzionare Costantino, Rutilio Namaziano elogiava la venerabile Curia romana, aperta alla peregrina laus (Rut. Nam. I 3-18 e in partic. 13). Sull’ideologia del Senato nel maturo IV secolo e nel V, cfr. S. Roda, Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà provinciali, in Storia di Roma, III, 1, Crisi e trasformazioni, a cura di A. Carandini, L. Cracco Ruggini, A. Giardina, Torino 1993, pp. 643-674.
23 Il celebre discorso di Claudio in Senato è riportato dalla Tavola di Lione (CIL XIII 1668 = ILS 212) e parafrasato da Tac., ann. XI 23-25; da ultimo, entro una bibliografia vastissima, S. Roda, Il Senato nell’Alto Impero romano, in Il Senato nella storia, cit., pp. 129-221, in partic. 176-188, e, in connessione con il tema dell’identità romana, A. Giardina, Introduzione, in Roma antica, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 2000, pp. V-XXI, in partic. XV-XVI.
24 Sotto Domiziano gli italici erano ancora il 76%, ma poco prima di Severo Alessandro (allorché questi sarebbero scesi al 52%) i senatori provinciali erano saliti al 57%, con una presenza progressiva di notabili da Gallia, Spagna, Grecia, Asia Minore, Africa; province ancora molto marginali come la Britannia, la Rezia, o le due Germanie solo nel corso del IV secolo cominciarono ad avere i loro rappresentanti in Senato: A. Chastagnol, Le Sénat, cit., pp. 159-164; L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., p. 253.
25 Sarebbe stata la disaffezione politica a provocare quella scomparsa di molte famiglie senatorie, che K. Hopkins (Death and Renewal, Cambridge 1983, pp. 123-127) credette di ricavare dai dati seriali, basati peraltro solo sulle liste di consoli ordinari e suffecti tra il 18 e il 135 d.C. Sulla scarsa attendibilità dell’analisi di tipo statistico per l’età antica, F. Jacques, L’éthique et la statistique: À propos du renouvellement du Sénat romain (Ier-IIIe siècles de l’Empire), in Annales, 42 (1987), pp. 1287-1303.
26 Sulla definizione di ordo senatorio ed equestre, in quanto aggregati sociali e politici che a partire da Augusto si configurarono anche in termini giuridici, essendo fissati i rispettivi parametri censitari, S. Demougin, Uterque ordo. Les rapports entre l’ordre sénatorial et l’ordre équestre sous le Julio-Claudiens, in Epigrafia e ordine senatorio, Atti del Colloquio internazionale AIEGL (Roma 14-20 maggio 1981), I, Roma 1982, pp. 73-104, in partic. 75-76. Mentre in età repubblicana l’ordine senatorio indicava esclusivamente i membri dell’assemblea, nel corso del principato fu inteso comprendere anche i loro figli maschi in età adulta e in prosieguo di tempo anche mogli, figli minori e figlie nubili.
27 Esaustiva l’indagine di F. Jacques, L’ordine senatorio attraverso la crisi del III secolo, in Società romana e Impero tardoantico, I, cit., pp. 81-225.
28 Paola, da parte di madre discendente dai Gracchi e dagli Scipioni, da parte di padre discendeva da Agamennone, così come Toxotius, suo marito, era detto discendere da Enea (Hier., epist. 108,3-4). Altri esempi sono discussi e studiati da F. Chausson, Les lignages mythiques dans quelques revendications généalogiques à la fin de l’Antiquité, in Généalogies mythiques, VIII Colloque du Centre de recherches mythologiques de l’Université de Paris X-Nanterre (Chantilly septembre 1995), éd. par D. Auger, S. Saïd, Paris 1998, pp. 397-420.
29 Aur. Vict., Caes. 33,33-34: «et patres quidem praeter commune Romani malum orbis stimulabat proprii ordinis contumelia, quia primus ipse metu socordiae suae, ne imperium ad optimos nobilium transferretur, senatum militia vetuit et adire exercitum». L’editto sembrerebbe promulgato poco dopo la cattura del padre Valeriano, intorno al 362: M. Christol, Essai sur l’évolution des carrières sénatoriales dans la 2e moitié du IIIe s. ap. J.C., Paris 1986, pp. 45-47.
30 Precisazioni sul modo d’interpretare il passo di Aurelio Vittore in L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., p. 227, che corregge A. Chastagnol, Le Sénat, cit., pp. 208-209: «ipse» è evidentemente Gallieno e «socordiae suae» va riferito al soggetto grammaticale, anziché al Senato come pensava lo studioso francese.
31 Sugli eventi e la complessa cronologia dell’anno 238, K. Dietz, Senatus contra principem, München 1980, pp. 344-347.
32 M. Christol, Les réformes de Gallien et la carrière sénatoriale, in Epigrafia e ordine senatorio, I, cit., pp. 143-166; cfr. anche M. Silvestrini, Il potere imperiale da Severo Alessandro ad Aureliano, in Storia di Roma, III, 1, cit., pp. 155-191, in partic. 185.
33 W. Eck, La riforma dei gruppi dirigenti: L’ordine senatorio e l’ordine equestre, in Storia di Roma, II, 2, L’Impero mediterraneo, a cura di G. Clemente, F. Coarelli, E. Gabba, Torino 1991, pp. 73-118.
34 Ivi, pp. 87-88; M. Christol, Essai, cit., pp. 39-54; A. Chastagnol, Le Sénat, cit., p. 209.
35 L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., p. 260.
36 C. Lepelley, Du triomphe à la disparition: Le destin de l’ordre équestre de Dioclétien à Theodose, in L’Ordre équestre. Histoire d’une aristocratie (IIe siècle av. J.-C. - IIIe siècle apr. J.-C.), éd. par S. Demougin, H. Devijver, M.-T. Raepsaet-Charlier, Paris 1999, pp. 629-646.
37 Come l’idea di una forte reazione senatoria alla conversione religiosa dell’imperatore e l’ipotesi che molte scelte costantiniane in favore degli aristocratici pagani e del Senato fossero fatte per non alienarsene l’appoggio, in un contesto di forte conflitto religioso, entrambe espresse da A. Alföldi, The Conversion of Constantine, cit., estensivamente nei capitoli I e II.
38 Lact., mort. pers. 44,11.
39 A. Guidanti, L’aristocrazia norditalica tra Antonini e Severi: gli Hedii di Pollentia, in Simblos, 1 (1995), pp. 201-218; S. Roda, Cisalpini in Lusitania: grandi famiglie senatorie norditaliche nell’Alto Impero romano, in Italia sul Baetis. Studi di storia romana in memoria di Fernando Gascò, a cura di E. Gabba, P. Desideri, S. Roda, Torino 1996, pp. 32-50.
40 D. Vera, Strutture agrarie e strutture patrimoniali nella tarda Antichità: l’aristocrazia romana fra agricoltura e commercio, in Opus, 2 (1983), pp. 489-533, poi in La parte migliore del genere umano: aristocrazie, potere e ideologia nell’Occidente tardoantico, a cura di S. Roda, Torino 1994, pp. 165-224; Id., Conclusioni, in Le trasformazioni delle élites in età tardoantica, Convegno internazionale (Perugia 15-16 marzo 2004), a cura di R. Lizzi Testa, Roma 2006, pp. 437-447.
41 In tal senso valgono le critiche rivolte da G. Clemente, nella recensione ad Arnheim, cit., pp. 508-509, all’idea di una forte discontinuità tra le riforme amministrative di Diocleziano e quelle di Costantino.
42 A. Giardina, La formazione dell’Italia provinciale, in Storia di Roma, III, 1, cit., pp. 51-68.
43 Sulle grandi opere edilizie promosse intorno all’edificio della Curia distrutta da un incendio nel 283, che sarebbero state riprese e portate a compimento da Costantino, F. Coarelli, L’Urbs e il suburbio, in Società Romana e Impero tardoantico, cit., II, pp. 1-58, e R. Santangeli Valenzani, La politica urbanistica tra i tetrarchi e Costantino, in Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, a cura di S. Ensoli, E. La Rocca, Roma 2000, pp. 41-44. Massenzio sembra anche essere stato il primo augusto a nominare prefetto al pretorio un senatore, Gaio Ceionio Rufio Volusiano, inviato in Africa per combattere l’usurpatore Domizio Alessandro: PLRE I, s.v. C. Ceionius Volusianus 4, pp. 976-978.
44 Discussione dei casi prosopografici più significativi in D.M. Novak, Constantine and the Senate, cit., pp. 286-310.
45 P. Heather, Senators and Senates, cit., pp. 185-186.
46 A. Chastagnol, Le Sènat, cit., pp. 97-120: in tal senso si poteva essere adlecti inter questorios o inter tribunicios, persino inter praetorios, essendo dispensati dal percorrere i gradini inferiori, ed essere incaricati rispettivamente delle cariche ricopribili da chi era di rango tribunicio, pretorio o consolare.
47 Sull’adozione del sistema di cooptazione (una forma di adlectio) da parte di Augusto, che vi fece ricorso però con intenti opposti a quelli di Costantino, al fine cioè di restringere gli effettivi senatori cresciuti in modo abnorme sotto Cesare, siamo informati da Svet., Aug. 35,1, D.C. XLIII 47,2 e LII 42,2; LIV 14,1: dopo una sorta di scioglimento del Senato, che lasciava nell’esercizio reale delle loro funzioni soltanto una trentina di senatori, fu affidato a costoro il compito di cooptare ciascuno un collega, ripetendo l’operazione fino a raggiungere il numero di 240, dopodiché Augusto stesso nominò personalmente altri nuovi senatori: R.J.A. Talbert, The Senate of Imperial Rome, Princeton 1984, pp. 131-132.
48 h.A. Sev. Al. XIX 2-3.
49 CIL VI 1704 = ILS 1214, in riferimento a C. Caelius Saturninus: A. Chastagnol, Le Sènat, cit., p. 140.
50 Symm., or. 7,7: L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., pp. 250-251, nota 59.
51 A. Chastagnol, L’évolution de l’ordre sénatorial aux IIIe et IVe siècles de notre ère, in Revue Historique, 94 (1970), pp. 305-314 = L’evoluzione dell’ordine senatorio nei secoli III e IV della nostra era, in La parte migliore del genere umano, cit., pp. 9-21.
52 Cod. Theod. XII 1,14 (24 nov. 326): cfr. A. Chastagnol, Le Sénat, cit., pp. 236-238, nota 19. Oggi è chiaro che le leggi emanate per contrastare la cosiddetta fuga dei curiali si moltiplicarono nel corso del IV secolo, in modo del tutto indipendente dall’assorbimento degli equestri nel ceto senatorio.
53 A. Chastagnol, L’evoluzione dell’ordine, cit., p. 16.
54 P. Porena, Le origini della prefettura del pretorio tardoantica, Roma 2003, p. 391.
55 In età costantiniana non furono attivi quattro prefetti del pretorio, come sostiene Zosimo, bensì cinque collegi prefettizi: ivi, p. 339, e C. Kelly, Bureaucracy and Government, in The Age of Constantine, cit., pp. 183-204. Dal 338 d.C. (in base alle testimonianze del Codice Teodosiano), ma con certezza fra il 341 e il 343 d.C. (in relazione alla dedica di Traiana), si fissò una divisione in tre prefetture (Oriente, Italia-Illirico-Africa, Gallie), che rimase inalterata fino a Adrianopoli. Dopo il 378 d.C., per noti motivi di strategia difensiva, si pervenne invece all’assetto ‘teodosiano’, quale descritto nella Notitia Dignitatum: due prefetture in Oriente (Oriente e Illirico) e due in Occidente (Italia, Gallie): D. Hoffmann, Das spätrömische Bewegungsheer und die Notitia Dignitatum, II, Düsseldorf 1969-1970, pp. 208-215, in partic. 208-213.
56 Accanto alla funzione originaria di comandante della guardia pretoriana, nel corso del II-III secolo il prefetto al pretorio aveva acquisito ampie funzioni giudiziarie come rappresentante dell’imperatore, giudicando in appello le cause già discusse dai governatori provinciali; come capo di Stato maggiore, inoltre, egli era divenuto responsabile del reclutamento, della disciplina e dell’approvvigionamento degli eserciti; funzione, quest’ultima, che con l’ampliarsi del sistema delle requisizioni in natura era aumentata d’importanza rendendo il prefetto al pretorio il primo ministro finanziario dell’Impero. Con Costantino, i prefetti rimasero responsabili del reclutamento, del rifornimento delle razioni e delle fabbriche d’armi, ma non ebbero più autorità sulla disciplina e sulle operazioni militari; il mutamento investì anche i loro vicari, cosicché comando civile e comando militare risultarono separati in quasi tutte le province, a parte poche eccezioni in cui la carica di praeses coincideva con quella di dux, come in Isauria.
57 Cl. Lepelley, Fine dell’ordine equestre, cit., p. 237 note 44-49, p. 238 note 50-51; Id., Du triomphe à la disparition, cit., p. 638. Il titolo di eques Romanus continuò a sussistere, ma solo a Roma, come proprio dei navicularii (armatori di navi, fondamentali per l’approvvigionamento dell’Urbe), probabilmente affinché godessero dei privilegi degli honestiores (ivi, p. 640).
58 F. Jacques, L’ordine senatorio, cit., p. 87.
59 G. Dagron, Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-451), Torino 1991, pp. 127 segg.
60 Y. Roman, Empereurs et sénateurs. Une histoire politique de l’Empire romain, Paris 2001, pp. 460-462.
61 A. Chastagnol, Le Sènat, cit., pp. 293-324, e Y. Roman, Empereurs, cit., pp. 464-471.
62 In base all’Anonimo di Valois (Anon. Vales., I 6,30: «ibi etiam senatus constituit secundi ordinis; clarus vocavit») avrebbe potuto essere quella la titolatura d’ingresso, suscettibile di trasformarsi in clarissimato dopo la pretura o le prime funzioni amministrative: A. Chastagnol, Le Sènat, cit., pp. 250. I clari di Costantinopoli avevano l’obbligo di risiedere in città, mentre quelli di Roma avevano ottenuto nel tempo numerose deroghe, tantoché già all’epoca di Plinio il Giovane l’assenteismo sfiorava quasi il 50% e i giurisperiti di epoca severiana elaborarono la regola del doppio domicilio (Dig. I 9,11): L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., pp. 253-254.
63 A. Chastagnol, La préfecture urbaine, cit., pp. 432-435; per una diversa interpretazione dei fini della riforma, R. Lizzi Testa, Senatori, popolo, papi. Il governo di Roma al tempo dei Valentiniani (Munera 21), Bari 2004, pp. 303-304.
64 L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., pp. 261-263 e nota 91 su vari tentativi di ripristino della censura.
65 Per la questura da trenta a venticinque anni, per la pretura da quaranta a trentacinque e per il consolato trentatré: S. Roda, Il Senato nell’Alto Impero romano, cit., p. 165.
66 Discussioni delle fonti (h.A. Sev. Al. XLIII 3-4 e Cod. Theod. VI 4,1-2 del 326/327) e riflessioni sulla distinzione tra quaestores candidati e arcarii, in L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., pp. 273-274 e nota 128.
67 Le competenze sono elencate in Cod. Theod. VI 4,16 del 359; Cod. Theod. VI 4,2 del 327 consente di rivestire la magistratura a età inferiore a venti anni; Cod. Theod. VI 4,3-7 del 315 fissano la somma minima da distribuire ad amici, spettatori, attori di teatro: A. Chastagnol, Le Sènat, cit., p. 245.
68 Ivi, pp. 246-248.
69 Un orientale, Ablabio, lo divenne però nel 331 e dopo la morte di Costantino fu scelto con Bonoso il primo militare: L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., pp. 267, 275-277; A. Chastagnol, Le Sènat, cit., pp. 240-248.
70 S. Roda, Il Senato nell’Alto Impero romano, cit., pp. 155-172.
71 Geront., v. Mel. XLIV (versione greca); Procop., Arc. XIV 7,8: A.H.M. Jones, The Later Roman Empire, cit., pp. 404-405.
72 Sulle quali resta essenziale il volume di D. Vera, Commento storico alle Relationes di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa 1981.
73 A. Chastagnol, Le Sènat, cit., pp. 217-218, 255-258; L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., pp. 238-241.
74 G. Bonamente, Il ruolo del senato nella divinizzazione degli imperatori, in “Humana sapit”. Ėtudes d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, a cura di J.-M. Carrié, R. Lizzi Testa, Turnhout 2002, pp. 359-381, in partic. 369.
75 A. Amici, La divinizzazione imperiale in età tetrarchica, in Cristianesimo nella storia, 27 (2005), pp. 353-394, in partic. 371 e 381.
76 G. Bonamente, Il canone dei divi e la Historia Augusta, in Historiae Augustae Colloquium Parisinum, a cura di G. Bonamente, N. Duval, Macerata 1991, pp. 59-82, tavv. 1 e 4.
77 Eus., v.C. IV 69,2.
78 Eus., v.C. IV 70,1-2.
79 CIL, XII 668 = AE, 1952, 107.
80 A. Chastagnol, N. Duval, Les survivances du culte impérial dans l’Afrique du Nord à l’époque vandale, in Mélanges d’histoire ancienne offerts à William Seston, ed. by Paris 1972, pp. 87-118.
81 Si veda il contributo di G. Bonamente, in quest’opera.
82 L. Cracco Ruggini, Apoteosi e politica senatoria nel IV s. d.C.: il dittico dei Symmachi al British Museum, in Rivista Storica Italiana, 89 (1977), pp. 425-489.
83 Aur. Vict., Caes. 37,5.
84 Aulo Gellio (XIV 7,9) ricorda che il costume più antico era stato quello d’iniziare a interrogare chi, tra i senatori consolari, fosse stato iscritto dai censori in testa alla lista del Senato, ma che all’epoca di Varrone tale prassi era stata alterata.
85 h.A. Gord. IX 7; Tyr. Trig. V 4; Aurel. XIX 3; Tac. IV 3; Prob. XII 1.
86 Aur. Vict., Caes. 34,3-4 ed Epit. 34,3.
87 Lact., inst. I 10,8: A. Chastagnol, Le Sènat, cit., pp. 217-218; L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., p. 264 e nota 99.
88 Symm., epist. II 7,2 e IV 5; rel. VIII 2; XXIV 2.
89 PLRE I, s.v. Ceionius Rufius Albinus 14, p. 37. Egli era figlio di C. Ceionio Rufio Volusiano, che fu corrector Italiae dal 281/283 al 288/290, proconsul Africae forse tra il 305-306; praefectus praetorii Orientis nel 309-310 e forse nel 321; praefectus Urbi Romae nel 310-311 e nel 313/315; consul di Massenzio e poi di Costantino nel 311 e nel 314. Come prefetto del pretorio, egli aveva diretto una spedizione in Africa per conto di Massenzio, mettendo fine all’usurpazione di Domizio Alessandro (Aur. Vict., Caes. 40,18; Zos. II 14,2-3): A. Chastagnol, Fastes, cit., pp. 52-58, con precisazioni in PLRE I, s.v. C. Ceionius Rufius Volusianus 4,976-978; F. Jacques, Ordine senatorio, cit., p. 170, n. 2.
90 CIL VI 1708 = 31906 = ILS 1222. Sul dibattito scaturito tra T. Mommsen e O. Seeck su come integrare e interpretare questa iscrizione, si veda S. Mazzarino, Il basso Impero, cit., pp. 183-184 e 443-444 e nota 114. Discussione completa ora in CIL VI 8,3, pp. 5051-5052 (G. Alföldy): da età cesariana fino al 336/337, ogni anno solo una parte dei questori era eletta dai comizi e quindi dal Senato, mentre il resto (i quaestores Augusti o candidati) erano nominati dal principe. Dal 336 i quaestores candidati non esistono più e tutti i questori sono creati dal Senato (Cod. Theod. VI 4,8; 10; 12-15).
91 D.C. XLIII 51,3.
92 Symm., rel. 8,2-3 (D. Vera, Commento, cit., pp. 79, 357); si veda J. Harries, The Roman Imperial Quaestor from Constantine to Theodosius II, in Journal of Roman Studies, 78 (1988), pp. 148-172, in partic. 169: la procedura attraverso la quale giungevano a forma definitiva le leggi relative al Senato comprendeva quattro stadi, di cui l’oratio rappresentava il secondo.
93 Symm., epist. I 13,4 e rel. 24,1: sulle minute delle varie sessioni, disponibili già a partire dal II secolo grazie all’impiego di stenografi, I.H. Oliver, R.E. Palmer, Minutes of an Act of the Roman Senate, in Hesperia, 24 (1955), pp. 320-349.
94 Chronogr. a. 354, s.a. 318 MGH AA IX, p. 67.
95 Cod. Theod. IX 16,1-2, la cui cronologia è incerta, ma non anteriore al 318: si veda L. De Giovanni, L’imperatore Costantino e il mondo pagano, Napoli 20032, pp. 31-61, per un’ampia e articolata trattazione del problema, nonché E. Moreno Resano, Constantino y los cultos tradicionales, Zaragoza 2007, pp. 213-219.
96 Cod. Theod. XVI 10,1, ad Maximum, emanata a Serdica il 17 dicembre 320 e ricevuta a Roma l’8 marzo 321.
97 Cassiod., var. IX 15,3: «ut a tempore sanctissimi pape Bonifatii, cum de talibus prohibendis suffragiis patres conscripti senatus consulta nobilitatis suae memores condiderunt».
98 È questa l’opinione dei più, essendo il passo (Amm., XXI 10,7-8) edito come parte di quella lettera in Imperatoris Caesaris Flavii Claudii Iuliani Epistulae, leges, poemata, fragmenta varia, éd. par J. Bidez, F. Cumont, Paris 1922, n. 21. In Philological and Historical Commentary on Ammianus Marcellinus XXI, ed. by J. Den Boeft, D. Den Hengst, H.C. Teitler, Groningen 1991, p. 143, tuttavia, non si esclude che le considerazioni su Costantino potessero provenire da un altro testo giulianeo; si veda pure, nello stesso senso, J. Szidat, Historischer Kommentar zu Ammianus Marcellinus Buch XX–XXI, III, Die Konfrontation, Stuttgart 1996, p. 110.
99 Amm., XXI 10,8: «Tunc et memoriam Constantini, ut novatoris turbatorisque priscarum legum et moris antiquitus recepti, vexavit, eum aperte incusans, quod barbaros omnium primus ad usque fasces auxerat et trabeas consulares». Sulla questione, R. Lizzi Testa, Alle origini della tradizione pagana su Costantino e il senato romano (Amm. 21, 10, 8 e Zos. 2, 32, 1), in Transformations of Late Antiquity. Essays for Peter Brown, ed. by Ph. Rousseau, M. Papoutsakis, Farnham (Surrey)-Burlington 2009, pp. 85-128, in partic. 89-108.
100 Tale accusa non sembra avesse riscontri diretti nella realtà: A. Chauvot, Opinions romaines face aux barbares au IVe siècle ap. J.-C., Paris 1998, pp. 64-70. È stato pertanto suggerito che Ammiano avesse travisato la frase di Giuliano, il quale (sulla scia di Porfirio) avrebbe voluto indicare «i non Elleni», dunque «i cristiani»: T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge (MA) 1981, p. 403 nota 3; Id. Christians and Pagans in the Reign of Constantius, in L’Église et l’Empire au IVe siècle, Genève 1989, p. 321; in tal caso, anche «novator turbatorque priscarum legum et moris antiquitus recepti» dovrebbe riferirsi alle innovazioni introdotte in campo religioso. In realtà, Giuliano avrebbe fornito un’informazione inesatta anche se Ammiano ne avesse frainteso la frase, perché individui di fede cristiana (indipendentemente dal loro numero) avevano ricevuto il consolato ben prima di Costantino: così lo stesso T.D. Barnes, Statistics and the Conversion of the Roman Aristocracy, in Journal of Roman Studies, 85 (1995), pp. 135-147.
101 F. Paschoud, Zosime 2, 29 et la version païenne de la conversion de Constantin, in Historia, 20 (1971), pp. 334-353, in partic. 339.
102 A loro volta, i compilatori del Codice Teodosiano eliminarono dalla raccolta le leggi con cui Giuliano aveva abrogato quelle dell’avo, a parte due: Cod. Theod. II 5,2, 3 sett. 362, e Cod. Theod. III 1,3, 2 dic. 362.
103 Aur. Vict., Caes. 41,12: «Condenda urbe formandisque religionibus ingentem animum avocavit, simul novando militiae ordine».
104 Eutr. X 8,1: «multas leges rogavit, quasdam ex bono et aequo, plerasque superfluas, nonnullas severas».
105 G. Bonamente, Eutropio e la tradizione pagana su Costantino, in Scritti storico-epigrafici in memoria di Marcello Zambelli, a cura di L. Gasperini, Macerata 1978, pp. 17-59, in partic. 47.
106 Zos., II 32,1: Συνετάραξεν δὲ καὶ τὰς πάλαι καθεσταμένας ἁρχάς.
107 G. Dagron, L’empire Romain d’Orient au IVe siècle et les traditions politiques de l’Hellénisme. Le témoignage de Thémistios, in Travaux et Mémoires, 3 (1968), 1-242, in partic. 36-48.
108 Cursus honorum ineccepibile, distinzione culturale, ma soprattutto ricchezza mobile e ricchezza terriera erano le qualità che, su richiesta di Costanzo II, avrebbero dovuto combinarsi in un senatore ideale: le stesse che Temistio avrebbe dovuto tener presenti per selezionare i nuovi membri della Curia co;stantinopolitana: Constantius II, Epistula ad senatum, in Discorsi di Temistio, I, ed. R. Maisano, Torino 1995, pp. 156-167.
109 R. Lizzi Testa, Privilegi economici e definizione di status: il caso del vescovo tardoantico, in Rendiconti dell’accademia nazionale dei Lincei, s. IX 11 (2000), pp. 55-103.
110 Amm., XXI 10,7.
111 Amm., XXI 10,8: «insulse nimirum et leviter, qui cum vitare deberet id quod infestius obiurgavit, brevi postea Mamertino in consulatu iunxit Nevittam, nec splendore nec usu nec gloria horum similem, quibus magistratum amplissimum detulerat Constantinus: contra inconsummatum et subagrestem et (quod minus erat ferendum) celsa in potestate crudelem».
112 T.D. Barnes, Ammianus Marcellinus and the Representation of Historical Reality, Ithaca (NY)-London 1998, pp. 143-165.
113 Paneg. 11(3)15,4.
114 T.D. Barnes, The lost Kaisergeschichte and the Latin Historical Tradition, in Bonner Historia-Augusta-Colloquium 1968/69, ed. J. Straub, Bonn 1970, pp. 13-43, in partic. 27.
115 Anon. Vales. VI 30; cfr. G. Zecchini, Ricerche di storiografia latina tardoantica, Roma 1993, pp. 29-38, in partic. 35.
116 Symm., epist. I 2,3-7.
117 Molti degli ottanta clari viri erano legati da rapporti familiari, come Aradio Rufino e suo figlio Valerio Proculo, oppure come i membri della famiglia di Avianio Simmaco, il quale aveva incluso nell’opera anche i profili del suocero e dello zio materno: epist. I 2,2. Sul significato delle due lettere nel contesto della produzione tardoantica: L. Cracco Ruggini, Simmaco e la poesia, in Id., La poesia tardoantica: tra retorica, teologia e politica, Messina 1984, pp. 477-521; sul loro significato politico, R. Lizzi Testa, Policromia di cultura e raffinatezza editoriale: gli esperimenti letterari dell’aristocrazia romana nel tardo Impero, in “Humana sapit”, cit., pp. 187-199.