Costantino e la Riforma radicale nel Cinquecento
Il successo di un mito negativo
Con la comparsa della Riforma protestante sulla scena cinquecentesca, furono revocati in dubbio molti aspetti della ricostruzione tradizionale della historia salutis, a cominciare dalla storia delle Chiese cristiane nei secoli immediatamente successivi alla morte di Gesù. In questo rivolgimento complessivo di prospettiva storica sul cristianesimo si spinsero senz’altro più avanti, rispetto ad altre componenti del movimento protestante, i pensatori e leader religiosi di quella galassia frammentata ed eterogenea che fu la Riforma radicale. Difficile darne una presentazione davvero convincente e onnicomprensiva; di sicuro, non troverebbe oppositori una definizione, forse troppo rinunciataria, che la rappresentasse come un insieme di movimenti religiosi, accomunato solo dal rifiuto sia della cosiddetta ‘Riforma magisteriale’ dei grandi riformatori istituzionali (Lutero, Calvino, Zwingli) sia, ovviamente, della Chiesa cattolica. Tutti i numerosi tentativi tassonomici azzardati negli ultimi decenni, anche quelli più organici ed eruditi, sono stati destinati all’insuccesso: spiritualisti, antitrinitari, anabattisti e, beninteso, le loro svariate ripartizioni interne non potranno mai essere riportati sotto un denominatore comune che non sia semplicemente oppositivo1. Allo storico non resta, dunque, che esaminare con pazienza e acribia i diversi filoni in cui questa massa magmatica di pensatori religiosi, profeti, umanisti si organizzò ed espresse le proprie convinzioni teologiche.
A tale pulviscolarità diffusa corrispose una simile varietà di idee anche per quanto riguarda la filosofia della storia proposta da questi gruppi religiosi. La posta in gioco era decisiva e andava a toccare ambiti di primaria importanza, come la concezione ecclesiologica da imporre alle comunità dei credenti. Una parte influente della Riforma radicale fu accomunata da una visione simile del percorso storico cristiano, che sarebbe stato scandito da una netta cesura tra il periodo apostolico e quello posteriore, corrotto e sempre più lontano dall’insegnamento di Cristo. Una delle cause decisive di questa degenerazione fu indicata nella conversione al cristianesimo di Costantino, che in tal modo avrebbe congiunto il potere temporale a quello spirituale, dando inizio al regno dell’Anticristo nella Chiesa. Dietro a una tale presa di posizione si celava uno scarto profondo con il pensiero dei maggiori riformatori, che avevano, al contrario, celebrato Costantino come l’esempio più illustre di un potere politico interessato alla purezza dottrinale, che aveva posto fine alle persecuzioni e si era impegnato a difendere l’ortodossia della Chiesa2. La Riforma radicale, almeno in alcune sue componenti, ravvisò invece in questa condotta un deciso travisamento del messaggio evangelico e del disegno di Dio, accusando Costantino di aver prodotto una frattura difficilmente sanabile nella storia cristiana.
Non erano questioni di dettaglio erudito: anticipare ai primi secoli la depravazione contro cui si scagliava la protesta luterana implicava un ampliamento a dismisura degli elementi da ‘riformare’ ed espungere dalla Chiesa. In poche parole, tutto quello che era stato stabilito in età post-apostolica veniva messo seriamente in discussione in quanto esito della tabe diffusasi dopo la corruzione del cristianesimo. Ritrarsi ai tempi di Costantino era pertanto una scelta radicale, che, infatti, il resto della Riforma non condivise, indicando più prudentemente nel Medioevo l’origine della degenerazione ecclesiastica. Dalla grande maggioranza dei protestanti la donazione di Costantino, con cui l’imperatore avrebbe ceduto Roma e la supremazia sull’Occidente ai pontefici, era giustamente interpretata come un falso di età medievale, smascherato a metà Quattrocento da Lorenzo Valla in un’opera ristampata in Germania proprio nei primi anni della Riforma. L’accusa di avere introdotto una confusione impropria tra politica e religione non poteva essere rivolta a Costantino, ma andava indirizzata contro i fautori del papato medievale.
I riformatori radicali non si accontentarono degli studi filologici dell’umanesimo italiano per approvare la Chiesa di età tardoimperiale, ma si preoccuparono di fornire un profilo storico alternativo della vicenda cristiana, prendendo spesso come punto di partenza il regno di Costantino. A seconda delle diverse idee teologiche predicate mutavano naturalmente le colpe da addebitare a questo imperatore romano. Una parte degli anabattisti, quella che sosteneva con forza che la vera Chiesa dovesse restare sempre minoritaria e nettamente separata dal potere e dalla società nel suo complesso, enfatizzava soprattutto l’accusa di avere introdotto nella pratica ecclesiastica il tarlo del potere politico e di avervi portato la forza della spada e della coercizione. Gli antitrinitari, da parte loro, disprezzavano il ruolo svolto da Costantino nella formulazione del credo di Nicea, nella condanna di Ario e nella sanzione del dogma trinitario, vero perturbamento della fede originaria della Chiesa. In queste ricostruzioni delle vicende storiche dell’umanità, le gesta dell’imperatore romano non erano mai analizzate nella loro interezza, ma solo in quanto parte di un percorso prima di tutto teologico, a cui andavano ricondotte. L’immagine di Costantino che se ne può ricavare è, pertanto, caratterizzata dalla massima parzialità e dalla selezione di episodi filtrati attraverso il setaccio degli interessi teologici e politici del momento. Durante la Riforma la storia diveniva più che mai un’arma di combattimento e di legittimità dottrinale: in questo agone della prima Età moderna Costantino fu un personaggio non secondario e, perdendo i suoi connotati storici, acquisì un nuovo valore, spesso attraverso una trasfigurazione in chiave apocalittica.
Bisogna precisarlo fin da subito: il ritratto satanico di Costantino non nasce con la Riforma radicale, ma deriva da una lunga tradizione medievale, a cui gli stessi riformatori cinquecenteschi fecero spesso ricorso. L’idea di una caduta costantiniana della Chiesa era così diffusa che se ne possono trovare tracce anche nei costituti processuali di persone di cultura mediocre, finiti per varie ragioni nella rete investigativa dell’Inquisizione romana, come attesta la deposizione di un armaiolo bresciano, Ludovico Madegini, che, alla metà del Cinquecento, affermava di fronte agli inquisitori che Satana dominava incontrastato sul papato «da poi che sancto Silvestro ha dotata la giesia»3. Tuttavia, la formazione di un discorso teologico ed ecclesiastico sul costantinianesimo e sulla corruzione della Chiesa che sarebbe seguita alla conversione di Costantino passò in misura non piccola anche per gli scritti di questi pensatori ‘radicali’ e, attraverso varie mediazioni, giunse fino al Novecento e al concilio Vaticano II. In queste pagine si tracceranno i dibattiti sviluppatisi intorno al regno di Costantino all’interno di alcuni gruppi religiosi del Cinquecento – anabattisti, spiritualisti, antitrinitari –, nel tentativo di descrivere l’affermazione del mito negativo di questo imperatore romano lungo la prima Età moderna.
Della Riforma radicale il gruppo senz’altro più numeroso e organizzato fu quello degli anabattisti, i «ri-battezzatori», come venivano chiamati dai loro nemici, o, più semplicemente, i «fratelli», secondo la loro stessa autodenominazione. Difficile, anche qui, definire compiutamente il bagaglio dottrinale comune a questo movimento, diffusosi ben presto in tutta l’Europa centrale. Di fatto, l’anabattismo fu violentemente perseguitato soprattutto a causa del suo rifiuto del battesimo degli infanti e messo al bando dall’Impero con un decreto del 1529, che stabiliva la condanna a morte per chi non si conformava. La moderna teologia di tradizione anabattista e la storiografia confessionale che si richiama all’eredità dell’anabattismo cinquecentesco hanno entrambe enfatizzato l’importanza dell’imperatore Costantino per la riflessione storica sul cristianesimo svolta da questo movimento religioso. Da una parte, la tradizione teologica mennonita, soprattutto per voce di John Yoder, ha dato veste dottrinale all’idea di costantinianesimo, secondo cui, ben oltre il suo significato storico, Costantino simboleggerebbe la mescolanza, sempre ricorrente nella storia, di imperialismo e spiritualità cristiana4. Dall’altra parte, storici confessionali, come Harold Bender e Franklin Littell, hanno esaminato la presenza dell’idea di una caduta costantiniana della Chiesa nei testi che gli stessi anabattisti cinquecenteschi ci hanno lasciato; per questa via tali studiosi sono arrivati a individuare una ‘autentica’ tradizione anabattista, discernibile alla luce del giudizio proposto su Costantino e sulla sua conversione dagli autori del tempo. In buona sostanza, nel corso del Novecento la figura di Costantino ha svolto un ruolo fondamentale nella rappresentazione che i moderni epigoni degli anabattisti cinquecenteschi hanno voluto fornire di sé e della propria parabola storica. Bisogna dunque partire dall’anabattismo, movimento organizzato e dalla lunga continuità storica, per comprendere il significato assunto da Costantino presso alcune confessioni protestanti. In un percorso a ritroso nel tempo, si cercherà innanzi tutto di spiegare i fondamenti novecenteschi della costruzione ideologica negativa sorta intorno a questo imperatore romano, per passare poi sotto un attento vaglio critico i ritratti di Costantino che circolavano in ambito anabattista nel Cinquecento. Attraverso un gioco di scala a diversi livelli si intende spaziare dal discorso attualizzante sulla storia svolto nel Novecento alle radici cinquecentesche, in parte immaginate, del mito anabattista di Costantino.
Come è capitato agli studiosi della Riforma radicale, anche la storiografia anabattista è stata dominata per vari decenni dalla convinzione di poter raggruppare tutte le diverse anime di questo movimento religioso all’interno di caratteristiche comuni chiaramente definibili. In particolare, lo studio più influente sulla ecclesiologia anabattista, quello di Franklin Littell5, delineava un quadro coeso della visione storica che i diversi gruppi anabattisti si formarono nel corso del Cinquecento: secondo Littell, essi avrebbero condiviso una forte aspirazione a un ritorno alla Chiesa primitiva, costituita dalla comunità degli apostoli, e una comune filosofia della storia, caratterizzata da un’idea evolutiva della storia della Chiesa. Sempre secondo questa tesi, tutti gli anabattisti propriamente detti (gli Anabaptists proper) sarebbero stati convinti dell’esistenza di un’antica età dell’oro, coincidente con i primi secoli dell’era cristiana, a cui avrebbe fatto seguito una repentina caduta in età costantiniana, con l’adozione del cristianesimo a religione di Stato e la fine delle persecuzioni. Nel contesto di tale narrazione storica Costantino rappresentava l’eroe negativo: la sua conversione e i suoi successivi interventi a favore della religione cristiana avrebbero portato allo scioglimento della comunione volontaria dei veri credenti e alla creazione di cerimonie e di pompe inconciliabili con l’esempio apostolico. Non tutte le misure anticristiane che avevano corrotto la Chiesa potevano essere imputate a Costantino, ma senz’altro la sua figura aveva segnato l’inizio di una fase di regresso, che dal IV secolo sarebbe durata fino all’epoca degli anabattisti. Littell riconosceva che lo sguardo nostalgico verso la Chiesa degli apostoli non era un’esclusiva del movimento anabattista e, tuttavia, argomentava che presso gli anabattisti aveva assunto nuove applicazioni pratiche, fino a divenire un criterio-guida della loro attività pastorale. Era stato il loro primitivismo a convincere gli anabattisti a scegliere una rigida segregazione dallo Stato e dalle cariche pubbliche, a orientarli verso un regime di comunismo evangelico e verso il rifiuto della violenza e della coercizione in materie religiose. A questo primitivismo radicale si univa una teoria restituzionista, che prevedeva il ritorno della vera comunità dei credenti allo stato pristino della cristianità, una restituzione che si sarebbe compiuta pienamente con l’avvento definitivo di Cristo, ma che fin d’ora era già possibile prefigurare nelle Chiese anabattiste. Anche questo tema non poteva dirsi specificamente anabattista – per esempio, lo troveremo più avanti anche tra gli antitrinitari –, ma diveniva un concetto chiave nel modo di concepire la storia dell’anabattismo proper.
La ricostruzione di Littell, accattivante e ricca di dati, non era priva di accenti apologetici, che si rivelavano soprattutto nell’idea che l’anabattismo cinquecentesco si riconoscesse essenzialmente nelle dichiarazioni di principio espresse dagli articoli di Schleitheim del 15276. Questi articoli di fede, presentati dall’anabattista zurighese Michael Sattler in un’assemblea anabattista tenutasi in questo piccolo villaggio svizzero vicino a Schaffhausen, costituirono uno dei primi tentativi di fondare stabilmente un nucleo riconoscibile di credenze per le comunità anabattiste. In questa confessione di fede si prescriveva la pratica del battesimo degli adulti; si descriveva la Cena del Signore come un semplice memoriale e si offrivano indicazioni concrete sulla disciplina ecclesiale, gestita da pastori sovvenzionati economicamente dagli stessi fedeli. L’elemento che rendeva davvero interessante questo testo per Littell e, più in generale, per la tradizione storiografica anabattista era la solenne dichiarazione a favore di una completa separazione tra il bene e il male, tra il mondo e coloro che vivono al di fuori del mondo, insomma tra la società nel suo complesso e la Chiesa dei veri credenti. Sulla base di questo principio, gli articoli di Schleitheim proibivano agli anabattisti di prestare giuramento, di portare armi e di ricoprire cariche pubbliche.
Questi pronunciamenti divenivano, nell’ottica confessionale degli storici anabattisti, fondativi e prescrittivi per l’intero anabattismo cinquecentesco ed erano letti come le ragioni principali di un percorso storico che, grazie al contributo decisivo degli anabattisti, avrebbe portato allo stabilimento della moderna libertà di coscienza e alla conseguente separazione Stato-Chiesa7. In un quadro siffatto non potevano avere parte alcuna le frange violente di anabattisti, a partire, ovviamente, dalla comunità millenarista di Münster, che ne costituiva l’esempio più celebre ed evidente. Qui, tra il 1534 e il 1535, un gruppo di anabattisti olandesi era riuscito a prendere il potere e a imporre il proprio credo all’intera città, cacciando il vescovo-principe e i suoi delegati. Messi sotto attacco dalle truppe vescovili, gli anabattisti, ispirati da alcuni profeti in diretto contatto con Dio, avevano risposto con le armi, organizzando una fiera resistenza che poté essere spezzata solo dopo sedici mesi di assedio. A rendere ancora più imbarazzante l’esperienza degli anabattisti di Münster agli occhi della storiografia successiva contribuiva senz’altro la deriva radicale e apocalittica assunta dal governo cittadino durante questo periodo: negli ultimi mesi dell’assedio Giovanni di Leida, uno dei leader anabattisti, si era autoproclamato re sul modello biblico di David, reintroducendo la poligamia, sopprimendo l’economia monetaria, distruggendo gli archivi cittadini e ogni forma di letteratura colta. A ragione di questi comportamenti, ritenuti del tutto incongruenti con la ‘veritiera’ tradizione anabattista di Schleitheim, Littell e la corrente storiografica da lui incarnata trattarono gli eventi di Münster come deviazioni dalla strada comune, da estromettere di fatto dalla ricostruzione complessiva dell’anabattismo storico.
Contro queste tesi si sono cimentati negli ultimi anni numerosi storici ‘revisionisti’, che, partendo da posizioni post-confessionali, hanno cercato di sostituire questa interpretazione sostanzialmente teleologica con un’analisi testuale più stringente delle opere già note e con un lavoro di scavo documentario sistematico delle diverse comunità anabattiste. Nel percorso di rifondazione della storiografia sugli anabattisti, ha costituito una tappa obbligata e di fondamentale importanza la pubblicazione di studi che hanno messo in dubbio l’ipotesi di uno sviluppo monogenetico del movimento anabattista, il quale, sgorgato dalle esperienze svizzere degli anni Venti del Cinquecento, si sarebbe poi diffuso linearmente nelle altre regioni europee8. Dalla ricerca di radici unitarie, salde e facilmente rappresentabili sul piano pubblico, si è passati allo studio dei singoli casi e dei diversi contesti storici in cui i vari gruppi anabattisti presero vita. Ne è risultata non solo la scoperta del lento sviluppo subìto da concetti in precedenza ritenuti inalterabilmente anabattisti, ma anche una considerazione più sfumata della visione storica propria dell’anabattismo cinquecentesco. Alla luce di nuovi studi, i capisaldi della confessione di Schleitheim – il separatismo, il pacifismo, il rifiuto dei giuramenti – non possono essere considerati principi universalmente riconosciuti da tutti gli anabattisti fin dall’origine del movimento, ma pratiche etiche che si sono gradualmente affermate sotto la spinta degli eventi storici presso una maggioranza vincente.
Anche le argomentazioni di Littell sul primitivismo degli anabattisti hanno conosciuto, in questo contesto, una profonda rivisitazione critica, che ha coinvolto il ruolo da attribuire a Costantino nell’immaginario storico di questi gruppi. La connotazione negativa di Costantino presente in alcuni testi anabattisti non può essere trascurata, ma è stato radicalmente ridimensionato il significato che il regno costantiniano e la sua influenza sulla Chiesa ricoprirono nella costruzione della memoria storica collettiva dell’anabattismo. La leggenda nera di Costantino, assai diffusa nella Riforma radicale, iniziò a farsi strada piuttosto tardi e solo in alcuni testi anabattisti, riuscendo però a coagulare un vasto consenso tra le comunità più organizzate, come quella hutterita.
Tenendo saldo questo procedimento à rebours dal presente al Cinquecento, che vorrebbe dar conto dell’importanza attribuita alla storia nell’ecclesiologia contemporanea, si avvierà la disamina delle fonti cinquecentesche del mito negativo di Costantino proprio da quella cronologicamente più recente, una cronaca universale anabattista redatta, tra la fine del Cinquecento e tutto il secolo successivo, dai membri di alcune comunità della Moravia, chiamate hutterite dal loro fondatore Jakob Hutter. L’importanza di questo testo è decisiva non solo per la sua natura di espressione ufficiale di un gruppo territorialmente organizzato, ma anche perché esso fu il più saldo punto di appoggio per l’analisi di Littell sulla caduta costantiniana della Chiesa e, per questa via, per la formazione di un’identità anabattista nel Novecento.
Il movimento hutterita deve la sua nascita alla predicazione di Hutter, artigiano tirolese che nei primi anni Trenta si era rifugiato in Moravia in seguito alle persecuzioni asburgiche e qui aveva iniziato ad attuare una riforma ecclesiastica divinamente ispirata. Ritornato in Tirolo già nel 1535, dove fu subito catturato e ucciso, Hutter lasciò dietro di sé una duratura eredità, testimoniata dalle numerose comunità, a lui ispirate, sorte in Moravia nel corso dell’intero secolo9. Questo movimento, che predicava una rigida separazione dalla società e la comunione dei beni, rifiutando il giuramento, il servizio militare e il pagamento delle tasse per la guerra, dovette la propria fortuna principalmente alla protezione accordatagli dall’aristocrazia morava, in perenne lotta con il potere imperiale, che garantì agli hutteriti non solo libertà di culto, ma anche la tutela di un’organizzazione separata dalla restante struttura sociale. Per un secolo circa, fino alla battaglia della Montagna bianca (1620) e alla ricattolicizzazione della regione da parte delle forze asburgiche trionfanti, gli hutteriti poterono sperimentare una pace eccezionale e una straordinaria libertà di movimento, che permise loro di dotarsi di forme organizzative stabili, nonché di un’identità storica e di un apparato liturgico complessi.
Frutto di questa stagione fortunata fu il Geschichtbuech, iniziato negli anni Settanta del Cinquecento da Kaspar Braitmichael, che compose la sezione iniziale della cronaca, quella compresa tra la creazione del mondo e il 154210. In questa parte, dopo una lunga digressione sulle vicende bibliche del popolo di Israele, si giungeva a trattare della nascita di Cristo e a descrivere la Chiesa apostolica e le persecuzioni condotte contro di essa dagli imperatori romani. Grazie a queste prove i veri cristiani avevano potuto mantenere la loro purezza e restare incontaminati dal mondo. Tutto però era destinato a mutare con la conversione di Costantino, ispirata da papa Silvestro. L’imperatore aveva assicurato la pace a tutti i cristiani e soprattutto introdotto la «pestilenza della malizia» (Pestilenz der Lisstigkait) nella Chiesa, imponendo la croce di Cristo attraverso la violenza; dal battesimo di Costantino per mano di papa Silvestro era derivata la preminenza pontificia su re e imperatori. Su ispirazione dell’Apocalisse11, questo passaggio di consegne era descritto in maniera allegorica e altamente evocativa per un lettore cinquecentesco: la meretrice di Babilonia, immagine tradizionale del papato per la propaganda protestante, si era seduta con violenza sull’animale a sette teste, classico riferimento all’Impero dai sette colli, in modo da dominare la terra. Colpa di Costantino sarebbe stata pertanto la sua arrendevolezza al potere papale, che si era rivelato fin da subito un’autorità tirannica e anticristiana.
Nemmeno nella cronaca hutterita Costantino era descritto come l’unico responsabile della perversione della Chiesa. L’interpretazione che veniva offerta era più complessa: appoggiando il papato e sostenendo la compenetrazione tra Stato e Chiesa, Costantino aveva dato avvio a un lungo processo di disfacimento, che, passando per la redazione delle decretali e per l’affermazione della scolastica, rendeva oggi impossibile agli hutteriti mescolarsi con una società definitivamente depravata12. L’immagine di Costantino non aveva dunque una reale consistenza storica, se non per questa sua sottomissione al potere pontificio, testimoniata dal battesimo impartitogli dal papa a Roma, secondo una leggenda che gli stessi fautori del papato avevano diffuso già dal IV-V secolo. La falsa donazione di Costantino, con cui l’imperatore avrebbe ceduto Roma e la supremazia sull’Occidente ai pontefici, non era invece esplicitamente richiamata, ma può forse essere ravvisata sotto traccia nel rapido accenno al trasferimento dell’imperatore a Costantinopoli, grazie al quale era stata lasciata al papa «la sede imperiale» (den Kaiserlichen Sitz) di Roma. Resta innegabile che la prospettiva in cui si muoveva la cronaca hutterita era legata a una tradizione medievale che faceva risalire la rovina della Chiesa alla trasformazione del papato in un potere temporale a causa delle nefaste concessioni di Costantino.
La descrizione di questo imperatore come sottomesso all’Anticristo romano, implicita nel ricorso al testo dell’Apocalisse, circolava in quegli stessi anni anche presso altri settori dell’anabattismo. Hans Schnell, un anabattista tedesco che apparteneva al raggruppamento dei Fratelli svizzeri, scriveva nel 1575 un pamphlet in cui riprendeva le tesi appena descritte di una caduta costantiniana della Chiesa, usando espressioni assai simili a quelle di Braitmichael13. Anche per questo autore Costantino avrebbe determinato il pervertimento del cristianesimo per mezzo del battesimo ricevuto da papa Silvestro, qui definito l’Anticristo e il «figlio della perdizione». Rispetto alla cronaca hutterita i termini erano, insomma, ancora più chiari: con la conversione dell’imperatore era cominciata l’apostasia dal retto sentiero tracciato da Cristo e dal Vangelo, apostasia che si era compiuta più per opera del papato che per un’azione diretta dell’imperatore, ma che, comunque, non sarebbe potuta avvenire senza la subordinazione di Costantino al successore di Pietro.
In altre parole, nel racconto della ‘caduta’, i due testi, quello di Braitmichael e quello di Schnell, attribuivano il ruolo decisivo a papa Silvestro e al papato romano: in entrambi gli scritti Costantino appariva come uno strumento dell’Anticristo e non come una figura diabolica a sé stante. Tuttavia, non sempre nella tradizione anabattista Costantino aveva avuto una posizione così marginale nel processo disgregativo della Chiesa di Cristo. Già verso il 1532-1534 Pilgram Marpeck, uno dei futuri ispiratori dei Fratelli svizzeri, raggruppamento da cui traeva origine anche Schnell, aveva indicato l’epoca di Costantino come punto di svolta epocale per la storia della Chiesa; in questa occasione papa Silvestro non era neppure citato, né particolare attenzione era attribuita al papato: i riflettori erano puntati tutti su Costantino e sulla sua opera.
Più precisamente, questa messa in stato d’accusa dell’imperatore compariva in un’opera anonima, con ogni probabilità attribuibile a Marpeck, in cui la corruzione ecclesiastica era collegata fin dal titolo all’intervento dell’Anticristo e della meretrice di Babilonia: l’Aufdeckung der Babylonischen Hurn und Antichrists (La comparsa della meretrice di Babilonia e dell’Anticristo)14. Lo scritto predicava la totale astensione dalle cariche pubbliche da parte dei veri cristiani, mentre sottolineava la necessità di obbedire ai magistrati, voluti da Dio per preservare l’ordine sociale. L’ubbidienza, a cui tutti erano tenuti, non impediva però di affermare con forza la necessità di distinguere senza ambagi lo Stato dalla Chiesa, il ‘secolo’ dai credenti. La scelta di addebitare a Costantino la primigenia confusione tra questi diversi ambiti era direttamente funzionale al discorso politico promosso dal libello, tutto concentrato sul rapporto tra la comunità cristiana e i magistrati secolari. Per Marpeck, era stato Costantino a portare la spada e la violenza tra i credenti e a congiungere in matrimonio il papa con il Leviatano del potere secolare, mentre erano tralasciati i dettagli giudicati secondari, come quelli sull’intervento di papa Silvestro e sulla sua opera di conversione. I riferimenti biblici erano i medesimi adoperati da Schnell: in primo luogo, il capitolo secondo della seconda lettera ai Tessalonicesi, in cui si parlava del prossimo arrivo di un «figlio della perdizione» e dell’Anticristo, ricordato anche attraverso la citazione di quel mysterium iniquitatis che il cristiano aveva il compito di combattere.
Il contesto di questo scritto era teologico e politico insieme, in un frangente storico in cui l’anabattismo non solo era oggetto di una complessiva opera di persecuzione da parte dei riformatori e dell’Impero, ma stava subendo anche numerosi attacchi da ‘sinistra’, ovvero da quel gruppo di cosiddetti spiritualisti che andava allora abbandonando ogni riferimento a strutture istituzionali della Chiesa a favore di una comunità di fedeli ispirata dallo Spirito. Nell’opera di Marpeck il riferimento diretto a Costantino imperatore veniva a corroborare la coeva scelta anabattista di separarsi dallo Stato e dai suoi organismi di potere, pur mantenendo una propria organizzazione in pacifica convivenza con essi. Lo scritto ambiva così a giustificarsi di fronte alle autorità statali, distanziandosi al contempo dalle derive spirituali più radicali. L’assenza di riferimenti alla leggenda di papa Silvestro si può inoltre spiegare con gli obiettivi contingenti del libello, redatto in terra protestante all’interno di un serrato confronto interconfessionale tra riformatori, in cui la polemica anticattolica era largamente implicita.
Quasi in contemporanea con l’Aufdeckung, nel 1530, anche Melchior Hoffman, un altro anabattista che, come Marpeck, in quegli anni aveva trovato rifugio a Strasburgo, dava alle stampe un volume in cui, ancora una volta, faceva la sua comparsa Costantino15. L’opera era un commento scritturale all’Apocalisse che foggiava la propria ricostruzione storica delle vicende della cristianità sul modello delle sette Chiese stabilito dai primi capitoli del testo giovanneo: le prime due Chiese, quelle di Efeso e Smirne, coincidevano con la comunità apostolica e i secoli iniziali dell’era cristiana, mentre la caduta era collocata a livello della terza Chiesa, quella di Pergamo, subito dopo l’era dei martiri e durante il regno costantiniano. Il richiamo a Costantino diveniva ancora più esplicito nel commento al capitolo tredicesimo del libro biblico, quello relativo alla Bestia dalle sette teste, raffigurazione interpretata come immagine del Papato e non, secondo tradizione, come figura dell’Impero16.
Come Marpeck, anche Hoffman si poneva un obiettivo attualizzante, per quanto dai toni molto diversi: per questo predicatore il richiamo a Costantino e alla storia ecclesiastica traeva la propria legittimità e assumeva un valore cogente dalla sua pretesa profetica di essere un annunciatore dell’era messianica. Nel commento al capitolo tredicesimo dell’Apocalisse, spiegava che i «senza Dio» (Gottlosen), cattolici e protestanti, avevano tutti paura della Bestia e si piegavano alla tirannia del papato e agli ordini dell’imperatore, mentre gli anabattisti, veri cristiani, seguivano il comandamento mosaico di adorare unicamente Dio, ribadito da Cristo nel Vangelo; l’imperatore Costantino costituiva l’esempio più evidente di questa sottomissione blasfema alla Bestia, secondo una prassi seguita anche dai suoi successori. Una tale interpretazione della storia ecclesiastica aveva esiti concretissimi, che sarebbero divenuti evidenti negli anni successivi, quando gli anabattisti di Münster presero a modello il profetismo melchiorita (dal nome di Hoffman stesso) per fondare il loro sogno millenaristico: a differenza di Costantino, bisognava svincolarsi dall’adorazione della Bestia e, a ogni costo, riportare il mondo a Dio.
L’esegesi anabattista della conversione costantiniana come fonte di nequizia entrava qui in contatto con un altro filone della polemica antipapale di origine protestante, quello luterano. Subito dopo aver richiamato il nome di Costantino, Hoffman ricordava la cerimonia del bacio del piede papale a cui si era sottoposto il «dragone Sigismondo», l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, nel 1415, nel corso del concilio di Costanza. L’episodio non era il più celebre tra quelli che nella storia avevano visto vari imperatori chinarsi a baciare il piede papale: Lutero, qualche anno dopo (1545), avrebbe ricordato l’esempio di Federico Barbarossa, che aveva baciato la pantofola di papa Alessandro III nel 1177 a Venezia17. Al di là degli specifici eventi storici, il gesto plastico dell’osculum pedis faceva parte dell’armamentario polemico, non soltanto religioso, della lotta tedesca contro l’invadenza romana e aveva trovato espressione visiva in uno dei primi manifesti iconografici della Riforma, il celebre Passional Christi und Antichristi del 1521, predisposto da Lutero con la collaborazione di Filippo Melantone e di Lucas Cranach. Hoffman, che veniva da ambienti luterani, inseriva questa tradizione nel suo schema esplicativo della storia, che vedeva in Giovanni Hus e nella sua uccisione per ordine dell’imperatore Sigismondo un segno decisivo della lotta tra il vero cristianesimo, risorto a nuova vita con l’hussitismo, e l’Anticristo.
Il commento di Hoffman si poneva, insomma, al crocevia tra diverse tradizioni storiche e religiose e ridava forza all’idea principale, sviluppata poi dalle successive compilazioni anabattiste, secondo cui la caduta costantiniana era dovuta soprattutto alla cessione del potere imperiale da parte di Costantino al papato e alla conseguente unione del potere secolare con quello ecclesiastico. Come nella successiva cronaca hutterita, la donazione di Costantino non era citata, ma solo adombrata: senza nominare atti formali, Hoffman ricordava infatti come il papa avesse ricevuto la sua autorità sul trono romano grazie all’imperatore.
L’ultimo testo che qui si presenta, il primo noto della storia anabattista in cui si discute di Costantino imperatore, è un breve inno composto nel 1528 da Oswald Glaidt, membro di una delle prime comunità anabattiste morave. Anche qui Costantino era descritto come colui che aveva dato il potere temporale alla Chiesa e aveva con ciò trascinato il cristianesimo nel fango. Il cenno era rapido e sembrava costituire quasi un ammicco alla particolare situazione politica che si era appena determinata per Glaidt, cacciato dalla città di Nikolsburg per l’opposizione di un altro leader anabattista, Balthasar Hubmaier, che aveva imposto la propria ortodossia in città grazie al sostegno attivo dei signori feudali del posto18. Questo primo riferimento a Costantino e all’alleanza Chiesa-secolo rischiava dunque di servire solamente alla polemica tra diverse componenti dell’anabattismo, senza inserirsi in una precisa riflessione sulla storia del cristianesimo.
I testi anabattisti che trattano di Costantino sono in numero piuttosto esiguo: cinque opere, alcune delle quali di piccole dimensioni, in una letteratura anabattista che nel Cinquecento si presentava assai ricca e variegata. Inoltre, come si è potuto osservare, lo sviluppo del mito costantiniano è assai discontinuo: i testi più antichi, qui considerati per ultimi, fanno solo un riferimento rapsodico a Costantino, peraltro in contesti diversi – la lotta antispiritualista di Marpeck, il profetismo melchiorita, la micropolitica di Glaidt –, mentre le opere di fine Cinquecento hanno uno sviluppo più sistematico e ritagliano un ruolo più significativo all’età costantiniana. A differenza di quanto affermato da una lunga tradizione storiografica, la maggior parte degli anabattisti cinquecenteschi non addebitò a questo imperatore romano il torto di aver provocato la crisi della Chiesa post-apostolica, datata spesso in altre epoche, in maniera del tutto indipendente da Costantino. A seconda dei casi e dei particolari obiettivi polemici del momento, gli anabattisti collocarono la caduta della Chiesa nel periodo immediatamente successivo all’età degli apostoli, al momento della introduzione del pedobattesimo o della dottrina della transustanziazione19. Tuttavia, pur in una posizione marginale, è esistita all’interno della produzione anabattista un’interpretazione storica che ha messo in risalto il regno di Costantino come epoca di cesura tra un periodo di purezza evangelica e la successiva corruzione del cristianesimo storico. Tale ricostruzione ebbe una notevole risonanza grazie alla cronaca hutterita, testo di indiscusso prestigio nel mondo anabattista per la sua ampia circolazione e per il suo carattere di auctoritas storiografica dell’anabattismo.
Il ritratto di Costantino che emerge dai testi analizzati presenta vistose caratteristiche comuni: il regno costantiniano è sempre collegato all’avvento dell’Anticristo e considerato in chiave apocalittica. Inoltre, Costantino non è mai criticato esplicitamente per le sue convinzioni religiose o per la sua azione politica, ma il mito negativo da lui rappresentato scaturisce essenzialmente dalla sua scelta di convertirsi e di sottomettersi al potere pontificio, a cui attribuì quell’autorità temporale che sarebbe stata all’origine della depravazione della Chiesa. Il richiamo agli stessi testi biblici e alle stesse immagini, innanzi tutto quella della bestia, è forse dovuto a contatti diretti tra le diverse opere; tuttavia, ancor più che parlare di una vera e propria gemmazione testuale, assai difficile da dimostrare puntualmente, si dovrà tener conto che questo filone del pensiero anabattista riprendeva, in maniera talvolta esplicita, una tradizione medievale che aveva descritto in modo assai simile la parabola storica del cristianesimo: quella costituita dal francescanesimo spirituale e dagli eretici medievali (valdesi, lollardi e hussiti)20.
Già qualche anno fa è stato sottolineato come il commento all’Apocalisse di Melchior Hoffman rivelasse evidenti parallelismi testuali con un testo molto influente nelle correnti del gioachimismo tardo-medievale, la Lectura super Apocalipsim del francescano spirituale duecentesco Pietro di Giovanni Olivi21. La maggiore discrepanza rilevata tra quest’opera e quella di Hoffman riguarda proprio la differente interpretazione riservata allo sviluppo del cristianesimo: al contrario di Hoffman, Olivi, probabilmente sulla scorta dello stesso Gioacchino da Fiore, mostrava un certo apprezzamento per Costantino, l’imperatore che aveva posto termine alle persecuzioni anticristiane, e faceva risalire la corruzione della Chiesa a epoche successive, in particolare agli imperatori franchi e alla loro alleanza con il papato. Tale disuguaglianza è innegabile se ci si limita al confronto testuale tra le due opere; in realtà, però, la visione storica di Olivi non era la sola né quella maggioritaria all’interno del francescanesimo spirituale. L’anonima Expositio super Hieremiam, una delle più importanti opere della tradizione post-gioachimita, faceva coincidere la terza Chiesa dell’Apocalisse con l’avvio del processo corruttivo del cristianesimo e affermava che la terza testa del dragone presagiva lo stesso Costantino; altri testi avvaloravano una simile interpretazione negativa22. Insomma, se nel rappresentare Costantino Olivi si dimostrava fedele all’opera di Gioacchino, una parte molto significativa del gioachimismo successivo presentava una valutazione ben diversa della biografia di questo imperatore. Hoffman poteva, quindi, attingere a una vasta serie di testi francescani che su questo punto concordavano quasi perfettamente con il suo profilo storico.
Nei medesimi decenni in cui si formava questa tradizione gioachimita la teoria di una età costantiniana della Chiesa trovava eco in un altro gruppo con cui gli autori anabattisti ebbero sicuri rapporti: quello degli eretici medievali. Non è qui il caso di proporre fantasiose ‘genealogie incredibili’, che attingano alla tradizione ereticale del Basso Medioevo per rintracciare gloriosi antenati dell’anabattismo sulla falsariga della Ketzerhistorie di Sebastian Franck, di cui si parlerà nelle prossime pagine. Tuttavia, non pare da escludere che, proponendo una partizione storica ispirata all’idea della caduta costantiniana della Chiesa, oltre all’influenza dei testi francescani, assai rinomati nell’ambito degli studi sull’Apocalisse, gli anabattisti avessero in mente anche la visione storica di valdesi, lollardi e hussiti, che, come noto, riprendevano la stessa idea di una corruzione della Chiesa dovuta alla donazione di Costantino e alla sua conversione23. Nel caso dell’hussitismo sono peraltro attestati legami tra le comunità hutterite di Moravia e i seguaci di Hus, che in questa regione erano riusciti a creare un’organizzazione duratura; in qualche caso, fu possibile addirittura la fusione di alcuni gruppi hussiti all’interno dell’hutterismo24. La ricomparsa nella cronaca hutterita di uno schema storico basato sul regno costantiniano, a distanza di una quarantina d’anni dall’ultimo testo anabattista in cui si parlava esplicitamente di Costantino, può forse trovare spiegazione attraverso questi passaggi intermedi e queste contaminazioni, comunque non direttamente documentabili. Per via di ipotesi si può arrivare a ricostruire un cammino della raffigurazione di Costantino presso gli anabattisti che, pur non in modo definitivo, suggerisce tempi e modi della diffusione di un’immagine che non fu decisa una volta per tutte, ma seguì percorsi complessi e poco lineari.
I modelli di riferimento a cui i testi anabattisti attingevano per descrivere Costantino rimandano a una tradizione medievale che non tiene troppo in conto né le acquisizioni dell’umanesimo quattrocentesco né le prese di posizione dei riformatori. Le storie anabattiste che parlano di Costantino sussumono in maniera acritica sia la narrazione leggendaria del battesimo di papa Silvestro, già criticata come menzognera da Lutero, sia il racconto sulla donazione, che, seppure mai citata, è riconosciuta nei suoi effetti pratici di consegna dei poteri temporali al papato. Il mito di Costantino presso gli anabattisti nasceva da un contesto polemico antipontificio e veniva adattato, almeno in Marpeck, Schnell e Braitmichael, allo scopo di rivendicare la scelta separatista adottata dalle loro comunità di riferimento a differenza delle altre confessioni protestanti.
Ancor più degli anabattisti furono gli spiritualisti a sancire sul lungo periodo il trionfo del mito negativo di Costantino e dell’idea di una ‘caduta’ della Chiesa post-apostolica. Il più celebre libro di storia uscito nel Cinquecento dalla penna di un esponente della Riforma radicale fu senza alcun dubbio la Chronica. Zeytbuch und Geschichtsbibel di Sebastian Franck, una storia universale stampata a Strasburgo nel 1531. Quest’opera veniva data alle stampe negli stessi anni in cui la figura di Costantino faceva la sua prima comparsa nel discorso storico degli anabattisti: a quest’epoca risalgono sia l’Aufdeckung di Marpeck sia il commento biblico di Hoffman, scritti anch’essi a Strasburgo, città che si presentava allora come un rifugio e un porto di libertà in Europa. Tuttavia, Franck si poneva su una differente linea di interpretazione storica e religiosa del cristianesimo, in aperta opposizione con l’anabattismo. Franck era un ex pastore luterano che, lasciato l’abito clericale, aveva indossato quello di tipografo, abbandonando ogni confessione organizzata e investendo di una forte critica le confessioni protestanti maggioritarie (luterani e zwingliani). Bersaglio della polemica di Franck non erano questioni teologiche specifiche, ma l’intero armamentario delle Chiese cristiane: la predicazione, le cerimonie religiose, la pratica della scomunica, l’eccessivo letteralismo biblico. In un’ottica puramente etica Franck dissolveva il concetto stesso di Chiesa istituzionale e non prospettava alcun ritorno alla comunità apostolica, secondo l’aspirazione restituzionista. Per Franck il vero ritorno sarebbe avvenuto soltanto con la fine del mondo e la comparsa di Cristo giudice. Il rovesciamento era dunque radicale: qui non si parlava di veri cristiani, di separazione dal secolo, di struttura comunitaria e sacramenti. Al contrario, Franck descriveva piuttosto una trama storica intessuta da continui tradimenti del messaggio evangelico e dalla presenza solo episodica di veri credenti, gli eretici condannati dalla Chiesa, i quali, pur esclusi dalla comunione ecclesiastica, avevano però vissuto una vita autenticamente cristiana. L’immagine che Franck proponeva di Costantino nella parte dedicata alla storia degli imperatori non aveva i toni cupi e apocalittici della letteratura anabattista finora esaminata: Costantino non era l’Anticristo né il suo portavoce, ma un imperatore che aveva assicurato la pace ai cristiani, mitigato le leggi troppo severe ed eliminato quelle superflue25. Il racconto della donazione di Costantino era condotto sempre con toni molto pacati, senza attribuire a papa Silvestro o all’imperatore alcuno stigma infamante. Al contrario, questo episodio leggendario era solo uno tra i tanti in un secolare moto regressivo che non aveva un culmine, ma era caratterizzato da una continua linea evolutiva. Certo, il passaggio di poteri dall’imperatore al pontefice romano non era apprezzato: Franck non dimenticava di sottolineare come in seguito alla donazione di Costantino il papato avesse assunto l’imperium e organizzato una corte sull’esempio degli imperatori. Tuttavia, la donazione non era nemmeno considerata come la causa prima della degenerazione della Chiesa, bensì solo una tappa in una discesa inevitabile, causata dalla istituzionalizzazione del cristianesimo.
Franck dunque si allontanava deliberatamente dalla tradizione medievale di critica a Costantino, che in quel momento stava iniziando ad affermarsi tra alcuni anabattisti strasburghesi. La diversa visione storica coltivata da Franck si espresse soprattutto al di fuori dei testi ufficiali, in una lettera scritta all’anabattista Giovanni Campano negli stessi mesi in cui pubblicava la Chronica26. In questa missiva, Franck specificava di non essere d’accordo con coloro che ravvisavano nel regno di Costantino e nella nuova mescolanza di potere secolare e religioso l’inizio della rottura della pace cristiana e metteva risolutamente in contrasto questa prospettiva, giudicata legalistica, con l’idea radicale di un cristianesimo privato di sovrastrutture cerimoniali. Questa più netta enunciazione del pensiero storico di Franck, inizialmente destinata a circolare in reticoli riservati, trovò presto la strada delle tipografie, con diverse edizioni a stampa della lettera in età moderna, che ottennero l’effetto di spiegare anche a un pubblico più vasto il carattere recisamente spiritualistico del suo messaggio.
Al di là di questi aspetti storico-teologici, vi erano anche ragioni di carattere storiografico a marcare una precisa differenza tra la Chronica e gli scritti degli anabattisti coevi. In generale, l’opera di Franck palesava con maggiore chiarezza i tratti di un lavoro di storia, per l’attenzione alle fonti documentarie e per l’analisi degli eventi, che non si risolveva soltanto in una lettura provvidenziale della storia, ma si articolava in una vera e propria narrazione critica dei fatti. Nelle pagine della Chronica Costantino non è più solo un fantasma, colpevole di una conversione sconsiderata che sancì il trionfo dell’Anticristo, ma una figura storica, di cui è indicata la nascita e la morte, nonché la partecipazione a vicende definite, come il concilio di Nicea27. L’imperatore romano, insomma, non appare qui solo una pedina nel gioco provvidenziale, ma acquisisce una corposità, di cui si intravede, seppure sempre per sommi capi, l’importanza nel fluire degli eventi. Benché sostenitore di una preminenza dello Spirito su ogni Chiesa istituzionale, Franck si dimostrava così più attento al dato fattuale e terreno di quanto lo fossero i suoi colleghi anabattisti, che, nel frattempo, stavano indirizzando la loro ricerca verso una lettura apocalittica della storia della cristianità.
Infine, ultima e decisiva peculiarità di Franck rispetto alle narrazioni storiche finora esaminate riguarda la grande rilevanza acquisita dal suo pensiero nel mondo protestante del Cinquecento. Forte di decine di edizioni, per importanza la Chronica può essere accostata alle corrispondenti opere di Melantone e Sleidano, per superarle in popolarità alla fine del Seicento, grazie alla ripresa che del libro fece Gottfried Arnold nella Unparteyische Kirchen- und Ketzer- historie (1697-1700). Fu per mezzo di quest’opera che il pensiero di Franck e, soprattutto, la sua rivalutazione degli eretici uscirono dal dibattito confessionale, entrando nel discorso storico europeo. La storia di Arnold fondeva lo spiritualismo di Franck nella nuova religiosità del pietismo tedesco, caratterizzato da un forte senso mistico e da un’approfondita ricerca interiore e individuale. L’imparzialità (unparteyische) professata nel titolo dell’opera non indicava un atteggiamento neutro dell’autore, ma esprimeva l’intenzione di porsi al di sopra degli schieramenti confessionali: la storia di Arnold non riguardava solo la Chiesa o le Chiese cristiane, ma anche gli eretici, vera espressione del cristianesimo. La struttura ricalcava dunque alcune delle idee basilari della Chronica di Franck, differendone tuttavia in alcuni aspetti molto significativi. Arnold, per esempio, non risolveva la storia cristiana in un semplice contrasto tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile, ma stabiliva tappe ed episodi del processo degenerativo della Chiesa. Pur dando un valore speciale agli eretici, tuttavia datava il vero momento di corruzione al regno di Costantino, un uomo ambiguo e irreligioso, che si predicava cristiano e, al contempo, partecipava alle feste pagane28. Senza entrare nel dettaglio di una vicenda culturale che si pone al di fuori degli ambienti radicali stricto sensu, grazie ad Arnold la rappresentazione negativa di Costantino prendeva il sopravvento, tanto da ispirare, a un secolo e mezzo di distanza, il celebre e influentissimo ritratto biografico schizzato dallo storico svizzero Jakob Burckhardt29.
Spesso marginalizzato in seno alla stessa Riforma radicale, il movimento antitrinitario ne fu forse la componente più consapevole sul piano storico e teologico. Rispetto ad anabattisti e spiritualisti, molti antitrinitari derivavano la loro esperienza religiosa e le loro scelte dottrinali da una lettura della Bibbia mediata attraverso gli strumenti della critica testuale umanistica e attraverso una conoscenza di prima mano della letteratura filosofica antica30. La polemica contro il dogma trinitario, che unì tra loro uomini di provenienza disparata, originava infatti da una più generale opera di scavo e revisione del patrimonio dottrinale trasmesso dalla tradizione ecclesiastica. Una tale riflessione nasceva da preoccupazioni diverse da quelle che avevano ispirato l’anabattismo (per quanto il primo nucleo di anabattisti zurighesi traesse ugualmente origine da ambienti umanistici) e sortì esiti diversi anche a livello della rappresentazione storica, con un’analisi del passato cristiano in chiave antitrinitaria. All’interno di questa corrente teologica acquisì fama duratura Miguel Servet, medico e filosofo spagnolo mandato a morte a Ginevra da Calvino nel 1553 a causa delle sue convinzioni antitrinitarie. Nello stesso anno della sua morte compariva a stampa la sua opera storica più importante, la Restitutio Christianismi, in cui lo spagnolo riprendeva gli scritti antitrinitari giovanili, ponendoli in una nuova cornice complessiva. La narrazione propriamente storica era inserita nell’ultima parte dell’opera, intitolata De regeneratione superna et de regno Antichristi, che ripercorreva la storia cristiana alla luce della letteratura apocalittica31. Il parallelismo con gli scritti anabattisti è evidente: il discorso su Costantino e il suo regno era condotto di nuovo sotto il segno dell’Anticristo nelle sue varie forme storiche. Testi ed espressioni ritornavano con insolita ricorrenza da questo testo a quelli anabattisti: anche per Servet il paolino mysterium iniquitatis si manifestò pienamente dopo Silvestro e Costantino, quando il compito ecclesiastico dell’apostolato si tramutò nel regno del papa, il dominio della carne prese il possesso della Chiesa e si affermò la supremazia dell’Anticristo. Tutti dovettero allora sottomettersi e adorare il dragone, la bestia e gli idoli, mentre i ministri della Chiesa, ottenute le dignità del mondo, furono costretti ad abbandonare il servizio di Dio, dal momento che nessuno può servire due padroni. Insomma, tornava nell’opera di Servet il richiamo esplicito alla caduta costantiniana della Chiesa e alle nefaste conseguenze della conversione di Costantino per la storia cristiana.
Nel discorso antitrinitario di Servet la descrizione storica si arricchiva però di nuovi dettagli, che in parte cambiavano senso al discorso sull’età costantiniana. In questa nuova versione la scelta cristiana dell’imperatore non generò solo la commistione tra potere politico e spirituale, ma ebbe un esito ancora più distruttivo per lo sviluppo del cristianesimo: l’invenzione del dogma trinitario. Il vero punto di svolta non era costituito dal regno di Costantino in sé, ma più precisamente dal concilio di Nicea del 325, durante il quale Satana si era servito dello stratagemma trinitario per alienare gli uomini dalla vera conoscenza di Dio e trasformare il Dio cristiano in una divinità tripartita. Inoltre, in confronto con la tradizione anabattista, spiccava nell’interpretazione di Servet un evidente empito millenaristico, capace di spiegare in dettaglio la restitutio christianismi preannunciata dal titolo dell’opera32. Servet indicava una collocazione temporale ben definibile per la restituzione tanto attesa: se la data di inizio della abominazione non era mai stabilita con certezza, ma solo collocata al tempo di Costantino, la sua conclusione doveva aspettarsi all’epoca di Servet stesso, 1260 anni dopo il momento della ‘caduta’. La scelta del periodo non era casuale: milleduecentosessanta era il numero apocalittico per eccellenza, dal momento che ricordava i 1260 giorni di esilio annunziati nell’Apocalisse giovannea, durante i quali la donna vestita di luce, dopo il parto del suo figlio divino, avrebbe trovato rifugio nel deserto33. Questa figura femminile, rappresentazione mariana, simboleggiava anche la Chiesa, che, nella trasposizione di Servet, sarebbe tornata al pristino splendore solo dopo questi 1260 anni di devianza dottrinale.
Se si escludono queste integrazioni, la trattazione era scandita secondo i parametri tipici del ‘paradigma costantiniano’: la conversione di Costantino aveva portato al trionfo di una prassi cultuale giudaizzante, promossa dagli ordini religiosi, mentre la monarchia romana migrava a Costantinopoli. Anche qui però si possono notare alcuni elementi aggiuntivi: innovando, Servet ampliava le accuse mosse a carico di Costantino, criticato anche in quanto iniziatore dei culti idolatrici delle reliquie, insieme alla madre Elena. In ogni caso, il vero Anticristo e corruttore restava papa Silvestro, il nuovo papa-re, che, cinto della doppia spada, temporale e spirituale, aveva introdotto la coercizione in materia di fede, dando inizio a una nuova serie di martiri.
In definitiva, Servet si poneva su una linea consolidata, ripresa anche da alcuni anabattisti, di descrizione del cristianesimo post-apostolico. La sua filosofia della storia non costituiva però l’unico riferimento per l’antitrinitarismo europeo. A distanza di una quindicina d’anni Giorgio Biandrata, in collaborazione con Ferenc Dávid, un pastore calvinista passato all’antitrinitarismo, dava alle stampe in Transilvania un’opera teologica che forniva una traccia della storia della Chiesa diversa da quella di Servet34. Il contesto politico e anche geografico in cui i due scritti si erano formati era profondamente mutato: Biandrata, anch’egli medico come Servet, seppe costruirsi una solida posizione sociale presso la corte di Giovanni II Sigismondo di Transilvania, grazie alla quale riuscì a esercitare una influenza reale nel protestantesimo transilvano e a diffondere il credo unitariano in quelle regioni. In questa prima fase di cauta affermazione delle proprie convinzioni religiose in un ambiente tollerante e favorevole al pluralismo religioso, Biandrata scrisse il De vera et falsa unius Dei, Filii et Spiritus Sancti cognitione, attribuendo lo scritto non direttamente a sé, ma a tutti i ministri delle Chiese consenzienti di Transilvania e Polonia. Esso era un’antologia di scritti disparati, che rigettava i toni millenaristici di Servet e si rifaceva, per concezione e impostazione storica, alla Chronica del Franck: in entrambi i casi, la vita della Chiesa era spiegata come un continuo confronto tra gli organismi istituzionali e la tradizione ereticale, nel caso di Biandrata, identificata del tutto con il movimento antitrinitario. Non esisteva perciò una data precisa in cui la Chiesa avrebbe conosciuto la sua degenerazione, un punto di non ritorno, poiché lo scontro tra il bene e il male attraversava l’intera storia ecclesiastica, a partire dalle dispute dottrinali immediatamente successive al periodo apostolico. Le critiche più dure erano riservate all’intellettualismo dei Padri della Chiesa, che aveva moltiplicato le occasioni di litigio e contribuito alla perdita della purezza evangelica; tuttavia, il colpo di grazia a ogni speranza di rigenerazione era intervenuto con la comparsa della scolastica, il cui centro si era coagulato intorno alla facoltà teologica della Sorbona.
Le somiglianze tra Franck e Biandrata si fermavano qui: a differenza dello spiritualista bavarese, Biandrata non voleva smantellare l’apparato esteriore della Chiesa, mai considerato in sé simbolo di corruzione; tutt’al contrario, era sua intenzione costruire una nuova confessione religiosa, quella unitariana, dotata di una propria disciplina e di un corpus specifico di dottrine. Certo, nella sua opera non mancavano le critiche alle cerimonie esteriori della Chiesa, secondo un afflato polemico ecumenicamente protestante; egli non giungeva, tuttavia, a negare valore alla struttura ecclesiastica in quanto tale, come accadeva nello spiritualismo radicale di Franck. Il credo antitrinitario riavvicinava piuttosto l’opera di Biandrata allo scritto di Servet, con cui, in effetti, non mancavano punti di contatto e addirittura prestiti testuali, solo recentemente individuati35. Biandrata, inoltre, condivideva con Servet, «veritatis acerrimus defensor et indagator», l’idea che anche ebrei e musulmani avessero riscontrato il mutamento in atto, chiamandoli a testimonio della rivoluzione trinitaria attuata nel corso del primo millennio dell’era cristiana36.
Nell’ottica adottata da Biandrata, l’età di Costantino perdeva il significato di frattura insanabile nella vita cristiana che aveva acquisito nell’opera di Servet. In modo del tutto opposto, la figura dell’imperatore assumeva per Biandrata un carattere positivo, ancor più positivo della descrizione che ne aveva offerto Franck nella sua Chronica. Biandrata infatti abbandonava la leggenda costantiniana del battesimo somministrato da papa Silvestro e si riagganciava, invece, al racconto di Eusebio di Cesarea, che forniva una versione completamente diversa: secondo questa narrazione, Costantino aveva ricevuto il battesimo solo in punto di morte per mano del vescovo ariano Eusebio di Nicodemia. Nel racconto di Biandrata, consigliere di principe che doveva il successo della sua opera religiosa al sostegno del sovrano di Transilvania, Costantino, imperatore «omnium laudatissimus», emergeva come protagonista positivo della storia cristiana: il battesimo tardivo diveniva, infatti, il segno del pentimento provato da Costantino di fronte alle contese dottrinali e ai decreti esecrabili del concilio di Nicea37. Per Biandrata Costantino si sarebbe convertito all’arianesimo, eresia antitrinitaria e perciò espressione dei veri cristiani, una volta riconosciuta la falsità e l’incoerenza del credo niceno. Questa sua resipiscenza finale gli avrebbe anche conciliato numerose inimicizie presso le gerarchie ecclesiastiche, segno ulteriore della santità di questo imperatore.
Stessa raffigurazione dell’imperatore romano si trova ripetuta in un’opera dagli stretti rapporti genetici con il De vera et falsa unius Dei, Filii et Spiritus Sancti cognitione, il libello in ungherese di Dávid, Rövid magyarázat (Breve spiegazione di come l’Anticristo abbia oscurato la vera conoscenza di Dio), scritto probabilmente in contemporanea con il trattato di Biandrata, ma pubblicato l’anno precedente per un pubblico diverso rispetto a quello internazionale del trattato latino38. In questo testo ancora una volta Costantino era l’apprezzato dominatore che odiava i dibattiti tra i cristiani e si preoccupava della cristianità; a riprova di questa valutazione positiva, Dávid non faceva partire il calcolo del millennio dall’epoca di Costantino, ma dalla Confessione di Augusta del 1530.
L’immagine di Costantino come coraggioso oppositore del trinitarismo aveva probabilmente ragioni politiche contingenti: non è un caso che questa rappresentazione avesse fortuna solo per breve tempo tra il 1567 e il 1568, quando le varie correnti protestanti presenti in Transilvania stavano facendo pressioni sul principe Giovanni Sigismondo per ottenere legittimazione. In questo frangente Costantino diveniva una figura di buon imperatore spendibile nella battaglia politica sia da una parte sia dall’altra: mentre Dávid e Biandrata vi facevano insistito riferimento nelle loro opere, anche i calvinisti non mancavano di lodare Giovanni II come un novello Costantino, che metteva fine alle dispute religiose e scacciava gli eretici. Era questa la tesi presentata da Iosias Simler nel suo De aeterno Dei Filio Domino et Servatore Nostro Iesu Christo, et de Spiritu sancto, Aduersus veteres et novos Antitrinitarios, id est Arianos, Tritheitas, Samosatenianos, et Pneumatomachos, opera commissionatagli dal Riformatore di Ginevra Théodore de Bèze su diretta richiesta degli anziani della Chiesa dell’Ungheria superiore39. Nel tentativo di portare dalla propria parte il principe, Simler faceva ricorso all’allure di Costantino, questa volta in chiave nettamente antiereticale e antiunitariana.
Si capisce, d’altro canto, perché questa celebrazione di Costantino-santo imperatore fosse minoritaria nel contesto antitrinitario: risultava molto difficile salvare dalla condanna il massimo fautore del concilio di Nicea e della Trinità, se non rifacendosi alla teoria della conversione ariana. Nel 1575, un correligionario di Biandrata, Iacopo Paleologo, scriveva, sempre in Transilvania, un’opera in cui si discuteva approfonditamente e da diverse angolature la dottrina della futura restaurazione cristiana40. Questa Disputatio scholastica – così recitava il titolo del libro – metteva in scena un immaginario sinodo celeste in cui si dibatteva della corruzione della Chiesa e delle difficoltà incontrate per ristabilire il vero messaggio di Cristo. A prendere la parola per primo era Niccolò Paruta, un antitrinitario veneziano che si era trasferito in Moravia presso le colonie hutterite prima di passare in Transilvania e all’antitrinitarismo. Nella sua introduzione ai lavori sinodali Paruta sosteneva chiaramente la tesi della caduta costantiniana della Chiesa: fino all’età di Costantino si sarebbe creduto in un solo Dio; solo allora, con il concilio di Nicea, sarebbe intervenuto il mutamento, che si doveva far risalire alla manipolazione dei testi biblici e alla graduale perdita di conoscenza diretta dell’ebraico41. Di Costantino non si diceva altro, mentre lungo era il discorso sul concilio di Nicea, che aveva sancito il dogma trinitario e, con esso, anche la fine dell’epoca gloriosa della Chiesa. Simile a quella di Biandrata era l’idea di una tradizione di martiri e di eretici che avevano conservato lungo la storia la vera fede unitariana: è evidente che il testo del Paleologo rientrava appieno nella tradizione antitrinitaria che si stava formando sotto la guida del medico saluzzese. Tuttavia, è suggestivo pensare che questo ritorno al mito negativo di Costantino fosse dovuto a un contatto, Paruta mediatore, tra gli ambienti antitrinitari e quelli hutteriti, che in quegli anni stavano dando espressione formale alla propria storia ereticale. Di certo, la situazione politica era mutata radicalmente dal 1568 al 1575: nel 1571 Giovanni II era morto, aprendo un periodo di turbolenze anche religiose, culminate qualche anno dopo, nel 1579, nell’imprigionamento e nella morte del Dávid. Finita l’epoca dei Costantini transilvani, si poteva dunque tornare alla critica verso il Costantino romano, iniziatore della perversione papale. In assenza di prove documentarie su un rapporto tra Braitmichael e gli antitrinitari, resta tuttavia di qualche valore constatare che proprio su Costantino si era creata una piccola discrepanza tra l’opera di Biandrata e le parole di Paruta, altrimenti coincidenti per impostazione storica e teologica.
Anche tra gli antitrinitari si faceva dunque strada il mito negativo di Costantino, sostenuto da altri autori ancora dopo Paleologo (per esempio dall’antitrinitario Johann Sommer nella sua Refutatio scripti Petri Caroli, che data all’epoca costantiniana la nascita delle dispute antitrinitarie e quindi la decadenza del cristianesimo ‘puro’42). Seppure in un ambiente marginale come quello dell’antitrinitarismo transilvano, questo imperatore romano si affermava ancora una volta come il simbolo dell’Anticristo e della decadenza cristiana.
1 Fondamentale per una ricostruzione d’insieme della Riforma radicale è G.H. Williams, The Radical Reformation, Kirksville 1992². Una messa a punto critica del concetto di Riforma radicale presenta ora H.-J. Goertz, Die Radikalität reformatorischer Bewegungen. Plädoyer für ein kulturgeschichtliches Konzept, in Radikalität und Dissent im 16. Jahrhundert, hrsg. von H.-J. Goertz, J.M. Stayer, Berlin 2002, pp. 29-41.
2 Su questo aspetto si veda il contributo di D. Whitford in questa stessa opera.
3 A. Rotondò, Anticristo e chiesa romana. Diffusione e metamorfosi d’un libello antiromano del Cinquecento, Firenze 1991, ora in Id., Studi di storia ereticale del Cinquecento, Firenze 2008, pp. 45-200, in partic. 117-118.
4 Un primo orientamento su questo dibattito in D.H. Williams, Constantine, Nicaea and the ‘Fall’ of the Church, in Christian Origins. Theology, Rhetoric and Community, ed. by L. Ayres, G. Jones, London-New York 1998, pp. 117-136.
5 F.H. Littell, The Anabaptist View of the Church. A Study in the Origins of Sectarian Protestantism, Hartford 1952, da cui nacque una versione rivista, pubblicata con il titolo The Origins of Sectarian Protestantism. A Study of the Anabaptist View of the Church, New York 1964.
6 Gli articoli di Schleitheim, che furono in seguito pubblicati sotto il titolo di Brüderliche Vereynigung etzlicher Kinder Gottes siben Artikeln betreffend (Unione fraterna di alcuni figli di Dio riguardante sette articoli), sono stati editi criticamente in Quellen zur Geschichte der Täufer in der Schweiz, II, Ostschweiz, a cura di H. Fast, Zürich 1973, pp. 26-36.
7 Ripercorre lo sviluppo di questa interpretazione C.A. Snyder, The Influence of Schleitheim Articles on the Anabaptist Movement. An Historical Evaluation, in Mennonite Quarterly Review, 63 (1989), pp. 323-344.
8 Costituiscono utili introduzioni ai più recenti sviluppi della storiografia sugli anabattisti i volumi A Companion to Anabaptism and Spiritualism, 1521-1700, ed. by J.D. Roth, J.M. Stayer, Leiden-Boston 2007, e Grenzen des Täufertums: neue Forschungen, hrsg. von A. Schubert, A. von Schlachta, M. Driedger, Gütersloh 2009. Sul superamento dello schema rigidamente monogenetico si veda il fondamentale contributo di J. Stayer-W. Packull-K. Deppermann, From Monogenesis to Polygenesis. The Historical Discussion of Anabaptist Origins, in Mennonite Quarterly Review, 49 (1975), pp. 83-122. La posizione poligenetica è oggi messa in discussione in seguito alla scoperta di intensissimi scambi e modelli di vita cristiana comuni tra le diverse comunità anabattiste.
9 Su questo gruppo si vedano gli studi recenti di W. Packull, Hutterite Beginnings. Communitarian Experiments during the Reformation, Baltimore 1995, per il primo periodo del movimento (anni Trenta del Cinquecento), e per il periodo successivo il lavoro di A. von Schlachta, Hutterische Konfession und Tradition. 1578-1619. Etabliertes Leben zwischen Ordnung und Ambivalenz, Mainz 2003.
10 L’edizione diplomatica di questo testo, meglio noto come cronaca hutterita, si trova in Die älteste Chronik der Hutterischen Brüder. Ein Sprachdenkmal aus frühneuhochdeutscher Zeit, hrsg. von A.J.F. Zieglschmid, Ithaca 1943; una traduzione inglese è stata pubblicata nel 1987: Chronicle of the Hutterian Brethren, Rifton 1987.
11 Si vedano soprattutto i capitoli 17 e 18 dell’Apocalisse.
12 Sottolinea questa posizione esclusivista della cronaca hutterita, che non avrebbe descritto alcuna teologia della restituzione secondo il modello di Littell, P. Burschel, Zur Geschichtstheologie der Täufer, in Archiv für Reformationsgeschichte, 95 (2004), pp. 132-155, ora in Id., Sterben und Unsterblichkeit. Zur Kultur des Martyriums in der Frühen Neuzeit, München 2004, pp. 159-195.
13 Cfr. L. Gross, Hans Schnell: Second Generation Anabaptist, in Mennonite Quarterly Review, 68 (1994), pp. 351-377, in partic. 375-376. Si noti che qui la caduta costantiniana è chiaramente datata ad annum, il 318, anche se non si spiegano le ragioni di questa scelta.
14 L’opera è stata edita anastaticamente in H. Hillerbrand, An Early Anabaptist Treatise on the Christian and the State, in Mennonite Quarterly Review, 32 (1958), pp. 28-47 (per la parte relativa a Costantino si veda p. 44). Sulla paternità di questo scritto a Marpeck si veda W. Klaassen, Investigation into the Authorship and the Historical Background of the Anabaptist Tract Aufdeckung der babylonischen Hurn, in ivi, 61 (1987), pp. 251-261, e, più recentemente, N. Blough, The Uncovering of the Babylonian Whore: Confessionalization and Politics Seen from the Underside, e W. Packull, Preliminary Report on Pilgram Marpeck’s Sponsorship of Anabaptist Flugschriften, in ivi, 75 (2001), pp. 37-55 e 75-88.
15 Melchior Hoffman, Auslegung der heimlichen Offenbarung Johannis des heyligen Apostels und Evangelisten, Strassburg 1530.
16 Ivi, cc. P7v-P8r.
17 Cfr. K. Stadtwald, Pope Alexander III’s Humiliation of Emperor Frederik Barbarossa as an Episode of Sixteenth-Century German History, in Sixteenth Century Journal, 23 (1992), pp. 755-768, e più in generale sulla critica cinquecentesca alla cerimonia del bacio del piede si veda K.-A. Wirth, Imperator pedes papae deosculatur. Ein Beitrag zur Bildkunde des 16. Jahrhunderts, in Festschrift für Harald Keller. Zum sechzigsten Geburtstag dargebracht von seinen Schülern, hrsg. von H.M. Freiherrn von Erffa, E. Herget, Darmstadt 1963, pp. 175-221.
18 Si fa riferimento qui alla lettura di G. Dipple, “Just as in the Time of the Apostles”. Uses of History in the Radical Reformation, Kitchener 2005, pp. 140-142, testo di riferimento anche per l’interpretazione che segue.
19 Si veda la ricostruzione dettagliata offerta ivi.
20 Per una presentazione d’insieme, che sottolinea la comune visione storica di questi gruppi religiosi tra loro assai eterogenei, si veda G. Leff, The Making of the Myth of a True Church in the Later Middle Ages, in The Journal of Medieval and Renaissance Studies, 1 (1971), pp. 1-15.
21 Cfr. W. Packull, A Reinterpretation of Melchior Hoffman’s Exposition against the Background of Spiritualist Franciscan Eschatology with Special Reference to Peter John Olivi, in The Dutch Dissenters. A Critical Companion to their History and Ideas, ed. by I.B. Horst, Leiden 1986, pp. 32-65.
22 Cfr. S. Calderone, Letteratura costantiniana e «conversione» di Costantino, in Costantino il grande: dall’antichità all’Umanesimo, Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1992, pp. 231-252; su alcuni vaticini trecenteschi di simile ambito in cui si diffondeva l’immagine del veleno sparso da Costantino nella cristianità si veda G.L. Potestà, Dante profeta e i vaticini papali, in Rivista di Storia del Cristianesimo, 1 (2004), pp. 67-88.
23 Si rimanda per questo al saggio di A. Cadili, Il veleno di Costantino. La donazione tra spunti riformatori ed ecclesiologia ereticale, in questa stessa opera.
24 J.K. Zeman, The Anabaptists and the Czech Brethren in Moravia. 1526-1628. A Study of Origins and Contacts, The Hague-Paris 1969.
25 Cfr. Sebastian Franck, Chronica. Zeytbuch und Geschichtbibel von an Begin hin in diss gegenwertig…, s.l. 1565, cc. CLXVIv-CLXIXr (Chronica von der Keyser).
26 La lettera, del 4 febbraio 1531, è stata edita criticamente in Quellen zur Geschichte der Täufer, VII, Elsaß, I. Stadt Straßburg 1522-1532, hrsg. von M. Krebs, H.G. Rott, Heidelberg 1959, pp. 301-325, in particolare su Costantino pp. 308-310. Estratti in traduzione italiana di questa lettera si trovano in D. Cantimori, Gli anabattisti, in Grande antologia filosofica, a cura di M.F. Sciacca, Milano 1977, pp. 1405-1488, in partic. 1425-1427, e in M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna: dalla riforma protestante a Locke, Torino 1978, pp. 105-106.
27 Di Costantino a Nicea si parla per esempio in Sebastian Franck, Chronica, cit., c. LVI (Bapstliche Chronick von den Conciliis).
28 Cfr. Gottfried Arnold, Unparteiysche Kirchen- und Ketzerhistorie: vom Anfang des Neuen Testaments bis auf das Jahr Christi 1688, Hildesheim 1967 (ristampa anastatica dell’edizione del 1729), I, pp. 143-151 e II, pp. 1240-1260.
29 Su questa eredità si veda S. Mazzarino, Burckhardt politologo. L’“età di Costantino” e la moderna ideazione storiografica (1970), in Id., Antico, tardoantico ed era costantiniana, Roma 1974, pp. 32-50.
30 Cfr. C. Vasoli, La critica umanistica e le origini dell’antitrinitarismo, in Antitrinitarianism in the Second Half of the Sixteenth Century, ed. by R. Dan, A. Pirnat, Budapest-Leiden 1982, pp. 269-285.
31 Miguel Servet, Obras completas, ed. por A. Alcalá, Zaragoza 2003, V, pp. 394-410 (per la traduzione spagnola, pp. 988-1016).
32 Sul millenarismo di Servet si veda H. Hotson, Arianism and Millenarianism: the Link between Two Heresies from Servetus to Socinus, in Continental Millenarians: Protestants, Catholics, Heretics, ed. by J.C. Laursen, R.H. Popkins, Dordrecht-Boston-London 2001, pp. 9-35. Si noti che lo studio più recente dedicato alle interpretazioni dell’Apocalisse nella prima Riforma radicale parla solo tangenzialmente degli antitrinitari: W. Klaassen, Living at the End of the Ages. Apocalyptic Expectation in the Radical Reformation, Lanham 1992.
33 Cfr. Ap 12,6.
34 Il profilo più informato su Biandrata è ancora quello di A. Rotondò, Verso la crisi dell’antitrinitarismo italiano. Giorgio Biandrata e Johann Sommer, in Id., Studi di storia ereticale, cit., pp. 349-402.
35 Sul rapporto tra Servet e Biandrata si veda S. Kot, L’influence de Michel Servet sur le mouvement antitrinitarien en Pologne et en Transylvanie, in Autour de Michel Servet et Sebastien Castellion, éd. par B. Becker, Haarlem 1953, pp. 72-115. Sui rapporti tra i due testi cfr. M. Balázs, Early Transylvanian Antitrinitarianism (1566-1571). From Servet to Paleologus, Baden-Baden 1996, in partic. pp. 46-47.
36 De falsa et vera unius Dei Patris, Filii, et Spiritus Sancti cognitione. Libri duo. Authoribus ministris Ecclesiarum Consentientium in Sarmatia, et Transylvania, Albae Iuliae s.d., cc. D3v (c. E2r per la citazione); di quest’opera esiste ora anche un’edizione in facsimile curata da A. Pirnát (Budapest 1988). Questo rapporto tra antitrinitari, ebrei e musulmani si ritrova anche in altri antitrinitari: cfr. M. Firpo, Antitrinitari nell’Europa orientale del Cinquecento, Firenze 1977, pp. 69-70.
37 Cfr. ivi, c. D3r.
38 Cfr. M. Balázs, Early Transylvanian Antitrinitarianism, cit., passim, in partic. p. 157 sul giudizio circa Costantino.
39 Iosias Simler, De aeterno Dei Filio Domino et Servatore Nostro Iesu Christo, et de Spiritu sancto, Aduersus veteres et novos Antitrinitarios, id est Arianos, Tritheitas, Samosatenianos, et Pneumatomachos libri quatuor, Tiguri 1568, c. O3r, cit. in M. Balázs, Early Transylvanian Antitrinitarianism, cit., pp. 207-208. Sulla lettera dei ministri della Chiesa ungherese si veda Correspondance de Théodore de Bèze, IX, éd. par C. Chimelli, A. Dufour, H. Meylan, Genève 1978, pp. 235-239 (lettera del 1° marzo 1568).
40 Su quest’opera si veda M. Firpo, Antitrinitari, cit., pp. 236-246.
41 Una stessa idea della degenerazione per ragioni ‘filologiche’ si ritrova anche in altri antitrinitari, come Aconcio (si veda Giacomo Aconcio, Stratagematum Satanae libri VIII, a cura di G. Radetti, Firenze 1946, pp. 274 segg.), Servet e Sommer (su cui A. Rotondò, Verso la crisi dell’antitrinitarismo, cit., p. 378).
42 Si rimanda a A. Rotondò, Verso la crisi dell’antitrinitarismo, cit., p. 380.