COSTANTINO I imperatore, detto il Grande (Flavius Valerius Constantinus Magnus)
Imperatore romano dal 306 al 337.
La vita. - Nascita e giovinezza. - C. fu figlio dell'imperatore Costanzo Cloro e di una donna di umile condizione, Elena, che S. Ambrogio (De obitu Theodosii, c. 42) indica come un'ostessa (stabularia) e che la maggior parte degli storici ritiene la concubina di Costanzo Cloro (v. elena, santa). Nacque a Naisso in Mesia (oggi Niš) il 27 febbraio di un anno che, in base all'età che egli aveva nel 337 quando morì (le fonti oscillano fra i 62 e i 66 anni), si poneva fra il 271 e il 275. Oggi si è generalmente disposti a spostarlo al 280; alcuni giungono sino al 288 (per la leggenda della discendenza di C. da Claudio II il Gotico, v. costanzo I).
C. trascorse buona parte della giovinezza nelle regioni orientali dell'impero, alla corte di Diocleziano (v.) dal quale ebbe il titolo di tribunus ordinis primi. Nel 295 circa, fece un viaggio con lo stesso Diocleziano in Palestina e combatté valorosamente sul Danubio contro i Sarmati. Quando il 1° maggio 305, in seguito all'abdicazione di Diocleziano e di Massimiano, Costanzo Cloro e Galerio furono promossi augusti, e in base all'ordinamento tetrarchico si rese necessaria la designazione di due nuovi cesari, molti pensavano che C. sarebbe stato designato: invece, sembra per influsso di Galerio, genero di Diocleziano, furono scelti Severo, un oscuro soldato, e Massimino Daia "semibarbaro parente di Galerio" (notevole la circostanza di monete coniate ad Alessandria con l'indicazione di Costantino cesare nel 305).
Ben presto Costanzo, divenuto augusto, chiamò presso di sé il figlio, che probabilmente era considerato alla corte di Diocleziano e Galerio quasi come un ostaggio per garantire la fedeltà del padre. Galerio dovette acconsentire e C. raggiunse il padre già sofferente a Bononia (Boulogne) e lo seguì in Britannia, dove Costanzo, dopo aver vinti i Pitti, morì a Eboracum (York) nel luglio 306. Il 25 luglio l'esercito acclamava augusto Costantino.
Dalla proclamazione a imperatore alla vittoria su Massenzio. - Questa proclamazione che, dal lato puramente giuridico, equivavaleva a una vera e propria usurpazione del potere imperiale, portava una profonda scossa al sistema tetrarchico instaurato soltanto tredici anni prima da Diocleziano, in base al quale si negava ogni diritto ereditario nella successione all'impero. C. ottenne da Galerio, rimasto ormai unico rappresentante della prima tetrarchia dioclezianea e perciò in posizione preminente sugli altri imperatori, il riconoscimento del solo titolo di cesare. Probabilmente Galerio avrebbe voluto negare ogni forma di riconoscimento a C., ma il timore di complicare la situazione nelle provincie occidentali, e la popolarità di cui C. medesimo godeva anche nella stessa corte di Nicomedia, lo indussero ad attenersi a questa misura intermedia, mentre, secondo l'ordinamento dioclezianeo, il cesare Severo, che aveva alle sue dipendenze la diocesi d'Italia, veniva promosso augusto. Ma la complicazione non fu evitata, perché a Roma fu acclamato augusto Massenzio, figlio di Massimiano (28 ottobre 306), e questi - che di mala voglia aveva rinunciato al potere - venne in aiuto di Massenzio ed ebbe presto ragione di Severo (fine del 306). Dopo questo primo successo il vecchio Massimiano, che temeva la riscossa e la vendetta di Galerio, adottò la tattica di appoggiarsi a C., il quale, frattanto, aveva vinto Alamanni e Franchi. Massimiano, che ora si riteneva capo della tetrarchia, offrì a C. il titolo di augusto e gli dette in moglie la propria figlia Fausta. Galerio tentò di invadere l'Italia, ma dovette tornare indietro senza avere nulla concluso. A questo tentativo ne seguì un altro quanto mai inatteso, di Massimiano, che tentò di deporre il figlio in presenza dell'esercito, ma fu costretto a fuggire in Gallia presso C. (308). A Carnunto (sul Danubio) convennero, per esaminare la situazione, Diocleziano, Massimiano e Galerio. Massimiano fu costretto ad abdicare nuovamente, e per l'Occidente venne nominato un nuovo augusto nella persona di Valerio Liciniano Licinio. A C. e a Massenzio fu concesso il titolo vago di filii Augustorum. Tornato nella Gallia, Massimiano approfittò di una nuova campagna di C. contro i Franchi per congiurare contro di lui e riprendere il titolo imperiale, ma C. lo fece condannare a morte, o, secondo altre fonti, lo costrinse al suicidio (luglio 310). Sembra che appunto in quest'epoca C., rinnegando la sua parentela con l'ucciso, abbia accreditato la sua discendenza da Claudio il Gotico. Restavano dunque ora cinque imperatori più o meno legittimi: Galerio, Licinio e Massimino in Oriente, Massenzio e Costantino in Occidente. Ma Galerio non doveva sopravvivere a lungo: già gravemente ammalato, fece emanare un editto di tolleranza a favore dei cristiani (30 aprile 311) e pochi giorni dopo morì. La morte di Galerio ebbe per conseguenza il definitivo sfacelo del sistema tetrarchico, una lotta fra Licinio e Massimino per la divisione delle provincie orientali, l'alleanza fra Massimino e Massenzio e una contro-alleanza tra C. e Licinio. Nella primavera del 312 C. valicò col suo esercito le Alpi al passo del Monginevra, occupò Segusio (Susa) e poco dopo Augusta Taurinorum (Torino): ben presto tutta l'Italia settentrionale cadde in sua mano. Dopo aver vinto la cavalleria nemica presso Brescia, occupò - sia pure a stento - Verona; poco dopo anche Aquileia e Modena si arrendevano al vincitore e C., quasi senza colpo ferire, poté varcare gli Appennini e marciare su Roma. Quando C. si avvicinò, Massenzio nel sesto anniversario della sua elevazione al trono (28 ottobre 312) uscì da Roma e attaccò battaglia presso il ponte Milvio (il solo Aurelio Vittore, De Caes., 40,43, colloca l'inizio dello scontro a Saxa Rubra). Dell'esercito di Massenzio soltanto la cavalleria e i pretoriani opposero una certa resistenza, ma il crollo del ponte di barche apprestato da Massenzio la rese vana e Massenzio stesso trovò la morte nelle acque del Tevere (della famosa visione di C. prima della battaglia e degl'immediati sviluppi di essa si dirà in seguito). Il giorno dopo C. entrava in Roma, accolto festosamente dalla popolazione e dal Senato, il quale gli attribuì solennemente il titolo di augusto. Egli sciolse il corpo dei pretoriani e annullò tutte le leggi di Massenzio. C. così aveva acquistato una preminenza non solo giuridica, ma effettiva nell'impero. Da Roma C. andò a Milano per assistere al matrimonio, già da tempo concordato, di Licinio con la sua sorellastra Costanza: a Milano fu pure emanato il famoso editto di tolleranza religiosa (v. oltre). Per quanto a consoli per il 313 fossero designati C. e Massimino, pure la riconfermata alleanza tra C. e Licinio si volse ben presto contro Massimino. Licinio ritornò in Oriente per combatterlo e lo costrinse a rifugiarsi a Tarso, dove Massimino morì di malattia (estate 313). Così tutte le provincie orientali cadevano senza colpo ferire in mano a Licinio e l'impero ebbe soltanto due capi: C. e Licinio.
Costantino e Licinio. - I due colleghi, entrambi ambiziosi e inorgogliti per le vittorie riportate, aspiravano certamente a una potenza ancora maggiore. Nella primavera 314, C. intendeva nominare cesare l'altro suo cognato Bassiano, marito della sua sorellastra Anastasia, affidandogli il governo dell'Illirico. Ma Licinio istigò Bassiano a ribellarsi a C., il quale represse la rivolta, condannò a morte il ribelle, mosse contro Licinio con forze inferiori e lo sconfisse a Cibale in Pannonia (8 ottobre 314). Licinio riparò a Sirmio, poi in Tracia dove dichiarò decaduto dall'impero C. e nominò in sua vece augusto per l'Occidente uno dei suoi duces, Aurelio Valerio Valente. Una seconda battaglia fu impegnata a Campus Mardiensis (secondo il Seeck Castra Iarba presso l'odierna Harmanlii) sulla strada che conduce da Adrianopoli a Filippopoli, e si concluse con la ritirata di Licinio verso il Danubio (novembre 314). C. aderì a trattare la pace, che fu conclusa a condizione che Valente fosse deposto o ucciso e che l'Illirico passasse a C. Per dimostrare almeno esteriormente quell'unità dell'impero, che sostanzialmente veniva sempre più a mancare, furono consoli per il 315 C. e Licinio e, fatto ancora più importante, il 1° marzo 317 furono nominati cesari e quindi implicitamente dichiarati eredi al trono i due figli di C., Crispo e Costantino (il primo nato dalla concubina Minervina, l'altro dall'imperatrice Fausta), e il figlio illegittimo di Licinio, Licinio Liciniano. Nel 318 furono consoli Licinio e Crispo, nel 319, Costantino e Liciniano. Invece nei tre anni successivi questa manifestazione di un accordo, almeno esteriore, scompare: nel 320 e nel 321 reggono il consolato C. e il figlio omonimo: nel 322 Petronio Probiano e Amnio Anicio Giuliano, nominati da C. in Occidente, non sono riconosciuti da Licinio, che designa sé stesso e il proprio figlio. Frattanto C. trascorse questi anni in Pannonia, in Dacia e in Italia; nel 320 il figlio Crispo riportò una vittoria sui Franchi, mentre nel 322 C. respinse vittoriosamente un'invasione dei Sarmati nella Pannonia orientale, li inseguì oltre il Danubio e riportò da questa campagna molti prigionieri e ricche prede. Nell'anno seguente i Goti invasero la Tracia, provincia di Licinio, il quale peraltro era troppo distante per intervenire efficacemente: C., che era allora a Tessalonica, intento a predisporre una flotta per ogni eventualità, respinse egli stesso questa invasione. In questa pretesa violazione di confini Licinio trovò motivo per dichiarare guerra a C. (primavera del 324?). Ad aggravare i rapporti fra i due imperatori aveva certamente contribuito l'atteggiamento ostile di Licinio contro i Cristiani negli ultimi anni. Licinio, per quanto si trovasse in ottima posizione strategica, fu sconfitto ad Adrianopoli (3 luglio 324) e C. fu padrone di tutta l'Europa, tranne Bisanzio. Licinio, passato in Asia, nominò augusto il suo magister officiorum Martiniano, mentre C. riportava anche una vittoria navale presso l'Ellesponto per opera del suo figlio Crispo. C., lasciato un piccolo presidio e tutta la flotta ad assediare Bisanzio, traversò inosservato il Ponto Eusino (Mar Nero), valendosi di piccole imbarcazioni; così piombò inaspettato nell'Asia Minore. La battaglia decisiva si svolse a Crisopoli: C. ottenne una splendida vittoria e poco dopo anche Bisanzio si arrendeva (settembre 324). Licinio, riparato a Nicomedia, dovette riconoscere il trionfo del suo competitore, deporre il potere insieme con Martiniano e accontentarsi di aver salva la vita, grazie all'intercessione della moglie Costanza. Ma nell'anno successivo 325 Licinio cominciò a intessere accordi coi barbari del Danubio. Era un reato di alto tradimento: Licinio fu condannato a morte, probabilmente insieme con Martiniano. Il giovane Liciniano, in seguito alla sconfitta del padre, era stato naturalmente privato della dignità di cesare.
Costantino solo imperatore. - Così dal 324 al 337 C. rimase solo arbitro dell'impero, che dal 285 in poi aveva avuto sempre più di un capo. L'inizio della dominazione di C. sulle provincie orientali fu contrassegnato dalla controversia ariana, dal concilio di Nicea (325) e dalla celebrazione dei vicennali del suo impero, che fu rinnovata l'anno successivo a Roma, dove si svolsero importanti manifestazioni (luglio-settembre 326). Queste furono funestate dalla fosca e misteriosa tragedia famigliare, nella quale, per ordine dello stesso C., trovarono la morte il giovane Crispo a Pola, poi l'imperatrice Fausta, probabilmente a Costantinopoli.
Nel settembre 326 Costantino partì da Roma per non più ritornarvi: certamente fin da quest'epoca egli vagheggiava il progetto d'istituire una nuova capitale. Dapprima aveva pensato a ricostruire l'antica Troia, poi la sua scelta cadde su Bisanzio. Diverse furono le ragioni che lo spinsero a questo atto di capitale importanza. Anzitutto l'ambizione di legare il suo nome a un imperituro monumento della sua gloria: in secondo luogo la considerazione che la posizione di Roma non sembrava più opportuna, date le mutate condizioni dell'impero. Già Diocleziano aveva svalutato l'antica capitale, stabilendo la sua residenza a Nicomedia; e nella stessa Italia a più riprese si era data un'importanza sempre maggiore a Milano nei confronti di Roma. In terzo luogo per un imperatore cristiano, quale sempre più si manifestava C., Roma rappresentava tuttora la cittadella del paganesimo. La prima pietra della nuova capitale, che prese il nome di Costantinopoli (v.), fu posta il 26 novembre 326 e l'inaugurazione solenne si svolse l'11 maggio 330.
La città divenne da allora in poi la residenza preferita di C. Nel 332 C. affidò al figlio Costantino II il comando di una guerra contro i Goti, in seguito alla richiesta di aiuto dei Sarmati: i Goti furono vinti il 20 aprile; il loro re Ariarico col figlio furono consegnati quali ostaggi e i Goti in numero di 40.000 divennero foederati dell'Impero. Due anni dopo nuovi disordini avvennero presso i Sarmati, scacciati dal loro territorio per opera di popolazioni già loro soggette: in numero di 300.000 essi si rifugiarono entro i confini dell'impero e C. li distribuì nelle regioni più spopolate della Penisola Balcanica e dell'Italia. Questi avvenimenti dimostrano quale prestigio avesse riacquistato l'impero presso le popolazioni barbariche del Danubio.
La pace interna dell'impero non era stata più turbata dopo la morte di Licinio: nel 335 avvenne una nuova usurpazione del potere imperiale a Cipro per opera di un tale Calocero addetto alla res privata di C. e sovrintendente del parco dei cammelli. Questa rivolta fu domata prontamente da Delmazio, figlio dell'omonimo fratellastro di C. Per prevenire, a quanto sembra, nuovi disordini, C. fece uccidere il giovane Liciniano, figlio di Licinio. Nello stesso anno 335, C. procedette a una ripartizione del territorio dell'impero tra i suoi tre figli, Costantino, Costanzo (creato cesare nel 323 o nel 324) e Costante (creato cesare nel 333) e i suoi nipoti Delmazio e Annibaliano. Assegnò a Costantino la Gallia, a Costanzo l'Asia e l'Egitto, a Costante l'Illirico, l'Italia e l'Africa, a Delmazio (creato cesare nel 335) la Tracia, la Macedonia e l'Acaia: ad Annibaliano, che aveva sposato la figlia di C., Costanza, il Ponto e l'Armenia, col titolo di rex regum Ponti. Con questa divisione C., a quanto sembra, volle ritornare al sistema tetrarchico di Diocleziano (dato che a quattro soli dei suoi erodi era stato attribuito il titolo di cesare), riservandosi peraltro la suprema direzione degli affari dello stato e la sorveglianza dei giovani principi. Poco dopo avvenne un fatto inaspettato che ebbe gravi conseguenze: Sapore II, re dei Persiani, consolidatosi sul trono dopo aspri e sanguinosi contrasti, giovane audace e ambizioso, mandò un'ambasciata a C. per chiedere la restituzione delle cinque provincie sul Tigri, che i Persiani avevano dovuto cedere all'impero dopo la vittoria di Galerio su re Narsete (297). Per tutta risposta C. si preparò immediatamente alla guerra, con la quale forse si riprometteva di estendere il territorio dell'impero. Ma frattanto si ammalò: sperò trovare ristoro nei bagni caldi di Nicomedia e vi si recò, ma le sue condizioni peggiorarono e ad Ancirone, sobborgo di Nicomedia, morì il 22 maggio 337. Il corpo dell'imperatore fu trasportato a Costantinopoli e sepolto nella chiesa dei Ss. Apostoli da lui stessa costruita. C. aveva regnato 31 anni, dei quali 13 da solo. Secondo l'Epitome de Caesaribus (41, 16) il popolo gli dette il soprannome di Trachala a causa del suo grosso collo. Ma i posteri cambiarono questo grottesco appellativo in quello di Magnus, col quale è passato alla storia. (V. tavv. CXXXIII e CXXXIV).
Riforme amministrative, monetarie e militari di C. - L'evoluzionee dello stato romano verso la monarchia assoluta, che aveva cominciato a manifestarsi sotto Aureliano e si era definitivamente concretata per opera di Diocleziano, si poté dire compiuta sotto C., il quale integrò e perfezionò l'opera dioclezianea, pur sostituendo al sistema di designazione e di adozione per la successione al trono un sistema dinastico. Questa nuova concezione lo portò a circondare la sua persona e la sua corte di un fasto orientale. Nel 326, in occasione dei suoi vicennali, egli comparve in pubblico ornato del diadema di perle, che da allora in poi fu considerato come un emblema della dignità imperiale. Nelle monete egli si fece chiamare costantemente dominus. Istituì una nuova nobiltà di corte dando ai personaggi più eminenti del suo impero il titolo di patrizio, che nulla più aveva a che fare con l'antico patriziato romano, ma che attribuiva a chi ne era insignito una specie di parentela fittizia col sovrano. Un'importanza sempre maggiore acquistò il servizio personale dell'imperatore compendiato nella designazione cubiculum. Il capo degli eunuchi di corte aveva il titolo di praepositus sacri cubiculi e diventò a Costantinopoli un personaggio molto autorevole specialmente dopo Teodosio: da lui dipendeva il primicerius sacri cubiculi, sovrintendente del personale di servizio e dei trenta silentiarii addetti a mantenere l'ordine e il silenzio intorno al sovrano. L'antico consilium principis prese il nome di sacrum consistorium, i componenti di esso restavano permanentemente in carica e si chiamavano comites, titolo che prima di C. designava i compagni di viaggio e di guerra dell'imperatore: questi nuovi comites erano distinti in primi, secondi e terzi. La direzione del consistorium fu affidata a un nuovo dignitario, il quaestor sacri palatii, vero e proprio fiduciario dell'imperatore; mentre il servizio di segreteria era disimpegnato dai notarii, che formarono una schola o corpo organizzato: era loro capo il primicerius notariorum. Un'altra carica istituita da C. fu quella del magister officiorum, chiamato dapprima tribunus et magister officiorum: appare per la prima volta in una legge del 320 (Cod. Theod., XVI, 10,1) in sostituzione del vicarius a consiliis sacris di Diocleziano. Questa carica presentava una sia pur tenue analogia con quella di presidente del consiglio dei ministri di uno stato moderno: il magister officiorum aveva il compito di vigilare l'organizzazione dei praefecti praetorio e di controllare tutta l'amministrazione statale; dipendevano direttamente da loro le scholae palatinae, guardia del corpo dell'imperatore (in sostituzione del soppresso corpo dei pretoriani) e le scholae agentium in rebus, che erano addette al servizio di polizia e della trasmissione degli ordini imperiali ed esercitavano anche funzioni di spionaggio. Tra gli alti dignitarî appariscono il comes sacrarum largitionum, specie di ministro delle finanze, e il comes rerum privatarum o amministratore del patrimonio privato del sovrano. C. raggruppò le diocesi istituite da Diocleziano in prefetture rette dai prefetti del pretorio, dapprima in numero di quattro, ridotte poi a tre (Italia, Gallia, Oriente) dopo la morte di C. Ai prefetti del pretorio furono tolte le mansioni militari (secondo lo Stein nel 317 e nel 318); conservarono gli stessi poteri amministrativi e giudiziarî. Anzi lo stesso C. con una sua legge del 331 (Cod. Theod., XI, 30,16) dispose che non fosse ammesso l'appello al sovrano contro le sentenze pronunziate dai prefetti del pretorio (le varie attribuzioni di essi sono elencate dallo Stein, Gesch. des spätröm. Reiches, I, Vienna 1928, pp. 180-181). C. mantenne il praefectus urbi a Roma e creò un'analoga magistratura a Costantinopoli. Il supremo comando dell'esercito rimase affidato all'imperatore, dal quale dipendevano il comandante in capo della fanteria (magister peditum) e il comandante in capo della cavalleria (magister equitum): i due uffici istituiti da C. potevano essere affidati ad una sola persona (magister utriusque militiae). Naturalmente anche ai vicarii delle diocesi e ai praesides o consulares delle provincie furono tolti i comandi militari, che vennero affidati ai duces. Oltre alle scholae palatinae, era a disposizione del sovrano un'altra milizia scelta, quella dei protectores domestici, mentre nei reparti comitatenses l'imperatore ebbe un esercito sempre pronto per le eventuali necessità. C. riformò anche il sistema monetario, introducendo come base una moneta d'oro di grammi 4,48 chiamata solidus; in luogo del follis d'argento che era deprezzato fece coniare una nuova moneta d'argento, la siliqua, che valeva 1/24 di solido. Sembra che nei primi anni del regno di C. si sia avuta una certa rivalutazione della moneta, ma poi le ingenti spese sostenute per la fondazione di Costantinopoli e per il complesso armamentario burocratico, cui abbiamo accennato, portarono a un peggioramento della situazione e a un fiscalismo eccessivo; tra le nuove imposte introdotte da C. si citano la collatio globalis, che colpì le proprietà fondiarie dei senatori, e la collatio lustralis, che colpì i proventi del commercio. Questo aggravamento d'imposte fu mal sopportato dai sudditi e ad esso si deve la definizione di C. contenuta nell'Epitome de Caes. (41, 46) "per dieci anni eccellente, nei dodici anni successivi predone, negli ultimi dieci chiamato pupillo per le eccessive prodigalità".
La politica religiosa di Costantino. - La fama di C. è dovuta certamente, più che ai suoi successi militari e politici e alle sue riforme amministrative, al suo atteggiamento verso il cristianesimo, che, nello spazio di pochi anni, vide radicalmente mutata la sua posizione giuridica e reale e da setta perseguitata diventò religione preminente nello stato, favorita e professata dallo stesso sovrano. Nella storia dell'evoluzione religiosa di C. si distinguono tre periodi già accennati nella storia politica e militare, e cioè dalla elevazione al trono di C. alla sua vittoria su Massenzio (306-312), da questa alla sconfitta definitiva di Licinio (313-324), finalmente il periodo dell'assoluta sovranità di C. su tutto l'impero (324-337). Nel primo periodo C. è senza alcun dubbio pagano, benché Eusebio e Lattanzio sostengano che C. fosse stato dal padre avviato a favorire il cristianesimo (v. costanzo 1). È innegabile che negli anni immediatamente successivi alla sua elevazione al trono C. prese parte a cerimonie pagane, fu esaltato come pagano dai panegiristi e fece battere monete con rovesci e simboli puramente pagani. Nel 312, durante la campagna contro Massenzio, C. fece il primo atto ufficiale di adesione al cristianesimo, ordinando che sugli scudi dei suoi soldati fosse inciso il monogramma di Cristo. Secondo Eusebio (Hist. eccl., IX, 9 e Vita Constantini, I, 27,31) C. avrebbe avuto in Gallia la visione di una croce col motto τούτῳ νίκα (in hoc signo vinces) e, successivamente, un sogno, in seguito al quale egli avrebbe fatto fabbricare uno stendardo, cioè il labarum. Lattanzio invece (De mort. pers., 44) racconta che alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio ebbe un sogno, nel quale commonitus est ut caeleste signum dei notaret in scutis. Obiettivamente ci ispira maggior fiducia Lattanzio, che scrisse verosimilmente a soli due anni di distanza dall'avvenimento. Non sembra, peraltro, da mettere in dubbio che avvenimenti celesti o ragioni ideali o considerazioni pratiche spinsero C. a compiere una manifestazione apertamente cristiana in un esercito composto in grandissima prevalenza da pagani e movendo verso una città dove i pagani erano ancora in maggioranza notevolissima (cfr. i testi relativi alla visione di C. in Konstantins Kreuzesvision di Joh. B. Aufhauser, in Kleine Texte, n. 108, Bonn 1912; G. Costa, Religione e politica nell'impero romano, Torino 1923, pp. 214-215, ritiene che il segno inciso sugli scudi non avesse nulla di cristiano ma provenisse dal culto solare gallico; v. anche Seeck, in Zeitschr. fur Kirchengesch., XII, pp. 122-125 e app., p. 454, Stein, op. cit., p. 146). L'editto di Milano del 313 portò al riconoscimento ufficiale del cristianesimo in tutto l'Impero: per effetto di esso venivano resi i beni tolti tanto alle comunità quanto ai privati. La maggior parte degli storici e critici moderni respingono l'ipotesi prospettata dal Seeck (op. cit., pp. 181-457) e dal Crivellucci (in Studi storici, I, fasc. 2, pp. 239-50), secondo la quale l'editto di Milano non sarebbe esistito ed il testo che ne dànno Eusebio (Hist. eccl., IX, 5,2-3) e Lattanzio (De mort. pers., 44) si riferirebbe a una semplice ordinanza emanata da Licinio durante la guerra contro Massimino. Nello stesso anno 313 una legge di C. salvaguardava i sacerdoti della chiesa cattolica dalle ingiurie degli eretici (Cod. Theod., XVI, 2,1) e nel 315 un'altra legge minacciava di gravi pene gli ebrei che avessero perseguitato i loro correligionarî che si fossero convertiti ad Dei cultum. Pure del 315 è l'iscrizione apposta dal Senato sull'arco di trionfo di C., nella quale si nota la formula instinctu divinitatis (Corp. Inscr. Lat., VI, 1139): si è osservato che nell'arco stesso manca ogni simbolo cristiano e che la frase riferita poteva convenire anche a un imperatore pagano, ma non si deve dimenticare che l'arco sorgeva in Roma, tuttora centro del paganesimo, e per cura di un'assemblea in gran parte pagana (cfr. Costa, op. cit., pp. 254-256, che traduce la frase in "per l'ispirazione della sua divinità"). Altre prove di un'adesione sempre maggiore di C. al cristianesimo sono le due leggi del 319, l'una (Cod. Theod., XVI, 2, 2) nella quale ai sacerdoti cristiani qui divino cultui ministeria impendunt sono concesse speciali immunità, e l'altra (Cod. Theod., IX, 16, 1) nella quale viene proibita l'aruspicina privata. Ugualmente vengono proibiti i sacrifici privati in una legge del 320 (Cod. Theod., XVI, 10, 1) nella quale si ordinava che si interrogassero gli aruspici nel caso che il fulmine avesse colpito il palazzo imperiale o un altro edificio pubblico. Nel 321 C. permise di far testamento a favore delle chiese cattoliche (Cod. Theod., XVI, 2, 4); notevole la frase: Sanctissimo Catholicae Ecclesiae venerabili concilio. Nello stesso anno dichiarò la domenica giorno festivo a tutti gli effetti (Cod. Iust., III, 12, 2; Cod. Theod., II, 8, 1) e nel 323 (Cod. Theod., XVI, 2, 5) minacciò di gravi pene chi avesse obbligato i cristiani a celebrare cerimonie pagane.
La stessa evoluzione si nota nelle monete: fino dal 314 la zecca di Tarragona coniò monete recanti la croce: dal 317 al 320 la zecca di Siscia impresse il monogramma cristiano. Col 320 sparirono del tutto diciture alludenti a divinità pagane e si osservarono invece iscrizioni indifferenti (come Saeculi felicitas, Roma Aeterna, Vota publica). Nel secondo periodo, dunque, C. dimostrò verso il cristianesimo una benevolenza sempre più spiccata. Questa tendenza si andò sempre più accentuando nel terzo periodo, non soltanto per i sentimenti personali del sovrano, ma anche per ragioni politiche. Con la vittoria definitiva su Licinio, C. passava a governare paesi nei quali i cristiani erano ormai in maggioranza. Il suo primo atto in questo periodo fu l'editto agli Orientali del 324 riportato da Eusebio (Vita Const., II, 48,60). Anche di questo editto, come di quello di Milano, il Crivellucci (in Studi storici, III, fasc. 3, pp. 369-384; fasc. 4, pp. 415,424) mise in dubbio l'autenticità; generalmente si ritiene che solo la forma sia dovuta allo stesso Eusebio, mentre non possono essere inventati né il fatto dell'emanazione dell'editto né l'intonazione generale di esso, che è in pieno accordo con la politica religiosa di C. in questo periodo. Nell'editto C., dichiarandosi apertamente cristiano, esortava tutti i suoi sudditi a convertirsi al cristianesimo: quelli però che non volessero convertirsi erano tollerati e lasciati in pace. Quindi, negli ultimi tredici anni del regno di C., il paganesimo dalla condizione di religione ufficiale dello stato era ridotto a un culto semplicemente tollerato. Tollerato e non perseguitato, per quanto Eusebio parli a più riprese di leggi dell'imperatore che ordinavano la chiusura dei templi e la proibizione dei sacrifici (Vita Const., II, 45; IV, 23 e 25).
Lo dimostra l'iscrizione di Spello (Corp. Inscr. Lat., XI, 5265) che riporta un rescritto col quale C. tra il 326 e il 333 concesse agli abitanti di Hispellum di dedicare un tempio alla Gens Flavia nel loro paese e di trasportare da Volsinium la sede del culto imperiale (la limitazione contenuta nel rescritto imperiale ea observatione praescripta ne aedes nosiro nomini dicata cuiusquam contagiosae superstitionis fraudibus polluatur sembra riferirsi alle forme di culto non permesse dalla legge; cfr. Crivellucci, Della fede storica di Eusebio, Livorno 1888, pp. 17-19), e lo dimostra pure la legge pubblicata a Cartagine proprio alla vigilia della morte dell'imperatore (21 maggio 337; cod. Theod., XII, 5,2) con la quale si liberavano dalla carica di praepositus annonae e da altri inferiora munera i sacerdotales atque flamines atque etiam "duumvirales; tale legge doveva essere incisa su tavola di bronzo. Le distruzioni dei templi di Aphaca (Eus., Vita Const., III, 55) e di Eliopoli (Eus., Vita Const., III, 56; Socrat., Hist. Eccl., I, 18) in Siria furono dovute non a ragioni strettamente religiose ma a ragioni di pubblica moralità: disposizioni simili erano state prese da imperatori pagani. Infine Eutropio (Epit., X, 8,2) riferisce che C. dopo la sua morte meruit inter divos referri, mentre questo solenne titolo non gli sarebbe stato certo concesso dal Senato di Roma se avesse perseguitato apertamente il paganesimo.
Il favore sempre crescente accordato da C. al cristianesimo nell'ultimo periodo del suo regno non lo condusse quindi ad atti d'intolleranza verso il paganesimo e tanto meno ad atti di persecuzione. Dobbiamo infine notare che la conversione di C. al cristianesimo, già da tempo idealmente compiuta nell'animo dell'imperatore, dal lato formale non fu completata che negli ultimi istanti della sua vita: egli ricevette il battesimo sul letto di morte dal vescovo ariano Eusebio di Nicomedia (Eus., Vita Const., IV, 61-64).
L'influsso del cristianesimo risulta evidente in molte leggi di C.: così quella che punisce l'omicidio degli schiavi compiuto dai rispettivi padroni (Cod. Theod., IX, 12,1) e quella che proibisce di separare le famiglie di schiavi mediante cambiamenti di proprietà (Cod. Theod., II, 25 un.). Così il divieto, almeno in principio, dei giuochi gladiatorî (Cod. Theod., XV, 12,1), la punizione dell'adulterio e di ogni forma di concubinato (Cod. Iust., V, 26 un.): da notarsi che venne permessa la legittimazione dei figli nati dalla libera unione di celibi con donne non maritate (Cod. Iust., V, 27,5). Né il quadro dei rapporti di C. col cristianesimo sarebbe completo senza tener presente la sua azione spiegata di fronte alle gravi controversie religiose che agitarono la chiesa durante il suo regno: l'arianesimo e il donatismo (v. arianesimo; donatismo).
Conclusioni. - L'inserzione del cristianesimo nello stato romano e la fondazione di Costantinopoli basterebbero da sole a dare un particolarissimo rilievo alla figura di C. Egli ebbe inoltre il merito di avere integrato l'opera di Diocleziano, perfezionando ordinamenti civili e militari, che nella sezione orientale dell'impero gli sopravviveranno di parecchi secoli. L'esito fortunato di tutte le guerre da lui intraprese contro i suoi colleghi nell'impero dimostra quale ascendente avesse sull'esercito: anche dopo la sua morte, l'affetto dei soldati circonderà ugualmente i suoi immediati successori, Costanzo II nella lotta contro gli usurpatori, e Giuliano nella vittoriosa campagna contro i barbari in Gallia. C. ebbe rilevantissime virtù militari: rapidità e avvedutezza di movimenti, oculata distribuzione delle forze, accortezza nella fase risolutiva delle battaglie; perciò non conobbe che vittorie. Se, per la laconicità di alcune fonti e l'evidente esagerazione di altre, ci sfuggono molti elementi per giudicare il suo carattere, la sua vita privata, la schiettezza dei suoi sentimenti religiosi che egli talvolta subordinò ai suoi interessi politici, queste lacune non c'impediscono di valutare completamente, al disopra della cieca ammirazione dei panegiristi e dei parziali giudizî dei denigratori, la profonda traccia che egli ha lasciato nella storia dell'umanità. Figlio dei suoi tempi, commise eccessi, che meritano di per sé stessi un severo giudizio, ma che tuttavia devono essere inquadrati nelle concezioni morali dell'epoca e che comunque non possono modificare profondamente l'apprezzamento complessivo sull'opera dell'ultimo grande imperatore romano.
Fonti: Le notizie più diffuse su C. sono contenute nell'opera di Eusebio di Cesarea, De vita Constantini, scritta in greco subito dopo la morte dell'imperatore. Sennonché quasi tutti gli storici e critici moderni ritengono col Burckhardt e col Crivellucci (Della fede storica di Eusebio, Livorno 1888) che questo scritto contenga molti particolari fantastici e inventati e debba perciò usarsi colla più grande cautela. Più attendibili le opere che trattano dei primi anni del regno di C.: il De mortibus persecutorum di Lattanzio e, pur col loro speciale carattere, i panegirici VI-X della raccolta Panegyrici veteres. Notizie brevi, ma degne di fede si ricavano dai compendî di Aurelio Vittore, De Caesaribus (40,2-41,17), di Eutropio, Breviarum Historiae Romanae (IX, 22-x, 10) e da quello conosciuto col nome di Epitome de Caesaribus (39,7-41,17) e in parte dagli Excerpta Valesiana (1-6,35) nonché dal libro VII dell'Historia adversus paganos di Paolo Orosio. Meno attendibile, talvolta, Zosimo, Historia nova (II, 8-39). Per le relazioni tra C. e la Chiesa servono le storie ecclesiastiche del suddetto Eusebio (libri VIII-X), di Socrate (libro I) e di Teodoreto (libro I) ortodossi e di Sozomeno (libro I-II) arianeggiante, oltre ai frammenti dell'ariano Filostorgio. Le leggi emanate da C. sono contenute nel codice Teodosiano e, in piccola parte, nel codice Giustinianeo (cfr. O. Seeck, Regesten der Kaiser und Päpste, 311-476, Stoccarda 1919). Le iscrizioni sono raccolte nei volumi del Corpus Inscriptionum Latinarum; le monete nel vol. VII del Cohen, Description historique des monnaies frappées sous l'Empire Romain, Parigi 1890 (cfr. J. Maurice, Numismatique Constantinienne, 3 voll., Parigi 1908-1912).
Bibl.: Storie generali: S. Le Nain de Tillemont, Histoire des Empereurs, IV, Parigi 1697, pp. 76-311, 613-634; E. Gibbon, Decline and fall of the Roman Empire, a cura di J.B. Bury, II, Londra 1897; V. Duruy, Histoire des Romains, VII, Parigi 1878; H. Schiller, Geschichte der Römischen Kaiserzeit, II, Gotha 1887, pp. 164-237 e passim; O. Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt, I, II, III, IV (pp. 1-27), Berlino 1895, 1897, 1909, 1911; E. Stein, Geschichte des spätrömischen Reiches, I, Vienna 1928, pp. 99-201; E. Albertini, L'empire romain, Parigi 1929, pp. 347-367. - Monografie: A. Coen, Di una leggenda relativa alla nascita e alla gioventù di Costantino Magno, Roma 1882, J. Burckhardt, Die Zeit Constantins des Grossen, 5ª ed. a cura di F. Stähelin, voll. 2, Berlino 1929; C. Benjamin, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, coll. 1013-26; E. Ferrero, in Diz. epigrafico di E. De Ruggiero, II, Roma 1910, pp. 637-655; E. Schwartz, Constantin, in Meister der Politik, Lipsia 1922, pp. 277-324; J. Maurice, Constantin le Grand, Parigi 1924; L. Salvatorelli, Costantino il Grande, Roma 1928. Sulle relazioni tra C. e la Chiesa: C.J. Hefele, Histoire des conciles, a cura di H. Leclercq, I e II, Parigi 1907-08; A. De Broglie, L'Église et l'Empire romain au IVe siècle, parte 1ª, Parigi 1856; V. Schultze, Geschichte des Untergangs des griechischrömisch. Heidenthums, voll. 2, Jena 1887-92; L. Duchesne, Histoire ancienne de l'Église, II, Parigi 1907; E. Schwartz, Kaiser Constantin und die christliche Kirche, Lipsia 1913; T. De Bacci Venuti, Dalla grande persecuzione alla vittoria del Cristianesimo, Milano 1913; P. Batiffol, La paix constantinienne et l'Église, Parigi 1914; G. Costa, Religione e politica nell'impero romano, Torino 1923; E. Caspar, Geschichte des Päpstums, I, Tubinga 1930, p. 103 segg., 580 segg.
Il costituto di costantino.
Con questo nome o con quello più esatto di donazione costantiniana si designa quel documento che si suppose diretto nel 313 da Costantino il Grande a papa Silvestro, riflettente l'ordine delle dignità ecclesiastiche e la definizione dei beni temporali della Chiesa di Roma. Sull'autenticità del documento stesso, già posta in dubbio fin dal tempo degli Ottoni e impugnata vigorosamente nell'età umanistica da Nicolò da Cusa e da Lorenzo Valla, ormai non è più il caso di discutere. Nondimeno la falsificazione, anche come tale, è un documento di alto interesse storico, perché in esso trova completa espressione un momento di sviluppo della dottrina politica della chiesa romana. Perciò è decisiva la chiarificazione del problema cronologico relativo alla sua composizione, per fissare a quale epoca risalga la dottrina in esso esposta. La critica ha vagato in un ambito di tempo abbastanza esteso, dal sec. VII al sec. X, soffermandosi però di preferenza sul periodo di Pipino e di Carlo Magno o poco oltre, e ricollegando la manipolazione del falso alla ricostituzione della dignità imperiale in Occidente, o come presupposto di questa, oppure come conseguenza della concezione imperialistica dell'età carolingia.
Sullo schema diplomatico di un costituto imperiale sono interpolati nel documento elementi di carattere agiografico, che a questo visibilmente ripugnano; a motivi ideali s'accoppiano concetti temporali, che ad essi contrastano; e infine si possono sorprendere anomalie e sconcordanze grammaticali, non dipendenti da materiale errore di amanuense, che lasciano grande perplessità nella valutazione storica e politica del documento. Dopo l'esplicita postulazione della fides cristiana secondo la formula ambrosiana, il compilatore si dilunga in una sproporzionata digressione espositiva della leggenda silvestriana relativa alla conversione costantiniana, di carattere nettamente agiografico, nella quale ritorna, secondo formule diverse, l'affermazione della fides. A questa parte, definita impropriamente col nome di confessio, si ricollega, in forma non coerente, la seconda parte, nota col nome non appropriato di donatio, di carattere dispositivo, più conforme che non la precedente con la natura del documento. E nella donatio sono accomunate, con progressione disorganica e con qualche inopportuno ritorno alle fonti agiografiche della leggenda silvestriana, le disposizioni relative alla dignità del vescovo di Roma, alla sua giurisdizione nell'organizzazione della Chiesa universale all'equiparazione della gerarchia ecclesiastica a quella civile, ai simboli esteriori a questa riconosciuti, al governo dei beni temporali della Chiesa romana, al trasferimento di Roma e delle provincie italiane e occidentali, come entità territoriali, al dominio del vescovo romano, da cui tutto il documento prende il nome di donatio, all'incompatibilità di coesistenza nella stessa sede dei due poteri.
In questo quadro si confondono e male si armonizzano concetti e fatti tra loro incongruenti, che solo apparentemente assumono un aspetto di continuità di pensiero e di unità di concepimento e di stesura, subordinatamente ai quali si è tentato di risolvere il problema cronologico di composizione con un criterio unico. Ma forse è da dubitare che questa apparente unità sia derivata da effettiva unità originaria. Il criterio tuttavia della gradualità di composizione, in contrasto con quello dell'unità, fu seriamente oppugnato, e non senza ragione, per il riaffiorare di elementi discordanti in passi comuni a un medesimo stadio di elaborazione, e d'altra parte d'inconfutabili affinità in passi di presunta diversa età.
Il testo è a noi pervenuto in una versione latina e in una versione greca. Circa la versione greca del documento si pone il problema se si tratti di una traduzione del testo latino, o se questo sia la traduzione di quella, o qualche altra cosa. Occorre distinguere: esiste un testo greco, che abbraccia la sola donatio, e questo è indiscutibilmente una semplice traduzione del corrispondente latino; ma esiste anche un testo greco, che è giunto in lezioni separate, quello della donatio separata dalla confessio, analogamente allo sdoppiamento subito in alcune recensioni (quella cosiddetta isidoriana minor) dal testo latino. Orbene, questo testo greco, la cui unità materiale si può ristabilire senza difficoltà, in analogia a quella offerta dalla recensione latina della badia di Saint-Dénis, offre argomenti che lasciano pensare a una semplice traduzione. Pare verosimile che se vi sono casi in cui il testo latino precede quello greco, se ne annoverano altri in cui il testo greco precede quello latino; si presenta allora l'eventualità che il documento stesso abbia avuto origine da un nucleo primitivo dettato in latino e tradotto in greco (poiché nella parte essenziale il testo latino rivendica un diritto di priorità su quello greco), successivamente sviluppato con integrazioni e postille introdotte prima, in greco, sulla versione greca, e da questa poi passate nella versione latina, traducendo il testo greco. Questa ipotesi permette d'isolare nel documento un nucleo primitivo, che, conservando la corretta struttura diplomatica formale e sostanziale delle costituzioni imperiali dell'ultima età romana, risolve con sanzioni positive problemi concreti attuali della vita ecclesiastica. Affermata la fede religiosa praticata dallo stato, secondo la formula ambrosiana, e consacrata dalla penitenza redentrice; postulato il fondamento della potentia dell'ecclesia giusta il detto del Salvatore (Tu es Petrus et super hanc petram, ecc.), la suprema podestà civile, anch'essa di origine divina, riconosceva i limiti del potere e la dignità del pontifex romanus, equipollente alla propria, e accentrata nella persona del vicario romano. In armonia a questo canone è disposta la sua funzione nel campo ecclesiastico, la sua capacità giurisdizionale, il possesso e l'uso dei simboli esterioii conformi a quelli della podestà civile nella sfera temporale, la posizione equipollente delle due gerarchie ecclesiastica e civile, infine la duplicità delle sedi delle due supreme autorità, sancendo il principio dell'incapacità di coesistenza in un medesimo centro. Da questa prospettiva esula qualunque presunzione territoriale di temporalità, capace solo di limitare e contraddire il principio universalistico, cui è ispirato il motivo politico dell'ordinamento ecclesiastico dei primi secoli. Invece in esso è trasferita la medesima concezione universale propria dell'imperium, modificando l'unità politico-religiosa di questo sotto il dominio del pensiero pagano con la creazione di due- sfere distinte delle rispettive attività civili ed ecclesiastiche, parallele ed equivalenti, unificate nella volontà divina.
Tale è con tutta probabilità l'estensione della prima stesura del costituto, che perciò sembra riflettere i postulati essenziali della dottrina politica elaborata e difesa da papa Gelasio alla fine del sec. V. Prima il pensiero politico della Chiesa non ha ancora raggiunto unità sistematica; dopo, è superato dagli eventi e allargato in una visione che ne altera la struttura semplice, ma logicamente coerente, quale risulta dalla lettera di papa Gelasio e dallo schema originario del costituto testé delineato. Gl'influssi agiografici da un lato, le esperienze politiche dall'altro contribuiscono a ingrossare la mole di questo e a modificarne la forma e il contenuto. La diffusione in Occidente della leggenda greca su S. Silvestro alla fine del sec. VI offre materia a una più vasta illustrazione della fides e della poenitentia, allargando la visione dell'antica leggenda indigena con l'apporto di copiosi nuovi elementi agiografici. L'introduzione di questi nel costituto, nel corso del sec. VII, si risolve in un'estesa manipolazione dei capitoli proemiali del costituto stesso, riassorbiti in una narrazione agiografica che assume proporzioni e veste di trattato, affatto estranea alla natura delle costituzioni imperiali e inadatta ai fini del documento stesso, tanto da giustificare il postumo stralcio verificatosi in talune redazioni, come di cosa superflua, inutile e ingombrante ai fini del fatto principale documentato. Con altro intendimento e di epoca diversa è invece l'inserzione, che ha luogo soprattutto nel dispositivo, di condizioni e di sanzioni nuove, le quali sboccano decisamente nella prospettiva di concrete applicazioni territoriali e temporali: in questo momento il principio della donazione, attuantesi col possesso di dominî territoriali, quale risulta dalle donazioni pipiniane, viene affermato e grossolanamente incastrato nel vecchio schema, senza esatta nozione dell'antitesi emergente dall'abbinamento di due concetti disparati. Papa Adriano nella seconda metà del sec. VIII sanziona con la sua autorità il documento nel suo ultimo travestimento, proponendolo quasi come testo dei presunti e vantati diritti della Chiesa di Roma, messi in dubbio in Oriente e in Occidente. Sebbene esso prenda posto nelle raccolte canoniche pseudoisidoriane, non è tuttavia ancora proposto come un documento ufficiale e l'imperatore Ottone nel sec. X, quando, come tale, gli fu presentato in un esemplare fabbricato con presunzione di autenticità da Giovanni dalle dita mozze, lo ripudiò, non riscontrando nella pergamena i caratteri estrinseci che quella garantissero. Leone IX è forse il primo che, nel 1055? ne faccia uso ufficialmente con piena efficacia legale, iniziando la tradizione di fiducia e d'indubbia autenticità, che lo fece includere nel decreto di Graziano e accettare quasi senza sospetto fino al tempo della reazione critica umanistica, nonostante le deplorazioni della dottrina regalista, di cui si fa interprete con accorato rimprovero l'Alighieri, sulle conseguenze pratiche derivanti dalla sua applicazione.
Edizioni della versione latina: P. Hinschius, Decretales pseudo-isidorianae, Lipsia 1863, p. 252; H. Grauert, Die Konst. Schenkung, in Hist. ahrb. der Görres-Ges., III, 15; K. Zeumer, Der älteste Text des Const. Const., in Festgab. Gneist, Berlino 1888, p. 39 segg.; J. Friedrich, Die Const. Schenk., Nördlingen 1889, p. 179 segg. (cfr. anche le ediz. di Haller, Mirbt, Eichmann, Galante e Gaudenzi); R. Cessi, Il Cost. di Costantino. Il testo, in Atti R. Ist. Ven. di S.L. ed A., LXXXVIII, p. 972 segg.
Edizioni della versione greca: A. Steuco, De falsa donatione Constantini libri duo, Lione 1547; Pavlov, Podložnaja darstvennaja gramota Konstantina Velikago pape Sil′vestru v polnom grečeskom i slavjanskom perevode, in Vizant. Vremen., III (1896), p. 23 segg.; A. Gaudenzi, Il Costituto di Costantino, in Boll. Ist. Stor. Ital., fasc. 39; R. Cessi, Il Cost. di Costant., sopra cit., p. 972 segg.
Bibl.: Un'ampia e ragionata bibliografia degli studî sul costituto di Costantino è data da A. Schonegger, Die kirchenpolit. Bedeutung des Const. Constant. im frühern Mittelalt., in Zeitschr. f. katholische Theol., XLII, p. 337 segg., cui è da aggiungere il Pavlov sopra citato; W. Levison, Konst. Schenk. und Silvester-legende, in Miscellanea Fr. Ehrle, Roma 1924, II, p. 160 segg.; A. Gaudenzi, Il Const. di Costant., cit.; G. Laehr, Das Const. d. Constant. ecc., Berlino 1926; R. Cessi, Il Cost. di Costant. Il testo, cit., e Fonti ed età di composizione, in Annali della R. Università di Trieste, I.