MUSIO, Costantino
– Nacque a Orune, in Sardegna, il 10 dicembre 1760 da Gavino e da Giuseppa Tola.
Il 1° giugno 1786 si laureò in legge nell’Università di Sassari, dove ebbe come maestri alcuni dei valenti professori chiamati a insegnare nell’ateneo nei primi anni della riforma boginiana, tra i quali l’avvocato saluzzese Giuseppe Della Chiesa, professore di diritto canonico, già dottore collegiato presso l’Università di Torino. Intrapresa a Sassari la professione forense, affinò nella Penisola la sua preparazione giuridica, soggiornando, per oltre cinque anni, a Torino e a Roma, e infine a Napoli e a Firenze. Stabilitosi a Cagliari, entrò, poco più che trentenne, nello studio dell’avvocato Gerolamo Pitzolo, geloso cultore del diritto patrio e influente rappresentante della nobiltà isolana, che all’indomani della mobilitazione dei sardi contro il tentativo di occupazione francese (1792-93) divenne uno dei più autorevoli esponenti del movimento patriottico che rivendicava il riequilibrio dei rapporti tra il Regno di Sardegna e la Dominante piemontese.
Durante il triennio rivoluzionario (1793-1796) la vita di Musio appare strettamente intrecciata alle vicende di quella componente dello schieramento patriottico che, dopo la cacciata dei piemontesi dall’isola (28 aprile 1794), ripiegò su posizioni filogovernative e, sotto la guida di Pitzolo, nel frattempo nominato intendente generale, diede vita al partito realista. Nell’autunno del 1794, mentre il conflitto tra i realisti e i promotori della sollevazione antipiemontese si faceva più aspro, Musio divenne il segretario particolare del generale delle armi Gavino Paliaccio, marchese della Planargia, inviato dal governo di Torino per riportare l’ordine nell’isola. Col precipitare degli eventi, culminati nei tumulti popolari del luglio 1795 e nell’uccisione dell’intendente Pitzolo e del marchese della Planargia, Musio, accusato di aver attivamente partecipato alle macchinazioni antipatriottiche, scampò al linciaggio e fu arrestato, insieme con altri esponenti del partito realista. In carcere, dove rimase fino al novembre 1795, sposò Maria Chiara Cossu, figlia di un beccaio, rassegnandosi a un matrimonio riparatore, a cui per diversi anni era riuscito a sfuggire, nonostante due condanne del tribunale ecclesiastico.
Non c’è traccia, dopo la scarcerazione, di un’attiva partecipazione di Musio alle ultime, concitate fasi della crisi politica del Regno. Tuttavia, egli, testimone attento e acuto osservatore delle vicende del triennio rivoluzionario sardo, fu, con molta probabilità, l’autore dell’anonima Storia de’ torbidi, la dettagliata ricostruzione di parte realista della «sarda rivoluzione», che costituì uno dei preziosi archetipi della Storia moderna di Sardegna di Giuseppe Manno. Nel 1799, dopo il trasferimento della famiglia reale a Cagliari, per i suoi trascorsi politici e per la sua solida preparazione giuridica (nel 1796 aveva superato l’esame per l’esercizio delle funzioni di assessore e consultore nelle curie baronali e reali), Musio apparve alla corte come uno degli interlocutori più affidabili. Nel giugno 1799 fece parte della Deputazione incaricata dai tre ordini del Regno di stabilire l’imposta straordinaria da versare al sovrano. Nello stesso mese fece parte della Deputazione che chiese la revoca del regio diploma dell’8 giugno 1796, con cui il sovrano aveva accolto, seppure tardivamente, alcune rivendicazioni della sarda rivoluzione. Ancora, nel giugno 1799, quando l’assemblea rappresentativa del ceto nobiliare si trovò a designare il legale a cui affidare il ricorso dei feudatari contro un editto regio che ne limitava i poteri giurisdizionali, Musio fu scelto a larghissima maggioranza.
Con la presenza della corte a Cagliari si fece sistematica la repressione delle ultime frange del movimento che aveva animato la sarda rivoluzione. Nominato nel settembre 1799 reggente provvisionale dell’Ufficio dell’avvocato fiscale generale, Musio venne chiamato a far parte della Delegazione incaricata di giudicare il capopopolo Vincenzo Sulis, già comandante delle milizie urbane di Cagliari, accusato, sulla base di indizi assai fragili, di aver cospirato per abbattere il regio governo. Giudice implacabile, Musio votò per la condanna a morte di Sulis, che pure nel luglio 1795 gli aveva salvato la vita: il tribuno cagliaritano evitò la pena capitale grazie al fermo dissenso di un magistrato che faceva parte del collegio giudicante. Per lungo tempo diversi storici e la pubblicistica ottocentesca sostennero la tesi dell’innocenza e dell’ingiusta condanna di Sulis, a cui il nipote di Musio, Giuseppe, magistrato e illustre senatore, si sentì in dovere di replicare con la pubblicazione di un’ampia e appassionata difesa dell’operato dello zio.
Nel periodo della permanenza della corte a Cagliari Musio fu inoltre giudice in altri processi controversi, come quello per l’accusa di cospirazione, di cui fu imputato nel 1801 il frate Gerolamo Podda, poi morto in carcere, e quello per la cosiddetta «congiura borghese» del 1812, che culminò in una raffica di condanne capitali.
Nei primi tre lustri dell’Ottocento Musio ascese ai più alti gradi della magistratura: nominato nel luglio 1800 reggente dell’Ufficio fiscale regio, divenne nel 1804 avvocato fiscale; nel 1806 giudice della Sala criminale della Reale Udienza; nel 1808 giudice della Sala civile; nel 1811 giudice della Sala di supplicazione. Nel 1803 ottenne per sé e per i sei fratelli il diploma di cavalierato e di nobiltà. Tra il 1806 e il 1809 fece parte dell’autorevole Commissione di magistrati e giuristi incaricata di realizzare (ma il progetto non fu portato a termine) una raccolta sistematica del diritto patrio del Regno.
Nel 1815, con il ritorno dei Savoia in Piemonte, Musio fu chiamato a Torino come senatore e consigliere del Supremo Consiglio di Sardegna. Nei primi dell’anno la regina Maria Teresa, rimasta come reggente a Cagliari, lo aveva nominato decano interino della Sala criminale. Nel Piemonte della Restaurazione, Musio, profondo conoscitore del diritto patrio della Sardegna e giurista pragmatico d’impianto conservatore, godette di una particolare considerazione negli ambienti di corte. Nel 1822 fu promosso reggente di toga nel Supremo Consiglio di Sardegna, e, quando si pose il problema di mettere mano a una nuova iniziativa di consolidamento delle leggi civili e criminali del Regno, egli parve al governo sabaudo il candidato ideale per realizzare l’impegnativo progetto.
Il merito di aver convinto Carlo Felice a intraprendere l’opera fu attribuito da Giuseppe Manno al ministro dell’Interno Gaspare Roget de Cholex, che nell’agosto 1823 annunciò al viceré di Sardegna di aver affidato l’incarico di formulare il progetto «ad un distinto magistrato regnicolo meritevole della sovrana confidenza» (Manno, 2003, p. 180). In meno di un anno, il testo elaborato da Musio poté essere sottoposto al vaglio della Reale Udienza e delle magistrature sarde, e già nel 1826 il Supremo Consiglio consegnò a Carlo Felice quelle Leggi civili e criminali pel Regno di Sardegna, che furono promulgate il 16 gennaio 1827 ed entrarono in vigore il 1° gennaio 1828. Il nuovo testo normativo, che sotto il profilo formale seguiva il vecchio modello delle Costituzionipiemontesi del 1770 (peraltro riportate in vigore nel 1814), era il risultato di un sistematico riordino delle normative del diritto patrio e ne rispecchiava l’impianto sostanzialmente conservatore. Ciononostante le Leggi feliciane rappresentarono un significativo fattore di innovazione in un contesto giuridico chiuso e arretrato, che non aveva conosciuto né le armate napoleoniche né i codici francesi.
Con l’ascesa al trono di Carlo Alberto, la stima che Musio si era conquistato negli ambienti governativi come giurista colto e pragmatico ebbe conferma con la sua nomina, nel giugno 1831, a presidente della prima delle quattro sezioni incaricate di redigere i nuovi codici.
Nella nuova intrapresa Musio, che nella redazione delle Leggi feliciane non aveva esitato ad abbracciare una impostazione rigidamente conservativa, mostrò invece una singolare duttilità nell’interpretare le istanze di rinnovamento che erano alla base del riformismo giuridico carloalbertino, attingendo a piene mani da quel codice civile francese, che per ben dieci anni era stato in vigore in Piemonte durante la dominazione napoleonica. Del resto, come avrebbe sottolineato Federico Sclopis, che aveva fatto parte della commissione presieduta da Musio, questi «congiungeva le dottrine teoriche co’ dettati dell’esperienza, e benché già grave d’anni serbava vivaci gli spiriti, riciso nelle opinioni e nelle parole attendeva ai novelli lavori con ardor giovanile, in lui rinato con la speranza di giovare efficacemente alla patria. Il codice civile francese fu dunque l’ordito su cui si condusse la tela della Commissione» (Sclopis, 1864, p.51).
Superate le obiezioni dei senati di Piemonte, Genova, Savoia e Nizza e del Consiglio di stato, il nuovo codice civile fu promulgato nel giugno 1837 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1838 per i soli Stati di terraferma, per i quali era stato concepito.
Nel Piemonte carloalbertino era intanto tornata di attualità la spinosa questione del sistema feudale in Sardegna. Già nell’aprile 1832 un articolato parere, con cui il Supremo Consiglio prospettava l’abolizione dei feudi nell’isola, aveva suscitato la ferma reazione dei baroni, soprattutto quelli residenti in Spagna. Nel ruolo di reggente di toga del Supremo Consiglio, Musio dette un importante contributo all’elaborazione dei provvedimenti legislativi che, tra il 1835 e il 1838, portarono all’abolizione della giurisdizione feudale e al riscatto dei feudi in Sardegna. Nonostante i consolidati legami con la feudalità isolana, egli, convinto fautore delle prerogative del monarca, non esitò, in piena sintonia con gli altri componenti del Supremo Consiglio, a schierarsi per la linea più rigorosa, che prevedeva, per ragioni di pubblica utilità, l’avocazione dei feudi, anziché il riscatto. E tuttavia, se nel suo ruolo di funzionario della monarchia sabauda difese con fermezza le prerogative del sovrano, successivamente, nella fase di attuazione dei provvedimenti, si prodigò a tutela dei feudatari sardi nelle delicate procedure di determinazione dei compensi che avrebbero dovuto ricevere dalle comunità infeudate.
Morì a Torino il 21 agosto 1844.
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