Costantino nella patristica latina tra IV e V secolo
Dopo Lattanzio, per ritrovare tentativi originali di riflessione sulla figura di Costantino che vadano al di là di consuete formule encomiastiche, deformazioni controversistiche, espressioni isolate di reverenza o condanna, resoconti storici più o meno censurati, è necessario attendere la fine del IV secolo e le complesse teologie politiche di Ambrogio e Agostino. Affidata ad altre voci la trattazione del ruolo di Costantino nella crisi donatista e delle tradizioni confluite tra V e VI secolo negli Actus Sylvestri, nei testi latini che vanno dalla metà del IV alla metà del V è generalmente alto l’apprezzamento del protagonista della provvidenziale cristianizzazione dell’Impero e della prima definizione della teologia trinitaria. Eppure, agli occhi degli scrittori niceni, Costantino è gravato da una duplice colpa: la tarda adesione all’arianesimo e le stragi familiari. Se ne tenterà comunque un tacito o prudente riscatto, seppure saldato alla condanna teologica del figlio Costanzo e alla diffusa, compensativa esaltazione della madre Elena, colei che aveva donato al mondo il primo imperatore cristiano e alla quale si comincia ad attribuire l’ispirata inventio crucis a Gerusalemme, quasi a voler dichiarare la dipendenza del potere mondano dalla grazia di Dio. Non mancheranno, comunque, tentativi storicamente rigorosi, né prospettive di censura o radicale demitizzazione, in analogia con quanto in Oriente farà Crisostomo. Questo complesso processo latino di cosmesi, deformazione (si pensi agli Actus Sylvestri) o demitizzazione del Costantino storico1 contribuirà comunque alla riattivazione nella cristianità nascente di una messa in questione apocalittica dello stesso Impero convertito, quindi all’emergere di quella decisiva teologia politica – nota come agostinismo politico, che sarebbe meglio definire ambrosianesimo politico – che teorizzerà apertamente la necessaria sottomissione istituzionale del politico al teologico-ecclesiastico, almeno in materia di fede. In Occidente, alla teologia politica lattanziana ed eusebiana di impostazione analogica, per la quale il potere assoluto dell’unico imperatore cristiano era vera e propria teofania, immagine in terra del governo divino del mondo2, unificato nell’universale monarchia irradiante di luce3, si sostituirà con Ambrogio una teologia politica di ritrattazione/subordinazione del politico nel/al teologico e si opporrà con Agostino una teologia politica almeno latentemente dualistica, apocalitticamente critica nei confronti dello stesso Impero cristiano, realtà irriducibilmente terrena, seppure domata e guidata (ma fino a quando?) dall’insegnamento ecclesiastico.
Nel lungo periodo della controversia ariana, l’Occidente latino, teologicamente marginale, non produrrà una riflessione organica sulla figura di Costantino: troppo coinvolto in uno scontro radicale, si accontenterà di rilanciare idealizzazioni stereotipate (di origine atanasiana)4, strumentali al tentativo di sostenere le ragioni ortodosse tramite l’immensa autorità del fondatore dell’Impero cristiano. Liberio di Roma (morto nel 366), in un documento databile tra il 353 e il 354, richiama l’ostinato, filoariano Costanzo al modello ortodosso del padre di «sancta memoria»5. Analoga la risposta inviata, all’indomani del concilio di Milano (355), a Costanzo da Ossio di Cordova (256-357 circa)6, un tempo influente consigliere di Costantino e protagonista a Nicea; chiamato a sottoscrivere gli atti filoariani del concilio, egli rimprovera all’imperatore pressioni teologiche indebite, uno sconfinamento illegittimo di campo contrastante con la prudente politica del padre. Per difendere la piena autonomia dei vescovi, è chiamata in causa l’evangelica distinzione tra i due regni, che sarebbe stata proclamata da Gesù con il «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21); appare qui un potente dispositivo controversistico, chiamato a contrastare il ‘cesaropapismo’ di Costanzo, in questo – contro l’ideologica affermazione di Ossio – fedele continuatore di Costantino7. Ossio, piuttosto, opponendo a quella ortodossa del padre e del fratello Costante l’invasiva politica ecclesiastica del degenere Costanzo, la connette persino alle terribili persecuzioni perpetrate dall’avo Massimiano8.
Ilario di Poitiers (morto nel 367), il più grande e influente teologo occidentale dell’intera controversia ariana, radicalizza l’antitesi padre ortodosso/ figlio eretico nel suo apocalittico Liber ad Constantium imperatorem (360 circa): Costanzo è definito «antichristus»9, «tyrannus divinorum»10, capace di corrompere ancora più pericolosamente la Chiesa con onori e ricchezze, piuttosto che con aperte persecuzioni11, quindi più nefasto di Nerone, Decio, Massimiano12. La tesi è sconvolgente, in quanto prospetta una precoce riattualizzazione dell’apocalittico immaginario dell’imperatore-bestia, ampiamente utilizzato contro l’Impero persecutore (si pensi a Lattanzio), ma ora redivivo all’interno dei conflitti teologici cristiani; il vero anticristo non è più una potenza apertamente ostile, ma il potere cristiano falso, perché eretico, corruttore della fede e del santo archetipo di Costantino pio e ortodosso, illuminato protagonista del concilio di Nicea13. Costanzo viene perciò maledetto non soltanto dai trecentodiciotto vescovi niceni, ma dal padre stesso, del quale profana il sacro lascito14, la «patris tui professa fides»15: Costanzo diviene ‘il nemico’ di Costantino, sicché il padre è chiamato a delegittimare il potere eretico del figlio anticristo. L’accusa di Ilario è da un punto di vista teologico-politico devastante: Costanzo, che governa come cristiano pontifex maximus soltanto per l’eredità del padre, è un demoniaco usurpatore in quanto «divinae religionis hostis» e «paternae pietatis rebellis»16. Se ancora manca un potere papale in grado di contrapporsi al successore di Costantino, già si delinea una teoria della scomunica del potere imperiale insubordinato (certo per ora soltanto in materia di fede) da parte del potere sacerdotale ortodosso, garante, contro l’eresia, della stabilità e alla continuità del regno secolare: un dispositivo embrionalmente teocratico nel quale viene ritrattata la stessa santa autorità di Costantino! Già nella sua esegesi di Mt 22,21 nel Commento a Matteo, Ilario aveva subordinato il dovuto rispetto per il potere secolare, del quale anche il cristiano fa uso ma soltanto come «mercenarius», ai doveri nei confronti di Dio, che chiede all’uomo non soltanto «corpus» e «anima», ma anche «voluntas»17. Cesare, come l’erede di Costantino può reclamare soltanto obbedienza secolare, ma non coercizione della voluntas, che deve rendere conto unicamente a Dio delle sue scelte. Nel nome dello stesso Costantino e del suo presunto rispetto della piena autonomia dei vescovi nella definizione dell’ortodossia, sostenuto da una persistente ispirazione apocalittica (nell’Impero è sempre latente la bestia), si rafforza nella teologia occidentale un’interpretazione antimonocratica del potere teologico-politico: due sono in poteri in terra.
Propensa a rivolgere a Costanzo l’accusa di essere precursore dell’Anticristo18, ma contraria all’identificazione di Costantino con l’archetipo dell’ortodossa pietas teologico-politica, è da segnalare l’invasata, ma coraggiosa opera di un ben più limitato niceno, Lucifero di Cagliari (morto nel 370 circa): interessante è il De regibus apostaticis, nel quale Costanzo è paragonato ai peggiori sovrani veterotestamentari. L’argomento cristiano-romano della lunga prosperità del regno come prova del favore di Dio, quindi dell’ortodossia dell’imperatore regnante, viene confutata tramite esempi biblici di sovrani empi, potenti, longevi19. La riattivazione infracristiana dell’apocalittica disdetta del potere risale sino al principio: imperatore-anticristo è lo stesso Costantino, apertamente accusato di avere trasmesso ai figli l’errore ariano20. Al punto che le polemiche definizioni di Costanzo come «episcopus episcoporum»21 e addirittura «filius diaboli»22 non potevano non coinvolgere il padre in una spietata condanna, che destina l’infedele potere di questo mondo a una terribile punizione escatologica.
Una serie di testi cronologicamente prossimi, tutti databili tra fine IV e inizio V secolo, prodotti da autori nati successivamente alla morte di Costantino, offre materiale di grande interesse storico, seppure non organicamente approfondito. Conclusa la controversia ariana, Costantino comincia a recuperare, certo sempre in prospettiva ideologica, maggiore complessità e veridicità storica23.
Rilevantissime le secche indicazioni di Girolamo, che, in linea con le insinuate denunce di Lucifero, contraddicono la strumentale agiografia nicena di Atanasio, Ilario, Ambrogio24. Nel Chronicon (380-381) – supplemento redatto in appendice alla traduzione latina della seconda parte del Chronicon eusebiano –, attingendo a una fonte ariana e/o a una pagana, è attestata la tarda adesione di Costantino all’eresia, provata dal battesimo ricevuto in punto di morte per le mani di Eusebio di Nicomedia: «Constantinus extremo vitae suae tempore ab Eusebio Nicomedensi episcopo baptizatus in arrianum dogma declinat»25; quanto scottante sia il dato storico, lo prova la straordinaria fortuna della leggenda alternativa politicamente lungimirante di Costantino battezzato da papa Silvestro. La demitizzazione geronimiana della figura di Costantino si compie nella denuncia della violenta discordia ecclesiastica, politica, della mancanza di pace (Costantino muore in procinto di portare guerra ai persiani) generate dalla sciagurata apostasia dalla fede nicena dell’imperatore26, perversamente continuata da Costanzo, feroce propugnatore dell’«impietas arriana»27. Girolamo ubbidisce a un’urgenza ecclesiastica, quella di scongiurare una nuova adesione all’arianesimo degli imperatori – dopo Valente e i tentennamenti di Valentiniano II –, mettendo in guardia Graziano e Teodosio con il consueto argomento teologico romano-cristiano (da Ambrogio richiamato in causa nel De fide dedicato al niceno Graziano) del favore delle armi concesso unicamente all’imperatore ortodosso, come aveva provato dolorosamente il recente disastro dell’ariano Valente a Adrianopoli (378). Non sorprende, pertanto, constatare la secchezza con la quale Girolamo annota l’uccisione, da parte di Costantino, del figlio Crispo28 e della moglie Fausta29 o la ridicolizzazione della ‘voce’ (anche ambrosiana) che identificava il ‘sanctum Domino’ profetizzato da Zaccaria 14,2030 con i chiodi della croce divenuti freni del cavallo di Costantino31, nominati frettolosamente e non degnati di alcuna riflessione teologica32, così come ignorata è la figura di Elena; dati rilevanti, se confrontati con il grande peso teologico che verrà loro attribuito da Rufino, Paolino, Sulpicio, soprattutto Ambrogio. Coerentemente, la consacrazione della città imperiale di Costantinopoli, la nuova Roma cristiana, viene fatta coincidere con la rapace spoliazione delle altre città33.
Rispetto alla concisa ma spregiudicata demitizzazione del mito di Costantino intrapresa da Girolamo, assai più prudente si dimostra Rufino di Aquileia (345-411 circa), chiamato a addomesticare quei dati storici scandalosi che il suo rivale aveva riportato alla luce. Nei due libri di integrazione aggiunti alla sua traduzione della Historia ecclesiastica di Eusebio, databile ai primi anni del V secolo, loda Costantino come «religiosus princeps»34, capace di dichiarare la sua umile sottomissione alle decisioni dei padri niceni35 e di accogliere la sentenza del concilio «tamquam a Deo prolata»36; la dichiarata volontà imperiale di punire chi non l’avesse accettata, messa a confronto con l’esiguo numero di resistenti, intende sottolineare la buona fede di Costantino, ingannato dall’ipocrisia di Eusebio di Nicomedia e dei suoi, che firmano i documenti del concilio, pur osteggiandone la sostanza. Significativa è l’insistenza con la quale si ribadisce come Costantino si dichiarasse sottomesso, in maniera di fede, alle decisioni dei vescovi e all’intercessione di martiri e asceti37: pare già operante, per quanto aneddoticamente restituita, un’esigenza di subordinazione istituzionale dell’assoluto potere imperiale alla mediazione sacerdotale e carismatica della Chiesa. Ubbidendo allo stereotipo teologico della vittoria, non approfondito, Rufino continua a considerare successi politici e militari di Costantino come premio dell’incrollabile sottomissione a Dio38. Interessante è la delicata restituzione dello scandaloso dato storico della riabilitazione di Ario. Nel tentativo evidente di minimizzare il lapsus dell’imperatore, essa è attribuita in primo luogo all’ingenuità di Costanza (novella Eva), che, raggirata da un prete ariano (nuovo serpente, che diverrà il corruttore di Costanzo), chiede in punto di morte al fratello di revocare la condanna dell’eretico, sicché Costantino (nuovo, ingenuo Adamo), che comunque mai recede dall’identificazione dell’ortodossia con il simbolo niceno39, accetta per amore della congiunta di sottoporre di nuovo Ario al giudizio dei vescovi, infine ne accoglie in buona fede come autentica la simulata confessione della verità teologica, piegandosi alle subdole manovre di Eusebio di Nicomedia40. Del tutto censurata risulta comunque la scandalosa notizia geronimiana del battesimo di Costantino per mano di Eusebio di Nicomedia, come assai significativo è il far slittare a dopo la morte dell’imperatore la piena riabilitazione di Ario, proclamata da Costantino a Gerusalemme nel 335, ma da Rufino attribuita all’eretico successore Costanzo41.
Se una donna è causa del credito in buona fede concesso agli ariani dall’imperatore, mai divenuto davvero eretico, a un’altra donna, allegoria della Chiesa, è affidato il compito di riscattarne pienamente l’integrità religiosa: Elena, la madre ispirata da Dio, chiamata a portare alla luce, quindi a identificare grazie a un ulteriore miracolo la santa croce di Cristo42 e, nel suo umile servizio prestato ad alcune vergini consacrate di Gerusalemme, lodata perché, pur essendo «regina del mondo e madre dell’Impero, si considerava serva delle serve di Cristo»43. Tramite Elena, «regina venerabilis»44, Rufino può esaltare l’elezione divina di Costantino e della sua ‘santa famiglia’ (si noti l’implicito parallelismo Elena-Maria, che già Ambrogio aveva esplicitato), seppure costretto a censurare il misfatto dell’uccisione del figlio Crispo notato da Gerolamo. Non trascura, invece, di riportare la notizia già tradizionale dell’utilizzazione dei chiodi della croce: essi vengono forgiati da Costantino per trarne i morsi del cavallo imperiale e parte di un elmo, con i quali potesse recarsi in battaglia protetto da Dio45. La raffinata, fatale interpretazione allegorica dei chiodi proposta da Ambrogio è del tutto assente nell’asciutto racconto di Rufino, che almeno ha il merito di restituirci un’ipotesi storicamente attendibile sulla peculiare interpretazione teologico-politica della croce di Cristo – segno di potenza e di vittoria in guerra – in ambiente costantiniano46.
Anche per il suo valore letterario, non va trascurata l’esaltazione provvidenziale di Costantino vincitore a ponte Milvio del libidinoso tiranno Massenzio grazie alla potenza liberatrice della croce trionfante in guerra, cantata da Prudenzio (348-405 circa) nel I libro del Contra Symmacum47, coevo all’Historia ecclesiastica di Rufino, da leggere in correlazione con la celebrazione, nel II libro48, del ruolo provvidenziale dell’Impero romano creato da Augusto per porre il freno del suo dominio al mondo, unificando una pluralità discorde di stati e civiltà – «regna volens sociare Deus subiunger uni imperio» –, quindi preparando l’avvento di una potenza unificante superiore, ma analoga, quella del «religionis amor» cristiano49. Il parallelismo tra il trionfo politico di Roma e quello divino del cristianesimo, mediati in Costantino come nuovo e pio Augusto, era già stata segnalata da Peterson ne Il monoteismo come problema politico50, che ne sottolineava la dipendenza dalla teologia della storia di Eusebio di Cesarea. Vi riconosciamo, piuttosto, un’evidente influenza di Lattanzio, che aveva sistematicamente trattato della relazione tra monoteismo teologico e monarchia politica, quindi tra Cristo e Augusto, nella speranza di un imminente imperatore cristiano, capace di riunificare potere, saeculum e vera religione.
Notevoli lo slittamento dalla croce guerriera di ponte Milvio a quella della passione di Gesù, e la deminutio di Costantino, ritrattato nella santa madre Elena, attestati da Paolino di Nola (353-431) nell’Epistola 31 del 403, indirizzata a Sulpicio Severo: «Costantino meritò di essere il primo dei principi cristiani, meno per la sua fede che per quella della madre Elena (non magis sua quam matris Helenae fide), la quale, come dimostrò l’esito dell’impresa, in occasione della sua visita a Gerusalemme, fu ispirata dal consiglio divino»51. L’assoluto disinteresse per l’esaltazione teologico-politica dell’Impero cristiano corrisponde all’imbarazzo evidente nei confronti di Costantino, censurato per la fede incerta. Il compito di purificazione dei luoghi sacri dall’idolatria e l’imponente attività di costruzione delle chiese a Gerusalemme sono così attribuiti esclusivamente alla santa e munifica Elena52. Inoltre, Paolino, che attesta una variante dell’inventio crucis divergente rispetto alla notizia rufiniana53, non riporta la notizia dei chiodi e della loro utilizzazione da parte di Costantino; questi sparisce completamente dal racconto, persino quando Paolino comincia a descrivere lo splendore della chiesa della Passione, quasi impersonalmente germinata dalla potenza irradiante della reliquia54. Notevole la differenza rispetto al corrispondente racconto di Eusebio, che si diffondeva nell’esaltare la potenza teofanica dell’imperatore55; in particolare, la centralità di Costantino viene sostituita con quella del vescovo di Gerusalemme, regista della miracolosa macchina liturgica e dispensatore di frammenti della croce-eucarestia a pellegrini influenti56. Come Elena e il vescovo soppiantano Costantino quali viventi e miracolose teofanie, così la teologia politica dell’Impero cristiano è soppiantata da una teologia della liturgia ecclesiastica; così, nel XIX dei Carmina, Costantino è lodato più per l’ispirata edificazione di Costantinopoli, nuova Roma adornata con le miracolose reliquie e i monumenti degli apostoli, che per la conversione dell’Impero57. A una «elenizzazione» di Costantino corrisponde un’ecclesiastica, reliquiale materializzazione del miracolo della conversione del saeculum.
Minori scrupoli di Rufino e dello stesso Paolino rivela Sulpicio Severo (363 circa-420 circa) nella impietosa restituzione della figura di Costantino nei suoi Chronicorum libri58: fugacissima la notazione del «primus omnium romanorum principum christianus», incastonata tra la descrizione delle persecuzioni tetrarchiche e l’accenno alla breve fiammata persecutoria di Licinio59. Soprattutto, Costantino non viene affatto nominato, quando si descrive il miracoloso diffondersi, nella pace, della religione cristiana60, culminante nella riedificazione cristiana di Gerusalemme, della quale Elena (figura della Chiesa), e non certo Costantino, è l’ispirata protagonista, lungamente esaltata per la sua pia ricerca61, così come accade nella lettera inviatagli da Paolino. In Sulpicio sistematico è l’ampliamento della tradizionale allegoria del ritrovamento della croce, nel quale vengono simboleggiati mistero dell’incarnazione e fede nicena nella Trinità (ridentificata nell’unica croce/sostanza autentica, respinte come false le altre croci/sostanze ariane). In una raffinata contrapposizione tra le azioni della madre (la Chiesa autentica) e quelle del figlio (capo di un Impero e di una Chiesa mondani), la vita di Costantino diviene così l’antitesi storica del mistero teologico rivelato nel miracolo: è apertamente denunciata l’adesione precoce, piena, pervicace di Costantino all’arianesimo, a opera di due ariani (corrispondenti alle ‘false’ croci dei due ladroni), reviviscenza del male apocalittico all’interno del saeculum finalmente cristianizzato: l’«imperator depravatus» incrudelisce contro gli autentici testimoni della fede, convinto di ubbidire a un sacro dovere62. E malgrado il santo concilio di Nicea, restituito quasi fosse stato per l’imperatore eretico un incidente imprevisto63, la traiettoria ariana di Costantino rimane continua fino alla morte64; anche se, forzando i dati storici in un’ultima ansia di riscatto, Sulpicio attribuisce a Costantino, anticipandolo al 337 (subito prima della sua morte), il richiamo di Atanasio da quell’esilio nel quale egli stesso lo aveva inviato65. Comunque, per Sulpicio, con Costantino e l’Impero cristiano da lui inaugurato, la Chiesa inevitabilmente si secolarizza, corrompendosi: male, inganni, persecuzioni vengono a nascondersi in lei, sicché soltanto la fede e la virtù di pochi, illuminate dalla miracolosa azione di Dio, può continuare a testimoniare il mistero della redenzione e la tensione verso il saeculum escatologico, riconoscendo la vanità di questo mondo, destinato all’annientamento66, di cui lo stesso Impero cristiano-romano è espressione.
Alla figura di Costantino Ambrogio non dedica diffusa attenzione; fa eccezione un’opera capitale nella storia della teologia politica cristiana, il De obitu Theodosii, l’orazione funebre pronunciata a Milano, il 25 febbraio del 395, in un’occasione fatidica: il vescovo di Milano parla al cospetto del corpo morto del nuovo e superiore Costantino, integro campione del cattolicesimo imposto come religione di Stato, garante dell’ortodossia niceno-costantinopolitana, ultimo imperatore a regnare sull’Impero indiviso. Accanto al corpo di Teodosio, è presente Onorio, il suo figlio bambino; per lui e per il fratello Arcadio, il vescovo di Milano assume, per volontà di Dio, il ruolo di garante della successione e di guida spirituale. Esaltato Teodosio per la sua piena sottomissione a Dio e alla Chiesa, Ambrogio afferma che egli «regnum non deposuit, sed mutavit», assunto finalmente «in civitatate Domini virtutum, in civitate Dei nostri, quam Deus fundavit in aeterno»67, riunificandosi al corpo vivente di Cristo, che nella sua azione politica e religiosa aveva cercato di imitare in terra e la cui rappresentazione rivive nei suoi figli68. Questo movimento circolare di imperializzazione del regno di Dio e di fondazione cristiana della rappresentazione del potere imperiale, seppure finalizzato a esaltare la misericordia piuttosto che la potenza di Teodosio, non può rinunciare al consueto argomento della fede, lasciata in eredità ai figli, come suprema garanzia della fortuna dell’Impero, persino in battaglia, a testimonianza della persistenza della costantiniana teologia della vittoria69.
Niente affatto costantiniana è, invece, la teologia politica qui apertamente proclamata, l’ambrosianesimo politico: soltanto il teologico-ecclesiastico è mediatore del favore divino, quindi garanzia di legittimità e prosperità del potere, come Ambrogio ricorda tramite gli esempi veterotestamentari di Giosia70 e Asa71. Teodosio ha trionfato perché si è riconosciuto solo un «miser homo»72, che facendo umilmente dipendere ogni suo successo dalla grazia di Dio73, ha deposto l’insegna imperiale e accettato la pubblica penitenza impostagli da Ambrogio per la strage di Tessalonica74. Soltanto Ambrogio può, pertanto, condurre l’imperatore sino all’ingresso nella Gerusalemme celeste, nel regno eterno di Dio75, scaturigine metafisica dell’Impero. Insieme con Costantino, l’archetipo dell’imperatore cristiano, Teodosio conosce fondazione e perfezione assoluta di potere e regno: «Ora Teodosio sa di regnare veramente, perché è nel regno del Signore Gesù e ne contempla il tempio. Ora si sente veramente re […], poiché non si separa da Costantino»76, «il primo imperatore che credette e lasciò ai suoi successori l’eredità della fede», cui quindi è riconosciuto da Dio «magni meriti locum»77.
Significativamente, Ambrogio contrae e insieme cancella la memoria dei gravi peccati di Costantino tramite l’affermazione che la grazia li ha perdonati tramite il battesimo in punto di morte (di cui ovviamente non si ricorda qui l’ariano somministratore)78; implicitamente, si afferma che è la potenza del sacramento ecclesiastico a consentire a Costantino il perdono per i suoi tentennamenti eretici o per le terribili stragi familiari. Il lungo elogio di Costantino è comunque obliquo, mediato dalla lunga digressione dedicata alla madre Elena79, immagine della Chiesa: ella incarna quel ruolo di mediazione tra Dio e l’imperatore sul quale si impernia l’ambrosianesimo politico. Di questa casta meretrix, sono ricordate le umilissime origini, la sua equivoca professione di «stabularia», innalzata da Dio «de stercore ad regnum»80, ispirata dal suo Spirito. Proprio perché allegoria della Chiesa, Elena è paragonata a Maria81: come questa ha generato l’uomo Gesù, così quella, con l’inventio crucis, ne prova la morte, glorificandone universalmente la resurrezione. Capace di rivoluzionare l’identità dell’Impero romano, Elena è stata eletta per salvare Costantino e i suoi successori – «visitata est Helena, ut redimerentur imperatores»82 –, mettendoli sotto la protezione di Dio, capace di far trionfare Costantino anche in guerra83. Il rapporto tra Dio e Costantino non è, insomma, diretto, personale, ma mediato da Elena-Chiesa; si tace dell’epifania del segno della croce, del concilio di Nicea, del «vescovo universale (τις κοινòς ἐπίσκοπος)», svuotando Costantino di qualsiasi pretesa di ispirazione divina, carisma ecclesiastico, persino autonomo contatto con Dio84; mentre la Vita Constantini descriveva come vera e propria teofania la misterica visione cui Costantino introduceva il vescovo Eusebio, svelandogli la croce preziosa, immagine del miracoloso segno divino85.
Tolto il segno teofanico di Costantino nella vera croce di Elena, Ambrogio può esaltare la subordinazione della testa dei re alla croce di Cristo e alla Chiesa che la testimonia universalmente. I chiodi della passione sono fusi da Elena, che ne forgia il centro della nuova corona e il morso del cavallo imperiali. La croce ecclesialmente mediata diviene il freno del cavallo del potere domato, asservito al regno di Dio, «ut imperatorum insolentiam refrenaret, comprimeret licentiam tyrannorum» (50). Ambrogio vi vede realizzata la profezia di Zaccaria 14,20: il chiodo di Cristo, inserito da Elena-Chiesa anche nella corona imperiale, è il perno, il «principium» del potere, la fede che governa l’Impero e la storia, passata dalla «persecutio» alla «devotio»86: «è prezioso questo clavus dell’Impero romano, che governa il mondo intero e ricopre la fronte dei principi»87. E il chiodo-morso non è soltanto quello del regno escatologico, ma anche quello della Chiesa mediatrice attraverso il potere episcopale, come provato dalla penitenza teodosiana sopra enfaticamente ricordata e qui riecheggiata. Storica egemonia ecclesiastica di Costantino, teologia della vittoria romano-cristiana, raffinata teologia politica eusebiana sono nell’ambrosianesimo politico ritrattate in teologia imperiale-ecclesiastica88, prototeocratica, che determina la minorizzazione del potere assoluto romano, secolarizzato, in quanto privato di qualsiasi autonoma dignità sacrale, quindi risacralizzato, ma unicamente tramite la mediazione e legittimazione della Chiesa, cui rimane subordinato. Questo a partire da una romanizzazione del Dio niceno, Imperator assoluto, che toglie e invera in sé tutte le dimensioni del potere che la tradizione romana attribuiva all’imperatore89. È da Cristo che il potere dipende, dai suoi «frena devotionis et fidei» sono domati i peccati degli imperatori, è la sua potestas trascendente che richiama la loro «prona potestas in vitium […] a lapsu impietatis»90. Insomma, è l’imperiale «liberalitas» di Cristo, «al quale si sottomettono i regni, cui serve il potere»91, a concedere agli imperatori, con la «iusta moderatio», la loro stessa legittimazione92. Il trionfo celeste di Teodosio, che ascende con Costantino nel regno di Dio, può finalmente ritrattare il trionfo imperiale terreno, ombra e tipo del suo archetipo trascendente93: nella corte imperiale di Dio, associato a Teodosio nella sua ascesa al cielo, davvero Costantino, grazie ai doni di Elena, trova il suo teologico asservimento. A meno che non si voglia leggere, nella fatale reinterpretazione ambrosiana di Dio come Imperator, l’ultima, occulta, più profonda apoteosi del secolarizzato imperatore teofanico.
Nell’interpretazione di Agostino (354-430) l’intera tradizione cattolica trova una complessa e originalissima retractatio, nella quale interagiscono ideologia romano-cristiana e disdetta apocalittica dell’Impero, spietata demitizzazione dell’agiografia costantiniana e lode del saeculum cristianizzato, teologia politica analogico-rappresentativa e teologia politica dualistica. Per questo, rinchiudere la sua teologia politica nello storiografico agostinismo politico, cui si dovrebbe sostituire la più appropriata espressione di ambrosianesimo politico, significa non comprenderne a fondo tensioni interne, ambiguità, potente ispirazione apocalittica, carismatica, escatologica, concezioni di storia, potere e grazia di Dio radicalmente innovative. In proposito, diviene rivelativa l’interpretazione ambigua, certo reticente, di Costantino nel De civitate Dei94, sconcertante nella sua stessa strutturazione: l’‘elogio’ dell’imperatore è preceduto da una lunga meditazione sul rovesciamento totale di prospettiva che il cristiano deve utilizzare nella valutazione di storia, potere, successo, rifiutandosi di identificare nelle fortune terrene – durata dell’Impero, ampiezza delle vittorie e pace interna attraverso la soppressione dei nemici, serena trasmissione del potere ai propri figli – i più preziosi doni di Dio. Apertamente, Agostino afferma che quest’ingenua teologia della vittoria – centrale in Lattanzio, Costantino, in fondo nello stesso Eusebio e in Ambrogio – corrisponde alla visione terrena e pagana della storia, mentre quella cristiana95 è fondata sulla consapevolezza della paradossalità della condizione umana, della dimensione di dolore, luctus e peregrinatio in spe96 che l’autentico cristiano vive in hoc saeculo, del modo kenotico, umile e nascosto, ignoto all’uomo stesso e soltanto escatologicamente rivelato97, attraverso il quale Dio opera nei suoi eletti con spirituali doni di grazia. L’elenco di questi doni – i soli che possano rendere felices, perché in grazia di Dio – sembra costituire un tacito atto di accusa nei confronti di Costantino, che – tramite Girolamo e Rufino, dei quali cita le traduzioni/ integrazioni di/a Eusebio98 – Agostino conosceva non soltanto come monarca glorificato e dominus di Nicea, ma anche come ariano, spietato omicida di familiari per brama di potere monarchico o vendette private, pronto alla guerra per allargare i suoi domini. L’imperatore cristiano idealizzato da Agostino, al contrario, ha come doni umiltà e misericordia, rifiuta di essere innalzato sino al cielo, opera per la diffusione dell’autentica religione contro eresia e scismi, preferisce perdonare piuttosto che punire e punisce solo in vista del ravvedimento, mai per odio e vendetta, ama Dio e il regno celeste più di sé e del regno terreno, preferisce dominare passioni, ira, libidine piuttosto che nuovi regni99. Nessuno di questi dona è presente nel contratto ‘elogio’ di Costantino, limitato all’affermazione che in lui Dio ha voluto mostrare come anche i beni terreni dipendano dalla sua grazia. La simmetria tra i fuorvianti indizi terreni del favore di Dio in V 24100 e i favori terreni concessi da Dio a Costantino in V 25101 è perfetta, niente affatto casuale. Questo significa che Costantino non è stato un imperatore felix, non avendogli Dio concesso i doni della sua grazia: seppure cristiano, è stato premiato da Dio come un pagano, con quegli stessi favori terreni che gli uomini cercano erroneamente dai demoni102. Rivelativo è affiancare all’‘elogio’ di Costantino la lettura di De civitate Dei XV 7: Caino, primo uomo terreno e fondatore della prima civitas terrena, sacrifica al vero Dio, ma lo fa perversamente, come tutti i cives terreni, i quali «offrono doni a Dio col proposito di conquistarlo e averne aiuto non per sanare, ma per soddisfare i loro desideri depravati. Questo è il comportamento proprio della città terrena: venerare (colere) Dio o gli dei per regnare col loro aiuto, vincendo e stabilendo una pace terrena non per sollecitudine caritatevole verso gli altri, ma per brama di dominarli»103. Si può credere in Dio, venerarlo, senza sincero amor Dei, senza amarlo assolutamente (frui Deo), ma soltanto per interesse, strumentalmente (uti Deo), per ottenere beni terreni104. Non è quindi sufficiente affermare che il cristiano Costantino credeva in Dio ed era «ipsum verum Deum colens», per allontanare da lui il sospetto – apertamente inconfessabile, considerato l’immane, seppure discusso prestigio della sua figura provvidenziale – che onorasse Dio con terreno, cainitico amor sui. Evidentemente, Agostino non trova negli atti di Costantino nulla di eminentemente cristiano, di gratuito, a differenza di quanto documenta esaltando l’umile Teodosio (influente Ambrogio), cui vengono attribuiti tutti i doni di grazia elencati in V 24105. Con un minimo cedimento alla teologia della vittoria, Agostino ricorda persino un miracolo che avrebbe assistito Teodosio in battaglia; ebbene, in nessun luogo della sua opera Agostino, lettore di Eusebio, accenna al segno/sogno di Costantino, tacendo completamente del ruolo provvidenziale della sua conversione e del suo ruolo a Nicea. Persino l’azione antidonatista di Costantino, vitale per un cattolico africano (segnalata comunque con singolare discrezione anche nelle opere antidonatiste)106, è, nel De civitate Dei, taciuta; evidentemente l’ombra lunga della tarda adesione all’arianesimo impedisce la sua esaltazione come imperatore religioso. Sicché, a differenza di Ambrogio, Agostino non fa menzione del battesimo dell’imperatore in punto di morte, capace di toglierne tutti i peccati, così come (con Girolamo) tace completamente di Elena e dell’inventio crucis, pure compattamente esaltata e allegorizzata da uomini di Chiesa e scrittori latini a lui prossimi e noti: prova della demitizzazione agostiniana di qualsiasi interpretazione provvidenzialistica di Costantino, della sua famiglia, dell’Impero cristiano.
Questa prospettiva demitizzante culmina nella restituzione dell’unica azione ‘religiosa’ di Costantino riportata in quest’anomalo elogio, la fondazione della città a se stesso dedicata: Dio concesse «a Costantino […] tra l’altro, la fondazione di una città associata all’Impero romano, quasi una figlia di Roma stessa, ma priva di qualsiasi tempio e immagine demoniaca»107. Pur essendo donato a Costantino l’onore altissimo – comunque terreno – di «condere civitatem» consacrata a Dio e priva di templi pagani, Costantinopoli, «civitas imperio romano socia», sembra essere caratterizzata più dalla sua origine romana, che dalla novità cristiana. Se Costantinopoli è città non più empia, perché finalmente celebra il vero Dio, sembra riaffiorare nell’atto di Costantino un amor ‘arcaico’: l’identità dei cives terreni origina e culmina nell’atto ‘divino’ del condere civitatem, nominandola con il nome proprio o del figlio, eliminando frater o socius per desiderio di essere solus. Romolo fratricida divinizzato fonda e chiama Roma con il proprio nome (cfr. Varrone, Livio, Aurelio Vittore), crea la suprema incarnazione storica della civitas diaboli; in lui rivive Caino fratricida fondatore della prima civitas terrena, chiamata con il nome di suo figlio Enoch (= dedicatio) perché fosse sua perversa autoconsacrazione108. Nell’atto fondativo di Costantino (uccisore del figlio e del cognato-socius) sembra trapelare, annidata nel condere sottratto all’egemonia demoniaca e nella lodevole, provvidenziale dedicatio cristiana (con la quale Dio espugna la visibilità storica ai demoni), comunque una terrena brama di potenza assoluta, di autocelebrazione. Libido dominandi, babelico appetitus unitatis et omnipotentiae109 proprio della superbia umana, evidentemente sopravvivono nel Costantino cristiano, come nell’ideologia perversa della sacralizzazione ‘cristiana’ di una città terrena, secolare, che però si vuole eterna110, universalmente monarchica, risplendente della gloria divina: seppure cristiana, Costantinopoli nuova Roma, figura suprema della civitas terrena, non può non rivelarsi ambigua, ibrida. Tanto più che la definizione della città di Costantino come «Romae filia» riecheggia quella sinistra di «Roma velut altera Babylon et velut prioris filia Babylonis»111. A partire da questi filtri apocalittici (nell’Apocalisse, Babilonia prostituta asservita al demonio è antitesi degradata di Gerusalemme sposa di Cristo), Agostino ritratta originalmente la dottrina tradizionale – da Melitone e Teofilo a Clemente e Origene, da Lattanzio ed Eusebio ad Ambrogio e Girolamo – dell’avvento provvidenziale di Roma e di Augusto. Dio ha promosso la grandezza di Roma per premiare i meriti puramente naturali dei suoi cives terreni, ma soprattutto per costituire un segno storico antitetico, vano e dannato nella sua perversione, della civitas Dei; il che significa che Roma, nella sua pretesa eternità, gloria e pace universali, rappresenta Dio e Cristo, ma soltanto in quanto controfigura della Trinità e della Chiesa eletta, provvidente contraffazione del Vangelo (pure se del mondo unificato da Roma la predicazione apostolica si giova), strumento della rivelazione alienato dalla verità cui inconsapevolmente rimanda112. La spietata decostruzione del mito di Roma portatrice di legge, civiltà, pace113, non poteva non riattivarsi nei confronti di Costantinopoli, cioè del saeculum cristiano e dell’Impero convertito, certo non più apertamente idolatri, finalmente capaci di rappresentare la vera religione e la verità eterna di Dio, eppure luogo di ambigua permixtio – come la stessa Chiesa storica! – tra buoni e cattivi, eletti e reietti114. Il passaggio da Roma a Costantinopoli significa la trasformazione di un segno perverso (il saeculum idolatra) in segno ambiguo (il saeculum costantiniano), rappresentativo di Dio (in esso la Chiesa consente universalmente di colere Deum), ma incapace di significarlo (frui Deo), quindi esso stesso luogo di peccato, se la grazia non lo visita, accendendo singolarmente l’amor Dei nel desiderio dell’eletto.
Certo, Costantino, rivelativo punto cieco del De civitate Dei e incarnazione dell’ambiguità del saeculum cristiano – consacrato a Dio, ma minato dal peccato –, testimonia come siano presenti anche in Agostino elementi protocattolici di ambrosianesimo politico (donde la discutibile categoria di agostinismo politico): il potere imperiale e il saeculum si sono sottomessi al trionfo storico della Chiesa, divinamente voluto; legittimi e doverosi sono, da parte del potere cristiano, sostegno alla vera religione e coercizione religiosa; la gloria della rivelata civitas Dei deve rifulgere, la vera religio è storico, pubblico sacrificium che dev’essere universalmente dilatato115. Per questo Costantino può essere messo in radicale discussione, sospettato di intentio terrena, ma non può essere apertamente abbandonato. Eppure, al di sotto di questo scenario di romano, universale, persino violento trionfo storico della Chiesa cattolica, prevale in Agostino lo sguardo irriducibilmente critico, demitizzante generato dal pessimismo teologico dell’apocalittico, che vede il male annidato in ogni realtà umana, persino nella Chiesa di Cristo, tanto più nell’ambiguo portato della svolta costantiniana. La teologia della storia di Agostino è la smentita di quella eusebiana116: il mito di Roma è un idolo pagano; contro Tertulliano e Lattanzio, il crollo di Roma non coinciderà con la fine del mondo; la pace universale nel saeculum è e sarà sempre assente, potendo darsi unicamente come dono escatologico117; la pace è pregiudicata e niente affatto garantita dalla volontà di unificazione delle potenze imperialistiche, alle quali Agostino – contro Lattanzio ed Eusebio – preferisce una poliarchia di piccoli e modesti stati pacifici118; l’Impero, il potere assoluto romano, anche se convertito, rimane realtà ambigua, latentemente violenta e maligna, tant’è che Agostino, oltre a quella finale apocalittica, non esclude prima o poi una nuova persecuzione cristiana «a regibus»119, sicché la novità costantiniana potrebbe essere revocata. La stessa Chiesa cattolica visibilmente trionfante nella storia è (antidonatisticamente) realtà pura/impura, secolarmente permixta di bene e di male, massa di peccato nella quale si nasconde indiscernibile l’autentica, eletta civitas Dei, storicamente sofferente e impotente, vivente di luctus, peregrina in hoc saeculo, irriducibilmente incerta, perché di natura esclusivamente carismatica, estaticamente appesa alla grazia impenetrabile e incondizionata di Dio; soltanto nella sua realtà escatologica, la civitas Dei potrà davvero regnare con il suo vero Re e Imperatore120.
Il De civitate Dei si rivela, insomma, governato da un’apocalittica, secolarmente irriducibile opposizione tra male e bene, civitas terrena-Babilonia (maligna) e civitas Dei-Gerusalemme (operata dallo Spirito), natura e grazia, saeculum ed escatologia, universale trionfo del peccato ed enigmatica latenza dell’elezione di Dio, opaca ambiguità della Roma cristiana e alterità escatologica dell’autentica civitas Dei, paradossalmente presentificata dalla Chiesa (che torna in hoc saeculo a riattivare in sé l’opposizione terreno/celeste). Pur non accettando l’ipotesi estrema che anche il dittico Costantino-Teodosio voglia prudentemente cifrare un riferimento alla permixtio di terreno ed eletto nascosta nel saeculum christianum e annidata nella Chiesa, comunque non si fa nessun cenno a doni di grazia concessi al primo imperatore cristiano; egli è presentato soltanto come segno della sottomissione della perversa, terrena potenza romana all’onnipotente volontà di Dio, forse anche come segno della non coincidenza tra la visibilità storica del nome cristiano e l’occulto amor delle creature, che solo Dio vede e governa. Cosa avrebbe detto Eusebio di Cesarea del provvidenziale Costantino insinuato – non scandalosamente dissacrato, sottraendo all’imperscrutabile volontà di Dio l’ultimo giudizio – come immagine di Romolo fratricida, piuttosto che esaltato come immagine di Cristo, quindi non solo del tutto demitizzato, ma persino nascostamente corroso da un sospetto cainitico?
Lo spagnolo Orosio (375 circa-420), modesto e non ricambiato ammiratore di Agostino, si rivolge «ad Christianos et Romanos Romanus et Christianus»121; testimonia una profonda incomprensione delle profondità teologiche del ‘maestro’, compensata da una notevole capacità di sintesi, trasmissione, aggiornamento di una teologia della storia cristiano-romana tradizionalmente prevalente da Lattanzio ed Eusebio sino ad Ambrogio. Orosio afferma che le sue Historiae contra Paganos, destinate a uno straordinario successo nella cultura medievale, gli siano state commissionate dallo stesso Agostino e al suo giudizio sottoposte122, benché da questi esse risulteranno del tutto ignorate. Discreto è in esse il materiale relativo a Costantino, «primus imperator christianus»123, spesso trattato con notevole libertà di giudizio, in buona parte dovuta a superficialità teologica, che pure gli consente di evitare imbarazzate censure o giustificazioni edificanti. Già la designazione di Costantino come «filius ex concubina Helena» di Costanzo Floro124, nella sua fedeltà al disinteresse agostiniano nei confronti della madre, rivela una sicura presa di distanza da una tradizione quasi unanimemente agiografica. Analogamente, è di grande interesse la notazione con la quale Orosio, da freddo storico, segnala le sue perplessità nei confronti dell’uccisione di Crispo e di suo cugino Licini(an)o125, mentre quella di Licinio divenuto persecutore torna a dipendere dallo stereotipo tradizionale del malvagio punito dalla provvidenza divina126. Quello che comunque caratterizza ideologicamente Orosio, allontanandolo nettamente da Agostino, è la sua irriducibile fedeltà al mito di Roma come caput mundi eletto da Dio e provvidenzialmente sostenuto nella sua missione di pacificazione universale127; questa «Augustustheologie» culmina nel rovesciamento dell’interpretazione cainitica di Romolo: umile pastore, predestinato da Dio – che sceglie il debole per confondere il forte – a fondare la città più gloriosa, egli assurge a figura dell’incarnazione nascosta di Cristo128. La complessa teologia della storia agostiniana, che vedeva Roma sostenuta dalla grazia di Dio per costituire un segno perverso antitetico alla vera civitas rivelata in Cristo, viene del tutto deformata, sciogliendo l’antitesi in provvidenziale progresso rivelativo. Così, non agostiniano è l’ingenuo recupero della teologia della vittoria, che spinge Orosio a cercare nella storia punizioni degli empi e trionfo dei buoni, garantiti dall’onnipotenza di Dio. Se quindi ricorrono la definizione dei cristiani come libere peregrinantes e l’indicazione del potere imperiale come latentemente persecutorio129, evidentemente questi prestiti agostiniani rimangono del tutto estrinseci, arretrando dinanzi alla constatazione della gloria dell’Impero cristiano. Rivelativa, in tal senso, l’ultima, originale parte dell’opera, che, a partire da spunti agostiniani, saluta con approvazione la provvidenziale integrazione tra romani e barbari caratterizzante la storia recente130; ma questo per lodare contro i pagani la provvidenza di Dio, che ha reso l’età presente la più felice del genere umano «a conditione mundi usque ad nunc»131. Coerentemente, si torna a identificare come supremo dono di Dio la stabilità e la grandezza della nuova Roma cristiana, priva di idoli, trionfante e pacifica inaugurata da Costantino132, rafforzata dai successi militari dell’imperatore, capace di lasciare ai figli una «disposita bene respublica»133: nulla rimane delle perplesse ambiguità delle riflessioni di Agostino sui soli doni terreni e propriamente romani concessi da Dio a Costantino, al punto che se quello definiva «felix» soltanto l’imperatore nel quale scorgeva doni di grazia (dunque non Costantino), Orosio utilizza senza remore l’avverbio «felicissime»134 per qualificare il dono meramente terreno di un regno lungo trentaquattro anni. Certo, l’ideale del perfetto imperatore cristiano è incarnato non in Costantino, quanto in Teodosio: ma anche questi è piattamente restituito come fulgido esempio di una teologia cristiana della vittoria, quindi del tutto privo, nella sua esclusiva dimensione di guerriero di Dio, della complessità spirituale rilevata da Ambrogio e Agostino135.
Non sembri azzardato chiudere questa rapida rassegna con l’indicazione di un vuoto: quello del silenzio di Leone Magno (390 circa-461), il quale non ha memoria di Costantino. Silenzio significativo, considerato che lo sforzo lucido e ambizioso del vescovo di Roma è proprio quello di presentare il papa regnante come colui che ha ritrattato in sé il supremo potere teologico-politico, convertendo il mito deposto della Roma eterna nella teofania storica della Chiesa fondata da e in Pietro, l’unica (a dispetto delle pretese di Costantinopoli) legittimata a essere il caput universale della cristianità136. Con questo silenzio gravido di conseguenze – saranno gli Actus Sylvestri e soprattutto la più tarda Donatio Constantini a renderlo ancora più eloquente –, il primo imperatore cristiano viene definitivamente ritrattato e sottomesso dalla parte occidentale di quella Chiesa che aveva governato, convertendovi il potere di Roma e il mondo.
1 Cfr. V. Aiello, Costantino ‘eretico’. Difesa della ‘ortodossia’ e anticostantinianesimo in età teodosiana, in Il Tardo impero. Aspetti e significati nei suoi riflessi giuridici, X Convegno internazionale in onore di Arnaldo Biscardi (Spello, Perugia, Gubbio 7-10 ottobre 1991), Napoli 1995, pp. 55-83; M. Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Stuttgart 2005, pp. 65-74; M. Humphries, In nomine patris. Constantine the Great and Constantius II in Christological Polemic, in Historia, 46 (1997), pp. 448-464; G. Bonamente, La ‘svolta costantiniana’, in Chiesa e impero. Da Augusto a Giustiniano, a cura di E. dal Covolo, R. Uglione, Roma 2001, pp. 145-170; Id., Dall’imperatore divinizzato all’imperatore santo, in Pagans and Christians in the Roman Empire: The Breaking of a Dialogue (IVth-VIth Century a.D.), ed. by P. Brown, R. Lizzi Testa, Wien-Berlin 2011, pp. 339-370.
2 Costantino è proclamato «l’unico imperatore dell’Uno, immagine dell’unico Re di tutto (ὁ δ̕ ἐξ ἑνὸς εἷς βασιλεύς, εἰκὼν ἑνὸς τοῦ παμβασιλέως)» (Eus., l.C. 7,12).
3 Eus., h.e. X 9,6-7: «Costantino […] ricostituì, come in passato, un unico impero romano (μίαν ἠνωμένην τὴν ῥωμαίων κατὰ τὸ παλαιὸν παρεῖχον ἀρχήν), portando sotto la sua pace la terra intera […] Tutto era pieno di luce (ἦν τε φωτὸς ἔμπλεα πάντα)».
4 Cfr. Ath., h. Ar. 51.
5 Liberio, in Ilario di Poitiers, Collectanea antiariana A VII 1: «De christiano enim imperatore et sanctae memoriae filio Constantini hoc ipsud sine cunctatione mereor impetrare […] expositio fidei, quae inter tantos episcopos apud Nicaeam praesente sanctae memoriae patre tuo confirmata est».
6 Così Ossio di Cordova in Ath., h. Ar. 44: «Ricordati che sei un uomo mortale, temi il giorno del giudizio, per quel giorno custodisciti puro. Non immischiarti negli affari della Chiesa e non darci ordini in proposito, ma piuttosto tu impara da noi in tali questioni. Dio ha dato a te il regno e a noi le cose della Chiesa […] È scritto “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”: perciò come a noi non è lecito esercitare il comando sulla terra, così tu, o imperatore, non hai potere di offrire il sacrificio».
7 Cfr. J.-M. Sansterre, Eusèbe de Césarée et la naissance de la théorie ‘césaropapiste’, in Byzantion, 42 (1972), pp. 131-195; e più in generale G. Dagron, Empereur et prêtre. Étude sur le césaropapisme byzantin, Paris 1996.
8 Cfr. M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975, pp. 223-225.
9 Hil., ad. Const. 5-8; 11.
10 Hil., ad. Const. 7.
11 Cfr. Hil., ad. Const. 5.
12 Cfr. Hil., ad. Const. 4 e 7-8.
13 Cfr. Hil., ad. Const. 23, ove si afferma contro Costanzo: «Tuis ipsis dissides et adversus tuos hostis rebellas. Novis vetera subvertis». Cfr. H.C. Brennecke, Hilarius von Poitiers und die Bischofsopposition gegen Konstantius II. Untersuchungen zur 3. Phase des Arianischen Streites (337-361), Berlin 1984.
14 Hil., ad. Const. 27: «Ipse quoque pridem iam mortuus anathema tibi pater tuus est, cui Nicaena synodus fuit curae, quam tu falsis opinionibus infamatam perturbas et contra humanum divinumque iudicium cum paucis satellitibus tuis profanus inpugnas».
15 Hil., ad. Const. 27.
16 Hil., ad. Const. 27.
17 Hil., in Matth. 23,1-2.
18 Cfr. Lucif., non parc., passim, ad esempio: 14; 23-24; Lucif., Athan. I 27 e 33.
19 Lucif., reg. apost. 6: «Nolo dicas: si haereticus essem, numquam tantum imperarem, numquam me permitteret Deus adhuc in regno esse, quando videas viginti quattuor annis regnasse Basiam, filium Achiae, super Israel».
20 Lucifero mette in guardia Costanzo dal dedurre la propria ortodossia dall’avvenuta successione del regno da parte di Costantino in Lucif., reg. apost. 6: «ne plaudeas quod enim pater vester vobis tradiderit regnum, dicens: “Nisi pater meus bene fecisset conferre se ad arrianos, non eius filii regnaremus”».
21 Lucif., moriend. 13. Cfr. K.M. Girardet, Kaiser Konstantius II als Episcopus Episcoporum und das Herrscherbild des kirchlichen Widerstandes (Ossius von Corduba und Lucifer von Caralis), in Historia, 26 (1977), pp. 95-128. Si ricordi la celebre notazione di Eus., v.C. I 44,1-2: «se le chiese delle diverse regioni si trovavano in dissenso tra loro, egli convocava i ministri di Dio in concilio, quasi fosse stato designato da Dio vescovo universale (τις κοινὸς ἐπίσκοπος)»; cfr. la dibattuta autodefinizione di Costantino in Eus., v.C. IV 24: «vescovo di quelli che sono fuori (τῶν ἐκτὸς ἐπίσκοπος)»; precisa Eusebio: «Fungeva da vescovo per tutti i sudditi (ἅπαντας ἐπεσκόπει)».
22 Lucif., Athan. II 21; non parc. 4; 21.
23 Cfr. V. Neri, La figura di Costantino negli scrittori latini cristiani dell’età di Onorio, in Simblos, 1 (1995), pp. 229-264.
24 Non manca un isolato, stereotipato apprezzamento per la provvidenziale svolta costantiniana: Hier., in Is. I 2,5: «Sub Constantino imperatore, Christi evangelio coruscante et infidelitas universarum gentium et turpitudo deleta est».
25 Hier., chron a Abr. XXIX 234.
26 Hier., chron a Abr. XXIX 234: «A quo usque in praesens tempus ecclesiarum rapinae et totius orbis est secuta discordia».
27 Hier., chron a Abr. XXIX 234.
28 Hier., vill. ill. 80: «Crispus, filiius Constantini […] a patre interfectus est».
29 Hier., chron a Abr. XXII 232: «Constantinus uxorem suam Faustam interficit».
30 Zc 14,20: «In die illo erit quod super frenum equi est sanctum Domino».
31 Hier., in Zach. III 14: «Audivi a quodam rem, pio quidem sensu dictam, sed ridiculam, clavos dominicae crucis, e quibus Constantinus Augustus frenos suo equo fecerit, sanctum Domini appellari. Hoc utrum ita accipiendum sit, lectoris prudentiae derelinquo».
32 Si noti che nessun cenno a Elena è fatto nella descrizione dei luoghi santi di Gerusalemme, dell’inventio e dell’adorazione della croce, in Hier., epist. 108 (= Epitafio in onore di Paola), 9.
33 Hier., chron. a Abr. XXIV 232: «Dedicatur Constantinopolis omnium paene urbium nuditate». Non crediamo si possa limitare questa severa notazione al saccheggio dei templi e dei luoghi pubblici pagani, pure segnalato in XXV 233: «edicto Constantini gentilium templa subversa sunt».
34 Rufin., hist. IX 9,4-5; X 1; X 12.
35 Cfr. Rufin., hist. X 2.
36 Rufin., hist. X 5.
37 Cfr. le enfatiche parole attribuite a Costantino a Nicea da Rufino, hist. X 2: «“Deus vos constituit sacerdotes et potestatem vobis dedit de nobis quoque iudicandi, et ideo nos a vobis recte iudicamur, vos autem non potestis ab hominibus iudicari [...] Vos etenim nobis a Deo dati estis dii et conveniens non est, ut homo iudicet deos”». Cfr. inoltre il caso di Pafnuzio, in X 4 e quello di Antonio, in X 8, ove non si fa riferimento alle intercessioni di Antonio a favore di Atanasio, respinte da Costantino.
38 Rufin., hist. X 8: «Quanto magis se religiosius et humilius Deo subiecerat, tanto amplius ei Deus universa subdebat».
39 Cfr. Rufin., hist. X 12. La ricostruzione di Rufino potrebbe essere considerata attendibile unicamente sino alla vigilia del concilio di Tiro, certo non per gli eventi che vanno dal 335 al 337. Cfr. M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, cit., pp. 115-134.
40 Cfr. Rufin., hist. X 13.
41 Cfr. Rufin., hist. X 13.
42 Rufin., hist. X 7: «Helena Constantini mater, femina inconparabilis fide religione animi ac magnificentia singulari, cuius vere Constantinus et esset filius et crederetur, divinis admonita visionibus, Hierusolyma petit atque ibi locum, in quo sacrosanctum corpus Christi patibulo adfixum pependerat, ab incolis perquirit». Sul riconoscimento della vera croce, cfr. X 8.
43 Rufin., hist. X 8: «regina orbis ac mater imperii famularum Christi se famulam deputaret».
44 Rufin., hist. X 8.
45 Rufin., hist. X 7: «Clavos quoque, quibus corpus dominicum fuerat adfixum, portat ad filium, ex quibus ille frenos conposuit, quibus uteretur ad bellum, et ex aliis galeam nihilominus belli usibus aptam fertur armasse».
46 Sulla storia della leggenda dell’inventio crucis, cfr. J.W. Drijvers, Helena Augusta. The Mother of Constantine the Great and Her Finding of the True Cross, Leiden 1992; M. Sordi, La tradizione dell’inventio crucis in Ambrogio e Rufino, in Rivista di storia della chiesa in Italia, 46 (1990), pp. 1-9; Id., Dall’elmo di Costantino alla corona ferrea, in Costantino il grande dall’Antichità all’Umanesimo, Atti del Convegno internazionale (18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1992, I, pp. 883-892.
47 Prud., c.Symm. I 466-486: «Hoc signo invictus transmissis alpibus ultor / servitium solvit miserabile Constantinus, / cum te pestifera premeret Maxentius aula […] Testis christicolae ducis adventantis ad urbem / Mulvius exceptum tyberina in stagna tyrannum / praecipitans, quanam victricia viderit arma / maiestate regi, quod signum dextera vindex / praetulerit, quali radiarint stemmate pila / Christus purpureum gemmanti textus in auro / signabat labarum, clipeorum insignia Christus / scripserat, ardebat summis crux addita cristis»; cfr. 461-506.
48 Cfr. Prud., c.Symm. II 583-623.
49 Cfr. Prud., c.Symm. II 586-592.
50 Cfr. E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, Leipzig 1935 (trad. it. Il monoteismo come problema politico, Brescia 1983, pp. 63-64).
51 Paul. Nol., epist. 31,4. Cfr. C. Curti, L’‘inventio crucis’ nell’epistola 31 di Paolino di Nola, in Orpheus, n.s. 17 (1996), pp. 337-347.
52 Paul. Nol., epist. 31,4: a Costantino è riconosciuto niente di più che un «promptus adsensus». Analogamente, Elena, della quale si riconosce l’autorità imperiale («vires regni»), è affiancata a Costantino nell’attività di edificazione sacra a Gerusalemme da Egeria, Itinerarium 25.
53 Cfr. Paul. Nol., epist. 31,5: la vera croce, portata a contatto con un cadavere, è l’unica delle tre capace di farlo risorgere.
54 Paul. Nol., epist. 31,6: «Digno mox ambitu consecratur condita in passionis loco basilica».
55 In Eus., v.C. III 25-43,4, l’imponente attività di edificazione sacra a Gerusalemme, concepita come costruzione del nuovo tempio di Dio quale universale teofania, quindi lo scavo che riporta alla luce il sepolcro di Cristo sono naturalmente attribuite al solo Costantino, «per ispirazione dello stesso Salvatore» (25), «colto da ispirazione divina» (26,6). L’imperatore dedica comunque alla memoria della madre le nuove chiese (41,2); Elena viene ricordata in 42,2,1-2, ove si descrive il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, poco prima della morte; le si attribuiscono soltanto le iniziative della costruzione della Chiesa della natività e dell’ascensione in 43,1-3; Elena è lungamente lodata in 43,4-47,3. Nulla è detto dell’inventio crucis.
56 L’ostensione straordinaria della croce a peregrini «religiosissimi» è vera e propria grazia del vescovo: cfr. Paul. Nol., epist. 31,6.
57 Cfr. Paul. Nol., carm. XIX 329-336 segg. Si noti quanto sia blanda, in confronto, la lode di Costantino, strumento della provvidenza di Dio che suo tramite converte l’Impero alla fede, in XIX 321.
58 Cfr. S. Isetta, ‘Latronibus duobus… Duobus Arriis’. L’inventio crucis nei Chronica di Sulpicio Severo, in Ad contemplandam Sapientiam. Studi di filologia letteratura storia in memoria di Sandro Leanza, Soveria Mannelli 2004, pp. 337-361, ove tra l’altro è condotto un interessante parallelo tra Sulpicio e Rufino.
59 Cfr. Sulp. Sev., chron. II 33,1-2.
60 Cfr. Sulp. Sev., chron. II 33,2-4.
61 Cfr. Sulp. Sev., chron. II 33,4-25,1.
62 Sulp. Sev., chron. II 35,1-2: «His per Helenam gestis, principe christiano libertatem atque exemplum fidei mundus acceperat: sed longe atrocius periculum cunctis ecclesiis illa pace generatum. Namque tum haeresis arriana prorupit totumque orbem iniecto errore turbaverat. Etenim duobus arriis acerrimis perfidiae huius auctoribus imperator etiam depravatus, dum sibi religionis officium videtur implere, vim persecutionis exercuit: actique in exilium episcopi, saevitum in clericos, animadversum in laicos, qui se ab arriorum communione secreverant».
63 Cfr. Sulp. Sev., chron. II 35,4-5.
64 Cfr. Sulp. Sev., chron. II 35,3-36,6.
65 Cfr. Sulp. Sev., chron. II 36,4-5.
66 Sulp. Sev., chron. II 3,7: «Mundum istum, in quo sunt regna terrarum, in nihilum rediget regnumque aliud incorruptum atque perpetuum, id est futurum saeculum, quod sanctis paratum est, confirmabit».
67 Ambr., obit. Theod. 2.
68 Ambr., obit. Theod. 6:«Ergo tantus imperator recessit a nobis, sed non totus recessit; reliquit enim nobis liberos suos, in quibus eum debemus agnoscere et in quibus eum et cernimus et tenemus».
69 L’«exercitus infidelium» è accecato da Dio; Ambr., obit. Theod. 8: «ubi fides, ibi exercitus angelorum est». L’imperatore cristiano «non suis viribus, sed Domini auxilio novit sibi esse donatam [victoriam]. Non enim potuisset vincere, nisi eum qui certantes adiuvat invocasset» (23). Cfr. Ambr., fid. V 1, prol.: non tanto gli eserciti, ma segno della croce e fede che gli si affida, concedono vittoria in guerra.
70 Cfr. 2 Re 22,1-23.
71 Cfr. 1 Re 15,9-24; 2 Cr 14,1-16,14.
72 Ambr., obit. Theod. 24.
73 Ambr., obit. Theod. 25: «Ille vincit, qui gratiam Dei sperat, non qui de sua virtute praesumit».
74 Ambr., obit. Theod. 34: «Stravit omne insigne regium, deflevit in ecclesia publice peccatum suum».
75 Cfr. Ambr., obit. Theod. 36-37.
76 Ambr., obit. Theod. 40: «Se Theodosius regnare cognoscit, quando in regno est Domini Iesu et considerat templum eius. Nunc sibi rex est […] quando Constantino adhaeret».
77 Ambr., obit. Theod. 40.
78 Ambr., obit. Theod. 40: «Cui licet baptismatis gratia in ultimis constituto omnia peccata dimiserit».
79 Cfr. Ambr., obit. Theod. 41-51.
80 Ambr., obit. Theod. 42.
81 Ambr., obit. Theod. 44; 46-47.
82 Ambr., obit. Theod. 47.
83 Ambr., obit. Theod. 41: «Beatus Constantinus tali parente, quae imperanti filio divini muneris quaesivit auxilium quo inter proelia quoque tutus adsisteret et periculum non timeret».
84 In continuità con la prevalente interpretazione nicena di Costantino rispettoso della piena autonomia della Chiesa, quindi privo di qualsiasi funzione di governo ecclesiastico, cfr. Ambr., epist. 10,75,15: «Si conferendum de fide sacerdotum debet esse ista collatio, sicut factum est sub Constantino augustae memoriae principe, qui nullas leges ante praemisit, sed liberum dedit iudicium sacerdotibus».
85 Cfr. Eus., v.C. I 30-31,3.
86 Cfr. Ambr., obit. Theod. 40; 47: «Principium credentium imperatorum ‘sanctum’ est, ‘quod super frenum’; ex illo fides, ut persecutio cessaret, devotio succederet».
87 Ambr., obit. Theod. 48: «Bonus itaque romani clavus imperii, qui totum regit orbem ac vestit principum frontem». Cfr. G. Bonamente, Potere politico ed autorità religiosa nel De obitu Theodosii di Ambrogio, in Chiesa e società dal secolo IV ai nostri giorni, a cura di L. Proietti Pedetta, Roma 1979, I, pp. 83-133; F.E. Consolino, Il significato dell’inventio crucis nel De obitu Theodosii, in Annali Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze, 5 (1984), pp. 161-180; S. Mazzarino, Storia sociale del vescovo Ambrogio, Roma 1989, in particolare il cap. L’ideologia del chiodo dell’imperium e la prospettiva storica di Ambrogio, pp. 37-46.
88 Sarebbe pertanto da perfezionare la tesi di E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, cit., pp. 64-65, che, a partire dalla seguente citazione, attribuisce ad Ambrogio una teologia politica di tipo eusebiano: Ambr., in psalm. 45,10: «Didicerunt omnes homines sub uno terrarum imperio viventes unius Dei omnipotentis imperium fideli eloquio confiteri». In realtà, Dio Imperator toglie in sé la romanitas, assoggettandola storicamente attraverso la Chiesa.
89 Si rimanda a G. Lettieri, Onnipotentia e subiectio: una teologia trinitaria imperiale. Aspetti della polemica anti-ariana nel De fide di Ambrogio, di prossima pubblicazione. Per la concezione imperiale dei rapporti tra imperatore e Dio, cfr. Ambr., epist. 2,6 e 17,1.
90 Ambr., obit. Theod. 51.
91 Ambr., obit. Theod. 49 e 51: «cui regna famulantur, cui servit potestas […] Ferro pedum eius reges inclinantur […] Susceperunt frena devotionis et fidei […] Inde Gratianus et Theodosius».
92 Cfr. Ambr., obit. Theod. 48.
93 Ambr., obit. Theod. 56: «Nunc illi Theodosius potentior, nunc gloriosior redit, quem angelorum caterva deducit, quem sanctorum turba prosequitur».
94 Cfr. P. Courcelle, Jugements de Rufine et de Saint Augustin sur les Empereurs du IVe siècle et la défaite suprême du paganisme, in Revue des Études Anciennes, 71 (1969), pp. 100-130.
95 Sulla concezione agostiniana della storia, cfr. R.A. Markus, Saeculum History and Society in the Theology of St. Augustine, Cambridge 19892; G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ippona. Il saeculum e la gloria nel De civitate Dei, Roma 1988.
96 Cfr. Aug., civ. XV 18; 21; XVII 4,5; XVIII 51,2; I praef.
97 Cfr. Aug., civ. XX 7,3; I 35.
98 La traduzione rufiniana della Historia ecclesiastica di Eusebio è citata in Aug., cur. mort. 6,8; in Aug., haer. 83; il Chronicon di Girolamo è citato, con quello di Eusebio, in Aug., civ. XVIII 8.
99 Cfr. Aug., civ. V 24.
100 Aug., civ. V 24: «Neque enim nos christianos quosdam imperatores ideo felices dicimus, quia vel diutius imperarunt vel imperantes filios morte placida reliquerunt, vel hostes rei publicae domuerunt vel inimicos cives adversus se insurgentes et cavere et opprimere potuerunt. Haec et alia vitae huius aerumnosae vel munera vel volacia quidam etiam cultores daemonum accipere meruerunt, qui non pertinent ad regnum Dei, quo pertinent isti».
101 Aug., civ. V 25: «Diu imperavit, universum orbem romanum unus augustus tenuit et defendit; in administrandis et gerendis bellis victoriosissimus fuit, in tyrannis opprimendis per omnia prosperatus est, grandaevuus aegritudine et senectute defunctus est, filios imperantes reliquit».
102 Aug., civ. V 25: «Nam bonus Deus, ne homines, qui eum crederent propter aeternam vitam colendum, has sublimitates et regna terrena existimarent posse neminem consequi, nisi daemonibus supplicet, quod hi spiritus in talibus multum valerent, Constantinum imperatorem non supplicantem daemonibus, sed ipsum verum Deum colentem tantis terrenis implevit muneribus, quanta optare nullus auderet».
103 Aug., civ. XV 7; in XV 5, si sottolinea come sia Caino che Romolo eliminano il «consors» perché, volendo «dominando gloriari», non dovessero diminuire la gloria condividendola.
104 Cfr. Aug., civ. XI 25.
105 Cfr. Aug., civ. V 25-26; Y.M. Duval, L’Eloge de Théodose dans la ‘Cité de Dieu’ (V, 26,1). Sa place, son sens et ses sources, in Recherches augustiniennes, 4 (1966), pp. 135-179.
106 L’unica lode di Costantino come autentico credente e amante della pace della Chiesa contro lo spirito di discordia donatista è in Aug., c.Petil. II 92,205; il giudizio è del tutto in linea con quello dell’antidonatista Ottato di Milevi, cfr. Optat., II 15,2. Aug., c.Petil. II 97,224 e c.Cresc. III 61,67, è su Costantino dichiaratamente molto più sfuggente. Inoltre, a testimonianza dell’ideologica lettura nicena di un Costantino rispettoso dell’autonomia delle decisioni della Chiesa, si loda l’opportuna decisione di Costantino di delegare la soluzione di una causa ecclesiastica ai vescovi: Aug., epist. 105,2,10: «sed quia Constantinus non est ausus de causa episcopi iudicare, eam discutiendam atque finiendam episcopis delegavit»; mentre in epist. 43,7,20, si lode la prudenza di Costantino nel procedere al giudizio di condanna dei donatisti.
107 Aug., civ. V 25: «cui [Constantino] etiam condere civitatem romano imperio sociam, velut ipsius Romae filiam, sed sine aliquo daemonum templo simulacroque concessit».
108 Aug., civ. XV 5: «Primus itaque fuit terrenae civitatis conditor fratricida… Unde mirandum non est, quod tanto post in ea civitate condenda, quae fuerat huius terrenae civitatis, de qua loquimur, caput futura et tam multis gentibus regnatura, huic primo exemplo et, ut graeci appellant, archetupoi quaedam sui generis imago respondit […] Sic enim condita est Roma, quando occisum Remum a fratre Romulo romana testatur historia»; Caino dà il nome di suo figlio Enoch alla civitas che fonda: «Enoch vero dedicatio; hic enim dedicatur terrena civitas, ubi conditur, quoniam hic habet eum, quem intendit et appetit, finem» (XV 17).
109 Aug., vera relig. 45,84: «Habet ergo et superbia quendam appetitum unitatis et omnipotentiae, sed in rerum temporalium principatu, quae omnia transeunt, tamquam umbra».
110 Sulla negazione dell’eternità di Costantinopoli, come di Roma, cfr., Aug., serm. 105,9,12.
111 Aug., civ. XVIII 22.
112 Cfr. Aug., civ. V 17,2, ove si dichiara simul l’antitesi tra Roma e la civitas Dei e l’essere la prima «per umbram quandam similis» alla seconda; cfr. XV 8,1.
113 Cfr. G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ippona, cit., pp. 220-312.
114 Cfr. Id., Tollerare o sradicare? Il dilemma del discernimento. La parabola della zizzania nell’Occidente latino da Ambrogio a Leone Magno, in Cristianesimo nella storia, 26 (2005), pp. 65-121, in partic. 90-110.
115 Cfr. Aug., c.Cresc. III 51,56-57; Aug., c.Gaud. I 24,27-25,28; Aug., epist. 12,9; 173,2-3 e l’intera, terribile epist. 93; G. Lettieri, Sacrificium civitas est. Sacrifici pagani e sacrificio cristiano nel De Civitate Dei di Agostino, in Annali di Storia dell’Esegesi, 19/1 (2002), pp. 127-166.
116 Cfr. E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, cit., p. 29 e pp. 74-72; si ricorda che l’opera è aperta da una citazione di Agostino in epigrafe, il sopra citato vera relig. 45,84; G. Lettieri, Riflessioni sulla teologia politica in Agostino, in Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, a cura di P. Bettiolo, G. Filoramo, Brescia 2002, pp. 215-265.
117 Cfr. Aug., civ. XIX 27.
118 Sulla demoniaca «libido dominandi» imperialistica, cfr. Aug., civ. I praef; I 30; III 14; IV 3-7; XIV 28; XIX 21; XVI 4, sulla torre di Babele/Babilonia come archetipo imperialistico. Per la dichiarata preferenza di Agostino per la convivenza pacifica tra piccole respublicae, cfr. IV 3; sulla perversione intrinseca nella ricerca terrena della pace, cfr. XIX 12.
119 Cfr. Aug., civ. XVIII 52,2.
120 Cfr. Aug., civ. II 29.
121 Oros., hist. V 2,3. Sull’interpretazione orosiana di Costantino, cfr. F. Fabbrini, Paolo Orosio. Uno storico, Roma 1979, pp. 275-279.
122 Cfr. Oros., hist. I Prologus, 1-16; VII, 43,19-20.
123 Oros., hist. VII 28,1.
124 Oros., hist. VII 25,16.
125 Oros., hist. VII 28,26: «Sed inter haec latent causae cur vindicem gladium et destinatam in impios punitionem Constantinus imperator etiam in proprios egit affectus: nam Crispum filium suum et Licinium sororis filium interfecit».
126 Cfr. Oros., hist. VII 28,20-21.
127 Cfr. Oros., hist. VII 2,15-16, sulla nascita di Cristo sotto Augusto, garante di pace universale; cfr. III 8,5 e 8 (Cristo e non l’imperatore è stato il reale instauratore della pace augustea); VI 20,1-8: universale monarchia augustea, sua gloria e suoi trionfi come allegorie dell’avvento di Cristo; VI 22,5-6: la lode (già lattanziana) dell’umiltà di Augusto predestinato – «quem his tantis mysteriis praedestinaverat Deus» –, che «non ausus est» essere definito «dominus totius generis humani», presentendo l’incarnazione dell’unico Signore divino. Sulla «Augustustheologie» orosiana, cfr. E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, cit., pp. 66-69.
128 Cfr. Oros., hist. VI 1,5.
129 Cfr. Oros., hist. VII 27,15-16.
130 Cfr. Oros., hist. VII 39,1-43,18.
131 Oros., hist. VII 43,16; cfr., in partic., 43,17-18.
132 Cfr. Oros., hist. VII 28,27-28.
133 Oros., hist. VII 28,31.
134 Oros., hist. VII 26,1.
135 Cfr. Oros., hist. VII 34,2-35,23.
136 Cfr. Ph.-A. McShane, La Romanitas et le Pape Léon le Grand: l’apport culturel des institutions impériales à la formation des structures ecclésiastiques, Paris-Montréal 1979; S. Wessel, Leo the Great and the Spiritual Rebuilding of a Universal Rome, Leiden-Boston 2008; G. Lettieri, Centri in conflitto e parole di potenza. Normalizzazione e subordinazione dell’agostinismo al primato romano nel V secolo, in Annali di Storia dell’Esegesi, 27 (2010), pp. 101-170, in partic. 147-154.