Costantino tra Francia e Italia
Il dibattito storiografico dei secoli XVII e XVIII
«Il peculiare problema tra Chiesa e Stato è la più grande perturbazione che abbia mai tratto il pensiero dell’uomo intorno allo Stato fuori della sua orbita politica propria, e per molte età il più potente stimolo a ogni speculazione politica»1. Da questo punto di vista, l’imperatore Costantino I fu uno dei maggiori perturbatori della storia: per tutto il XVII secolo la sua figura e il significato della sua conversione furono il principale pretesto per affrontare il nodo, che sarebbe stato ancora molto lontano dall’essere sciolto, del rapporto tra autorità spirituale e autorità secolare2.
Questo contributo intende, seppure solo per grandi linee, analizzare il quadro della trattatistica sorta dalla seconda metà del Seicento alla prima metà del Settecento in Francia e in Italia, due aree geografiche in cui il dibattito assunse toni più vivaci che altrove3.
Sull’onda dell’affermarsi della politica e della cultura gallicane, in Francia si assistette all’emergere di nuove tendenze storiografiche fortemente dirette a contrapporsi alla Chiesa di Roma. Un atteggiamento che fu poi ereditato e colorato di toni religiosi più intensi dalla corrente giansenista, che continuò e alimentò, in questo modo, la grande questione della potestas temporale e spirituale del papato. Dall’altro lato si è tentato di osservare la risposta fornita da Roma a tante rivendicazioni a essa contrapposte e ad analizzare l’esito ultimo della storiografia preilluministica italiana, così fortemente stimolata dall’intero panorama europeo su tematiche sentite ancora in tutta la loro delicatezza nei diversi Stati della penisola.
La discesa di Carlo VIII in Italia, alla fine del XV secolo, segnò definitivamente la perdita della funzione di potere universale dell’impero e il progressivo emergere del ruolo degli Stati nazionali. In tale contesto il dibattito intorno alla donazione di Costantino avrebbe potuto depotenziarsi e perdere la vitalità che aveva conservato durante il Medioevo e per tutto l’Umanesimo, quando Lorenzo Valla dimostrò filologicamente la falsità del documento. Al contrario, proprio la Riforma e la Controriforma mantennero in vita il tema sull’imperatore Costantino e sulla donazione, portandoli dentro la ricca letteratura controversistica e pubblicistica4. L’uscita delle Centurie, tra il 1559 e il 1574, avevano alimentato il dibattito storiografico e la reazione di parte cattolica per tutto il XVII secolo5. Pur privata dei toni aggressivi utilizzati fin lì, anche la storiografia secentesca, dunque, non rinunciò a rileggere la figura e il significato dell’imperatore romano per decifrarne valenze e scopi politici. Ogni intellettuale, infatti, doveva non soltanto ‘fare’ storia, ma anche ‘far uso’ della storia per rispondere alle esigenze del potere a cui era soggetto. È il caso, ad esempio, della trattatistica francese impregnata, per tutto il XVII secolo, delle idee gallicane che sostenevano, tra l’altro, un ruolo di preminenza del sovrano sul clero e sulla Chiesa nazionale. Uno degli scritti più radicali a questo riguardo è l’Histoire de la délivrance de l’Église chréstienne par l’empereur Constantin et de la grandeur et souveraineté temporelle donnée à l’Église romaine par les Roys de France, del teologo Jean Morin6, composto nel 1630 e dedicato al re Luigi XIII. Il titolo è sufficiente a illustrare le modalità con cui l’autore intese ridimensionare la portata dell’azione costantiniana in termini di benefici concessi alla Chiesa:
Je dirai seulement que tout ce qui a été fait jusque ici d’admirable pour la gloire de l’Église a été fait en France, et par la France. La conversion de Constantin, qui est le fondement de la délivrance des Chrétiens, a été faite en France, et par la France. […] L’Église Romaine a été mise en liberté par les François. Toute la souveraineté temporelle dont jouissent maintenant les Papes, leur a été donnée par le François. […] La dernière action qui se doit faire en l’Église, et la plus glorieuse de toutes celles qui s’y sont jamais faites, s’y fera par un Roi de France7.
In questo modo Morin voleva non soltanto tessere un parallelismo tra il re di Francia e Costantino, ma dimostrare quanto il primo avesse persino superato il secondo nella politica di protezione e difesa della Chiesa di Roma:
Lisant diligemment tant les histoires profanes que les archives et les anciens registres Ecclésiastiques, je trouve que la divine providence a ainsi partagé entre Constantin et le Rois de France, les honneurs qui se recueillent des services rendus à l’Église. Constantin a affranchi l’Église Chrétienne de la tyrannie des Infidèles: les Rois de France ont délivré l’Église Romaine de la servitude des Empereurs. […] Les Rois de France les premiers et les seuls ont donné autorité, puissance et souveraineté temporelle aux Papes sur plusieurs peuples, Provinces et Royaumes8.
Per quanto riguarda la donazione, Morin ne conosceva e riconosceva la ‘falsità’ – in questo secolo ormai largamente accettata dagli storici – ma forniva una spiegazione alquanto originale circa le ragioni della sua invenzione. Nel pieno della guerra dei Trent’anni, Morin avallava l’odio verso uno dei principali nemici della nazione francese, l’impero germanico, sostenendo che la donazione fosse stata prodotta per favorire i tedeschi, usurpatori, con Ottone I di Sassonia, della corona imperiale di legittima proprietà dei francesi, e rei di aver sottratto loro il regno di Lorena e la Borgogna durante il conflitto contro il fratellastro Enrico, appoggiato dal re di Francia Luigi IV9.
Secondo Morin non era stato Costantino, dunque, ad aver donato l’Italia e i territori dell’Impero occidentale alla Chiesa ma i re Carolingi: come la divina Provvidenza aveva ispirato Costantino a liberare Roma dai tiranni, così quella stessa aveva armato il braccio dei re francesi, Pipino e Carlo Magno, per donare i territori d’Italia alla Chiesa. Costantino, dal canto suo, non aveva donato che il palazzo del Laterano, ma «ce serait en vain que l’on rechercherait hors de la France la source et les principes des grandeurs Apostoliques»10. I re francesi, infatti, restituirono ai papi tutti i territori conquistati dai longobardi, e la sovranità su questi, e diedero loro l’indipendenza nell’elezione del pontefice, soggetto fin lì alla conferma imperiale. Morin metteva in risalto il fatto che tutta l’Italia, tranne la Puglia, fosse stata in mano ‘francese’, e che, nonostante Carlo Magno avrebbe potuto rivendicare tutti quei territori come ‘francesi’, non si avvalse mai di questo diritto, ma anzi si sarebbe reso il protettore della Chiesa. Se la frattura confessionale tra riformati e cattolici aveva subordinato la mansione storica a esigenze apologetiche, Morin ne attestava una più accorta, tesa a rispondere a una controversia politica. Eppure la vivacità delle controversie religiose domandava agli apologisti di padroneggiare una erudizione storica in grado di vincere sugli avversari, e di procurarsi un bagaglio culturale «de combat»11, in cui l’elemento teologico si riduceva liberamente a quello storico e viceversa. I gallicani avevano tutto l’interesse di andare a scavare nelle fonti, nei documenti d’archivio, per dimostrare con maggiore efficacia non solo il falso della donazione, ma soprattutto che la ricchezza della Chiesa fosse dovuta principalmente alla benevolenza dei re francesi. Viceversa, l’apologetica romana preferiva aver debiti con un Cattolico mitico piuttosto che con i re Carolingi.
Qualche anno più tardi a dar fiato a tesi riconducibili a quella stessa cultura gallicana era il domenicano Noêl d’Alexandre12. Nella sua Historia ecclesiastica – ripubblicata nel 1699 dopo essere stata messa all’Indice da papa Innocenzo XI – riaffermava la falsità della donazione costantiniana13 e approfondiva il tema della translatio imperii. Seguendo il solco tracciato dalla tradizione storiografica gallicana egli intendeva, però, dimostrare la completa assenza di legami di dipendenza del potere politico da quello ecclesiastico. Per lui Carlo Magno non aveva goduto di nessun trasferimento di potere dal pontefice: tutto quello che aveva acquisito era il frutto delle sue conquiste, imprese o eredità14.
Un singolare epigono dei paladini della donazione rimaneva Gherardo Boselli, il cui trattato Della Donatione del Magno Costantino fatta alla Chiesa Romana, il primo in italiano, uscito nel 1640, si attestava su posizioni tradizionali15 non soltanto dal punto di vista dei contenuti, in difesa della veridicità del Constitutum, ma anche da quello linguistico, caratterizzato da una nuova veemenza antiprotestante e ostile alla ‘furia moderna’. Nella prefazione si legge:
Il dominio è una veste (dicono i politici) che non si spoglia, se non quando si sveste la vita; ma quell’angustissimo Imperadore poteva bene restituire un po’ di terra al Sig. Dio, che gli havea donato un tesoro di paradiso. Erasi già avverata nel Vicario di Cristo la promessa fatta ad Abramo, ch’ei si chiamasse padre di tutte le genti; restava che si compisse quella d’Isaia, che si trovassino per la Chiesa pargoleta, e madri, e balie, e poppe, e latte reali. Suges lac gentium, et mamilla regum lactaberis, e questo si effettuò nella persona di Costantino, quando fece la ferma alla sua donazione […] Io non dubito punto che se dalla sepoltura potesse Costantino alzar il capo, chiuderebbe con un girar solo di ciglio le sozze bocche delle furie moderne d’inferno uscite dalla scuola di Lutero e di Calvino, che senza profitto hanno tentato di levar di mano al Pontefice Romano l’una e l’altra spada16.
Nel suo trattato Boselli tentava ancora di fondare la donazione di Costantino per accumulo di autorità, riportando, quasi a mo’ di catalogo, le prove che ne avevano offerto gli storici, i canonisti, i cardinali, i teologi, gli imperatori, i papi, i sacri concili, senza tuttavia applicare alcuno sforzo di rigore argomentativo. Boselli appare forzato e anacronistico soprattutto se confrontato con quanto aveva scritto Cesare Baronio nei suoi Annales sull’origine del potere temporale della Chiesa. Egli aveva considerato il testo della donazione un clamoroso falso, architettato dai greci scismatici allo scopo di far credere che la potestas temporale della Chiesa trovasse la sua legittimazione da Costantino, e non da Cristo attraverso Pietro17. Baronio, come già alcuni canonisti medievali, riaffermava la pienezza del diritto della Chiesa al dominio sulle cose temporali in forza di prerogative ben più sicure di quelle basate su documenti, carte e benevolenze regali e imperiali: egli riconduceva quel dominio allo ius divinum.
Durante il pontificato di Innocenzo X, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, la discussione sulla potestà del papa tornava ad argomenti costantiniani in riferimento ai margini di libertà del pontefice rispetto ai cardinali. Se questi potesse o meno decidere in completa autonomia privando, ad esempio, i cardinali di benefici e dignità senza apporne giustificazioni. Mentre alcuni canonisti e teologi si mostravano favorevoli all’ipotesi, in curia si diffuse uno scritto anonimo, poi attribuito al cardinale Girolamo Grimaldi – scritto, secondo le ricostruzioni tra il 1676 e il 167718 –, in cui si rivendicava la tesi opposta sostenendo, secondo una tradizione antica19, l’origine divina del collegio cardinalizio, che dunque aveva tutto il diritto di partecipare attivamente al governo della Chiesa. Per convalidare l’assunto, l’autore richiamava il testo del Constitutum in cui Costantino avrebbe trasferito i poteri e i privilegi degli antichi membri del Senato romano20 ai «reverendissimi clerici», i quali altri non erano che quelli che successivamente avrebbero preso il nome di «cardinali»21. Grimaldi, dunque, finiva per considerare autentica la donazione costantiniana e addurla come prova per dimostrare le giuste prerogative dei cardinali rispetto al potere papale.
Spinto a intervenire nel dibattito sollevato da Grimaldi, Gian Battista de Luca compose un breve saggio, rimasto inedito22, intitolato Qual sia il più vero et il più legittimo titolo del principato temporale del papa. Pur godendo di numerosi punti di contatto, lo scritto interrompeva la linea dell’erudizione ecclesiastica tracciata da Cesare Baronio. Il potere temporale del papa, sosteneva de Luca, non aveva origine nelle donazioni dei re franchi, affermazione a suo avviso inammissibile perché avrebbe implicato che all’autorità imperiale fosse spettata la sovranità e il dominio sulla Chiesa e sullo Stato ecclesiastico. In opposizione, così, alle correnti gallicane, il cardinale affermava che quelle donazioni nulla avevano di liberale e munificente, bensì erano state un dovere per Pipino, a cui papa Zaccaria aveva offerto il regno di Francia privandone Childerico, ed erano state un dovere per Carlo Magno, che aveva ottenuto dal papa il titolo imperiale.
Il potere temporale del papa non risiedeva, però, neanche nella donazione di Costantino, reputata da de Luca un falso e finanche gravemente pregiudizievole alla Chiesa di Roma sia nella sfera temporale sia in quella spirituale:
in tal modo seguirebbe che la superiorità del Papa sopra le quattro Patriarcali e le altre Chiese, et anche la podestà di fare i chierici et i monaci e l’uso della corona, del diadema, della clamide e degli altri ornamenti, tutti derivassero da concessione imperiale, conforme gl’eretici germani et i greci scismatici pretendono, contro l’infallibile verità, che tutto ciò si ottenga immediatamente da Cristo23.
Così, alla fine del XVII secolo, citare Lorenzo Valla non aveva più alcunché di scandaloso nella Roma papale, semmai assorbirne la lezione filologica significava consolidare nuovi argomenti per una altrettanto strenua difesa del potere temporale del papa. De Luca, infatti, attingeva alle grandi correnti del pensiero filosofico e giuridico del secolo, in primo luogo al giusnaturalismo, al contrattualismo e alle teorie della ragion di Stato per dire che il potere temporale del pontefice non trovava la sua giustificazione né nel Constitutum Constantini né nelle donazioni fatte da Carlo Magno e da Pipino, ma nella volontaria soggezione dei popoli, i quali, nel momento in cui si disfaceva l’antico Impero romano e i territori della penisola italiana erano invasi da orde di barbari, si erano affidati alla protezione della Chiesa. L’origine della potestas temporale del papa, dunque, si giustificava unicamente con l’attento esame della storia e faceva risalire la sua legittimità in un esercizio secolare e ininterrotto.
Si conchiude dunque, che niuna necessità vi sia di mostrare il titolo, per l’antico possesso come sopra; overo che questo sia l’accennato della volontaria et legittima soggettione de popoli, che è il titolo migliore di tutti gl’altri e che la donatione di Costantino non sia vera e quelle di Pipino, di Carlo Magno, di Ludovico Pio et altre simili importino una restitutione di quel che già per il sudetto titolo era della Chiesa24.
Sébastien Le Nain de Tillemont nacque nel 1637 a Parigi, dove visse, con la famiglia, nel cuore del quartiere dell’Università, uno dei più antichi della capitale e residenza delle principali famiglie dei membri del parlamento della città. Immerso in una rete di conoscenze e di amicizie familiari fortemente influenzata dalle idee del gallicanesimo parlamentare, legata alla Compagnia del Santo Sacramento e molto prossima agli orientamenti giansenisti di Port-Royal, il giovane Sébastien ricevette la sua prima formazione religiosa alla petite école di Port-Royal, vicina alla Sorbona. Erano gli anni in cui si andava definendo il gruppo dei ‘solitari’: nel 1640 a Lovanio e nel 1641 a Parigi, usciva postumo l’Augustinus di Giansenio, nel 1642 fu ristampata la Théologie familière di Saint-Cyran, l’anno successivo fu dato alle stampe il Traité de la fréquente Communion di Antoine Arnauld, il quale lavorava contemporaneamente alla ripubblicazione di altre opere di Agostino. La sua prima formazione religiosa, pertanto, si realizzava nel clima fecondo e vivace di una Parigi che, grazie all’opera determinante dell’abate Saint-Cyran, cominciava ad accogliere da Lovanio la proposta di Giansenio di profondo rinnovamento spirituale che avrebbe trovato nel clima di rinascita della Chiesa post-tridentina, e in particolar modo di quella francese, una delle espressioni più alte. Tillemont respirò pienamente l’aria di quel giansenismo delle origini che è ben riconoscibile nelle sue due maggiori opere, l’Histoire des Empereurs e le Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastique, quest’ultima rimasta incompiuta per il sopraggiungere della sua morte nel 1698. Entrambi gli scritti, pur composti durante gli anni della solitudine, furono, in verità, il frutto di uno scambio epistolare continuo e ininterrotto che l’autore intrattenne con gli amici di Port-Royal e con i grandi intellettuali della République des Lettres25?. In sintonia con le nuove aspirazioni storiografiche dell’ambiente francese gallicano e giansenista, che non contemplavano quasi più lo studio della storia recente legata agli eventi della Riforma – avvertita come troppo vicina e con implicazioni pericolosamente attuali – e che avevano ritrovato un gusto più appassionato per la storia antica, anche Tillemont riversò la propria attenzione sulla Chiesa dei primi secoli. Nel cristianesimo antico, infatti, si riscopriva l’immagine di perfezione a cui tanto aspirava la spiritualità giansenista26.
Probabilmente nel progetto iniziale l’autore aveva previsto un’unica opera, ma a causa degli ostacoli frapposti dalla censura romana si determinò a pubblicarle separatamente27: la narrazione della storia profana nell’Histoire des Empereurs e di quella religiosa nelle Mémoires. La prima, quella di cui ci si occuperà in questa sede con particolare riferimento al ritratto che essa contiene di Costantino il Grande, ripercorre la storia degli imperatori romani da Augusto alla nascita di Gesù. Essa rivela una concezione della storia che si apparenta a quella delineata dai ‘solitari’ di Port-Royal: in primo luogo l’idea che la storia profana fosse subordinata a quella religiosa nella misura in cui la prima doveva prestarsi a illuminare la seconda. Tillemont lo scriveva nell’Avertissement all’Histoire des Empereurs: «Mais quelques personnes d’érudition et de piété […] ont jugé même qu’il devait commencer par l’histoire profane, puisqu’[…] elle est faite pour servir d’éclaircissement à celle de l’Église»28. Parimenti nella trattazione su Le Grand Constantin, premier empereur chretien29?, prevale il suo interesse per la politica religiosa dell’imperatore ed emerge in modo chiaro la convinzione che il suo regno avesse rappresentato una tappa fondamentale e un segno visibile del progetto divino per la salvezza dell’uomo30. L’ascesa di Costantino e l’acquisizione del titolo imperiale divenivano per Tillemont il simbolo dell’elezione divina e la dimostrazione che la Provvidenza lo avesse scelto a guida di una vera e propria missione. Nella lettura dell’autore la prima parte del regno di Costantino diventava quasi un’immagine di crociata31. Tillemont aveva paragonato spesso l’imperatore, nei suoi primi venti anni di regno, a un nuovo Mosè: come questi aveva guidato il suo popolo alla conquista della terra promessa, così Costantino era stato incaricato di condurre il nuovo popolo di Dio alla conquista dell’Impero romano, con uno spirito simile a quello del re di Francia Luigi IX, detto il Santo, morto durante la sua seconda crociata contro l’emirato di Tunisi nel 127032. Tutto il cammino verso il potere di Costantino era, dunque, interpretato come la manifestazione del tracciato delineato dalla Provvidenza. In questa luce era intesa anche la visione della croce, che tanto invece avrebbe scandalizzato gli illuministi33. In quanto rappresentazione dell’intervento divino e sua realizzazione nella storia, essa era centrale nella narrazione storica di Tillemont34. Nel tentativo di dare a tali fatti una spiegazione anche razionale, lo storico illustrava una serie di circostanze storiche che avevano permesso a Costantino di comprenderne il significato e di tradurlo nella realtà, come ad esempio l’eredità dei gesti paterni in favore dei cristiani35 o la consapevolezza – come l’imperatore avrebbe scritto nella Lettera ai provinciali d’Oriente – della fallace interpretazione data da Massenzio all’oracolo di Apollo36, consultato prima della battaglia contro l’esercito di Costantino.
A partire da questo momento Tillemont narrava dei numerosi provvedimenti dell’imperatore a favore dei cristiani, del suo governo «sage et modéré», della sua «douceur» nei confronti dei nemici e della sua «libéralité» che aveva dispensato a tutti e in abbondanza37.
Nel suo procedere nella lettura della storia, Tillemont, tuttavia, riconosceva che durante questo primo periodo Costantino non aveva abbandonato del tutto l’antica religione pagana, e ne vedeva un modello di tolleranza per il suo atteggiamento verso coloro che usavano pratiche magiche per guarire dalle malattie o per altri usi di buon auspicio, giacché «il y a des choses que le lois divines et ecclésiastiques condamnent et que les civiles peuvent tolérer pour ne pas faire trop de coupables»38.
Nel 325 Costantino, signore di un Impero ormai riunificato, destinato all’unità politica e a quella religiosa attraverso la diffusione del cristianesimo, sembrava a Tillemont aver perfettamente adempiuto alla missione della Provvidenza39 prima del corso disastroso del 326, fatto di errori e cadute. Innanzitutto l’uccisione della moglie Fausta e del figlio Crispo, la cui vicenda era ripresa dettagliatamente attingendo alle testimonianze dello storico pagano Zosimo, prendendo posizione contro tutte le altre fonti antiche che avevano passato sotto silenzio i delitti, a cominciare da Eusebio di Cesarea40. E se l’errore genera errore, Tillemont proseguiva nell’enumerazione di quelli più gravi che Costantino avrebbe commesso a catena: ad esempio il richiamo di Ario dall’esilio, la ratifica della condanna di Atanasio al concilio di Tiro, la sua deposizione dalla sede episcopale e il suo allontanamento; la fondazione vanagloriosa di Costantinopoli che non avrebbe portato alcun vantaggio o beneficio concreti né alla Chiesa né all’Impero né alla collettività; la divisione dell’Impero tra i suoi figli che avrebbe determinato rivalità e conflitti intestini. In tale concatenazione di misfatti e politiche contrarie alla propagazione della vera fede, Costantino non appariva più come un nuovo Mosé, era paragonato, invece, a David: «Dieu exécuta encore contre Constantin la sentence qu’il avait autrefois prononcée contre David. Car comme ses crimes aussi bien que ceux de ce Roy avoient fait blasphémer contre le nom de Dieu, l’épée ne se retira pas non plus de sa maison»41. E se non avesse ricevuto il battesimo, alla fine della sua vita, ci sarebbe stato da preoccuparsi per la sua anima, scriveva Tillemont, il quale non taceva, del resto, l’amministrazione del sacramento per mano ariana, da parte di Eusebio vescovo di Nicomedia. Per lo storico giansenista questo non inficiava la validità del battesimo, anche perché sottolineava la considerazione che Costantino avrebbe conservato per tutta la vita la fede di Nicea.
Alla fine della trattazione il giudizio di Tillemont sull’imperatore romano è fortemente ridimensionato: lungi dal considerarlo pari a un apostolo, come fa Eusebio di Cesarea, egli era guardato anche in tutti i suoi aspetti di peccatore. Nondimeno lo storico francese ammetteva che la Chiesa gli doveva essere debitrice per essere stato il primo imperatore ad aver abbracciato la ‘vera fede’ e ad averla promossa42, rivestendo, almeno nella prima fase dell’Impero, il ruolo di «vescovo di fuori». La figura di Costantino aveva aperto, inoltre, la strada agli imperatori successivi, dandosi come modello di sovrano cristiano – quello che avrebbe incarnato Teodosio, che nella narrazione di Tillemont diventava il vero exemplum. All’interno dell’opposizione che dal Medioevo aveva visto quanti reputavano la monarchia costantiniana esempio di felice coniugazione tra Stato e Chiesa e coloro che la accusavano di aver corrotto la Chiesa avendole accordato ricchezza e potere temporale, Tillemont sceglieva di percorrere una strada mediana. Verso la fine del capitolo su Costantino scriveva: «Comme Dieu nous juge selon notre volonté, et non selon les effets que sa bonté ou la corruption des hommes tire de nos actions, il ne faut point craindre de relever le mérite et la gloire de Constantin dans tant de choses qu’il a faites pour faire honorer Jésus Christ et son Église»43.
Tillemont, dunque, si era sforzato di trovare una posizione di equilibrio tra la sua fiducia nella Provvidenza divina, che indicava all’uomo percorsi di salvezza nella storia, e il rispetto per la verità dei fatti, quella stessa verità che gli aveva rivelato la natura mortale e peccatrice di Costantino. Nell’Avertissement della Histoire des Empereurs Tillemont scriveva:
Celui qui a composé l’ouvrage […] il a cru le pouvoir faire en s’occupant à étudier l’histoire des Saints et de l’Église dans les sources et dans les originaux, pour y chercher la vérité toute pure […]. Il a cru ne devoir songer qu’à chercher la vérité des faits et des temps, avec toute la fidélité, l’exactitude et l’application dont il a été capable, et à l’exprimer de la manière la plus simple et la plus nette44.
Tillemont rivendicava, dunque, sin dalla prefazione, la ‘scientificità’ della propria opera precisando di aver posto tra parentesi quadre tutte le affermazioni o considerazioni che non fossero state riscontrate o tratte da alcuna fonte45.
Il tentativo di temperare esigenza critica ed esigenza apologetica non fu una peculiarità di Tillemont, bensì un punto comune a tutti gli intellettuali a lui contemporanei, da Jean Mabillon a Claude Fleury: «convaincus que l’histoire atteste la vérité de la religion, ils n’ont pas hésité à porter la hache dans la forêt des traditions pluriséculaires»46.
Verso la fine del XVII secolo si delinearono come vere e proprie discipline, con una loro autonomia, gli studi sulle fonti letterarie, sulle monete, le medaglie, le iscrizioni, i codici. Studi a cui la storia si abituò a fare ricorso con una certa sistematicità. Anche a Port-Royal si ambiva a una storia in cui niente che fosse presente non fosse stato tratto da fonti pure e dagli originali più fedeli47. La storia non era più considerata come una galleria di fatti curiosi o straordinari, ma come un discorso fondato su fonti che avessero valore di prova e di norma – e i sei volumi, usciti nel 1681, del De re diplomatica di Jean Mabillon davano un certo fondamento scientifico a tale aspirazione. Come si è visto nel caso di Tillemont e come lo avevano applicato, e in un certo senso fondato, prima di lui, i bollandisti e i maurini – gesuiti, i primi, compilatori degli Acta Sanctorum, benedettini della Congregazione di Saint-Maur, i secondi, che diedero forte impulso alla storia del cristianesimo condotta sulla base di studi archivistici, paleografici e diplomatici e autori di edizioni critiche dei Padri della Chiesa, di collezioni dei concili – il metodo erudito si estese presto allo studio della Chiesa e, come si è già visto, della Chiesa dei primi secoli.
In quella stessa direzione si muoveva Claude Fleury: avvocato del parlamento parigino dal 1658, precettore del figlio di Luigi XIV, scrisse una storia ecclesiastica in venti volumi, uscita nel 1691, preceduta da un Discours sur l’Histoire ecclésiastique, nella cui prefazione asseriva: «L’historien doit mettre l’exacte vérité pour fondement de son travail. Mais il doit recueillir exactement toutes les circonstances qu’il trouve dans les originaux, afin de peindre les faits importants»48.
La peculiarità degli storici di orientamento giansenista, nondimeno, stava nell’avvertire, dentro al discorso storico, esigenze di scientificità coniugate alla propria coscienza e alla propria interiore istanza di fede. Nelle loro mani il nuovo metodo storiografico non era mai di critica, ma di ricostruzione quanto più possibile edificante49. L’intento di Tillemont, come si è detto, era stato la scrittura di una storia della santità nel corso della Chiesa delle origini, erudita, ben ancorata alle fonti, ma che non privasse il discorso di una «tinta di pietà»50 e di tutta una serie di riflessioni segnalate tra parentesi. Così anche Fleury non rinunciava a prediligere la storia religiosa a quella profana lungo tutto l’excursus sul cristianesimo antico:
Mon dessein n’est pas de repaitre la vaine curiosité de ceux qui ne cherchent qu’à voir des faits nouveaux ou extraordinaires: ou qui lisent par simple amusement pour se désennuyer. Ils ont des histoires profanes et des livres de voyage. J’écris pour les chrétiens, qui aiment leur religion, qui veulent s’en instruire de plus en plus, et la réduire en pratique51.
In questo modo egli procedeva nella illustrazione dei suoi intenti e del suo metodo storiografico: occuparsi di storia ecclesiastica, dalla fondazione del cristianesimo; farlo avvalendosi di fonti primarie e certe; scegliere i propri lettori tra quei cristiani che non fossero alla ricerca di diversivi, ma che avessero voluto cogliere dalla lettura una occasione per sapere di più, per trovare esempi da eguagliare nella propria vita quotidiana52. Fleury, dunque, si proponeva di scrivere per un pubblico ampio e non «pour les théologiens et les gens de lettres»53. Questo fa luce su un’altra scelta di Fleury, relativa allo stile adottato nella scrittura dell’opera, che lo differenzia da Tillemont. Ancora nella préface lo storico spiegava di aver individuato due stili narrativi frequenti al suo tempo nelle opere storiche: quello utilizzato, tra gli altri, dai Centuriatori e da Baronio, fatto prevalentemente di citazioni degli originali ben accordate tra loro dalla penna dell’autore; e quello che seguiva, piuttosto, un gusto narrativo più fluido e lineare «égale et continu»54. Fleury operava una scelta intermedia per evitare da un lato un discorso troppo lungo e complesso, ostile a una facile comprensione da parte del lettore, tipico del primo modo di procedere; dall’altro per non incorrere nel rischio di sacrificare le fonti e i documenti a vantaggio della gradevolezza della narrazione55. Lo scrittore, quindi, si proponeva di seguire «un stile suivi et qui n’est qu’une narration continue» senza tralasciare i riferimenti agli antichi, traducendone il greco e il latino nel francese, lingua corrente dei suoi lettori.
Come si è tentato di mostrare attraverso gli esempi di Tillemont e di Fleury, gli intellettuali francesi, di orientamento giansenista, attivi tra il XVII e il XVIII secolo, avevano assorbito profondamente la nuova ratio ‘scientifica’ di fare storia. La storia della storiografia recente ha compreso la molteplice natura di tali studiosi: antiquari, dediti alla conoscenza dei documenti e dei monumenti, utili alla conoscenza dell’antichità e del Medioevo; eruditi armati di un metodo scientifico che consentiva loro di apprezzare i documenti e di divulgarli; critici intenti a scoprire l’autenticità dei documenti e delle testimonianze, su cui costruire le loro certezze di storici56. L’erudizione critica che veniva, così, sviluppandosi in quegli anni, non era priva di grossi limiti: eccellendo la critica ‘esterna’, come si è visto, nello scoprire con rigore l’autenticità dei documenti e delle fonti, mancava ancora del tutto la critica ‘interna’, ovvero la storicizzazione e l’interpretazione dell’insieme complessivo di quelle medesime fonti. Una volta che storici come Tillemont e Fleury avevano verificato l’attendibilità della traditio, questa non era più messa in discussione. «Je n’oserais pas rejeter des faits parce que je n’en vois pas la raison lorsqu’ils me paraissent suffisamment attestez. Pourquoi Dieu n’aura-t-il pas fait même dans la nature des choses incompréhensibles aux hommes exprès pour les humilier»57 asseriva Tillemont. Alla stessa stregua Fleury: «Pour moi j’estime que la vraie piété consiste à aimer la vérité et la pureté de la religion […]. La critique est donc nécessaire: sans manquer de respect pour les traditions»58.
La storia, dunque, era concepita come uno svolgimento di fatti poggianti, tutti, su fondamenta solide a cui l’erudizione critica si accostava solo con molta cautela. La visione di Costantino, ad esempio, anche in Fleury era reputata un fatto storicamente accaduto nel momento in cui l’autore appurava la veridicità delle fonti che riportavano l’episodio59. Al contrario il Constitutum era liquidato velocemente come un falso, esso «n’est pas cru même à Rome».
Negli intellettuali di orientamento giansenista, di cui Tillemont e Fleury sono, per il nostro discorso, alcuni dei rappresentanti più significativi, le esigenze della fede non furono mai in conflitto con quelle della critica. Nella Logique de Port-Royal di Antoine Arnauld si leggeva:
«Quod scimus, debemus rationi; quod credimus, auctoritati» […]. Mais comme cette autorité peut être de deux sortes, de Dieu et des hommes, il y a aussi deux sortes de fois, divine et humaine. La foi divine ne peut être sujette à erreur […] la fois humaine est de soi-même sujette à erreur […] et néanmoins, il y a des choses que nous ne connaissons que par une foi humaine, que nous devons tenir pour aussi certaines et aussi indubitables que si nous en avions des démonstrations mathématiques60.
La citazione di Agostino della Logique è tipica: il giansenismo «facendosi valere all’interno del pensiero moderno, ne cooperò al progresso fuori dagli aspetti teologici»61. Convinti che la storia profana fosse di ausilio a quella religiosa, ne operarono un accreditamento scientifico tale da demolire «la concezione della Civitas dei, proprio nel tentativo di restaurarla»62.
Anche solo per sommi capi, è opportuno fare riferimento a un altro importante esponente di spicco dei savants di quegli anni, protagonista di primo piano nel traghettamento dell’erudizione critica verso la scienza storica. Pierre Bayle, noto principalmente per le Pensées diverses sur la Comète, del 1682, e per il Dictionnaire historique et critique, in quattro volumi, pubblicato a partire dal 169763, ha una visione molto diversa dagli intellettuali sopra citati, e molto più vicina a quella che sarà propria degli illuministi. Per Bayle fede e ragione appartenevano a due sfere nettamente separate, ed era possibile legare il concetto di verità solo all’una o all’altra, dunque era necessario allo storico operare una scelta radicale tra storia e dottrina.
La fede aveva la sua dimostrabilità solo a livello morale. La storia invece aveva sue proprie leggi che la rendevano paragonabile, salvo trasformarsi in controversia, a una scienza. Anche l’intento di Bayle, era quindi, di verificare la certezza del fatto storico. La storia non doveva essere anche utile, non doveva essere compiacente, e i suoi protagonisti non dovevano essere raccontati solo per le virtù e le imprese eroiche. Allo storico spettava la capacità di essere imparziale financo ad annullare il suo stesso essere nella storia:
[Un historien] doit se mettre le plus qu’il lui est possible dans l’état d’un stoïcien qui n’est agité d’aucune passion. Insensible à tout le reste, il ne doit être attentif qu’aux intérêts de la vérité […] un historien entant que tel est comme Melchisedec, sans père, sans mère et sans généalogie. Si on lui demande, «D’où êtes vous?» il faut qu’il répond «Je ne suis ni français, ni allemand, ni anglois, ni espagnol etc.: je suis habitant du monde, je ne suis ni au service de l’empereur, ni au service du roi de France, mais seulement au service de la vérité»64.
Ne risulta che quella di Bayle era una pratica storica tesa a escludere ogni elemento immaginario e favoloso, ad aggrappare con solidità le fonti per riferire il vero e il reale e tesa, grazie allo sforzo dello storico di spogliarsi della sua stessa realtà, a recuperare gli esclusi del passato65. A cominciare dalle donne. Nel Dictionnaire manca una voce Costantino I imperatore, ma è presente un articolo su Fausta66. Nell’intero articolo l’autore illustrava la vicenda dell’uccisione da parte di Costantino della moglie e del figlio Crispo, analizzando una a una le fonti antiche e quelle più recenti e operandone una critica serrata. Particolarmente dura quella nei confronti del gesuita Nicolas Caussin. Ancora con grande rigore Bayle citava un passo direttamente della Cour Sainte, in cui Caussin descriveva con dovizia di particolari la confessione di Fausta a Costantino sulla mendacità del tradimento che ella avrebbe compiuto con Crispo, inventata solo per il gusto della vendetta di un desiderio respinto. Caussin, dunque, aveva sposato la teoria secondo cui Crispo era stato ucciso da Costantino, perché indotto da Fausta, la quale aveva voluto vendicarsi del rifiuto. «Quelle hardiesse! Un auteur di XVIIe siècle vient nous donner, touchant ce qui s’est passé dans le IVe siècle, un détail de particularités qu’il ne tire que dans son cerveau»67, commentava Bayle. Questi non risparmiava neanche Baronio, accusato di respingere a priori le fonti pagane solo per favorire «certaines traditions favorables au siège papal», prima fra tutte quella per cui Costantino sarebbe stato battezzato a Roma da papa Silvestro68.
È nella strenua ricerca del vero e nella presentazione della storia da punti di vista originali che possiamo ritenere Pierre Bayle uno degli ultimi rappresentanti della storiografia del XVII secolo e primo precursore di quella illuministica.
Nato a Ischitella nel 1676, sin da giovane Pietro Giannone si era interessato al problema del rapporto tra Stato e Chiesa, una tematica che fu centrale nei suoi scritti più importanti, la Historia civile del Regno di Napoli (1723) e il Triregno, opera di cui ci occuperemo più nel dettaglio. La sua composizione fu avviata nel 1731, durante l’esilio a Vienna, città in cui Giannone era stato costretto a rifugiarsi dopo la scomunica che lo aveva colpito a seguito della pubblicazione della Historia civile. Le sue idee contro le pretese temporali della Chiesa e contro i suoi innumerevoli abusi, già annunciate nella Historia civile, furono maggiormente sviluppate da Giannone nel Triregno, opera che tuttavia, almeno inizialmente non era stata destinata alla pubblicazione69, ma che si era diffusa capillarmente in via clandestina e i cui manoscritti erano stati custoditi dagli amici ginevrini. Il tribunale dell’Inquisizione aveva organizzato una vera e propria caccia al codice e quando riuscì a entrarne in possesso aprì un ulteriore fascicolo contro l’intellettuale napoletano. Costretto a fuggire da Venezia perché braccato dagli inquisitori, egli era stato ospite e protetto dall’amico Ludovico Antonio Muratori. Rifugiato quindi a Ginevra e rintrato in Italia negli Stati sabaudi, fu arrestato a Torino, costretto all’abiura, e nel 1748 morì nelle carceri della città piemontese70.
Appresa la lezione della storiografia cinquecentesca di Machiavelli, Guicciardini e Sigonio, e della grande storiografica gallicana e giansenista francese di Tillemont, Fleury e Noêl d’Alexandre, a Vienna Giannone assorbì quella protestante tedesca. Dai grandi riferimenti della cultura europea, primi fra tutti Spinoza e John Toland, lo storico aveva pienamente interiorizzato lo sforzo, che aveva percorso tutto il Seicento, di pervenire a una storia oggettiva, non più controversistica e apologetica. Nel Triregno Giannone si era spinto più in là, proponendo una storia universale e comparata delle religioni, una proposta cui l’Illuminismo avrebbe dato pieno sviluppo: solo pochi anni dopo Voltaire avrebbe scritto l’Essais sur les Moeurs71?
Il Triregno si compone di tre capitoli che raccontano il Regno terreno, il Regno celeste e il Regno papale. Di quest’ultimo, rimasto incompiuto, ci occuperemo più da vicino perché quello che contiene importanti riferimenti a Costantino e una originale analisi sull’origine del potere temporale del papa.
Il primo aspetto che differenzia la breve trattazione di Giannone da quelle anteriori risiede nella impostazione generale del discorso: l’autore intendeva combattere le pretese e le usurpazioni ecclesiastiche su un terreno che non era più soltanto quello del giusnaturalismo. Il Regno papale voleva essere un modello di storia civile, religiosa e politica animata da una nuova visione della Chiesa, concepita non più come un monolite statico, sempre uguale a sé stesso nello scorrere dei secoli, bensì come qualcosa in continua evoluzione e variazione. Il dinamismo e la capacità di adattarsi ai tempi erano letti dall’autore, tuttavia, come progressiva corruzione dello spirito evangelico e primitivo del cristianesimo dei primi secoli. Uno spirito fatto di pochi principi e pochi precetti: amore, carità e fede72. Le prime spinte corrosive erano fatte risalire già prima di Costantino quando, all’interno della Chiesa, era stato violato lo spirito di uguaglianza tra i fedeli. Questo avvenne nel momento in cui erano comparse le prime differenziazioni gerarchiche, dapprima tra chierici e laici, poi all’interno del clero stesso, con l’apparizione delle figure dei vescovi. Durante il regno di Costantino nuove distinzioni gerarchiche furono introdotte, secondo Giannone, a imprimere una svolta nella storia interna alla Chiesa:
Dopo avere nella maniera già detta Costantino abbracciata la religione cristiana, posto in riposo e tranquillità la Chiesa, arricchitala di suppellettili e di poderi, e resala capace di acquistar legati ed eredità, i vescovi che vi presedevano si videro in un maggior splendore ed in un’ampia e nobile gerarchia; poiché, oltre di render le loro chiese capaci di acquistar beni temporali, Costantino gli onorò ed ebbegli in molta stima e rispetto; e non pur resegli venerandi, ma gli ornò pure anche nell’estremo d’abiti magnifici e maestosi e di reali insigne, perché al popolo si rendessero più augusti e rispettosi73.
Il modo in cui Costantino aveva attribuito al clero una posizione di riverenza e di privilegi aveva portato all’Impero «conseguenze assai perniciose e deplorabili» perché nel tempo i vescovi avrebbero teso a trasformare la propria posizione di superiorità onorifica in un ruolo di superiorità politica74.
Le variazioni erano destinate ad approfondirsi ulteriormente quando nel suo piano di sviluppo la Chiesa si modellò sul territorio in base alla geografia imperiale:
Essendo chiara cosa e manifesta che quest’esterna polizia della Chiesa s’adattò a quella dell’Imperio, onde sorsero gl’esarchi primati ed i metropolitani corrispondenti a’ magistrati dell’Imperio, secondo la maggiore o minore estensione delle diocesi e delle provincie ch’essi governavano, in conseguenza di ciò ne doveva seguire che, siccome nell’Imperio v’era un capo che lo reggeva, qual era l’imperatore, così nella Chiesa dovesse parimenti sorgere uno che tutta la reggesse e fosse il supremo comandante ed ispettore sopra tutti i patriarchi, esarchi e metropolitani, siccome era l’imperatore sopra tutti i magistrati dell’Imperio75.
Il modellamento sulle divisioni amministrative imperiali, dunque, per Giannone non era solo esteriore, ma era riempito di contenuti politici, dal momento che aveva favorito la progressiva affermazione del vescovo di Roma su un territorio ben più vasto della diocesi di Roma. Determinante per questa ulteriore evoluzione era stato lo spostamento, da parte dell’imperatore Costantino, della capitale imperiale da Roma a Bisanzio. Nel Triregno lo storico confermava, sviluppandola ulteriormente, la tesi già espressa nell’Istoria civile secondo cui la Chiesa si sarebbe espansa approfittando del vuoto di potere imperiale prima e, più in generale, politico dopo, all’epoca delle invasioni germaniche. Il primato sarebbe stato legittimato ancora una volta da Costantino medesimo nel momento in cui aveva denominato la sua Costantinopoli Seconda Roma. In questo modo, infatti, aveva riconosciuto implicitamente la grandezza e la superiorità dell’Urbe.
Si arrivava così al V secolo, in cui Giannone individuava un terzo momento cruciale di accrescimento del potere temporale della Roma dei papi. Con la crisi dell’impero d’Oriente e con la progressiva perdita di prestigio delle Chiese orientali si era fatto appello in Occidente alla memoria di Pietro, intorno alla quale si costruì un discorso legittimante di cui Giannone svelava l’inautenticità e la deliberata invenzione in base a tre obiezioni:
Ne’ princìpi del V secolo cominciarono a rifletter meglio sopra quella umana tradizione, radicata già nell’opinione di tutti, che san Pietro, lasciata la cattedra di Antiochia, fosse gito in Roma a stabilir quivi la sua sede, e ch’egli ne fosse stato il primo vescovo. E poiché ciò nemmeno bastava al lor intento, bisognò trasformar san Pietro da capo qual era degli apostoli, e farlo prencipe e monarca della Chiesa, dicendo che a colui furono consignate da Cristo le chiavi, e detto che pascesse le sue peccorelle, e che sopra le sue spalle fu unicamente appoggiata ed edificata la Chiesa, la quale, perché non rovinasse, era mestieri che non potesse errare, e fossegli per conseguenza dato tutto il potere sufficiente per poterla sostenere e conservare76.
Giannone proseguiva nel suo discorso polemico: «fattosi pure passar san Pietro in Roma, avendo lasciato in Antiochia il suo successore, perché a questa cattedra non dovevano rimanere quell’istesse prerogative delle quali una volta ne avea già fatto acquisto? E perché Antiochia non dovrà essere la prima e Roma la seconda? Giacché sono attaccate alla cattedra e non alla persona?», tanto più che se il fatto che la sede di san Pietro fosse stata Antiochia era riportato dalle Scritture, viceversa la presenza a Roma dell’apostolo era pura invenzione umana. Lo storico si chiedeva, da ultimo, la ragione per cui Pietro, in quanto apostolo, e dunque investito del compito di andare nel mondo a predicare, si fosse stabilito a Roma, una città oltretutto «già convertita». Giannone pur ammettendo che Pietro fosse stato riconosciuto come primo apostolo, non comprendeva come da ciò potesse derivargli uno status superiore agli altri apostoli: «Né Cristo diede più potere a san Pietro che agli altri». «Ma non si tenne questa maniera, né gli assalti furono tutti in un tempo e repentini; pian piano s’andava avanti. Si cominciò prima, con speciose apparenze e ben acconce esagerazioni ed accorte insinuazioni, a far credere per cosa certa che san Pietro in Roma avesse trasferita la sua sede, e sopra questo fondamento cominciarono le riflessioni ed esagerazioni ed encomi di quella cattedra»77.
Uno dei tratti più originali della trattazione storiografica di Pietro Giannone, che lo rende il più prossimo anticipatore dei philosophes dei Lumi francesi, risiede in una analisi del rapporto tra Stato e Chiesa in cui si respinge ogni traccia di intervento divino. Il successo dell’affermazione temporale del papato è spiegato, piuttosto, in termini ‘machiavellici’ adducendo motivazioni meramente politiche78. La figura di Costantino suscitò in Giannone un profondo interesse nella misura in cui, da un lato, era stato il primo imperatore a favorire le politiche di espansione universale del cristianesimo da parte della Chiesa di Roma, dall’altro perché intorno a lui riemergevano quei «sofismi», «arzigogoli» e «cavilli»79 a cui la Chiesa era ricorsa per legittimare il suo potere, tra cui la nota donazione e il battesimo romano dell’imperatore Costantino.
Anticipando i moduli che sarebbero stati propri della storiografia illuministica, Giannone presentava, in una trattazione che si avvicinava a un saggio di storia comparata delle religioni, il ritratto di una società umana tutta politica, in cui nessun ruolo ricopriva ormai la Provvidenza di tillemontiana memoria.
Pietro Giannone erede della cultura protestante, di quella gallicana e giansenista e di quella giusnaturalista, le superava in tutto stagliandosi in un orizzonte di ‘crisi della coscienza’: il cristianesimo era ridotto a «religione senza dogmi, in cui la Rivelazione non è altro che la copertura di una singolare filosofia materialistica»80; gli uomini apparivano indotti e manipolati dal potere e persino la ragione non sembrava sufficientemente in grado di liberare l’uomo dagli errori e dalle superstizioni.
Ludovico Antonio Muratori, nato a Vignola nel 1672, nel 1685 si trasferì a Modena per avviarsi alla professione ecclesiastica. Nella città del ducato estense era entrato in contatto con l’abate Benedetto Bacchini, da cui apprese la lezione della più recente storiografia francese e gallicana, studiando soprattutto il nuovo metodo di Mabillon e dei Maurini, e avvicinandosi, anche sul piano religioso, alle idee gianseniste di Blaise Pascal. Muratori guardava all’accademia come modello di vita culturale, ma in quella italiana, per il suo essere dominata da un gusto barocco ormai superato, riconosceva una certa decadenza:
Dirò francamente che gli eruditi nostri dovrebbono con più diligenza scuotere la polvere delle antiche librerie e visitar meglio la gran copia de’ manoscritti che fortunatamente tra noi si conservano, risparmiando ad alcuni letterati oltremontani, più di noi attenti, la fatica di venire a pubblicar le cose nostre con tanto loro dispendio e con tanta nostra vergogna81.
L’accademia a cui Muratori aspirava, dunque, era piuttosto una «meta-accademia»82 tesa a promuovere presso gli storici italiani una dedizione maggiore agli studi eruditi, partendo dalla ricchezza bibliotecaria e archivistica dei propri Stati, e allo sviluppo e perfezionamento delle scienze e delle arti. Il vignolese aveva potuto realizzare in parte la sua idea di ‘meta-accademia’ entrando in contatto con gli intellettuali europei della République del lettres, soprattutto francesi. Come testimonia il suo epistolario, infatti, almeno tra la fine del Seicento e il primo ventennio del Settecento, fittissima fu la sua corrispondenza con i principali eruditi di Francia, come Mabillon, Ruinart, Montfaucon, Guesnié83. In questo scambio intenso di lettere e opere che Muratori inviava e riceveva, i metodi della scienza francese gli diventavano sempre più familiari: una applicazione straordinaria di quello maurino si ritrova già negli Anecdota latina.
Nel febbraio 1695 fu chiamato come bibliotecario all’Ambrosiana di Milano, e dopo l’ordinazione ricevuta nel settembre dello stesso anno fu richiamato a Modena come archivista e bibliotecario ducale in sostituzione di Bacchini, città in cui rimase per tutta la vita. Qui fu presto coinvolto nelle vicende sulla controversia del possesso dei territori di Comacchio da cui Muratori avrebbe preso spunto per scrivere due opere centrali per il nostro discorso: la Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio, uscita anonima nel 1712, e i due volumi delle Antichità estensi ed italiane, di cui il primo fu pubblicato nel 1717 e il secondo nel 1740.
Il duca d’Este aveva già avviato il riordino delle carte dell’archivio della casata ben prima dello scoppio, nel 1708, dei conflitti intorno a Comacchio e a Ferrara, su sollecitazione del duca di Hannover Ernesto Augusto, che nel 1685 aveva commissionato a Gottfried Wilhelm von Leibniz una ricostruzione genealogica della propria casata. Tuttavia nel corso della guerra di successione spagnola, quando nel 1702 Modena fu occupata dalle truppe francesi, la corte dovette abbandonare la città, l’archivio e il lavoro sulle carte84.
Nel 1708, quando i francesi abbandonarono Modena, le truppe imperiali occuparono Comacchio rivendicandone il legittimo possesso, insieme al territorio di Ferrara, possedimenti ingiustamente incamerati dalla Chiesa a partire dal 1598. Insieme a Leibniz, con il quale lavorò fianco a fianco in una grande operazione di reperimento di documenti per provare l’infondatezza delle pretese pontificie, Muratori fu incaricato di difendere i diritti della casata d’Este, e indirettamente quelli imperiali; fu questa l’occasione in cui l’autore ebbe modo per la prima volta di riflettere sul potere temporale del papa, sulla natura dei suoi domini e sul tema delle donazioni che nel corso dei secoli furono fatte alla Chiesa. Da parte sua il papato affidò la difesa delle proprie posizioni a Giusto Fontanini, che pubblicò, nel 1708, uno scritto su Il dominio temporale della Sede apostolica sopra la città di Comacchio per lo spazio continuato di dieci secoli. In esso l’autore sosteneva la legittimità del possesso papale di Comacchio e Ferrara in virtù di una restituzione dell’esarcato, sottratto all’usurpazione dei longobardi, fatta da Pipino il Breve e poi da Carlo Magno. Fontanini, difendendo tali donazioni, arrivò a legittimare persino quella di Costantino sostenendo che essa non fosse falsa «essendo certo che Costantino Magno fu molto liberale verso la Chiesa Romana»85; concludeva perciò che il ducato d’Este era stato un feudo di Padova fino al XIII secolo, e che si era trasformato in signoria solo in tempi relativamente recenti.
Da qui il grande sforzo di Muratori di reperire fonti per difendere i diritti estensi, avviando il discorso, centrale in questa sede, sul rapporto tra Chiesa e Impero, e, nella moltiplicazione di libelli che la controversia su Comacchio determinò, il vignolese ricoprì una posizione del tutto originale. L’autore, infatti, trascurò completamente il piano religioso della disputa per appuntare le sue argomentazioni sulla dimensione terrena, storica: «simili controversie si possono solamente e si debbono decidere secondo le leggi comunemente stabilite, e accettate nel mondo, alle quali si sono suggettati ancora i Sommi Pontefici, da che hanno voluto accettare i principati temporali. Né qui vengono i pontefici come sacri pastori del gregge di Cristo, ma come principi del secolo»86.
Il discorso di Muratori, dunque, mirava a dimostrare l’uguaglianza del principe di Roma rispetto ai principi di tutti gli altri Stati, e per farlo partiva con l’impugnare quella donazione di Pipino il Breve che lo scritto di Fontanini aveva posto al centro della discussione. Nelle Osservazioni alla sua lettera il vignolese replicava: «non si dilungherà però molto dal vero, chi sospetterà, poter essere provenuto il titolo, e lo spaccio di quella Restituzione [di Pipino] dalla donazione famosa di Costantino il Grande, finzione speciosa, e non unica, di qualche pio artefice di quell’età»87. Muratori proseguiva insistendo sul fatto che se le donazioni del passato fossero state interpretate come Roma intendeva fare nel caso di Comacchio, nessuno Stato europeo sarebbe stato al sicuro da rivendicazioni pontificie. Egli concludeva:
noi non sappiamo bene né quali cose veramente donassero Pippino e Carlo alla Santa Sede né in che consistesse il dominio temporale che allora fu conferito ai sommi Pontifici, e che non basta dire che quei le donarono o restituirono Comacchio alla Sede Apostolica affinché se n’abbiano tosto a credere assoluti e independenti padroni i Papi di que’ tempi. Ma comunque ciò fosse non ha saputo mostrare cotesto scrittore [Fontanini] che Pippino e Carlo potessero legittimamente spogliare di quegli Stati l’imperadore, il quale reclamava, e farne poscia un dono valido alla Chiesa di Roma88.
Muratori riprese il tema del potere temporale del papa in altri scritti: nella Piena Esposizione prima, e nelle Dissertazioni dopo, quando le sorti di Comacchio erano state ormai decise a favore della Chiesa, che ne aveva ripreso possesso nel 1724. Nondimeno lo storico non rinunciava a confermare la falsità della donazione costantiniana e l’impossibilità, per il presente, di conoscere tecnicamente quale fosse stata la natura del dominio concesso al papa tramite la donazione di Carlo Magno sia il suo peso dal punto vista giurisdizionale. Nella dissertazione 71, in cui illustrava il potere del clero e le sue regalie, Muratori commentava:
i primi, per quanto a me sembra, furono i Romani pontefici, che diedero esempio di questa temporal signoria […]. Pippino avendo recuperato l’esarcato ne fece un dono alla Chiesa Romana, come di Stato conquistato per diritto di guerra. Di qui poi passarono più oltre i papa a cose maggiori, cioè ad ottenere la Signoria di Roma. Questo esempio servì poi ai vescovadi minori e agli stessi monasteri degli uomini ed anche delle donne per procacciarsi il governo e dominio d’ampie città, di castella intere o d’altri pezzi di regalie e di temporal dominio89.
Quasi in una catena di contagio il «temporal dominio» si trasferì dai vertici ai gradini più bassi della Chiesa, e questo, secondo il giudizio dello storico, condusse alle «liti e funestissime guerre fra il Sacerdozio e l’Imperio sotto il pontefice Gregorio VII e i suoi successori»90, dunque a quell’amaro capitolo della storia detto della ‘lotta per le investiture’.
Negli Annali Muratori sorvolava sui temi più controversi del regno di Costantino, su cui tanta letteratura precedente si era a lungo soffermata:
Né apparenza alcuna ci è ch’egli venisse a Roma, come s’avvisò il cardinal Baronio, il quale racconta succeduto in quella gran città il battesimo di esso Augusto, la sontuosa donazione che si pretende da lui fatta alla Chiesa romana, la lepra del medesimo, con altri assai strepitosi avvenimenti. Niuno v’ha oggi dei letterati, che non conosca essere tali fatti invenzioni favolose de’ secoli posteriori, né io mi fermerò punto ad esporne la falsità; perché superfluo sarebbe il dirne di più91.
L’autorità della narrazione storica per Muratori non era più Baronio92, che egli stimava per l’opera che seppe dare alla luce ma di cui ormai erano evidenti i limiti e i difetti. Le fonti degli Annali, soprattutto per quanto concerneva la storia di Costantino, erano stati, invece, Tillemont e Fleury. Nondimeno, rispetto a quelli, il giudizio di Muratori sull’imperatore romano era differente.
Se noi prendiamo nella sua vera significazione il titolo di santo, indicante il complesso d’ogni virtù cristiana, e l’essere affatto privo di vizi e di sostanziali difetti: ben lontano fu Costantino dal conseguir sì decoroso titolo che la sola pia adulazione de’ secoli barbari a lui conseguì. Imperciocchè a guisa di tanti altri principi che grandi sono appellati, non mancarono in lui vari difetti che ebbero bisogno di misericordia presso Dio, e di scuse presso i mortali93.
Lungi dall’attribuire a Costantino un’aura di santità, egli restava per lui un esempio civile e civico, pertanto la sua posizione si teneva ben distante da quella di Giannone, che invece aveva emanato contro l’imperatore una ferma condanna per essersi convertito e per aver trasformato il cristianesimo in religione di Stato. Nel Vignolese, però, e lo si è visto anche nelle opere precedenti agli Annali, il discorso non si concedeva accenti religiosi: esso era condotto su una rigida linea politica e civile per cui nessun attacco era lanciato alla religione, bensì alla sua corrotta disciplina. E il momento della corruzione Muratori non lo individuava nella politica costantiniana, ma, seguendo in questo Fleury, nell’epoca dei franchi e dei normanni, quando si era dato adito alla Chiesa di espandere i propri possedimenti, legittimando la sua potenza temporale.
Già uomo dell’Illuminismo per aver affermato e consolidato un metodo storico molto prossimo alla scientificità, Ludovico Antonio Muratori era ancora l’ultimo rappresentante della stagione controriformistica quanto ad atteggiamenti storiografici, ancora lontani da quelli che sarebbero stati propri di un Voltaire, di un Montesquieu o di un Gibbon.
1 C.H. Mcilwain, Il pensiero politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo, Venezia 1959, p. 186.
2 Per un quadro generale sulla figura di Costantino in Età moderna si vedano: Costantino il Grande dall’Antichità all’Umanesimo, Colloquio sul Cristianesimo del mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, 2 voll., Macerata 1992; Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Bonamente, G. Cracco, K. Rosen, Bologna 2008; Konstantin der Große. Geschichte – Archäologie – Rezeption, Internationales Kolloquium (Trier 10.-15. Oktober 2005), hrsg. von A. Demandt, J. Engemann, Mainz 2007; V. Aiello, Aspetti del mito di Costantino in occidente. Dalla celebrazione agiografica alla esaltazione epica, in Annali della Facoltà di Lettere di Macerata, 21 (1988), pp. 87-116; Piero della Francesca and His Legacy, Proceedings of the Symposium «Monarca della pittura: Piero and His Legacy», (Washington 4-5 December 1992), Washington 1995: M. Curschmann, Constantine – Heraclius: German Texts and Pictures Cycles, pp. 49-64; J. Freiberg, In the Sign of Cross. The Image of Constantine in the Art of Counter-Reformation Rome, pp. 67-87; M. Fumaroli, Cross, Crown and Tiara. The Constantine Myth between Paris and Rome (1590-1690), pp. 89-102. Sul dibattito storiografico tra fine Seicento e inizi Settecento si rimanda a: Baronio Storico e la Controriforma, Atti del Convegno internazionale di studi (Sora 6-10 ottobre 1979), a cura di R. de Maio, L. Gulia, A. Mazzacane, Sora 1979; Nunc alia tempora, alii mores. Storici e storia in età postridentina, Atti del Convegno internazionale (Torino 24-27 settembre 2003), a cura di M. Firpo, Firenze 2005: A. Tallon, Les conclaves dans l’historiographie de la Contre-Réforme, pp. 25-46; P. Cozzo, Fra militanza cattolica e propaganda dinastica. La storiografia di Guglielmo Baldessano (1543-1611) nel Piemonte Sabaudo, pp. 397-414; La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, a cura di N. Tranfaglia, M. Firpo, IV/2, L’Età Moderna: A. Biondi, La storiografia apologetica e controversistica, pp. 315-333; M. Candee Jacob, La crisi della coscienza europea, pp. 663-691; E. Chiosi, Il giansenismo in Europa tre Sei e Settecento, pp. 693-724; D. Carpanetto, La cultura italiana nel secolo dei Lumi, pp. 789-816. Si vedano inoltre F. Venturi, Settecento riformatore: I, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969; II, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Torino 1976; G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità. Teologia politica nell’Europa di Shakespeare e Bruno, Torino 2002; F. Martelli, Il contadino che volle farsi imperatore. Jean Antoine Lazier e l’ordine costantiniano del XVII secolo, Bologna 2012.
3 Per la bibliografia sul dibattito inglese e francese si rimanda rispettivamente ai contributi di R. Price e di H. Schlange-Schöningen, La ricezione di Costantino nelle monarchie dell’Europa moderna, in questa stessa opera.
4 Per ulteriori approfondimenti sull’utilizzo del tema costantiniano nel XVI secolo si rinvia ai contributi di D.M. Withford, R. Price, M. Cavarzere, L. Biasiori e G. Bartolucci in questa stessa opera.
5 G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla Donazione di Costantino. Con testi inediti dei secoli XV-XVII, Roma 1985, pp. 145 segg.
6 Jean Morin, Histoire de la délivrance de l’Église par l’empereur Constantin et de la grandeur et souveraineté temporelle donnée à l’Église romaine par les Rois de France, Paris, chez Denis Moreau ruë Sainct Jacques à la Salamandre d’Argent, 1630.
7 Ivi, pp. 240-241.
8 Ivi, p. 438.
9 Ivi, pp. 485-488.
10 Ivi, p. 558.
11 Si veda ad esempio B. Neveu, Esquisse biographique de Le Nain de Tillemont, in Le Nain de Tillemont et l’historiographie de l’Antiquité romaine, Acte du Colloque international (Paris 19-21 novembre 1998), éd. par S.-M. Pellistrandi, G. Landais, Ch. Pellistrandi et al., Paris 2002, p. 23.
12 Natalis Alexandri, Historia ecclesiastica veteris novique testamenti ab orbe condito ad annum post Christum natu millesimum sexcentesimum et in loca eiusdem insignia Dissertationes Historicae, Chronologicae, Criticae, Dogmaticae, IV, Venetiis, apud Franciscum ex Nicolao Pezzana, 1776.
13 Ivi, pp. 442 segg.
14 Ivi, V, Venetiis, ex typographia Joannis Gatti, 1778, p. 305: «Nec a Graecis ad Francos a Leone III translatum Imperium dici potest […] cum imperio spoliati principes Graeci non sint, nec ullas ab ipsis provincias aut urbes Leo pontifex abstulerit […]. Quantascumque Provincias Carolus Magnus intra veteres Occidentalis Imperii fines possidebat, eas partim haereditaria sibi successione devolutas, partim legitimo bello partas, aut spontanea populorum deditione traditas acceperat et in sua potestate tenebat, ut Francorum Rex et longobardorum».
15 Gherardo Boselli, Della Donatione del Magno Costantino fatta alla Chiesa Romana, Bologna, per Nicolò Tebaldini, 1640.
16 Ivi, Al lettore.
17 Caesaris Baronii, Annales Ecclesiastici, XIX, ex typis consociationis Sancti Pauli, Barii Ducis-Parisiis-Friburgi Helvetiorum, 1880, p. 617: «Quod autem inani studio laborent novatores improbare quod fertur edictum seu decretum Constantini donationis, e graeco in latinum translatum: sciant ipsi, se in his nostrum potius causam agere, quam contra nos pugnare, qui profitemur cum Iraenaeo, Cypriano et aliis sanctis Patribus, iisdemque Romanis Pontificibus, Romanae Ecclesiae privilegia non ab hominibus, sed a Christo in Petro esse collata, et a Petro in successores esse transfusa»; si veda A. Lauro, Baronio, De Luca e il potere temporale della Chiesa, in Baronio storico e la Controriforma, cit., pp. 363-418, in partic. 363-374.
18 Ivi, pp. 375-376 nota 23.
19 Si veda G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale, Roma 1964.
20 Cfr. anche il contributo di G. Arnaldi, A. Cadili in questo stesso volume.
21 Si veda A. Lauro, Baronio, De Luca, cit., pp. 374-379.
22 Ora pubblicato in ivi, pp. 405-418.
23 Ivi, p. 418.
24 Ibidem.
25 B. Neveu, Sébastien Le Nain de Tillemont (1637-1698) et l’érudition ecclésiastique de son temps, in Religion, érudition et critique à la fin du XVIIe siècle et au début du XVIIIe, Paris 1968, pp. 21-32; Id., Esquisse biographique, cit., pp. 23-29. Su Tillemont si veda anche M.R.P. McGuire, Louis-Sebastien le Nain de Tillemont, in The Catholic Historical Review, 52,2 (1966), pp. 186-200; J.-L. Quantin, ‘The most authentick history in the world, except the Bible?’. Sur la réception de Le Nain de Tillemond en Angleterre avant Gibbon, in Papes, princes et savants dans l’Europe moderne. Mélanges à la mémoire de Bruno Neveu, éd. par J.-L. Quantin, J.-C. Waquet, Genève 2007, pp. 287-311.
26 Nel suo Discours sur l’Histoire Ecclesiastique, l’abbé Claude Fleury, in un paragrafo intitolato Qu’il faut étudier l’antiquité, si chiedeva «Mais si nous voulons sonder le fonds de notre coeur nous craignons l’antiquité, parce qu’elle nous propose une perfection, que nous ne voulons pas imiter. Nous disons qu’elle n’est pas praticable, parce que si elle l’était, nous aurions tort d’en être si éloignez. Nous détournons les yeux des maximes et des exemples des Saints, parce que c’est un reproche continuel à notre lâcheté. Mais qu’y gagnerons-nous?», cfr. Discours sur l’Histoire Ecclésiastique par Mr. Fleury, prêtre, abbé du Loc-Dieu, cy-devant sous-précepteur du Roy d’Espagne, de Monseigneur le Duc de Bourgogne et de Monseigneur le Duc de Berry, à Bruxelles, chez Eugène Henry Fricx, imprimeur de Sa Majesté, vis-à-vis de l’Église de la Madeleine, 1724, p. XLII. Si veda anche B. Neveu, Mabillon et l’historiographie gallicane vers 1700. Érudition ecclésiastique et recherche historique au XVIIe siècle, in Historische Forschung im 18. Jahrhundert. Organisation, Zielsetzung, Ergebnisse, 12. Deutsch-Französisches Historikerkolloquium des Deutschen Historischen Instituts Paris (Wolfenbüttel 27. September-1. Oktober 1974), hrsg. von K. Hammer, J. Voss, pp. 27-81, in partic. 45-46.
27 A. Momigliano, La formazione della moderna storiografia sull’Impero romano, in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 107-164, in partic. 115.
28 Sébastien Le Nain de Tillemont, Histoire des Empereurs et des autres Princes qui ont regné durant le six premiers siècles de l’Église, de leurs guerres contre les Juifs, des écrivains profanes, et des personnes les plus illustres de leur temps, seconde edition revue, corrigée et augmentée par l’auteur, 6 voll., Paris, chez Charles Robustel, rue Saint Jacques au Palmier, 1700, p. III.
29 Ivi, IV, Bruxelles, chez Eugène Henry Fricx, imprimeur du roi, ruë de la Madelaine, 1732, art. I-XCIII, pp. 32-128.
30 L. Pietri, Le Constantin de Le Nain de Tillemont, in Le Nain de Tillemont et l’historiographie, cit., pp. 265-276.
31 Ivi, p. 267.
32 Sébastien Le Nain de Tillemont, Histoire des Empereurs, IV, cit., art. IV, p. 35: «(Lorsque son père fut fait Caesar, et envoyé dans les Gaules) il demeure comme en otage auprès de Diocletien, et fut ainsi élevé aussi bien que Moyse au milieu des ennemis de Dieu et de son peuple qu’il devait un jour exterminer, pour délivrer de leur tyrannie le véritable Israël»; p. 115: «Nous aimons croire qu’il [Costantino] était dans le même esprit que S. Louis».
33 Si veda il contributo di H. Schlange-Schöningen, Voltaire e gli illuministi francesi, in questa stessa opera.
34 Cfr. Sébastien Le Nain de Tillemont, Histoire des Empereurs, IV, cit., art. XXIII, p. 52: «(Dieu avait de plus grand desseins dans cette guerre que de délivrer Rome de la tyrannie de Maxence. Il voulait délivrer toute son Église par Constantin, du joug et de la persécution des payens. […]. Elle [la force de Dieu] est invincible à tous les efforts des hommes […]. Il était temps qu’après avoir couronnée les pécheurs, Dieu convertit aussi les Empereurs […])».
35 Cfr. ivi, art. II-III, pp. 33-34 e soprattutto art. XXIII, pp. 52 segg.
36 Cfr. Eus., v.C. II 49,2-51,2.
37 Cfr. Sébastien Le Nain de Tillemont, Histoire des Empereurs, IV, cit., art. XXVII, p. 57.
38 Cfr. ivi, art. XLV, p. 76.
39 Cfr. ivi, art. LXII, p. 92: «Jusqu’ici on peut dire qu’on a rien vu dans ce prince qui ne fut grand, qui ne fut sage, qui ne fut juste et même qui ne fut saint, depuis qu’il avait embrassé la sainteté du Christianisme». Cfr. anche L. Pietri, Le Constantin de Le Nain de Tillemont, cit., p. 270.
40 Sébastien Le Nain de Tillemont, Histoire des Empereurs, IV, cit., art. LXII, p. 93. Sull’utilizzo delle fonti antiche da parte di Tillemont si veda il contributo di F. Paschoud, Comment Le Nain de Tillemont a-t-il utilisé les sources profanes pour son Histoire des Empereurs?, in Le Nain de Tillemont et l’historiographie, cit., pp. 213-229.
41 Sébastien Le Nain de Tillemont, Histoire des Empereurs, IV, cit., art. LXII, p. 94.
42 Ivi, art. LXXIX, p. 112: «Il faut donc reconnaître que l’Église doit beaucoup à Constantin, parce que s’il n’a pas été le premier empereur chrétien, il a au moins été le premier qui ait adoré le vrai Dieu par un culte public et éclatant, le premier qui ait prêché hautement le nom de J.[ésus] C.[hrist] à toute la terre […]. Mais avec cela il a fait des fautes contre la justice et contre l’Église même, qui nous donneraient grand sujet de craindre pour lui la colère de Dieu, s’il les avait commises après le baptême».
43 Ivi, art. LXXVIII, p. 112.
44 Sébastien Le Nain de Tillemont, Histoire des Empereurs, IV, cit., Avertissement, pp. iii, v.
45 Ivi, p. vi: «Que si l’on est obligé ou de tirer des conclusions de leurs paroles, ou d’y faire quelque réflexion, ou d’en éclaircir quelque difficulté, ou d’y ajouter quelque chose prouvée ailleurs, on le renferme dans des crochets. Et on en rencontrera plus souvent que l’auteur n’aurait voulu, parce qu’il aurait bien souhaité de pouvoir tout prendre des anciens, et ne rien dire du tout de lui même».
46 B. Neveu, Mabillon et l’historiographie gallicane, cit., p. 29.
47 B. Neveu, Sébastien Le Nain de Tillemont (1637-1698), cit., p. 26.
48 Claude Fleury, Discours sur l’Histoire Ecclésiastique, cit., Préface, p. [VIv]. Su Fleury si veda tra gli altri R.E Wanner, Claude Fleury (1640-1723) as an Educational Historiographer and Thinker, The Hagues 1975.
49 B. Neveu, Sébastien Le Nain de Tillemont (1637-1698), cit., p. 28.
50 Ivi, p. 31.
51 Claude Fleury, Discours sur l’Histoire Ecclésiastique, Préface, cit., p. 4v.
52 Ibidem: «J’écris principalement pour ceux de quelque condition qu’ils soient, qui n’ont ni les connaissances nécessaires, ni le saisir, ni la commodité de lire tant de livres, mais qui ont de la foi, du bon sens, de l’amour pour la vérité: qui lisent pour apprendre des vérité utiles et en devenir meilleurs, qui veulent connaître le Christianisme grand et solide comme il est; et en séparer tout ce que l’ignorance et la superstition y ont voulu mêler de temps en temps».
53 Ibidem.
54 Ivi, p. [XIr]. Cfr. anche G. Ricuperati, Cesare Baronio, la storia ecclesiastica, la storia «civile» e gli scrittori giurisdizionalisti della prima metà del XVIII secolo, in Baronio storico e la Controriforma, cit., pp. 755-814, in partic. p. 775.
55 Claude Fleury, Discours sur l’Histoire Ecclésiastique, Préface, cit., pp. 10v segg.
56 B. Neveu, Sébastien Le Nain de Tillemont (1637-1698), cit., pp. 27-28.
57 Citazione in B. Neveu, Un historien à l’école de Port-Royal. Sébastien Le Nain de Tillemont (1637-1698), La Haye 1966, p. 237.
58 Claude Fleury, Discours sur l’Histoire Ecclésiastique, Préface, cit., pp. 8v-9r.
59 Claude Fleury, Histoire Ecclesiastique, II, à Bruxelles chez Eugène Henry Fricx, imprimeur de sa Majesté, vis-à-vis de l’Église de la Madelaine, 1722, pp. 609-611.
60 La Logique de Port-Royal, édition nouvelle avec introduction, extraits et éclaircissement par A. Fouillé, Paris 1878, p. 348, consultabile on line: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k83926h/f2.image (20 apr. 2013). L’opera, il cui titolo originale era La logique ou l’art de penser, fu scritta da Antoine Arnauld e Pierre Nicole, ma uscì anonima nel 1662 a Parigi. Cfr. anche A. Momigliano, La formazione della moderna storiografia, cit., p. 115.
61 A. Momigliano, La formazione della moderna storiografia, cit., p. 112.
62 Ibidem.
63 Si veda il contributo di A. Melloni in questa stessa opera.
64 Pierre Bayle, s.v. Usson, in Dictionnaire historique et critique, nouvelle édition, XIV, Paris 1820, p. 516, citato in R. Whelan, Alterité et histoire dans le Dictionaire historique et critique de Pierre Bayle, in Critique, savoir et érudition à la veille des Lumières. Le Dictionnaire historique et critique de Pierre Bayle (1647-1706), Actes du Colloque internationale (Nimègue 24-26 octobre 1996), Amsterdam-Maarssen 1998, pp. 283-293, in partic. 289.
65 R. Whelan, Alterité et histoire, cit., pp. 290 segg.
66 Pierre Bayle, s.v. Fausta, in Dictionnaire historique et critique, cit., VI, pp. 413-418.
67 Ivi, p. 416.
68 Ivi, p. 418.
69 Tuttavia in una lettera indirizzata al principe Alessandro Teodoro Trivulzio, del 19 marzo 1736, scrive di voler pubblicare l’opera a Ginevra, città in cui era stato costretto a rifugiarsi: «Forse dico avverrà che in un altro clima potranno vedere la chiara luce [le sue «fatighe»] del sole nascere, farsi grande e volare da per tutto. Iddio difenda e me e questi miei travagli che non furono impiegati che per la ricerca del vero», in G. Ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 517-518 nota 1.
70 Cfr. A. Merlotti, s.v. Pietro Giannone, in Dizionario Biografico degli Italiani, LIV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2000: http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-giannone_(Dizionario-Biografico)/ (20 apr. 2013). Per un approfondimento sulle opere, sulla loro circolazione e sulla loro fortuna si veda anche S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti, e documenti della fortuna di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1968.
71 Cfr. G. Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone. Un itinerario tra ‘crisi della coscienza europea’ e Illuminismo radicale, Firenze 2001, pp. 24 segg.; Id., Cesare Baronio, la storia ecclesiastica, cit., pp. 802 segg. In generale su Pietro Giannone si veda anche Pietro Giannone e il suo tempo, Atti del Convegno di studi nel tricentenario della nascita (Foggia, Ischitella 22-24 ottobre 1976), a cura di R. Ajello, 2 voll., Napoli 1980.
72 G. Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone, cit., p. 23.
73 Pietro Giannone, Il Triregno, a cura di A. Parente, III, Del Regno papale, Bari 1940, cap. II, p. 122.
74 Ivi, cap. VI, par. I, pp. 182-183: «Or questo, ch’era maggior stima, riverenza e rispetto, in tempi posteriori si trasmutò in primato e superiorità»; cap. VI, par. II, p. 185: «ciò ch’era maggioranza d’onore, di rispetto e di riverenza sopra gl’altri vescovi, lo tramutarono in potestà; e siccome non se gli poteva negare ch’essi fossero i primi nell’onore, così pretendevano anche essere i primi nel potere».
75 Ivi, cap. IV, p. 164.
76 Ivi, cap. VI, par. I, p. 179 (corsivo dell’autore).
77 Si vedano tutte le citazioni in ivi, cap. VI, par. I, pp. 180-182.
78 G. Ricuperati, Cesare Baronio, la storia ecclesiastica, cit., p. 810.
79 Pietro Giannone, Del Regno papale, cit., cap. VI, par. I, p. 181.
80 G. Ricuperati, L’esperienza civile, cit., p. 541.
81 Lamindo Pritanio, Delle riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, Venezia, Luigi Pavino, 1708, p. 169, citato in B. Neveu, Muratori et l’historiographie gallicane, in L. A. Muratori storiografo, Atti del Convegno internazionale di studi muratoriani (Modena 1972), Firenze 1975, p. 258.
82 Si veda G. Imbruglia, s.v. Ludovico Antonio Muratori, in Dizionario Biografico, cit., LXXVII, Roma 2012: http://www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-antonio-muratori_(Dizionario-Biografico)/ (20 apr. 2013).
83 Cfr. B. Neveu, Muratori et l’historiographie gallicane, cit., pp. 241-304.
84 Per maggiori approfondimenti sulla vicenda si vedano S. Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli 1960, pp. 100-258; G. Falco, Momenti e motivi dell’opera muratoriana, in Id., Pagine sparse di storia e di vita, Milano-Napoli 1960, pp. 143-164; G. Giarrizzo, Alle origini della medievistica moderna (Vico, Giannone, Muratori), in Bullettino dell’Istituto storico italiano e Archivio muratoriano, 74 (1962), pp. 1-43; F. Marri, Lodovico Antonio Muratori, in Nuova informazione bibliografica, 3 (2012), pp. 457-493.
85 Le parole di Fontanini sono riportate in S. Bertelli, Erudizione e storia, cit., pp. 169-170.
86 Il passo è contenuto in un manoscritto muratoriano, Fallibilità dei Pontefici, composto intorno al 1708, ma non destinato alla pubblicazione, il cui autografo è conservato nell’Archivio di Stato di Modena. Una edizione fu curata da Cesare Foucard nel 1872. Cfr. S. Bertelli, Erudizione e storia, cit., p. 148; G. Falco, Momenti e motivi dell’opera muratoriana, cit., pp. 150-151.
87 Osservazioni sopra una lettera intitolata «Il dominio temporale della Sede Apostolica sopra la città di Comacchio», s.l. [Modena] 1708, la citazione in S. Bertelli, Erudizione e storia, cit., p. 170.
88 Citazione in B. Neveu, Muratori et l’historiographie gallicane, cit., p. 279.
89 Dissertazioni sopra le antichità italiane, già composte e pubblicate in latino dal proposto Lodovico Antonio Muratori, e da esso poscia compendiate e trasportate nell’italiana favella, opera postuma data in luce dal proposto Gian-Francesco Soli Muratori suo nipote, Roma 17552, tomo III, parte II, dissertazione 71, Della potenza dei vescovi, abbati ed altri ecclesiastici e delle regalie anticamente concedute al Clero, p. 189.
90 Ibidem.
91 Ludovico Antonio Muratori, Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1750, V, Firenze 1828, pp. 146-147.
92 Sul rapporto tra Muratori e Baronio si veda: D. Menozzi, Il dibattito sul «Baronio storico» nella Chiesa italiana del ‘700, in Baronio storico e la Controriforma, cit., pp. 693-734, in partic. 704-713; E. Cochrane, L.A. Muratori e gli storici italiani del Cinquecento, in L. A. Muratori storiografo, cit., pp. 227-240.
93 Ivi, p. 205.