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Costantino

di Enzo Petrucci - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Costantino

Enzo Petrucci

Imperatore dal 306 al 337, C. è una di quelle eccezionali personalità che vengono assunte come simbolo di una svolta storica e per cui l'esaltazione dei contemporanei (in questo caso Lattanzio ed Eusebio da Cesarea) dà l'avvio alla formazione di un mito che sopravviverà a lungo nella memoria delle generazioni future, influenzandone idee e comportamenti anche al di là e al di fuori della verità storica.

Non è questa la sede per ricordare le complesse vicende politiche e militari connesse con la sua persona: ricordiamo solo il suo incontro di Milano con Licino (313) nel quale i due capi decisero di concedere libertà di culto ai cristiani (il famoso editto); l'unificazione dell'impero sotto il suo scettro (324); la fondazione di Costantinopoli e il trasferimento della capitale nella nuova città, inaugurata nel 330 e designata con il titolo di nuova Roma. Ciò consacrò quell'orientalizzazione dell'impero che portò, pur nella continuità dell'idea di Roma, a un progressivo allontanamento tra l'Oriente ‛ civile ' e l'Occidente ‛ barbaro ', e cioè, sul piano pratico, alla fine politica dell'oikoumene romana, con gravissimi riflessi anche sul piano ecclesiologico. Senza entrare in un'analisi, sia pure sommaria, di tutti gli aspetti dell'opera politica di C., che si sviluppò coerentemente sulla linea delle riforme tracciate da Diocleziano, diremo soltanto che l'aureola di sacralità e la venerazione - diciamo pure mitica - di cui il Medioevo circondò la sua figura, derivano dal fatto che egli fu il primo imperatore cristiano e che nella sua legislazione accolse varie sollecitazioni della nuova religione. La difficile e complessa problematica, relativa ai rapporti tra C. e il cristianesimo, ampiamente studiata dalla più recente storiografia, era naturalmente assente nella valutazione di D. e degli scrittori del suo tempo, come un fatto del tutto estraneo agl'interessi culturali degli uomini del Medioevo.

Vincenzo di Beauvais (morto nel 1264), per esempio, che tra i cronisti immediatamente precedenti ai tempi di D. appare quello maggiormente informato su C., nel suo Speculum historiale (Bibliotheca mundi seu Speculum maius, IV, 1624; ristampa anastatica Graz 1965, lib. XIII, cc. 43-59, pp. 519-526) non fa altro che un'esposizione particolareggiata del racconto delle sue fonti accuratamente indicate (Ugo di Fleury, Cassiodoro, Eusebio da Cesarea, Gesta Silvestri, Donazione di Costantino, di cui riporta quasi interamente il testo), senza alcuna valutazione o criterio di scelta; mentre le opere di Goffredo da Viterbo (Pantheon, in Mon. Germ. Hist., Scriptores XXII, 286-287) e di Gilberto (Chronicon Pontificum et imperatorum romanorum, ibid. XXIV 125) hanno carattere compilatorio d'informazioni, quasi mai, almeno per l'età antica, attinte direttamente. Solo Martin Polono (Chronicon Pontificum et imperatorum, in Mon. Germ. Hist., Scriptores XXII, 450-451) che, sia pur confutandolo, ricorda anche il battesimo ariano di C. in punto di morte, accenna già timidamente a una discussione delle sue fonti. Gli scrittori dell'età di D. invece, come Iacopo da Varazze (Chronica civitatis Ianuensis, ediz. G. Monleone, in Fonti per la Storia d'Italia, LXXXV, Roma 1941, II 324; Legenda aurea, ediz. Th. Grasse, Lipsia 1850, c. XII, 70-79, che narra ampiamente la leggenda secondo la quale il papa Silvestro I lo avrebbe guarito dalla lebbra con l'acqua del battesimo, ma non ha alcun accenno alla donazione, contrariamente a un suo volgarizzamento del sec. XIV, pubblicato da L. Razzolini, Firenze 1871, che presenta un'aggiunta con riferimento alla cessione del " regno di Puglia " e delle provincie dello stato della Chiesa); Brunetto Latini (Li Livres dou Tresor, ediz. F.G. Carmody, Berkeley - Los Angeles 1948, I 87, 68-69); G. Villani (I 59, che rinvia espressamente a Martin Polono), riducono agli elementi essenziali il racconto della leggenda silvestriana, quasi negli stessi termini riferiti dal poeta (Mn III X 1): " Constantinus imperator mundatus a lepra intercessione Silvestri tunc summi pontificis, Imperii sedem, scilicet Romam, donavit Ecclesiae cum multis aliis Imperii dignitatibus ". Per D. cioè e i cronisti suoi contemporanei, come da secoli per il Liber Pontificalis (ediz. Duchesne, I 170-187) la conversione di C. non fu il risultato di un'illuminazione improvvisa di Dio, quale risulta dal racconto eusebiano (Vita di Costantino, ediz. I.A. Heikel, Eusebius Werke, vol. I, Lipsia 1902, 1. I, cc. 28-32, pp. 21-23; cfr. P.G. XX, coll. 943-947) della visione nel cielo di una croce luminosa alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, bensì dell'opera di papa Silvestro. Si sarebbe perciò tentati d'indicare negli scrittori citati le possibili fonti di D., se non invitassero alla cautela le precise puntualizzazioni del Kantorovicz, il quale, nella recensione (" Speculum " XXXIV [1959] 103-109) al libro di C.T. Davis, Dante and the Idea of Rome, Oxford-New York 1957, ha mostrato che alcuni passi che avrebbero dovuto indicare l'influenza su D. di cinque autori contemporanei, altro non sono che luoghi comuni della pubblicistica del tempo.

Tuttavia vi è un particolare, quello della voce angelica che disapprova la donazione di C. (e qual esce di cuor che si rammarca, / tal voce usci del cielo e cotal disse: / " O navicella mia, com' mal se' carca! ", Pg XXXII 127-129), che D. non poteva trovare né in Brunetto Latini né negli altri autori citati. Una tale leggenda però, che doveva essere già diffusa alla fine del sec. XII, come mostra un canto di un poeta tedesco del 1201 (cf. Nardi, La Donatio..., p. 134),fu menzionata oltre che da Manfredi nel suo manifesto al popolo romano (B. Capasso, Historia diplomatica Regni Siciliae, Napoli 1874, p. 280), da Giovanni di Parigi, che nel De Potestate regia et papali XXII (in Goldstat, Monarchia, t. II, Francoforte 1614) scriveva: " Quod vero Deo displicuerit (i. e. Donatio Constantini), ex hoc sumitur argumentum, quod legitur in vita beati Silvestri papae, quod in donatione illa audita est vox angelorum dicentium in aere: " Hodie in Ecclesia venenum effusum est "; e poi citata da alcuni commentatori antichi come Pietro, l'Anonimo fiorentino e altri.

Da questo particolare leggendario emerge qual era il vero interesse di D. per la figura di Costantino. Il primo imperatore cristiano, circondato da una venerazione plurisecolare, con l'atto dell'infausta donazione, la cui autenticità né il poeta né altri all'inizio del secolo XIV metteva in dubbio, costituiva per D. un problema gravissimo, che l'erudizione di Brunetto e dei cronisti non poneva e tanto meno aiutava a risolvere. Ed era tanto serio questo problema, che a prima vista può sembrare, come è sembrato, che D. avesse assunto nei confronti di C. un atteggiamento, come dice il Brezzi, " oscillante ed equivoco " (Il canto XIX dell'Inferno, p. 180), dacché accanto a espressioni, anche durissime, di condanna, ve ne sono altre di lode e di esaltazione. In realtà D. risolse la contraddizione con un ragionamento molto simile a quello fatto da Odofredo (In Dig. I, Lione 1550, tit. 12, 1, f. 27v), che aveva scritto: " Dicimus quod licet dominus imperator Constantinus concesserit domino papae urbem, tamen urbs romana non est sua, sed est vicarius principis; dominus imperator Constantinus dotabat ecclesiam, et in dotando eam, donavit ei urbem et patrimonium ecclesiae Petri ". Il verbo " dotare " si trova anche in Brunetto Latini (loc. cit.) e in G. Villani (loc. cit.): ma naturalmente il pensiero dei due scrittori guelfi è esattamente l'opposto di quello di Odofredo e di quello del poeta. D. non poteva pensare che C., guarito miracolosamente dalla lebbra del corpo e dell'anima, avesse potuto scientemente scindere la tunica inconsutile dell'Impero, proprio come conseguenza della sua conversione. Perciò egli credette che C. con la donazione non avesse ceduto alla Chiesa nessun diritto imperiale, ma si fosse limitato semplicemente a costituire per lei una ‛ dote ', cioè a concederle l'usufrutto di un patrimonio per il sostentamento del clero e dei poveri. Questo atteggiamento, poi sempre coerentemente mantenuto, si coglie fin dal primo riferimento a C. nella Monarchia (II XI 8), in cui l'accenno alla sua pia intenzione attenua in qualche modo l'amarezza biblica dell'esclamazione: " O felicem populum, o Ausoniam te gloriosam, si vel nunquam infirmator ille Imperii tui natus fuisset, vel nunquam sua pia intentio ipsum fefellisset! ". Solo per effetto della cupidigia degli uomini di Chiesa la buona intention dell'imperatore fé mal frutto (Pd XX 56). " Questo motivo " scrive il Nardi (La Donatio, p. 148) " risuonerà alto e insistente per tutto il poema sacro " (cf. If XIX 115-117, Pg XXXII 124-129, 136-141; Pd XX 55-60). Per D. dunque C. commise, semmai e a fin di bene, un fatale errore, non vera colpa, e per questo non solo è salvo, ma occupa un posto preminente tra gli spiriti giusti del cielo di Giove, dove il poeta l'ha collocato nella parte più alta dell'arco del ciglio della mistica aguglia. E anzi solo nel cielo C. può conoscere che dal suo dono è stato tratto così grande male che ha distrutto il mondo: L'altro che segue, con le leggi e meco, / sotto buona intenzion che fé mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco: / ora conosce come il mal dedutto / dal suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia 'l mondo indi distrutto (Pd XX 55-60).

Questi versi, in cui D. accenna anche all'abbandono di Roma da parte di C. con insegne e leggi imperiali, quando da imperatore universale si fece Greco, cioè si ritirò a Bisanzio per cedere, a Roma, il posto al papa, mi sembrano veramente la traduzione poetica di quel passo della Donatio che suona così: " Unde congruum prospeximus, nostrum imperium et regni potestatem orientalibus transferri ac transmutari regionibus... et illic nostrum constitui imperium; quoniam, ubi principatus sacerdotum et Christianae religionis caput ab imperatore caeleste constitutum est, iustum non est, ut illic imperator terrenus habeat potestatem " (ediz. H. Fuhrmann, Das Constitutum Constantini, in Fontes iuris germanici antiqui in usum scholarum, X, Hannover 1968, pp. 94-95). Questo rilievo e l'insistenza con cui il poeta si sforza di salvare la buona intenzione di C., su cui almeno una volta sembra dubitare (... offerta / ‛ forse ' con intenzion sana e benigna, Pg XXXII 137-138), e per converso la sicurezza dei suoi argomenti giuridici, teologici e morali (cf. Mn I XVI, III X-XI, If XIX 112-117, Pg XVI 85-114, 127-132, XXXII 124-160, XXXIII 34-63, Pd XXVII 16-66, 139-148) per dimostrare, contro le pretese ierocratiche, l'invalidità e l'inefficacia della donazione, provano che D. ne conoscesse il testo, contrariamente a quanto ha sostenuto il Nardi (La Donatio, pp. 144-147; Dal Convivio, pp. 240-245). Che poi non lo conoscesse nella sua integrità, cioè con la prima parte che comprende la confessio e la narratio della leggenda silvestriana, non aggiungeva né toglieva nulla alle argomentazioni del poeta sulla valutazione del documento pseudocostantiniano. Per altro sembra che il Nardi si riferisse soltanto alla seconda parte, quella dispositiva, del famoso falso. Ma qui allora conviene osservare che i passi citati da lui, a dimostrazione che D. non aveva conoscenza diretta del documento pseudocostantiniano, si ritrovano tutti nella palea aggiunta al Decretum di Graziano (Distinctio 96, c. 14) dal Paucapalea, che il Nardi stesso ha ritenuto verisimile " come fonte delle informazioni di D. sul tenore della Donazione... poiché il Decretum correva ormai per le mani di tutti, canonisti e civilisti, che a quella palea si richiamavano di continuo, interpretandola in vario modo, da oltre un secolo " (ibid.).

C'è poi un altro aspetto della problematica dantesca sulla figura di C., su cui lo stesso Nardi si è soffermato, riferendo i termini di una garbata polemica tra il Pietrobono e il Barbi a proposito dell'interpretazione dei due dirubamenti della pianta altissima dell'Eden, ai quali si richiama Beatrice nell'esortazione che rivolge a D. (Pg XXXIII 55-57): E aggi a mente, quando tu le scrivi, / di non celar qual hai vista la pianta / ch'è or due volte dirubata quivi. Per il Pietrobono, la cui tesi è stata sostanzialmente accettata dal Nardi (La Donatio, pp. 148-157), " la simbolica pianta edenica fu dirubata e dispogliata una prima volta per la colpa di Adamo, ma rinverdì per la redenzione di Cristo; la seconda volta fu dirubata per la donazione di C., e a farla rinverdire, s'attende ancora il messo di Dio quasi un secondo redentore ". Questa interpretazione, che sembra sostanzialmente giusta, potrà ricevere conferma se si tengono presenti, con il sistema etico-politico e le proposte di riforma religiosa di D., tutti i passi che nell'opera dantesca si riferiscono a Costantino. L'ultimo capitolo del II libro della Monarchia, che si apre con il peccato di Adamo, si chiude non a caso con quella dolorosa esclamazione contro C.: ‛ Oh non fosse mai nato ! ', che sembra racchiudere l'amara consapevolezza che l'infirmator Imperii, colui che minò le basi dell'Impero, istituto considerato da D. come lo strumento legittimo per mezzo del quale la giustizia divina compì col sangue di Cristo la redenzione del genere umano, ha riportato nel mondo uno smarrimento spirituale e un disordine morale, analogo a quello provocato dalla caduta del primo uomo. D'altra parte C. non solo avrebbe attentato con la donazione all'integrità e all'autorità dell'Impero, ma avrebbe dato origine alla ricchezza e alla potenza politica del papato, nelle quali D. vedeva la radice prima della simonia, che, con la cupidigia e la corruzione della Chiesa, aveva sovvertito l'ordine provvidenziale del mondo. E proprio nella simonia dei pontefici, causata dalla piuma, offerta forse con intenzion sana e benigna e che si sparse come gramigna per tutta la Chiesa, D. vide, come ha osservato il Grundmann (Bonifaz VIII und Dante: zur Problematik der Konstantinischen Schenkung, in Hochland LII [1959-60] 201-220), un secondo peccato originale, per il quale l'albero della giustizia di Dio fu per la seconda volta dirubato e spogliato. Così si spiega come l'infiammata invettiva contro i papi simoniaci termini con l'amara apostrofe: Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre! (If XIX 115-117). E forse non è casuale neppure il rapporto che Guido da Montefeltro istituisce sinistramente tra la lebbra di C. e la superba febbre di Bonifacio VIII (If XXVII 94-97). Ma se alcuni papi, come i contemporanei Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XXII, hanno peccato di simonia in misura maggiore di altri, essi rappresentano solo gli esempi più clamorosi di quella mostruosa commistione, nella persona del pontefice, del potere spirituale e del potere politico: così che, in qualche modo, come intese già Benvenuto, i pontefici erano potenzialmente tutti simoniaci fin dai tempi di Costantino. In questa prospettiva acquista nuova luce la lunga risposta che Marco Lombardo dà a D. (Pg XVI 85-129) su la cagion che 'l mondo ha fatto reo, individuata essenzialmente nell'avere il pastore giunta la spada / col pasturale: onde da un lato la conclusione che la Chiesa di Roma, / per confondere in sé due reggimenti, / cade nel fango, e sé brutta e la soma (vv. 127- 129), e dall'altro l'illuminazione del poeta: e or discerno perché dal retaggio / li figli di Levi furono essenti (vv. 131-132). In altre parole, al discorso di Marco Lombardo D. risponde: ora capisco perché la Chiesa deve essere povera. Soltanto ponendosi da questo angolo visuale, si può cogliere la coerenza concettuale e poetica del discorso di Beatrice, la quale, avvertendo che non sarà tutto tempo sanza reda / l'aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda (Pg XXXIII 37-39), annuncia un messo di Dio che anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque (vv. 44-45). E la fuia, la ladra, è appunto il papato, che con l'accettazione della donazione di C. " ha preso per sé ciò che non è suo ", dirubando .per la seconda volta la pianta edenica. Ma fare ciò altro non è che simoniaca prostituzione; per questo il papato è rappresentato nella figura della meretrice magna, che sta sul carro della Chiesa trasformato in mostro.

Riprendendo l'analogia della donazione di C. col peccato di Adamo, lo Helbling (Saeculum humanum, Napoli 1958, 103-123) ritiene che il poeta voglia far apparire l'anno della donazione come l'inizio di un nuovo periodo della storia umana e, più precisamente, l'ultimo periodo, indicato dalla diversa materia dei piedi del Veglio (If XIV 109-110). In questa interpretazione periodologica della figura di C., o quanto meno della falsa donazione, l'attesa del veltro, del messo di Dio, potrebbe assumere un preciso significato escatologico. Si rivelerebbe così che anche il motivo della fine dei tempi, comune al pensiero dei riformatori religiosi, acquistava nella meditazione di D. un tono e un'angolatura originale.

V. anche DONAZIONE DI COSTANTINO.

Bibl. - Tra le opere di carattere generale su C. si vedano R. Paribeni, Da Diocleziano alla caduta dell'impero d'occidente, Bologna 1941, 47-114; e F. Lot, La fin du monde antique et le début du Moyen Age, Parigi 1951; per più ampie informazioni: A. Piganiol, L'empereur Constantin, ibid. 1932; e C. Calderone, C. e il Cattolicesimo, Firenze 1962. La bibliografia in R. Remondon, La crise de l'Empire romain (" Nouvelle Clio " n. 11), Parigi 1964, 33-36; e in J.R. Palanque, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Eccl., XIII (ibid. 1956) 593-608. Per la figura di C. e D. si veda in particolare B. Nardi, La " Donatio Constantini " e D., in Nel mondo di D., Roma 1944; ID., Dal Convivio alla Commedia, ibid. 1960, particolarmente 156-164, 238-257; G. Laehr, Die Konstantinische Schenkung in der abendländische Literatur des Mittelalters bis zur Mitte des 14 Jahrunderts, Berlino 1926 (" Historische Studien " 166), 127-129, 169-173. È utile altresì tener presente, anche se non si occupa di D., la pregevole opera di D. Maffei, La Donazione di C. nei giuristi medievali, Milano 1964. Per possibili fonti figurative di D. per la leggenda silvestriana, G. Fallani, D'entro Siratti, in Poesia e teologia nella D.C., Milano 1959, 121-128. Tra le letture di singoli canti vanno segnalate per i riferimenti a C. quelle di P. Brezzi, Il canto XIX dell'Inferno, in Nuove lett. II 161 ss.; ID., Il canto VI del Paradiso, in Lect. Scaligera III 175 ss.

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