COSTANTINOPOLI
(gr. ΚωνσταντινούπολιϚ; turco Istanbul)
Fondata da Costantino sul sito dell'antica Bisanzio (gr. Βυζάντιον), capitale dell'impero romano d'Oriente e poi di quelli bizantino e ottomano, oggi centro principale della Turchia, C. sorge su di un promontorio collinoso che chiude l'imboccatura dello stretto del Bosforo, il canale naturale che mette in comunicazione il mar Nero (l'antico Pontus Euxinus) con il mar di Marmara (l'antica Propontide). Subito a N del promontorio si stende la profonda insenatura del Corno d'Oro, che separa i quartieri centrali della città dai sobborghi di Pera e Galata. Il profilo orografico del promontorio è movimentato da due gruppi di rilievi collinosi: il primo, disposto immediatamente a ridosso della riva meridionale del Corno d'Oro, è articolato in sei alture; il secondo, più basso e costituito da un solo rilievo prospiciente il mar di Marmara, si colloca invece alla base della penisola ed è separato dal precedente dalla valle del fiume Lycus, l'unico modesto corso d'acqua che attraversa il territorio urbano.
Benché nessuno dei rilievi collinosi superi l'altezza di m. 50 sul livello del mare, la loro particolare conformazione orografica, con piani sommitali piuttosto stretti separati da profondi valloni, condizionò sensibilmente fin dai primi secoli l'espansione e l'assetto urbanistico della città, costringendo spesso i costruttori a operare vasti sbancamenti e ad allestire grandi terrapieni o imponenti opere di sostruzione per garantire agli edifici uno sviluppo sufficiente: le indagini archeologiche hanno dimostrato come lo stesso Grande Palazzo imperiale fosse costruito in larga misura su terrazzamenti artificiali affacciati sul mare, mentre resti imponenti di opere di sostruzione sono visibili nella zona occupata dalla curva dell'ippodromo o al di sotto del complesso monastico del Pantokrator, dove, ancora nel corso del sec. 12°, vennero riutilizzate le vaste strutture di una grande cisterna di epoca protobizantina (Müller-Wiener, 1977, p. 210).Come dimostrano i ritrovamenti (Janin, 19642, pp. 9-11), il popolamento della regione avvenne già in età preistorica (Studien, 1973) e interessò in una prima fase le zone immediatamente a ridosso delle due coste del Bosforo. Il primo insediamento urbano testimoniato dalle fonti risale al sec. 7° a.C., quando sull'estremità del promontorio venne fondata una colonia dorica che assunse il nome di Bisanzio, derivato, secondo le stesse fonti, da quello dell'eroe eponimo Byzas. Nel 196 d.C. Bisanzio, che nella crisi dinastica romana aveva parteggiato per Pescennio Nigro, venne conquistata da Settimio Severo, che ne soppresse lo statuto di città libera distruggendone le difese e riducendola al rango di semplice villaggio. L'importante posizione strategica della città fece però sì che lo stesso imperatore provvedesse in seguito al suo ripopolamento e alla costruzione di una nuova cinta di mura a difesa dell'estrema propaggine del promontorio.Nel 324 Costantino designò la città, che da lui prese il nome di C., a capitale dell'impero d'Oriente, avviando un grande programma urbanistico inteso a fare di C. una città in grado di rivaleggiare anche sul piano monumentale con l'antica Roma e i cui assi portanti condizionarono in maniera sensibile lo sviluppo urbano anche nei secoli successivi. Le fonti non concordano sulla cronologia delle fasi di costruzione della città costantiniana, che venne comunque ufficialmente inaugurata l'11 maggio del 330; da allora e fino alla sua caduta nelle mani dei Turchi ottomani di Maometto II il 29 maggio 1453 - salvo la parentesi costituita dall'occupazione latina nel corso della quarta crociata (1204-1261), quando la sede imperiale fu trasferita a Nicea - C. fu per oltre un millennio la capitale dell'impero bizantino e, insieme a Roma, il maggior centro monumentale del mondo tardoantico e medievale.Lo sviluppo e la trasformazione del tessuto urbano di C. furono segnati in ogni fase da una serie di catastrofi naturali che contribuirono al continuo riassetto topografico e monumentale della città. Costruita al centro di una regione fortemente tellurica, la capitale bizantina fu interessata da un gran numero di terremoti (le fonti ne riportano ben diciannove tra i secc. 5° e 6°; I terremoti, 1989, pp. 682-706) dagli esiti spesso devastanti: per citare solo i più rilevanti, vanno ricordati quello del 447, che distrusse buona parte delle mura di cinta della città, quelli succedutisi a più riprese tra il 533 e il 538, che causarono tra l'altro danni alla cupola di Santa Sofia, e quelli dei primi decenni del sec. 11°, che interessarono numerosi edifici religiosi, determinando in particolare la distruzione della chiesa dei Quaranta martiri di Sebaste. Lo sviluppo spesso disordinato dell'edilizia residenziale privata - che ripetuti interventi legislativi imperiali tentarono almeno di controllare (Kriesis, 1960; Dagron, 1974, pp. 91-92) - contribuì inoltre ad accrescere il rischio di incendi e la portata delle loro conseguenze anche nei confronti di importanti monumenti pubblici: così, per citare solo i casi più eclatanti, la stessa Santa Sofia fu distrutta dalle fiamme in due occasioni (404 e 532), nel 476 bruciarono il palazzo di Lauso e la biblioteca cittadina, nel 1204, durante la presa della città da parte dei crociati, vennero distrutti interi quartieri e ancora nel 1434 le fiamme divorarono la chiesa della Theotokos, nel quartiere delle Blacherne (Schneider, 1941a).
Le fasi dell'evoluzione urbana di C. possono essere seguite solo parzialmente attraverso i dati archeologici, dal momento che per motivi diversi gli scavi e le ricerche topografiche non hanno mai assunto sul territorio della moderna Istanbul carattere di sistematicità. Benché il territorio urbano di C. e le sue vestigia monumentali siano stati al centro dell'attenzione dei viaggiatori e degli studiosi occidentali già a partire dal Rinascimento - basti ricordare le diverse versioni della veduta planimetrica della città presenti nelle copie del Liber insularum Archipelagi di Cristoforo Buondelmonti, del 1420 ca. (Gerola, 1931), o la grande quantità di informazioni che si possono trarre dal De topographia Constantinopoleos et de illius antiquitatibus libri quattuor di Pierre Gilles, edito a Lione nel 1561, o ancora la pianta monumentale della C. antica realizzata tra il 1566 e il 1574 (Mordtmann, 1892), o i disegni di alcuni dei monumenti più significativi a opera di un anonimo artista tedesco nella seconda metà del sec. 16° (Mango, 1965) -, i decenni della seconda metà del sec. 19° e degli inizi del 20°, che videro l'affermarsi delle prime ricerche archeologiche dell'era moderna sulle diverse regioni del mondo bizantino (Zanini, in corso di stampa), non segnarono di fatto progressi sensibili nella conoscenza dell'impianto topografico generale e dei singoli monumenti della capitale imperiale. Solo con la fine della prima guerra mondiale si crearono le condizioni per l'avvio dei primi scavi su scala urbana, anche se, a dispetto delle ricerche fin qui condotte, la topografia di larghi settori della città antica risulta comunque ancora poco chiara almeno dal punto di vista dell'analisi archeologica (Müller-Wiener, 1977).A fronte della totale perdita della documentazione archivistica (Mango, 1980, pp. 6-9), informazioni relativamente ricche di carattere topografico si desumono dalle fonti storiche, trattatistiche e narrative. La più antica descrizione della città è costituita dalla Notitia urbis Constantinopolitanae, opera anonima del secondo quarto del sec. 5° (Mango, 1985), cui segue cronologicamente la raccolta dei c.d. Pátria (Dagron, 1984; Berger, 1988): si tratta di una collazione di testi a carattere storico e descrittivo, compilata intorno alla fine del sec. 10° tenendo conto di numerosi testi non pervenuti e riportando i brani più significativi di altre tre opere conservatesi - i Pátria Konstantinupóleos, di Esichio di Mileto (sec. 6°), le Parastáseis sýntomoi chronikái, opera anonima della prima metà del sec. 8° (Constantinople, 1984), e la Diéghesis perì tès oikodomès tù naù tès megáles tù Theù ekklesías tès eponomazoménes Haghías Sophías, anch'essa anonima e di incerta datazione -, che, nonostante la dubbia attendibilità di molti passi, costituisce un importante riferimento per lo studio della topografia di C. nei primi secoli della sua storia (Dagron, 1974).Per quanto riguarda l'epoca protobizantina, si rivelano di notevole utilità le opere degli storici di tradizione antica (nel sec. 5° Zosimo, nel successivo Agazia, Giovanni Malala e poi Teofilatto Simocatta e Marcellino Comes), mentre il primo libro del De Aedificiis di Procopio di Cesarea è interamente dedicato all'elenco e alla descrizione delle costruzioni civili e religiose fatte erigere a C. da Giustiniano.Solo a partire dai secc. 9° e 10° la ricerca storico-topografica può trovare nuove basi nelle opere dei cronachisti (Teofane il Confessore, sec. 9°; il suo anonimo continuatore nel secolo successivo, noto come Teofane Continuato; Teodosio Meliteno, sec. 11°) e soprattutto nel trattato De caerimoniis aulae Byzantinae, una collazione di testi diversi operata dall'imperatore Costantino VII Porfirogenito (912-959), dedicata alla descrizione del complesso cerimoniale di corte e dei diversi luoghi a esso deputati (Mango, 1959).Per l'epoca immediatamente precedente e successiva all'occupazione latina di C., la grande attività letteraria e cronachistica fiorita presso le corti dei Comneni e dei Paleologhi (per es. Anna Comnena e Giovanni Zonara, sec. 12°; Niceta Coniate, sec. 13°; Giorgio Pachimere, Giovanni Cantacuzeno e Niceforo Gregora, sec. 14°; Michele Ducas e Giorgio Franze, sec. 15°) ha permesso la trasmissione di una grande quantità di dati, soprattutto relativi ai quartieri occidentali della città intorno ai quali ruotavano i nuovi centri aggregativi della capitale tardobizantina.Alla lunga lista delle fonti per la storia urbana di C. debbono infine aggiungersi le testimonianze esterne al mondo bizantino, a partire dal resoconto del viaggio compiuto da Hārūn ibn Yaḥyā alla fine del sec. 9° (riportato nel Kitāb al-A'lāq al-nafīsa di Ibn Rusta) e dalle relazioni del vescovo Liutprando da Cremona che nel sec. 10° fu ambasciatore alla corte bizantina, per proseguire con la Geografia di al-Idrīsī e con le descrizioni dell'ebreo Beniamino di Tudela (sec. 12°), per giungere infine ai resoconti dei numerosi pellegrini russi (Majeska, 1984) e alle descrizioni redatte dagli stessi comandanti crociati all'indomani della presa della città.Al tempo di Settimio Severo Bisanzio era dotata di una propria cinta di mura, solo ipoteticamente ricostruibile sulla base di fonti più tarde. All'interno della cinta furono realizzati già in quell'epoca alcuni dei monumenti che continuarono poi per secoli a segnare la topografia del nucleo della capitale bizantina: si debbono infatti probabilmente a Settimio Severo l'impianto del Tetrastoon - un grande quadriportico sull'area dell'antica agorá della città ellenistica, a ridosso del quale sorsero poi il Grande Palazzo imperiale, uno degli edifici del Senato e la Santa Sofia -, la primitiva costruzione dell'ippodromo e l'edificazione delle grandi terme di Zeuxippos.La designazione di C. a capitale dell'impero d'Oriente diede il via a una fase di rapida e intensa espansione, inaugurata dalla costruzione di una nuova cinta muraria posta a km. 3 ca. a O della precedente (Strube, 1973, pp. 131-147; Dagron, 1974, pp. 401-408; Mango, 1990).
L'età di Teodosio II (408-450) si pone come fondamentale cerniera nella storia urbanistica di C., segnando il compimento del processo di espansione della città tardoantica e avviando al tempo stesso quella fase di continua ridefinizione degli spazi interni che sarebbe stata in seguito caratteristica della capitale bizantina. Il nome di Teodosio II è legato in primo luogo alla costruzione della nuova cinta delle mura terrestri, eretta a partire dal 413, che costituì per secoli il cardine del sistema difensivo della città (Meyer, Schneider, 1943; Tsangadas, 1980). Le mura teodosiane - oggetto di un recente e discutibile intervento di restauro e di parziale ricostruzione - si dispongono lungo un arco di cerchio a una distanza di km. 5,5 ca. dall'estremità della penisola su cui sorge la città; partendo dalla costa della Propontide, esse si sviluppano verso N per oltre m. 5600 fino a raggiungere il quartiere delle Blacherne, dove sembrano arrestarsi bruscamente all'altezza del palazzo del Tekfur Sarayı e dove probabilmente si raccordavano con l'autonoma cerchia muraria, oggi scomparsa, che già in epoca costantiniana doveva difendere quel quartiere. Lungo tutta la sua estensione la cinta teodosiana presenta una peculiare articolazione strutturale, che servì da modello per gran parte dei sistemi difensivi costruiti in epoca protobizantina in molte delle regioni dell'impero. Procedendo dall'esterno verso l'interno si incontrano: un fossato artificiale (largo m. 15-20, profondo m. 5-7) ancora oggi ben riconoscibile sul terreno; una prima area scoperta, compresa tra il fossato e il primo muro; l'antemurale, fiancheggiato da novantadue torrette disposte in asse con le cortine libere tra le torri del muro principale retrostante; una seconda e ampia fascia scoperta; e infine il muro principale (alto m. 11 ca.), dotato di un cammino di ronda e difeso da novantasei torri di forme diverse (settantaquattro quadrate, quattordici ottagonali, cinque esagonali, due eptagonali e una pentagonale), regolarmente distanziate tra loro di m. 55 circa. Altrettanto peculiare e caratteristica dell'edilizia pubblica costantinopolitana dei primi secoli dell'impero bizantino appare la tecnica edilizia, caratterizzata dall'impiego di una muratura a sacco con nucleo centrale in conglomerato cementizio e cortine a fasce di laterizi alternate a fasce di conci di pietra squadrati.Nella cinta teodosiana si aprivano dieci porte principali - le più importanti erano, da S a N, la porta d'Oro, la porta di Peghé o di Silivri, la porta di S. Romano e la porta di Charisius o di Adrianopoli - cui si aggiungeva un consistente numero di posterule che davano accesso agli spazi aperti tra le mura e il fossato.Pur conservando nella loro sostanziale integrità l'aspetto originale assunto dopo la ricostruzione, ancora in epoca teodosiana, dei lunghi tratti abbattuti nel corso del terremoto del 447, le mura terrestri di C. furono oggetto nel corso dei secoli di una serie di restauri volti a risarcire i danni provocati da catastrofi naturali; le iscrizioni attestano gli interventi di Giustino II (565-578), di Leone III Isaurico e suo figlio Costantino V dopo il terremoto del 740, di Basilio II e Costantino VIII nel 975, di Alessio III Angelo (1195-1203), probabilmente eponimo di una serie di restauri condotti dai comneni Manuele I (1143-1180) e Andronico I (1183-1185) e di Giovanni VIII Paleologo (1425-1448). All'età comnena, infine, va probabilmente datata la ricostruzione del segmento delle mura nel quartiere delle Blacherne, tra il Tekfur Sarayı e il Corno d'Oro.Il Chronicon Paschale (Mango, 1985, p. 25, n. 12) e lo pseudo-Codino (Janin, 19642, p. 287, n. 3) riferiscono a Teodosio II anche la costruzione delle mura che difendono C. lungo i lati prospicienti il mare, ma questo dato non sembra trovare riscontro in altre fonti e nell'evidenza dei resti conservatisi, che lascerebbero ipotizzare un'articolata successione di interventi culminata probabilmente con la costruzione delle mura lungo il Corno d'Oro nella prima metà del sec. 7° (Grumel, 1964; Mango, 1985).L'epoca teodosiana vide anche il definitivo consolidarsi delle infrastrutture legate ai diversi momenti della vita cittadina. Il più importante asse stradale continuava a essere rappresentato, come in età costantiniana, dalla Mese, i cui rami meridionale e settentrionale vennero prolungati fino a raggiungere la cinta teodosiana rispettivamente in corrispondenza della nuova porta d'Oro e della porta di Adrianopoli. Sull'asse principale della Mese - che collegava il nucleo monumentale ruotante intorno al grande Tetrastoon, più comunemente definito già in età teodosiana Augusteion, alla porta d'Oro - si disponeva una serie di piazze che, riprendendo e rielaborando il tema del forum romano, costituivano altrettanti punti focali nella vita cittadina.Intorno all'Augusteion sorgevano gli edifici più importanti e intimamente legati con l'esercizio e la rappresentazione simbolica del potere civile e religioso: a S si apriva infatti la Chalké, il monumentale vestibolo che dava accesso al Grande Palazzo imperiale; a E sorgevano il Senato e il complesso della Magnaura, anch'esso parte del palazzo; a N, già a partire dall'epoca di Costanzo (337-361), sorgeva la chiesa della Santa Sofia, mentre a O si staccava appunto la Mese, il cui inizio era marcato dalla presenza del monumentale Tetrapylon del Milion (Verzone, 1956b; Fıratlı, Ergil, 1969).Procedendo verso O il percorso della Mese era scandito dal foro ellittico di Costantino, il cui centro era segnato dalla grande colonna onorifica in porfido ancora in parte conservata, quindi dal foro di Teodosio I, detto anche forum Tauri (Barsanti, in corso di stampa), quindi, dopo la biforcazione del Philadelphion, il c.d. forum Bovis, di localizzazione ancora incerta e, da ultimo, il foro di Arcadio, il cui centro è ancora indicato dalla presenza del grande basamento - oggi pressoché totalmente inglobato in modeste abitazioni - della colonna onorifica eretta agli inizi del 5° secolo.Tra gli edifici monumentali che caratterizzavano la C. teodosiana tre appaiono particolarmente importanti per il ruolo che ebbero in tutte le epoche della storia della capitale bizantina: il Grande Palazzo imperiale, l'ippodromo e la Santa Sofia. Il primo sorgeva fin dall'epoca costantiniana (ma le prime fondazioni potrebbero risalire già all'intervento di Settimio Severo; Herrin, 1991) all'estremità della penisola su cui si dispone C., su di un grande terrazzamento prospiciente il mar di Marmara. Le indagini archeologiche condotte a partire dai primi decenni di questo secolo (Brett, Macauly, Stevenson, 1947; Talbot Rice, 1956; 1957; The Great Palace, 1958) hanno potuto chiarire solo in minima parte la disposizione e l'effettiva consistenza dei molti edifici che, collocandosi intorno a corti e porticati, costituivano l'enorme agglomerato del palazzo, anche se i limiti del complesso risultano ben definiti dalla presenza di altri monumenti pubblici. Gli edifici che sorgevano all'interno sono in gran parte noti solo attraverso numerose ma spesso imprecise fonti antiche - in particolare il De caerimoniis di Costantino VII - che hanno permesso ricostruzioni ipotetiche (Dirimtekin, 1965; Guilland, 1969; Miranda, 1983). Sul lato settentrionale del palazzo, rivolto verso l'Augusteion, si apriva la Chalké, un edificio di impianto quadrangolare ricostruito da Giustiniano che prendeva il nome dalla grande porta bronzea destinata a mettere in comunicazione il palazzo con la Santa Sofia e che ospitava nella sala centrale cupolata una vera e propria collezione di opere d'arte fatte giungere dalle diverse regioni dell'impero (Mango, 1959). Attraversata la Chalké, si giungeva alle scholae dei corpi di guardia e quindi a una serie di sale di rappresentanza che conducevano direttamente al palazzo di Daphné, di fondazione costantiniana, che costituiva ancora in età teodosiana il nucleo centrale dell'intero complesso. Già con Giustino II e poi con il suo successore Tiberio I (578-582) vennero portate a termine la costruzione e la sontuosa decorazione del Crisotriclinio - la grande sala ottagonale cupolata e dotata di un'esedra destinata a ospitare il trono imperiale - che comunicava attraverso una serie di ambienti intermedi con la tribuna imperiale (Káthisma), posta lungo il lato orientale dell'ippodromo. La zona meridionale del palazzo sembra avesse invece una connotazione più spiccatamente religiosa: presso il limite della spianata artificiale si trovavano infatti tre importanti chiese dedicate rispettivamente alla Vergine, a s. Demetrio e a s. Elia, mentre più in basso, oltre il limite del terrazzamento, sorse in seguito la grande Nea Ekklesia voluta da Basilio I il Macedone (867-886) e nota solo dalle fonti.La zona nordorientale del Grande Palazzo era occupata dal complesso della Magnaura, utilizzato come luogo di ricevimento degli ambasciatori stranieri, il cui nucleo era costituito da un edificio di impianto basilicale a tre navate in fondo al quale una nicchia sopraelevata ospitava il c.d. trono di Salomone, corredato da un'imponente scenografia di automi (v.), usato dall'imperatore nelle udienze alle delegazioni straniere.Iniziato già sotto Settimio Severo e completato in età costantiniana, l'ippodromo, che sorgeva a N-O del Grande Palazzo e tanto vicino a quest'ultimo da condizionarne in parte lo sviluppo topografico, fu oggetto di continui restauri nel corso dei secoli e ancora alla metà del sec. 14° ospitava tornei cavallereschi secondo le mode importate un secolo prima dai conquistatori latini. Benché le indagini archeologiche condotte negli anni Venti e Trenta abbiano interessato solo una parte relativamente limitata del grande complesso, le fonti letterarie e iconografiche - in particolare un'incisione di Panvinio (De ludis circensibus, Venezia 1600, p. 61, tav. R) - permettono di riconoscerne l'impianto tradizionale con la doppia corsia separata dalla spina (decorata da un'imponente collezione di colonne e obelischi portati a C. dalle diverse regioni dell'impero; Guberti Bassett, 1991) e conclusa verso N-E dai carceres e all'estremità opposta dalla grande curva della sphendoné.Il terzo grande polo del centro monumentale della C. protobizantina e bizantina era costituito dalla chiesa della Santa Sofia. L'avvio dei lavori di edificazione di questo grande tempio cristiano, collocato proprio nel cuore dell'acropoli della città antica, si deve probabilmente già a Costantino, anche se la prima chiesa - che le fonti consentono di ricostruire ipoteticamente come impianto basilicale a tre o cinque navate, coperto a tetto e forse dotato di gallerie - venne consacrata solo nel febbraio del 360, sotto il regno di Costanzo. Le fonti e gli scarsi dati archeologici non consentono di stabilire quanta parte della chiesa originaria andò distrutta nell'incendio del 404 nel corso dei disordini legati alla deposizione di Giovanni Crisostomo dalla carica patriarcale; non è quindi possibile determinare se il successivo intervento di Teodosio II, culminato con la riconsacrazione del 415, sia consistito in un semplice restauro o in una radicale ricostruzione. All'epoca teodosiana debbono essere certamente assegnati i resti del monumentale portico colonnato venuto alla luce nel corso degli scavi condotti nell'area antistante l'esonartece della chiesa attuale (Schneider, 1941b), mentre probabilmente ancora al sec. 4° risale la costruzione dello skeuophylákion che sorge accanto all'angolo nordorientale dell'edificio (Dirimtekin, 1961; Mathews, 1971, pp. 11-18).Ai decenni centrali del sec. 5° si data inoltre una serie di importanti chiese ubicate in diversi quartieri della città e che per le loro costanti caratteristiche morfologiche sembrano costituire uno dei punti di partenza per i successivi sviluppi dell'architettura della prima età bizantina. Nell'estremo quartiere sudorientale sorge la chiesa di S. Giovanni di Studios, la cui costruzione può essere datata con certezza agli anni sessanta del secolo. Nella chiesa il tradizionale impianto basilicale a tre navate, scandite da due file di colonne architravate, con nartece e atrio quadrangolare, appare aggiornato attraverso una serie di soluzioni peculiari: l'adozione di un impianto rettangolare sensibilmente raccorciato nel suo asse longitudinale e ampliato in quello trasversale, con una navata centrale fortemente dilatata in larghezza; la presenza di un'abside semicircolare all'interno e poligonale all'esterno, che segna il debutto di una tipologia che ebbe in seguito grande fortuna nel mondo bizantino; l'impiego di una muratura a fasce alternate di pietra e mattoni che ricorda assai da vicino quella usata pochi decenni prima nella realizzazione delle contigue mura teodosiane; la creazione di un sistema di accessi assai articolato (Mathews, 1971, pp. 19-27; Mango, 1974, p. 61).Le soluzioni adottate in S. Giovanni di Studios si ritrovano pressoché identiche nella contemporanea chiesa della Theotokos Chalkoprateia - i cui resti della zona absidale sono riemersi nel corso della sistemazione urbanistica dell'area a O della Santa Sofia -, dove si registra però l'impiego di una muratura completamente laterizia che in qualche misura anticipa le soluzioni strutturali tipiche dell'architettura giustinianea (Lathoud, Pezaud, 1924; Kleiss, 1966; Mathews, 1971, pp. 28-33). Gli stessi caratteri compaiono infine nella chiesa di ignota dedicazione i cui resti sono venuti alla luce nel corso di indagini archeologiche condotte in uno dei cortili del Topkapı Sarayı (il palazzo imperiale ottomano) e che sembrerebbe poter essere datata prima della basilica di Studios (Ogan, 1940; Mathews, 1971, pp. 33-38).Ancora all'età tardoantica e protobizantina risale infatti l'allestimento delle principali infrastrutture di approvvigionamento e di servizio della città: a partire dalla seconda metà del sec. 4° si assiste a un continuo ampliarsi e moltiplicarsi delle installazioni portuali sulla costa della Propontide (Teall, 1959; Mango, 1985, pp. 37-40); le fonti forniscono inoltre i nomi, anche se non la precisa ubicazione, di numerosi magazzini, raggruppati tutti nella quinta e nona regione amministrativa e quindi immediatamente a ridosso dei porti principali (Janin, 1964, pp. 181-182). Ancora alla seconda metà del sec. 4° risale l'impianto di un nuovo sistema di adduzione e di conservazione dell'acqua: il vecchio e insufficiente acquedotto della Bisanzio romana venne sostituito da quello fatto costruire da Valente nel 373 - collegato con una rete di canalizzazioni che raggiungevano la foresta di Belgrado e forse addirittura i massicci montuosi al confine con l'attuale Bulgaria - e in epoche diverse vennero allestite tre enormi cisterne scoperte (c.d. di Ezio, di Aspar e di S. Mocio), che da sole garantivano una riserva idrica pari a oltre un milione di metri cubi e un numero imprecisato di cisterne coperte di dimensioni più o meno grandi (Forchheimer, Strzygowski, 1893; Ataçeri, 1965; Müller-Wiener, 1977, pp. 271-285). Fra la metà del sec. 5° e la metà del successivo, prima della grande peste del 542 che dimezzò la popolazione, si colloca infine probabilmente il momento di massimo sviluppo demografico della città, che raggiunse in questo periodo il numero di trecentomila abitanti (Jacoby, 1961).
I grandi imperatori evergeti del sec. 6°, in primo luogo certamente Giustiniano, ma anche Anastasio I (491-518) e Giustino I (518-527), la cui committenza appare spesso sottaciuta dalle fonti antiche in favore di quella giustinianea (Mango, 1985, p. 52), ereditarono dai loro predecessori una capitale già definita nelle sue linee urbanistiche essenziali, che non vennero di fatto più alterate se non in direzione di un sensibile potenziamento delle strutture. Procopio (De Aed., I), nel descrivere le numerose opere legate alla committenza giustinianea a C., enumera una serie di restauri, ricostruzioni e nuove edificazioni di importanti complessi civili, a partire dalla ricostruzione del vestibolo del Grande Palazzo, delle terme di Zeuxippos e di una delle sedi del Senato, distrutti dall'incendio del 532, per giungere alla realizzazione di enormi cisterne, portici, ospedali e palazzi urbani e suburbani; ma questi interventi, peraltro anche simbolicamente in linea con la politica di restauratio imperii perseguita da Giustiniano, appaiono certamente minoritari rispetto al grande impulso che gli imperatori della prima metà del sec. 6° diedero all'edilizia religiosa, sia monumentale sia semplicemente di servizio (v. Architettura). Il catalogo di Procopio - la cui attendibilità a proposito del singolo monumento può talvolta essere posta in discussione, ma che conserva comunque il suo assoluto valore quale espressione della tendenza di un'epoca - assegna alla committenza giustinianea ben trentatré chiese, vale a dire pressoché il doppio di quelle esistenti fino a quel momento nella città, stando almeno alla citata Notitia urbis.Agli inizi dell'epoca giustinianea, anche se non direttamente riferibile alla committenza imperiale, si colloca la costruzione della chiesa dedicata a s. Polieucto, ubicata nei quartieri centrali della città, lungo la diramazione settentrionale della Mese; la chiesa, edificata tra il 524 e il 527 su commissione della ricca aristocratica Anicia Giuliana (v.), andò totalmente distrutta probabilmente alla fine del sec. 12°, a eccezione dell'alta piattaforma di sostruzione e dei livelli di fondazione che sono stati indagati archeologicamente nel corso degli anni Sessanta (Harrison, 1986; Hayes, 1992). Gli scavi hanno consentito di ricostruire un impianto di base pressoché quadrato (lato m. 52), con un andamento delle fondazioni che sembrerebbe indicare una tradizionale disposizione basilicale a pianta raccorciata su tre navate: la potenza dei muri di fondazione lascia però ipotizzare l'esistenza di una copertura pesante e articolata, probabilmente con una cupola in muratura (Harrison, 1989).Molti degli stessi caratteri decorativi di S. Polieucto si ritrovano nella contemporanea chiesa dedicata ai ss. Sergio e Bacco, posta nel quartiere di Hormisdas, tra la curva dell'ippodromo e la riva della Propontide (Mathews, 1971, pp. 42-51; 1976, pp. 242-259). La chiesa - che originariamente faceva parte di un complesso costituito anche dalla contigua e perduta chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, con la quale condivideva il muro meridionale - era collegata con la residenza privata di Giustiniano e venne probabilmente costruita immediatamente dopo la sua salita al trono (Mathews, 1971, pp. 47). I Ss. Sergio e Bacco costituiscono un'ardita e inedita interpretazione del tema dell'edificio religioso a pianta centrale, con una struttura a doppio involucro - quadrangolare con abside poligonale aggettante quello esterno, ottagonale con alternanza di colonnati rettilinei e di esedre angolari quello interno - coronata da una grande cupola a ombrello. Il tema dominante dell'intera costruzione, tanto in pianta quanto in alzato, è quello del ritmico alternarsi di elementi curvilinei e rettilinei a partire dall'involucro esterno, segnato dalla singolare soluzione delle quattro nicchie angolari che smussano l'intersezione dei muri perimetrali, per proseguire nell'involucro interno, in cui gli assi diagonali sono esaltati da ampie esedre semicircolari, e per svilupparsi poi in alzato con la contrapposizione della classica trabeazione piana dell'ordine inferiore alla serie di archi aperti da trifore nelle gallerie, concludendosi infine con l'originale alternanza di spicchi piani e concavi nella cupola.La ricostruzione di questo edificio si rese necessaria a causa delle devastazioni che esso aveva subìto nel corso della rivolta di Nika del 532 e venne condotta a termine, sotto la direzione dei due mechanikói Antemio da Tralle e Isidoro da Mileto, nell'arco di poco più di cinque anni. L'audacia del progetto causò diversi problemi già in corso d'opera (Procopio, De Aed., I, 1, 70-78) e la cupola originale, più bassa dell'attuale di m. 7 ca., crollò nel 558 per essere subito ricostruita dopo aver convenientemente rinforzato pilastri e arconi di sostegno (Mango, 1974, pp. 106-123; Mathews, 1976, pp. 162-312; Mainstone, 1987).Anche nel caso della Santa Sofia l'organismo architettonico, che peraltro nella sua assoluta unicità sfugge a qualsiasi classificazione tipologica, si ricollega al tema dell'impianto centrale a doppio involucro, accentuando in maniera evidente l'asse principale O-E senza però rinunciare alla dilatazione delle direttrici trasversali e oblique. Lo spazio rettangolare definito dal perimetro esterno appare scandito all'interno da quattro enormi pilastri, su cui poggiano gli altissimi arconi che sostengono la copertura, e articolato da un sistema di ampi colonnati e di profonde esedre semicircolari che separano il vano centrale, coperto da una cupola e da due semicupole, dai sei vani esterni risultanti. Analogamente a quanto realizzato nei Ss. Sergio e Bacco, l'effetto globale di ricercata e assoluta armonia spaziale nasce anche in questo caso da un ritmico giustapporsi di elementi diversi, con un progressivo aumento del numero delle aperture - nei colonnati rettilinei si passa dai cinque intercolumni del piano di base ai sette delle gallerie, così come nelle esedre angolari il numero delle colonne sale da due a tre - e con una particolare attenzione al valore architettonico della luce, che, prima delle diverse successive alterazioni, filtrava dai sei ordini di finestre aperte nel corpo della chiesa e dalla serie di finestroni posti alla base della gigantesca cupola. Ancora a una concezione circolare della spazialità dell'edificio rimanda l'articolato sistema degli accessi, che permetteva di passare dall'atrio nell'esonartece e da questo nel nartece e quindi nel corpo centrale attraverso una serie di aperture alternate e in parte disassate, favorendo nello spettatore una percezione non assiale del vastissimo spazio cupolato. Un ruolo di primaria importanza era infine svolto dal ricchissimo rivestimento parietale di marmi policromi e mosaici - questi ultimi oggi in massima parte perduti - di cui resta un'eco nei versi composti da Paolo Silenziario in occasione della seconda dedicazione della chiesa (Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae; Majeska, 1978).Alla fase di ricostruzione dopo gli incendi del 532 va ricollegata anche la riedificazione, avvenuta probabilmente in due tempi, della chiesa della Santa Irene, posta anch'essa nell'area dell'antica acropoli a un centinaio di metri a N della Santa Sofia. La storia costruttiva dell'edificio, che vide almeno un secondo restauro ancora in epoca giustinianea e venne quindi ulteriormente modificato in seguito al terremoto del 740, non è ancora del tutto chiarita (George, 1913; Strube, 1973; Mathews, 1976, pp. 102-122; Peschlow, 1977); ciò nonostante, nelle sue linee generali la Santa Irene si inserisce organicamente nel percorso dell'architettura giustinianea a Costantinopoli. In questo caso l'interpretazione del tema della pianta centrale cupolata appare semplificata con l'abbandono del sistema delle esedre angolari e delle semicupole in favore di un ampio invaso longitudinale - attualmente prolungato da un profondo imbotte la cui originaria articolazione strutturale è tuttora oggetto di dibattito - con i quattro corti bracci coperti da possenti volte a botte che sopportano il peso della grande volta centrale. Analogamente a quanto accade nella Santa Sofia, le arcate settentrionale e meridionale sono schermate da colonnati su cui corrono le gallerie.Probabilmente all'epoca giustinianea o comunque nell'ambito del sec. 6° possono inoltre essere datati altri due edifici di culto di minori dimensioni venuti alla luce nel corso di indagini archeologiche: S. Eufemia e la c.d. basilica A del quartiere di Beyazit. Nel primo caso si tratta di un edificio di culto ricavato all'interno delle strutture del c.d. palazzo di Antioco, eretto agli inizi del sec. 5° nelle immediate vicinanze dell'ippodromo: circa un secolo più tardi, un triclinio del complesso - a pianta esagonale con nicchie semicircolari su ciascun lato escluso quello di ingresso - venne trasformato in luogo di culto con l'inserzione di un sýnthronon in una delle nicchie e la creazione di una recinzione presbiteriale all'interno della quale trovava posto l'altare (Bittel, Schneider, 1941; Naumann, Belting, 1966; Mathews, 1971, pp. 61-67). Nel secondo caso invece si tratta di un edificio di impianto basilicale - facente parte di un gruppo di quattro unità scavate solo parzialmente (Fıratlı, 1951) - le cui soluzioni strutturali (in particolare il nartece che si prolunga oltre i limiti della facciata e il corpo dell'edificio più esteso in larghezza che in lunghezza) ne fanno un interessante unicum nel panorama dell'architettura costantinopolitana di epoca protobizantina (Mathews, 1971, pp. 67-73).Tra le chiese edificate ex novo o ricostruite in età giustinianea e oggi note solo dalle fonti, quella dedicata ai ss. Apostoli, che sorgeva sul sito dell'omonimo complesso di epoca costantiniana, è descritta da Procopio (De Aed., I, 4, 9-18) come enorme impianto a croce libera, con tutti i bracci scanditi in tre navate con gallerie e con un articolato sistema di coperture che prevedeva una grande cupola centrale e quattro cupole di minori dimensioni sui bracci della croce, secondo un modello che si ritrova esplicitamente riprodotto, ancora in epoca giustinianea, nel S. Giovanni di Efeso.Nel campo dell'edilizia civile, alla diretta committenza imperiale debbono essere ricollegati gli interventi all'interno del Grande Palazzo (Mango, 1959), la ristrutturazione e l'annessione allo stesso complesso imperiale del palazzo di Hormisdas, residenza privata di Giustiniano, nonché una serie di restauri di edifici e spazi destinati alla vita pubblica della città. Particolare rilievo in questo contesto assume la costruzione delle due grandi cisterne coperte, note con i nomi turchi di Yerebatan Sarayı e di Binbirdirek. In entrambi i casi si tratta di vasti spazi ipogei, scanditi in moduli quadrangolari da serie di colonne di reimpiego (trecentosessantasei fusti nel primo caso, quattrocentoquarantotto disposti su due livelli nel secondo) che sorreggono volte a crociera in mattoni, nella cui realizzazione si coglie un'eco non secondaria della capacità tecnica dei progettisti e delle maestranze che realizzarono i grandi monumenti pubblici dell'epoca (Mango, 1974, pp. 123-129).
La profonda crisi attraversata dall'impero bizantino nei secc. 7° e 8°, con la perdita del controllo sulle regioni periferiche, dalla Siria, all'Africa settentrionale e ai Balcani, non poté non segnare profondamente anche la storia urbana della capitale. La scarsità delle fonti documentarie e dei dati archeologici impedisce di fatto di tracciare un quadro preciso dell'involuzione subìta da C. (Mango, 1985, pp. 51-60). È comunque significativo che, fatta eccezione per il citato restauro della Santa Irene dopo il terremoto del 740, del quale rimane però incerta la reale portata, nessuno degli edifici religiosi o civili conservatisi possa essere datato, anche solo per una fase, a questo periodo.Il secondo quarto del sec. 9° marca in qualche misura una prima inversione di tendenza: la Chronographia di Teofane Continuato fornisce una lista sufficientemente dettagliata degli edifici fatti costruire o restaurare dagli imperatori Teofilo (829-842) e Basilio I (867-886). La ripresa della committenza imperiale sembra comunque interessare solo una zona piuttosto ristretta della città, limitata al Grande Palazzo e ai suoi immediati dintorni. Su ristrutturazioni e nuove decorazioni del complesso palaziale appare particolarmente incentrata l'attività di Teofilo, l'ultimo degli imperatori iconoclasti, cui si deve peraltro una serie di restauri alle mura marittime testimoniati da frequenti iscrizioni (Janin, 19642, pp. 287-300). Più ricca e articolata sembra essere l'opera di Basilio I, al quale possono essere riferiti, secondo Teofane Continuato (Chronographia, V; CSHB, XLIII, 1838, pp. 211-380), ben trentuno interventi tra restauri e nuove costruzioni, su edifici religiosi di diversa dimensione e importanza, a cominciare dall'edificazione della Nea Ekklesia dedicata alla Vergine (880), posta nella zona meridionale del palazzo imperiale, che le fonti permettono di ipotizzare con pianta a croce greca coperta da cinque cupole.Gli inizi del sec. 10°, che costituiscono il momento forse più alto del rinnovamento complessivo del mondo bizantino legato alla dinastia macedone, sono segnati a C. dall'edificazione di due chiese, entrambe legate in diversa misura alla cerchia imperiale: la chiesa settentrionale del monastero di Costantino Lips (od. Fenari Isa Cami), dedicata nel 907, e quella del Myrelaion (od. Bodrum Cami), fatta costruire dall'imperatore Romano I Lecapeno (919-944).Il complesso voluto da Costantino Lips, alto ufficiale al servizio di Leone VI (886-912), segna il definitivo consolidarsi della pratica della costruzione di monasteri urbani legati alla committenza di personaggi di altissimo rango, un fenomeno che, già attestato in epoca protobizantina, caratterizzò in misura particolarmente significativa l'assetto urbano di C. in età medio e tardobizantina (Lemerle, 1967). La chiesa settentrionale, il cui impianto venne parzialmente alterato alla fine del sec. 13° dall'addossamento di un secondo edificio di culto, è una costruzione di piccole dimensioni (il vano centrale non raggiunge i m. 10 di lato), con pianta a croce greca inscritta e tre absidi orientate, poligonali all'esterno, di cui quella centrale traforata da tre ampie finestre; il naós, delimitato a N e S da pareti alleggerite da trifore e finestroni, è preceduto da un nartece con volte a crociera, dotato di una galleria accessibile per mezzo di un corpo-scala addossato al lato meridionale del nartece. All'esterno, in netto contrasto con i grandi e spogli volumi delle chiese di età giustinianea, fa la sua comparsa quella organizzazione delle superfici, movimentate da finestre, nicchie e cornici, che, insieme ai motivi decorativi in laterizio qui solo accennati nei due falsi oculi delle absidi laterali, caratterizzò l'architettura costantinopolitana dei secoli successivi. Elementi peculiari di questo edificio sono invece la terminazione orientale, con la moltiplicazione degli spazi destinati al culto dovuta alle due cappelle che si affiancano ai pastophória, e la presenza di quattro altre piccole cappelle, poste al piano superiore ai quattro angoli dell'edificio e accessibili attraverso un sistema di camminamenti esterni a loro volta raggiungibili attraverso il corpo-scala e la galleria del nartece (Megaw, 1963; 1964; Mango, Hawkins, 1964; Mathews, 1976, pp. 322-345).La chiesa del Myrelaion, che sorge al centro del moderno quartiere di Aksaray, nell'area compresa tra il segmento centrale della Mese e il mar di Marmara, venne fondata intorno al 920 come chiesa di palazzo annessa alla residenza privata dell'imperatore Romano I Lecapeno, sfruttando in parte, al pari del palazzo cui era collegata, i resti di un grande edificio in opera quadrata di pianta circolare, databile con buona probabilità al sec. 5°, ma la cui identificazione rimane ancora assai problematica (Müller-Wiener, 1977, pp. 103-106; Striker, 1981). Al fine di raggiungere la quota del terrazzamento artificiale ricavato sulla costruzione preesistente, la chiesa venne dotata di un'alta sostruzione che, pur non avendo mai avuto alcuna destinazione liturgica, ripete esattamente l'impianto dell'edificio sovrastante. Quest'ultimo, realizzato al pari della sostruzione interamente in laterizio, sviluppa su scala assai ridotta l'impianto a croce greca inscritta su quattro sostegni - le colonne originali sono state sostituite in epoca turca da pilastri - con il vano centrale coperto da una cupola con alto tamburo ottagono traforato da finestre. Nonostante le dimensioni assai ridotte dell'invaso, la perfetta scansione degli spazi interni - in particolare nei pastophória, che riprendono la suggestiva articolazione parietale già sperimentata nella chiesa di Costantino Lips - conferisce allo spazio dell'insieme nartece-naós-prebiterio un notevole slancio verticale, esaltato all'esterno dalla rigorosa organizzazione parietale scandita da un inedito sistema di paraste semicircolari e di cornici rettilinee aggettanti che denunciano l'articolazione dei volumi interni.
I cento anni di regno dei tre grandi esponenti della dinastia comnena, Alessio I (1081-1118), Giovanni II (1118-1143), Manuele I (1143-1180), coincisero con un periodo di notevoli trasformazioni del tessuto urbano di C., rese evidenti in particolare da due fenomeni tra loro strettamente collegati: il progressivo abbandono del Grande Palazzo in favore della nuova residenza imperiale fatta costruire nel quartiere delle Blacherne e il contemporaneo sviluppo dell'insediamento nei quartieri settentrionali della città prospicienti il Corno d'Oro a scapito di quelli meridionali affacciati sul mar di Marmara.La data di avvio della costruzione del palazzo imperiale alle Blacherne non è precisamente definibile (Papadopulos, 1928; Schneider, 1951; Dirimtekin, 1959). L'Alessiade (X, 11) di Anna Comnena testimonia comunque che Alessio I Comneno, subito dopo la conquista del potere, fece erigere in quel quartiere un nuovo palazzo, dove ricevette i comandanti latini della prima crociata; altre fonti consentono inoltre di stabilire che il palazzo sorgeva nelle immediate vicinanze se non addirittura a ridosso delle mura terrestri. Il nipote di Alessio I, Manuele - cui si deve tra l'altro la ricostruzione di nove torri e di un tratto di cortina in quel settore delle mura -, fece restaurare e ampliare il palazzo e commissionò inoltre la costruzione di un secondo edificio, posto a una certa distanza dal primo, lungo il pendio che si affaccia sul Corno d'Oro. Di entrambi gli edifici non rimangono oggi tracce archeologiche certe, anche se la complessità della stratificazione muraria in alcuni settori della cinta nella zona delle Blacherne lascerebbe aperta la possibilità di condurre indagini archeologiche più approfondite (Paribeni, 1991).Questo spostamento della sede imperiale all'estremità nordoccidentale della città non fu certamente estraneo alla grande rivitalizzazione che vissero in quest'epoca i quartieri settentrionali di C. e che è dimostrata dall'ubicazione delle chiese direttamente riferibili alla committenza comnena o comunque databili nell'ambito del sec. 12°: a fronte del caso della chiesa di Cristo Philanthropos, ubicata nel quartiere delle Mangane (Demangel, Mamboury, 1939), che costituisce l'unica attestazione di intervento nei quartieri occidentali e meridionali, tutte le altre chiese di quest'epoca appaiono infatti concentrate sulle alture che dominano il Corno d'Oro.Non lontano dal sito del complesso dei Ss. Apostoli sorge la chiesa di Cristo Pantepoptes (od. Eski Imaret Cami), originariamente annessa a un monastero femminile fatto erigere da Anna Dalassena, madre di Alessio I, poco prima del 1087 (Mathews, 1976, pp. 59-70). La chiesa, oggi in parte restaurata dopo un lungo abbandono, sorge sulla sommità di una collina che domina gran parte della città e presenta il consueto schema a croce greca inscritta, con nartece ed esonartece, caratterizzato però da una serie di interessanti soluzioni strutturali. All'interno spicca la presenza di una singolare galleria a U che sovrasta il nartece e i due angoli occidentali del quinconce e che si apre attraverso un'ampia trifora verso il corpo centrale cruciforme; all'esterno si fa invece notare un articolato sistema di coperture, con la cupola centrale parzialmente inglobata da un tamburo dodecagonale traforato da finestre, una bassa cupola sulla campata centrale dell'esonartece e i tetti a profilo semicircolare sui bracci della croce. Notevole, benché parzialmente alterata dai successivi restauri, è poi la qualità della muratura, ove compare in una versione assai raffinata la tecnica del c.d. mattone arretrato - realizzata disponendo alternatamente i filari di mattoni su due piani sfalsati e mascherando in seguito i filari più arretrati con lisciature di malta - che caratterizza specificamente l'architettura dell'epoca (Vokotopulos, 1979) e che in questo caso si lega a una ricchissima articolazione parietale, in cui un sistema di paraste e di archi a doppia e tripla ghiera scandisce le superfici, ospitando fino a tre ordini sovrapposti di finestre.A poca distanza, su una larga spianata artificiale ottenuta riutilizzando i resti di una grande cisterna di epoca protobizantina, sorgono le tre chiese giustapposte del complesso dedicato a Cristo Pantokrator (od. Zeyrek Kilise Cami), il monastero dei Comneni destinato a divenire luogo di sepoltura dei maggiori esponenti della dinastia (Megaw, 1963; Mathews, 1976, pp. 71-101). La prima chiesa, quella meridionale, dedicata a Cristo e commissionata dall'imperatrice Irene (1118-1124), presentava in origine una struttura piuttosto articolata, con due gallerie laterali (di cui si conserva solo la meridionale) che fiancheggiavano l'ampio invaso centrale, coperto da una cupola su tamburo a sedici lati che, con i suoi m. 7 di diametro, costituisce un'eccezione nel panorama architettonico dell'epoca; naós e gallerie laterali erano inoltre preceduti da un vasto nartece a cinque campate con galleria. Nel corso del decennio successivo e comunque prima del 1136, data dell'atto di fondazione del monastero, l'imperatore Giovanni II fece aggiungere al nucleo originario prima la chiesa settentrionale, dedicata alla Vergine Eleúsa, che riprende il tradizionale impianto a quattro colonne oggi sostituite da pilastri in pietra di epoca ottomana, poi l'edificio centrale, dedicato a s. Michele: un corpo rettangolare a due campate coperte da due cupole, ricavato dallo spazio rimasto tra le due costruzioni principali. A dispetto delle diverse soluzioni strutturali adottate nella realizzazione di ciascun corpo di fabbrica, nella sua configurazione definitiva il complesso appare come un insieme armonico, la cui notevole mole è movimentata all'esterno, e particolarmente nella zona absidale, da un sapiente gioco di nicchie, sfaccettature e finestrature che rappresentano, insieme con la tecnica muraria a mattone arretrato, il carattere saliente dell'architettura costantinopolitana di età comnena. La chiesa meridionale e parte del mausoleo conservano inoltre all'interno uno splendido pavimento in opus sectile, con medaglioni, motivi a intreccio e racemi abitati, che, insieme con i resti di crustae marmoree e di vetri istoriati da finestra, costituisce una concreta testimonianza della magnificenza degli edifici direttamente collegati con la corte imperiale.Non riconducibili a diretta committenza imperiale, ma certamente edificati, almeno nella loro fase originaria, in età comnena, sono poi vari edifici religiosi che continuano a rifarsi al modello planimetrico della croce greca inscritta, proponendone però di volta in volta soluzioni in qualche misura originali. È il caso, per es., della Vefa Kilise Cami (Mathews, 1976, pp. 386-401) e della Gül Cami, di cui è ancora ignota la dedicazione originaria. Quest'ultima, di dimensioni eccezionali per l'epoca mediobizantina, particolarmente nel suo sviluppo in altezza, sorge sulle pendici delle colline a ridosso del Corno d'Oro e per essa l'analisi della tecnica muraria sembrerebbe suggerire una datazione agli inizi del sec. 12°, anche se gli evidenti interventi di restauro, in particolare nella zona absidale, lasciano spazio a ipotesi diverse (Schäfer, 1973).A una spazialità relativamente dilatata simile a quella della Gül Cami rinvia anche la Kalenderhane Cami, di ignota dedicazione, posta a ridosso dei resti dell'acquedotto di Valente, che continua a rappresentare uno dei casi più controversi dell'architettura mediobizantina di Costantinopoli. Le ricerche archeologiche condotte in occasione dei restauri (Striker, Kuban, 1967-1971) sembrano aver definitivamente chiarito la cronologia dell'edificio, che nel suo nucleo essenziale risalirebbe almeno alla fine del sec. 12°, anche se non si possono escludere fasi precedenti non più leggibili.Al tardo sec. 12° sembra potersi datare anche l'impianto della chiesa di S. Maria Pammakaristos (od. Fethiye Cami), che rivela nella ricca articolazione parietale dei muri del nartece caratteri costruttivi ascrivibili alla tarda età comnena e che, al pari della Kalenderhane Cami, presenta una particolare accezione del tema dell'impianto a croce greca inscritta, con gli spazi tra i sostegni scanditi da coppie di colonne a formare, lungo i lati settentrionale, occidentale e meridionale, una sorta di deambulatorio che fascia il vano centrale cupolato (Mango, Hawkins, 1964b; Mathews, 1976, pp. 346-365).Più incerta, nonostante le ricerche archeologiche condotte a partire dal 1948 (Oates, 1960), è infine la portata della fase comnena della chiesa del S. Salvatore di Chora (od. Kariye Cami), riconducibile all'epoca di Isacco Comneno, tra il secondo e il terzo decennio del 12° secolo. A questo intervento risalirebbe infatti la sostituzione di un preesistente piccolo impianto a quinconce, di cui sono stati rinvenuti resti delle fondazioni, con l'attuale nucleo dell'edificio, costituito dalla grande abside e dal corpo cupolato, cui in seguito si addossarono le importanti aggiunte di età paleologa che ne caratterizzano il profilo esterno e l'articolazione degli spazi interni (Ousterhout, 1987, pp. 11-36).
La fase di rinnovamento dell'impianto urbano di C. in età comnena si arrestò a partire dall'ultimo decennio del sec. 12°, in coincidenza con l'aprirsi di un periodo di aspre lotte dinastiche che indebolirono fortemente l'autorità imperiale e che ebbero termine solo con la conquista della città da parte dei crociati nel 1204.La fase della dominazione latina fu caratterizzata da una progressiva sottrazione di materiali, con un processo che assunse di volta in volta l'aspetto del vero e proprio saccheggio, segnato dal trasporto in Occidente anche di opere d'arte di notevoli dimensioni, gran parte delle quali ebbe come destinazione ultima o almeno di transito la città di Venezia.Se sul piano monumentale il sessantennio della dominazione latina non lasciò tracce, se non di asportazione, sul piano demografico e urbanistico, invece, la prima metà del sec. 13° vide giungere a definitivo compimento il processo di insediamento a C. di gruppi di popolazione diversi, la cui crescente consistenza numerica finì per caratterizzare in misura sensibile anche l'articolazione spaziale della città. Le colonie mercantili italiane occupavano una porzione significativa della zona settentrionale di C., affacciandosi sul Corno d'Oro in corrispondenza delle porte dette del Neorion, del Drongario e di Perama, direttamente collegate con gli impianti portuali antistanti. Meno chiara risulta la disposizione delle colonie provenzale e tedesca, mentre l'insediamento commerciale russo nei sobborghi lungo il Bosforo sembra inaugurare già alla metà del sec. 10° una nuova direttrice di espansione urbana della capitale bizantina al di là dell'antica cinta muraria.Dei numerosi edifici di culto documentati dalle fonti come annessi alle colonie latine o appartenenti ai diversi ordini religiosi che stabilirono proprie sedi a C. all'epoca della dominazione latina - Francescani, Domenicani, Templari, Ospedalieri di s. Giovanni di Gerusalemme - non rimane alcuna traccia archeologica (Janin, 1953, pp. 582-601; Dufrenne, 1972), al di là del ciclo di affreschi di ispirazione francescana, databile intorno alla metà del sec. 13°, rinvenuto nella cappella meridionale della Kalenderhane Cami (Striker, Kuban, 1967-1971), che testimonia un interessante caso di destinazione al culto cattolico occidentale di una parte almeno di un edificio religioso preesistente.
La rapida e inattesa riconquista della capitale da parte delle truppe bizantine nel 1261 e l'ascesa al trono di Michele VIII, primo esponente della dinastia dei Paleologhi, che avrebbe regnato fino alla caduta di C. nelle mani dei Turchi, diedero il via a una nuova fase dell'evoluzione urbana della città, contrassegnata da un'intensa attività costruttiva. Benché allo stato attuale degli studi appaia ancora prematuro trarre conclusioni circa l'assetto urbanistico della C. tardobizantina, i pochi documenti e le sparse notizie delle fonti restituiscono un'immagine di una città in fase di rapida trasformazione (Frances, 1969). La progressiva occupazione dei grandi spazi aperti dei monumenti antichi, secondo un processo di rovesciamento tra spazi liberi e spazi edificati ben noto nelle città del Mediterraneo occidentale in epoca pieno e tardomedievale, appare documentata per es. da una chrysóbulla dello stesso Michele VIII, che si riferisce a case poste tanto all'esterno quanto all'interno dell'antico Augusteion, la cui fisionomia monumentale non era evidentemente più riconoscibile e che aveva assunto il valore di semplice toponimo (Janin, 19642, p. 60). Al tempo stesso l'ubicazione di tutti gli edifici religiosi e profani legati alla committenza paleologa nella larga fascia di orti e giardini che si disponeva subito all'interno delle mura terrestri testimonia chiaramente il definitivo compimento di quel processo, avviato già in epoca comnena, di spostamento verso la periferia occidentale della città dei centri direzionali e degli insediamenti privilegiati.Subito a ridosso delle mura, a non grande distanza dal palazzo delle Blacherne, il figlio di Michele VIII, Costantino, detto il Porfirogenito come il suo omonimo della prima metà del sec. 10°, fece edificare un nuovo palazzo, oggi noto con il nome turco di Tekfur Sarayı, destinato con ogni probabilità a divenire la sede degli esponenti della nuova dinastia (Dirimtekin, 1952; Mango, 1965, pp. 335-336; Eyice, 19802; Ousterhout, 1991, pp. 78-79). Si tratta di un edificio di pianta rettangolare, articolato su tre piani, che costituiva la parte nobile di un complesso di maggiori dimensioni disposto intorno a un vasto cortile ricavato riutilizzando un tratto delle mura terrestri, con i cui camminamenti era posto in diretta comunicazione. Perdute completamente le strutture interne, il palazzo conserva ancora l'armonica facciata, la cui superficie, traforata dall'ampio porticato del piano terreno e dai due ordini di finestre dei piani superiori, è ulteriormente movimentata da un gioco di archi addossati e di inserti decorativi a motivi geometrici in laterizio e ceramica invetriata, i quali, insieme con la caratteristica muratura a fasce alternate di piccoli conci di calcare e laterizi, in larga misura di reimpiego, costituiscono i caratteri salienti del vocabolario architettonico dell'edilizia costantinopolitana di età paleologa.Nel campo dell'architettura religiosa collegata direttamente o indirettamente agli ambienti di corte, la fase tardobizantina si caratterizzò per due fenomeni complementari: da un lato un'evidente e consapevole attenzione per il restauro e l'ampliamento di edifici preesistenti, quasi a sottolineare l'ideale continuità che legava la dinastia regnante con quelle macedone e comnena; dall'altro il proliferare di chiese di piccole dimensioni e di struttura semplificata.Il primo fenomeno è ben rappresentato dai tre casi della chiesa meridionale del monastero di Costantino Lips, della chiesa di S. Maria Pammakaristos e di quella del S. Salvatore di Chora, tutti condotti a termine entro il primo ventennio del 14° secolo. La chiesa meridionale del monastero di Costantino Lips venne commissionata dalla moglie di Michele VIII, Teodora, e fu probabilmente condotta a termine entro il 1282, anno della redazione dell'atto di fondazione del nuovo monastero. L'addizione del nuovo corpo di fabbrica - che tipologicamente si rifà agli impianti a deambulatorio di età comnena - venne realizzata inglobando e riutilizzando come protesi la cappella meridionale della chiesa precedente, creando così una terminazione orientale unitaria e articolata che, nel ritmato succedersi delle absidi e delle nicchie, richiama da vicino, seppure su diversa scala dimensionale, l'effetto ottenuto quasi due secoli prima nella realizzazione del complesso del Pantokrator. Il possibile legame anche ideologico del rinnovato complesso con il mausoleo dinastico dei Comneni sembrerebbe inoltre rafforzato dalla presenza nel nartece e nel deambulatorio della nuova chiesa di numerosi arcosoli, nonché dall'ulteriore addizione, intorno al 1300, di un parekklésion a destinazione funeraria.La chiesa del S. Salvatore di Chora rappresenta forse un caso ancora più emblematico di restauro e ampliamento di un impianto monastico preesistente a opera di un personaggio strettamente legato con la corte paleologa, il logoteta Teodoro Metochite, figura di alto rango, considerata dai suoi contemporanei tra le più potenti e influenti nella C. degli inizi del 14° secolo. Nominato ktétor del monastero di Chora dallo stesso imperatore Andronico II, Teodoro, che risiedeva in uno sfarzoso palazzo posto nella medesima regione, finanziò i restauri del complesso a partire probabilmente dal 1315. I lavori erano pressoché terminati nel 1321 e comportarono una radicale trasformazione di quello che rimaneva dell'impianto del sec. 12°, di cui furono conservati solo il vano centrale cupolato e la zona absidale, modificandone però sensibilmente il sistema degli accessi dal nartece e chiudendo la porta del diaconico, che venne così trasformato in una cappella separata, accessibile solo dal parekklésion meridionale. Al corpo originale vennero quindi annessi un nartece a due cupole, che riprendeva forse le forme di una struttura preesistente, e un corpo di fabbrica addossato al lato settentrionale della chiesa e articolato su due piani raccordati da un corpo-scala; l'impianto fu completato dalla costruzione del parekklésion, addossato al fianco meridionale del naós e dotato di arcosoli destinati a ospitare le sepolture dei membri della famiglia del committente, e di un esonartece, dotato di campanile nell'angolo sudoccidentale. Anche in questo caso ritornano gli elementi tipici delle strutture murarie di età paleologa, con una particolare accentuazione degli inserti decorativi in laterizi, tra cui spiccano alcuni monogrammi di Teodoro Metochite (Ousterhout, 1987).Allo stesso ambito cronologico e a una committenza altrettanto alta deve essere ricondotta l'edificazione del parekklésion meridionale annesso alla chiesa di S. Maria Pammakaristos (Hallensleben, 1963-1964; Mango, Hawkins, 1964b; Mathews, 1976, pp. 346-365). Il nuovo corpo di fabbrica - dedicato, come recita una lunga iscrizione sulla facciata meridionale, alla memoria di Michele Ducas Glabas Tarchaniotes dalla vedova Marta - assume l'aspetto di una vera e propria piccola chiesa del tipo a quattro colonne con nartece a due piani, attraverso cui si accede a una piccola tribuna che si affaccia sul vano centrale dell'edificio, permettendo all'osservatore di cogliere l'armonia di volumi che articola, moltiplicandolo, il ridotto spazio interno dell'edificio. La stessa raffinatezza compositiva presiede anche alla realizzazione delle superfici esterne, in particolare nella facciata meridionale, dove l'impianto quadrangolare su tre livelli, scandito dalle simmetriche trifore sovrapposte che danno luce al nartece e al naós, non rivela quasi l'articolazione del corpo retrostante, avvicinando l'aspetto esterno dell'edificio religioso a quello di un palazzo signorile. Questa caratteristica, che appare essere una sigla architettonica frequente in età paleologa, si ritrova esplicitata nell'esonartece aggiunto in un'epoca ancora imprecisata, ma probabilmente di poco più tarda, all'originario corpo di età comnena della Vefa Kilise Cami, il cui schema su due livelli con finto porticato al piano terreno e una serie di bifore all'interno di nicchie semicircolari al primo piano ricorda il partito compositivo del Tekfur Sarayı.Gli stessi caratteri tecnici e il medesimo vocabolario architettonico applicato a una differente sintassi compositiva si colgono nel secondo gruppo di edifici - noti oggi solo con la denominazione turca: Boğdan Sarayı, Isa Kapısı Mescidi (Otüken, 1974), Manastir Mescidi, Sinan Paşa Mescidi (Eyice, 19802, pp. 26-34) - che caratterizza la fase paleologa dell'architettura costantinopolitana. Si tratta di costruzioni di modeste dimensioni, a navata unica a eccezione del Manastir Mescidi, in cui si ritrovano l'impiego della muratura a corsi alternati di pietra e mattoni e la ricca articolazione delle superfici attraverso l'uso di nicchie e cornici. La destinazione di alcuni di questi edifici a cappelle di palazzo e a uso funerario appare la più probabile ed è testimoniata con certezza almeno nel caso del Boğdan Sarayı, i cui resti sono ancora visibili nel quartiere di Chora, non lontano dalla chiesa del S. Salvatore. Si tratta di un piccolo edificio mononave a due piani, dove, nel livello inferiore, seminterrato e privo di finestre, nel corso di uno scavo archeologico condotto durante la prima guerra mondiale e di cui è andata perduta ogni documentazione, sarebbero stati rinvenuti tre sarcofagi.Alla fase immediatamente successiva al rientro in città dei Paleologhi va ascritta anche la riorganizzazione urbana dei sobborghi di Pera e Galata, posti sulla riva settentrionale del Corno d'Oro e destinati a divenire la sede della colonia mercantile genovese che, nel complesso panorama politico-economico venutosi a creare dopo la caduta del regno latino, si avviava a ricoprire il ruolo di interlocutore commerciale privilegiato della nuova dinastia imperiale (Sauvaget, 1934). Con i due trattati del 1267 e del 1303 i Paleologhi riconobbero in effetti ai Genovesi il diritto di occupare una vasta area in quella regione, di edificarvi le loro case e i loro magazzini, di crearvi una zona franca commerciale soggetta a leggi e autorità autonome e infine, a partire dal 1335, di erigere una vera e propria cinta di mura. L'insediamento genovese si disponeva su una superficie di ha 12 ca., con una forma allungata e grosso modo rettangolare che seguiva il profilo di quel tratto di costa, ed era delimitato da una cerchia difensiva di cui restano poche vestigia (Gottwald, 1907). Nel 1348 una nuova concessione permise ai Genovesi di espandere verso N l'insediamento, costruendo altri due tratti di mura facenti perno su un grande torrione cilindrico, la c.d. torre del Cristo, il cui profilo, risultante di diversi interventi successivi, domina tuttora il panorama della sponda settentrionale del Corno d'Oro (Müller-Wiener, 1977, pp. 320-323). All'interno del perimetro del nuovo nucleo urbano, accanto a case, botteghe e magazzini, le fonti testimoniano dell'esistenza di diverse chiese, oggi pressoché totalmente perdute - di quelle dei Domenicani (S. Paolo, od. Arap Cami) e dei Benedettini, conservatesi quasi intatte fino alla fine del sec. 19°, rimangono comunque parti significative (Müller-Wiener, 1977, pp. 79-80; 100-101) -, nonché di un palazzo comunale il cui aspetto è noto attraverso alcuni disegni della fine del secolo scorso (Müller-Wiener, 1977, p. 243).La costruzione e fortificazione di Pera e Galata segnarono di fatto l'esaurirsi dell'attività edilizia di vasto respiro a Costantinopoli. A partire dalla metà del sec. 14° e fino alla caduta della città nelle mani dei Turchi, né le emergenze archeologiche né le fonti documentarie permettono di individuare mutamenti significativi sul piano urbanistico o di assegnare a quest'epoca alcun edificio conservatosi, eccezion fatta per diversi interventi di restauro condotti sulle mura terrestri, in corrispondenza della porta d'Oro e nel settore delle Blacherne, dove le iscrizioni rinvenute assegnano i lavori alla committenza di Giovanni VIII Paleologo (1425-1448).
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La scultura costantinopolitana si fece depositaria e interprete dell'eredità delle tradizioni classiche, sia nella produzione in funzione architettonica e decorativa sia nel rilievo figurato (Kollwitz, 1941). Questi legami sono d'altronde palesemente enunciati dai magniloquenti monumenti celebrativi che gli imperatori dei secc. 4°-5° vollero esemplati su modelli antichi anche per significare la perenne continuità dell'Imperium romano. Negli aulici monumenti teodosiani - quali i rilievi scolpiti sulla base dell'obelisco eretto sulla spina dell'ippodromo nel 390 (Kiilerich, 1993) e nei fregi delle colonne coclidi istoriate di Teodosio I (393) e di Arcadio (402-403) - se pure sedimentarono ancora tematiche e schemi iconografici ereditati dall'arte celebrativa romana e tardoromana, si coglie tuttavia una nuova sensibilità formale e soprattutto l'affermarsi dello spirito cristiano che compenetrò di trascendenza il contenuto degli eventi narrati nei fregi (Becatti, 1960). Gli artisti della neocapitale non recuperarono pedissequamente i modelli antichi, ma, sollecitati da nuove esigenze estetiche e semantiche, li reinterpretarono elaborando uno stile che, se pure modulato sui valori formali classici, rivela il lento dissolversi di ogni senso di realistica mimesi. Emblematica al riguardo, ancor più dei citati rilievi, di cui è peraltro pervenuta una documentazione assai frammentaria (restano solo esigui lacerti e una serie di riproduzioni grafiche di entrambi i fregi delle colonne), è la testimonianza offerta dall'enigmatico presunto ritratto di Arcadio (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 5), una scultura nella quale l'artista attenuò i guizzi dell'illusionismo impressionistico, capace di fissare nel marmo ogni mobilità della fisionomia e ogni cangiante fluttuazione della vita psichica. Il senso del naturalismo inteso come rapida registrazione percettiva di una dimensione fisica svanisce in questa forma perfetta, plasmata con piani fluidi e levigati, impercettibilmente carezzati da sfumature epidermiche. Il ritratto diviene in questo caso una formula simbolica, sovraindividuale, nella quale il naturalismo e l'umana fisicità vengono trascesi per evocare piuttosto il concetto stesso di basiléus. Tale tipo di ritratto concede quindi all'individuazione del personaggio solo una vaga caratterizzazione che, riferita in senso lato a Teodosio I, ad Arcadio e anche a Teodosio II, spiega le discordanti identificazioni proposte dagli studiosi. Con questa straordinaria scultura si dischiuse dunque una nuova dimensione stilistica, modulata su una sottile tensione dialettica tra realtà e astrazione, una tendenza che permase del resto sempre latente nella concezione formale bizantina. Anche altre opere figurate contemporanee o di poco posteriori manifestano i medesimi intendimenti formali, volti a smaterializzare il senso della fisicità con volumi morbidissimi e sfumati, nei quali della forma classica non resta in effetti che un larvato riflesso, come nel rilievo da Bakirköy (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 89).Nella stessa direzione si mossero parallelamente le esperienze della scultura decorativa, che si distaccarono gradualmente dai canoni formali del repertorio classico, attraverso un percorso evolutivo scandito nel tempo da una serie di complessi monumentali datati. Dai decori plastici del protiro teodosiano della Santa Sofia (415), a quelli della basilica di S. Giovanni di Studios (453), sino alle esotiche invenzioni del S. Polieucto e dei Ss. Sergio e Bacco (524-527) - le cui forme innovative trovarono una perfetta sintesi nel superbo arredo scultoreo della Santa Sofia giustinianea -, è infatti possibile ripercorrere tale metamorfosi sia nell'alterarsi dei valori organici e proporzionali sia soprattutto nell'attenuarsi degli effetti tridimensionali - è significativa al riguardo la mutazione del fregio a girali di acanto -, con esiti che travalicarono il classico concetto di decorazione concepita per sottolineare il plastico vigore delle membrature architettoniche. Sono appunto le immateriali stesure decorative della Santa Sofia che si espandono senza apparente soluzione di continuità a guisa di rabesco sui capitelli, sulle cornici e sulle pareti, a siglare il punto di arrivo delle esperienze accumulate nel recente passato (Strube, 1984). Tali esperienze erano state del resto perfettamente registrate dalla varietà delle nuove forme di capitelli create dagli artisti costantinopolitani nel corso dei secc. 5° e 6°, che ne rigenerarono altresì l'ornamentazione con esotici motivi ispirati al repertorio sasanide, di cui è soprattutto il decoro plastico del S. Polieucto a offrire la testimonianza più significativa.L'eleganza e la raffinatezza tecnico-formale che caratterizzano la produzione scultorea dei secc. 5° e 6° sono apprezzabili anche nei sarcofagi e negli arredi liturgici, come gli amboni, i plutei, le transenne e gli altri elementi delle recinzioni presbiteriali impreziositi anche da intarsi marmorei policromi. Per gli amboni e i plutei furono privilegiate soprattutto nitide composizioni decorative a disegni geometrici con elementi vegetali e animali, ovvero serti di alloro e dischi cruciferi che si stagliano sul liscio piano di fondo, come appunto è testimoniato dalla splendida serie ancora in opera nella Santa Sofia (Barsanti, Guiglia Guidobaldi, 1992). Le medesime composizioni decorative si ritrovano sui sarcofagi, per lo più del tipo a cassapanca, lavorati sia nel marmo proconnesio, sia nella breccia verde di Tessaglia o in quella rossastra di Hereke, sia nell'alabastro, come nel caso del monumentale esemplare, oggi all'Arkeoloji Müz., attribuito all'imperatore Eraclio (610-641). Predominano clipei lemniscati, dischi cruciferi e semplici croci, ma non mancano richiami ad antiche tipologie microasiatiche con partiture architettoniche includenti temi figurati e simbolici, con cantari, elementi vegetali e animali (Farioli Campanati, 1983), come testimonia appunto un interessante esemplare di marmo nero, ora all'Arkeoloji Müz. (Fıratlı, 1990, nr. 87). Nelle transenne l'ornamentazione, virtuosisticamente ritagliata a giorno sulla superficie marmorea, riproduce invece fragili trame nastriformi siglate da svariati motivi vegetali e animali, come testimonia per es. la serie del S. Vitale a Ravenna (Ravenna, Mus. Naz.; Deichmann, 1989), in cui è possibile riconoscere manufatti costantinopolitani e porre quindi l'accento sul fenomeno di vaste dimensioni dell'esportazione dei materiali marmorei dall'area metropolitana, che dalla fine del sec. 4° alla prima metà del 6° interessò tutti i territori dell'impero (v. Capitello).Riveste poi un interesse documentario del tutto eccezionale la serie di dieci pannelli figurati emersa dallo scavo del S. Polieucto, oggi all'Arkeoloji Müz. (Harrison, 1986; Fıratlı, 1990, nrr. 485-492), sui quali sono scolpiti a bassorilievo i busti in posizione frontale di Cristo e degli apostoli, i cui volti furono probabilmente abrasi in epoca iconoclasta. Benché si tratti di sculture di qualità piuttosto mediocre, rivelata soprattutto da una resa assai sommaria delle anatomie e del panneggio, risulterebbe particolarmente interessante la loro eventuale pertinenza a un témplon, che offrirebbe una concreta testimonianza circa la presenza di cicli figurati nei témpla del sec. 6°, altrimenti noti solo dalla descrizione della recinzione presbiteriale della Santa Sofia giustinianea tramandata da Paolo Silenziario nella Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae (PG, LXXXVI, 2, coll. 2145-2146; Epstein, 1981; Nees, 1983).Si possono citare altri esempi di sculture figurate destinate all'arredo architettonico e liturgico degli edifici dell'epoca: i frammenti di una colonna decorata con un esuberante tralcio di vite che ospita diverse figurazioni (per es. il Battesimo di Cristo), caratterizzata da uno stile di gusto naturalistico che richiama alla mente l'antico repertorio degli scultori afrodisiensi (Fıratlı, 1990, nr. 190), o due capitelli con figure di serafini, destinati a sorreggere un arco di ciborio (ivi, nrr. 230-231). Nello scavo del S. Polieucto furono altresì recuperati numerosi frammenti di figure maschili e femminili di piccole dimensioni che decoravano forse un rilievo o un sarcofago, nelle quali si avvertono ancora stretti legami iconografici e stilistici con le tradizioni scultoree classiche di ambito microasiatico (ivi, nrr. 425-484). Relativamente alla scultura figurata si ricordano inoltre le due basi, con buona probabilità collocate in origine sulla spina dell'ippodromo, che recavano le statue bronzee di Porfirio, famoso auriga dei primi anni del 6° secolo. I suoi trionfi circensi sono celebrati appunto da una serie di iscrizioni (già note nella testimonianza dell'Anthologia Palatina, XVI) e di scene in cui compare lo stesso Porfirio con la palma della vittoria o sulla quadriga incoronato dalle Níkai e acclamato dalla folla (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 63-64). Il codice rappresentativo replica peraltro quello dei contemporanei dittici consolari d'avorio, nei quali all'immagine dominante del protagonista si subordinano, anche dimensionalmente, soggetti di carattere narrativo organizzati in maniera più sciolta e con figure di modulo ridotto.Un pur breve cenno va rivolto alla statuaria del sec. 6°, di cui purtroppo, al di là delle testimonianze testuali che menzionano numerose statue-ritratto imperiali, non resta altro che la riproduzione grafica (Papadaki-Oekland, 1990) della problematica statua equestre di Giustiniano - forse un riassemblaggio di un monumento di età teodosiana - posta sulla colonna dell'Augusteion, ove rimase sin oltre la conquista turca della città, e l'ancora più enigmatica testa di porfido diademata, oggi a Venezia (S. Marco), nella quale è stato riconosciuto persino il ritratto di Giustiniano (Stichel, 1982, pp. 64ss., 104-115).La fine del sec. 6° siglò il concludersi del primo grande capitolo della storia della scultura costantinopolitana, il cui prosieguo sfugge purtroppo a qualsiasi concreto tentativo di valutazione sino almeno a tutto il 9° secolo. La consistenza dei materiali è piuttosto esigua - forse anche a causa di una sensibile flessione delle attività dei laboratori marmorari che gravitavano nell'orbita delle cave del Proconneso - ed è oltretutto priva di concreti referenti cronologici utili a ritesserne con coerenza le trame evolutive. Bisogna infatti giungere ai primi anni del sec. 10° per 'scoprire' nei decori plastici della chiesa nord del monastero di Costantino Lips (907) la nuova fisionomia stilistica della scultura di C., che appare assai distante dalle tradizioni classiche. Predominano infatti forme vegetali stilizzate e ibridate all'interno di composizioni addensate, ritmate e coordinate da figure geometriche con attenuatissimi effetti tridimensionali. In alcune stesure decorative venne anche adottata la tecnica dell'incrostazione, che, conferendo all'ornato il levigato aspetto dello smalto o del niello, ne esaltava ancor più l'effetto bidimensionale. Il multiforme repertorio ornamentale di questo edificio esibisce altresì raffinati motivi vegetali e animali di ascendenza sasanide, che, a guisa di erudite citazioni antiquarie, riflettono la cultura contemporanea volta al recupero delle arti antiche, ma anche il successo sempre più attuale delle mode orientali, mediato dalla diffusione dei manufatti islamici (Grabar, 1963). Stilemi orientali caratterizzano infatti sia le composizioni con astratti motivi geometrici e stilizzate sigle vegetali sia quelle con figure di animali reali o fantastici, già ampiamente diffuse in età iconoclasta, della scultura dei secc. 10°-11°, nonché la stessa resa formale di effetto sempre più bidimensionale.Il gusto per una decorazione scultorea ridondante, come è evidente appunto nella chiesa del monastero di Costantino Lips, sembrerebbe tuttavia attenuarsi nei decenni successivi. Gli interni dei superstiti edifici costantinopolitani dei secc. 11°-12° rivelano in effetti, tranne nel caso della Kalenderhane Cami, un'estrema essenzialità nelle partiture ornamentali scolpite, anche dal punto di vista repertoriale, come nel monastero del Pantokrator (Zeyrek Kilise Cami) e nella chiesa del Cristo Pantepoptes (Eski Imaret Cami). La stessa tendenza si registra anche in epoca paleologa, come attestano infatti le chiese del S. Salvatore di Chora (Kariye Cami) e di S. Maria Pammakaristos (Fetihye Cami), dove ricorrono peraltro fregi con tarsie marmoree. Si dovrà comunque tener conto del fatto che purtroppo le chiese costantinopolitane sono ormai spoglie dei loro arredi liturgici, i quali, come testimonia specificamente una serie di icone marmoree e altri materiali scultorei, dovevano essere al contrario assai ricchi e articolati. Le icone marmoree fecero la loro apparizione all'indomani dell'iconoclastia e, come segnalano gli stilemi classicheggianti, questa trasposizione iconografica dalla pittura alla plastica ben si collocherebbe sullo sfondo di quella rinascita classica di cui si fece interprete la corte macedone (Lange, 1964; Grabar, 1976). Ma se pure si coglie in queste raffigurazioni un richiamo a modelli antichi, l'eleganza formale di tradizione classica si stempera in un modellato ricco di effetti smaterializzanti. Uno dei più antichi esempi è la lastra con la Vergine orante (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 365) rinvenuta negli scavi della chiesa di S. Giorgio di Mangana in prossimità di una fontana di cui doveva senza dubbio fare parte, come starebbe a indicare infatti la mano perforata dalla quale probabilmente sgorgava l'acqua; tale funzione, come attestano il De caerimoniis di Costantino VII Porfirogenito (II, 12) e altri pezzi analoghi, non sarebbe affatto eccezionale per questo tipo di rilievo. Databile alla prima metà del sec. 11°, la Vergine delle Mangane, nonostante il suo frammentario stato di conservazione, si impone come un vero e proprio capolavoro: straordinariamente raffinato appare infatti il modellato che definisce il chiasmo assolutamente frontale della figura di modulo allungato, la cui eleganza formale viene peraltro esaltata dalla sobria ritmica dei panneggi appena chiaroscurati.C. ha conservato altri rilievi di carattere sacro, per es. una rara immagine della Vergine Odighítria, nonché alcuni interessanti esempi con iconografie profane, mitologiche e allegoriche, come l'Apoteosi di Alessandro Magno (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 76, 131), per i quali è tra l'altro possibile individuare dei precisi paralleli iconografici e stilistici nei contemporanei avori. Relativamente ai secc. 11° e 12° si rammentano inoltre alcuni pezzi, molto probabilmente spoglie costantinopolitane, riutilizzati nel S. Marco di Venezia, tra i quali il pannello con la Fortuna, quello con S. Demetrio e soprattutto la Vergine Aníketos della cappella Zen, che preannuncia significativamente lo stile paleologo, indicato dalla spazialità generata dalla figura stessa assisa sul trono e dal panneggio, pur sempre denso, ma assai più chiaroscurato (Grabar, 1976, nr. 123-124).Nell'età paleologa, infine, la scultura costantinopolitana espresse i suoi ultimi guizzi creativi in una serie di opere che manifestano un forte richiamo al passato. Le figure di angeli e i busti di apostoli e santi scolpiti sull'archivolto della chiesa sud del monastero di Costantino Lips, del 1282-1303, su una cornice della chiesa di S. Maria Pammakaristos, del 1310-1315 (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 414, 300), nonché su altri frammenti di archivolti (ivi, nrr. 272-274) e su una serie di capitelli, alcuni dei quali pertinenti agli arcosoli funerari della chiesa del S. Salvatore di Chora, della metà del sec. 14°, si ispirano infatti a modelli paleobizantini, tentando di replicarne le morbide volumetrie con un modellato quasi abbreviato. Non si tratta comunque di pedisseque imitazioni poiché gli scultori paleologhi riuscirono a infondere alle loro figure un nuovo senso di vibrante umanità che affiora nella tensione emotiva dei volti e nel forte páthos espresso dagli sguardi, assai distante dall'icastica iconicità delle raffigurazioni sacre comnene (Belting, 1972; Grabar, 1976; Hjort, 1979). Anche nel repertorio specificamente ornamentale si percepisce un intenzionale recupero dell'Antico: compaiono per es. fregi con girali e foglie di acanto che sottolineano con effetto tridimensionale il disegno architettonico dei citati arcosoli funerari della chiesa del S. Salvatore di Chora.Per quanto riguarda invece i decori della chiesa sud del monastero di Costantino Lips, impreziositi da incrostazioni plastiche policrome, si ha quasi l'impressione che volessero rievocare i sontuosi arredi architettonici e liturgici di epoca macedone e comnena realizzati in oro o in argento, tempestati di pietre e di sfavillanti smalti, ambite prede del bottino latino.Relativamente all'epoca paleologa si segnalano infine alcune singolari sculture a carattere profano con le figure di acrobata, di menadi, di danzatore e anche di un dignitario, nonché un frammento con la raffigurazione di un personaggio, imperatore o arcangelo, che indossa il lóros gemmato (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 33, 241, 295-296, 77).
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Tre eventi di portata epocale - la crisi iconoclasta (730-787, 813-843), la conquista latina di C. (1204-1261), infine la caduta della stessa in mano ottomana (1453) - hanno inferto a quello che fu il patrimonio più ricco e articolato del mondo postclassico e premoderno una catena di distruzioni, spoliazioni e alienazioni senza eguali nel corso del Medioevo. Alla storiografia russa, tedesca, viennese e francese che fra l'avanzato Ottocento e i primi del Novecento cominciò a riflettere sui processi dell'arte bizantina, la capitale dell'impero offriva un quadro desolatamente vuoto. La pittura di C. nell'economia della figuratività bizantina era un buco nero; solo la lettura delle fonti letterarie permetteva una qualche conoscenza di cicli e immagini recuperabili, laddove possibile, esclusivamente in termini iconografici.Ma dagli anni Trenta i connotati del panorama sono cambiati profondamente. L'attività del Byzantine Inst. americano, volta a riportare alla luce e restaurare mosaici e pitture murali, e l'occasione offerta da varie campagne di scavi sono all'origine di scoperte e ritrovamenti di straordinaria importanza. Perciò oggi è possibile delineare un quadro della pittura di C. fitto di una quantità di testimonianze inimmaginabile un secolo fa e, nonostante la non rimarginabilità delle cesure inferte dalle distruzioni iconoclaste e dalle dispersioni a opera dei dominatori occidentali, composto nei caratteri di un vero e proprio profilo. Tale profilo appare cadenzato sui binari della lunga durata (secc. 5°-15°) e dunque destinato a divenire nei confronti dell'intero sistema figurativo bizantino una specie di spina dorsale, un asse di riferimento imprescindibile per tutte le elaborazioni che si danno altrove, dentro e fuori i confini dell'impero.La prima testimonianza nota riguarda le inedite pitture murali nella camera tombale scoperta alla fine degli anni Ottanta fra le mura della cinta teodosiana, in un punto non lontano dalla porta d'Oro (Deckers, 1991). I dipinti comprendono una serie di figure in un contesto paradisiaco, la loro impaginazione compositiva è assai semplice e tenuamente simbolico l'ordito tematico. Questo rinvenimento, se da una parte rende più alta rispetto al passato la soglia cronologica della pittura di C., dall'altra concerne tuttavia un battesimo legato a dipinti dal carattere figurativo 'neutro', appartato nei riguardi dello sviluppo costantinopolitano successivo e invece in sintonia con i tratti di quella pittura funeraria stilisticamente compatta e poco differenziata che nei secc. 4° e 5° si diffuse abbondantemente in tutto il territorio dell'impero, dall'Asia Minore alla Grecia, all'area balcanica, a Roma (Andaloro, 1993). Né d'altra parte la memoria della perduta composizione absidale probabilmente musiva (datata 473), ubicata nell'oratorio del monastero delle Blacherne, raffigurante la Vergine, l'imperatore Leone I e vari membri della sua famiglia, se pure risulta utile nel far luce sulla precoce politique de l'icône praticata da parte degli imperatori bizantini (Grabar, 19842, p. 29), essendo nota solo attraverso fonti letterarie (ivi, p. 54, n. 4), è in grado di rischiarare minimamente il volto figurativo del sec. 5°, il quale continua dunque a rimanere oscuro.Il vero atto di nascita della pittura di C. è tuttora da ravvisare nella serie di miniature illustranti il Dioscoride compiuto per la principessa Anicia Giuliana intorno al 512 (Vienna, Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1; Lazarev, 1967; Gerstinger, 1970). Pervade le miniature la naturalezza tutta sintattica della composizione, per cui figure, gesti e spazio acquistano un significato concreto, effettivo ed è squisitamente alta l'esecuzione pittorica, ricca e immediata ovunque, ma già incline a piegarsi - nell'ambito della struttura figurativa di un'immagine come quella di Anicia Giuliana al centro della miniatura contenuta a c. 6v - verso moduli di timbro aulicamente astrattizzante e iconico. L'opera prima della pittura costantinopolitana nasce dunque nel segno dell''ellenismo perenne', destinato a divenire la stella polare del suo lungo percorso e a rendere C. il massimo centro di irradiazione di quell'orientamento artistico e al contempo l'unico, quando si eclissarono le altre capitali del mondo (Kitzinger, 1936; 1977).Risale agli anni 523-527 e ancora una volta alla committenza di Anicia Giuliana la decorazione musiva che ornava la chiesa di S. Polieucto e della quale è stata rinvenuta e raccolta una miriade di frammenti e di tessere isolate. Molti dei frammenti sono provvisti della malta d'allettamento, le tessere sono in prevalenza di pasta vitrea, d'oro e d'argento; non mancano tuttavia quelle in marmo, pietra e terracotta. Poiché la percentuale delle tessere d'oro rinvenute nella zona absidale è assai alta, è del tutto lecito ritenere che un mosaico a fondo oro ornasse l'abside della chiesa (Harrison, 1986). Inoltre i mosaici erano figurati, come attesta la presenza di alcuni frammenti, il più significativo dei quali raffigura la parte inferiore di un volto virile e barbato. Quella che tutt'oggi rappresenta la prima testimonianza della gloriosa catena dei mosaici parietali di C. si trova dunque nella condizione di materia: materia lavorata ma svincolata dallo statuto d'immagine che le era proprio. Da qui i limiti di ogni tipo di ricerca a riguardo. Tuttavia, analizzando le modalità esecutive dei tessuti musivi e riflettendo sulla fisionomia dei loro tracciati, si sarebbe indotti ad accostare i frammenti di S. Polieucto alla decorazione musiva del monastero Mar Gabriel, presso Kartmin (Turchia sudorientale), per la quale appaiono assai convincenti il termine cronologico del 512 e il collegamento con l'imperatore Anastasio. Con Mar Gabriel i frammenti musivi di S. Polieucto condividono alcune delle caratteristiche che, alla stregua di marchio distintivo, si trovano costantemente presenti nei mosaici di C. o di stretta osservanza costantinopolitana, vale a dire l'allettamento delle tessere auree in modo da assicurare loro l'inclinazione verso il basso, l'impiego di quelle d'argento, il ruolo di valenza autonoma agita nel tessuto musivo dalla singola tessera (Andaloro, in corso di stampa).Si devono all'attività del Byzantine Inst. il recupero e il restauro di una ragguardevole serie di mosaici all'interno della Santa Sofia - una volta rimosse le ridipinture a olio stese intorno alla metà dell'Ottocento, durante il restauro di Gaspare Fossati, allo scopo di rendere compatibile con la destinazione a moschea della chiesa la decorazione pittorica - con il risultato che la sequenza di quei mosaici è divenuta l'imprescindibile quadro di riferimento per l'intera pittura di Costantinopoli. La più antica testimonianza è contestuale alla fase giustinianea della costruzione e comprende due diversi momenti. Il primo riguarda la decorazione del nartece (vele delle volte, intradossi degli archi trasversali, lunette orientali, intradossi degli archi occidentali; Whittemore, 1933-1952, I) e, all'interno, l'ornamentazione degli intradossi degli archi delle quattro esedre agli angoli della navata e infine la decorazione delle grandi arcate dei quattro grandi pilastri. Di quest'ultima ornamentazione sono superstiti solo dei frammenti, il più ampio dei quali si conserva sotto la linea d'imposta dell'arco meridionale nella galleria nord (Underwood, Hawkins, 1961). L'insieme dei mosaici citati (nel nartece motivi geometrici, floreali, stelle, girali d'acanto e croci; all'interno serie di girali) è ritenuto coerente con la fase giustinianea dell'edificio (532-537; Whittemore, 1933-1952, I; Underwood, Hawkins, 1961), del quale doveva costituire una meravigliosa guaina luminosa. Il secondo momento coincide con il pannello, decorato con motivo a girale contornato da un bordo ornamentale, posto nell'intradosso dell'arco meridionale, contiguo al citato frammento giustinianeo. Il bordo si ispira al mosaico preesistente, mentre il tipo del girale ne differisce; ma soprattutto i due pannelli differiscono per tecnica e uso dei colori. Nel secondo i filari non sono regolari e sono usate contemporaneamente tessere di colore diverso: all'oro del fondo è mescolato ca. il 10% d'argento, ai blu sono spesso mischiati i verdi. Questi rilievi, uniti alle osservazioni scaturite dall'analisi delle strutture degli archi delle grandi arcate, hanno indotto a ipotizzare (Underwood, Hawkins, 1961) che la sostituzione della prima decorazione giustinianea sia il frutto della ricostruzione delle arcate e dei timpani in seguito al crollo del 7 maggio 558 e che dunque la seconda ornamentazione sia stata attuata entro il 562, anno della ridedicazione della Santa Sofia.Pur nello stato di frammentarietà, quanto rimane della decorazione giustinianea consente di definire alcuni punti fondamentali: rivela innanzitutto la natura aniconica del suo programma, dettata presumibilmente dal desiderio di non contrastare le posizioni dei monofisiti in materia di immagini; svela il carattere supremamente aulico, raffinato e sublimato delle stesure musive, scelte quale medium di decorazione pittorica quasi esclusivo; agevola la comprensione di quella che dovette essere la concezione fondante alla base dell'intero progetto della Santa Sofia giustinianea, originata dalla compresenza e interazione dei vari sistemi decorativi agenti nei confronti degli invasi spaziali: dai mosaici, alle decorazioni in stucco, alle sculture architettoniche, ai rivestimenti di lastre marmoree alle pareti, all'opus sectile del pavimento, a quelli d'argento degli arredi e della suppellettile liturgica, noti attraverso la descrizione di Paolo Silenziario.La decorazione pittorica giustinianea era inoltre ideata come totale e diffusa, non doveva rimanerne esente alcuna parte, anche in contesti di prevalente natura funzionale. Così la rampa sud-ovest conserva tuttora frammenti di pittura murale nella volta dell'ottava galleria (medaglione con una grande croce floreale) e sulla parete verticale ovest della decima galleria (probabilmente motivi floreali), mentre rimane dubbia la cronologia (giustinianea per Underwood, 1955-1956b; del sec. 9° secondo Cormack, Hawkins, 1977) dei mosaici sulla volta e sui timpani (girali d'acanto su fondo bianco, medaglioni con croci raggiate) e sulla semicupola nord e arco nord dell'alcova (girali di vite, medaglione con bracci di croce o monogramma cruciforme); questo ambiente aveva la funzione di torre-lucernaio della rampa sud-ovest in epoca giustinianea, forse di diaconico per l'oratorio della stanza sopra il vestibolo in seguito alla ristrutturazione della seconda metà del sec. 6° e infine forse quella di passaggio cerimoniale fra i due sekréta nel sec. 9° (Cormack, Hawkins, 1977).L'immagine iconica irrompe in ambiti correlati alla Santa Sofia negli anni di Giustino II (565-578). Nella stanza sopra la rampa, facente parte insieme all'ambiente sopra il vestibolo del patriarcato costruito da Giovanni III Scolastico (565-577), la decorazione musiva comprende girali incornicianti un grande medaglione centrale nella volta, mentre nei timpani, al centro di ogni campo triangolare, compare un medaglione contenente una croce. Le croci risultano essere un inserto collegabile a un atto iconoclasta, da identificare con ogni probabilità con quello del 768-769 attestato dalle fonti, compiuto a opera del patriarca Niceta I (Mango, 1962; Cormack, Hawkins, 1977) e destinato a sostituire la serie di otto figure accompagnate da iscrizioni, delle quali sono leggibili alcune lettere, collocate originariamente nei timpani (Cormack, Hawkins, 1977), nonché la figura di Cristo nel medaglione al centro della volta.Contestata la veridicità della testimonianza di Corippo in base alla quale risalirebbero al tempo di Giustino II alcuni mosaici con scene cristologiche (Lazarev, 1967, p. 66), occorre ritenere perdurante fino a epoca posticonoclasta il carattere aniconico della decorazione musiva della Santa Sofia. Diversamente ci sono ragioni per non escludere la presenza dei mosaicisti di Giustino II in almeno una parte di quel ciclo cristologico della chiesa dei Ss. Apostoli descritto da Costantino Rodio e da Nicola Mesarite.Si deve agli scavi condotti nell'area della Kalenderhane Cami la scoperta del primo mosaico parietale con soggetto figurato cristiano del quale sono leggibili le componenti iconografiche e stilistiche. Il pannello di forma originariamente quadrata (lato cm. 130 ca.), ritrovato nel corso dei lavori di consolidamento del muro sud della protesi, è isolato, ubicato a un'altezza modesta e rappresenta la scena dell'Hypapanté. In base al contesto nel quale si trovava il mosaico - in seguito staccato e restaurato per essere esposto al pubblico - si può affermare che, risalendo alla fase più antica dell'edificio-chiesa, fu successivamente coperto dall'innalzamento di un muro, il quale, eretto forse in periodo iconoclasta con il proposito di sottrarre il rilievo alla vista, lo preservò dalla distruzione. Sulla base di una serie di elementi di natura archeologica e storica è possibile porre la sua datazione fra il sec. 6° avanzato e gli inizi dell'8° (Striker, Kuban, 1971). Per Kitzinger (1977) il mosaico può essere attribuito al sec. 7° e confrontato con i dipinti di carattere ellenistico di S. Maria Antiqua a Roma. È pienamente condivisibile la convinzione che il mosaico della Kalenderhane Cami "dimostra senza alcun'ombra di dubbio che in questo periodo l'arte religiosa della capitale era profondamente influenzata dalla corrente ellenistica" (Kitzinger, 1977, trad. it., p. 129). Per il resto si attende di poter contare su una cronologia più precisa, sulla base di una valutazione che non escluda alcun elemento interno ed esterno. È da valutare per es. il motivo del poligono ricorrente nell'importante cornice, che è affine a quello adoperato all'interno della decorazione giustinianea nel nartece della Santa Sofia; occorre riflettere sullo spostamento della soglia cronologica dal sec. 7° all'avanzato 6° per ciò che riguarda l'epifania di una pittura di soggetto cristiano pervasa da forti tendenze figurative ellenizzanti. È questo il nodo ravvisabile in quello straordinario brano di pittura ellenizzante, di matrice e formulazione costantinopolitana, che è l'Annunciazione sul secondo strato della c.d. parete-palinsesto in S. Maria Antiqua, che un fascio di indizi sufficientemente probanti permette di datare agli anni di Giustino II (Aggiornamento scientifico, 1987).Risale agli anni Trenta la scoperta degli importanti mosaici pavimentali ubicati nel portico settentrionale e in quello meridionale del peristilio del Grande Palazzo. Altri frammenti sono stati rinvenuti nel 1953-1954 (Lazarev, 1967). È in atto la rivisitazione del restauro precedente e dal 1983 viene condotta una nuova investigazione del sito (Jobst, 1987). A confronto con quelli conservati in Italia, in Siria e in Africa settentrionale i mosaici del palazzo imperiale di C. sorprendono per la varietà e la vivacità: combattimenti di belve e di volatili, caccia alla lepre, al cinghiale, al leone e alla tigre; scene di vita campestre (caprone che bruca l'erba, mungitura delle capre, cavalli); scene di genere (per es. bambini che pascolano oche, o che cavalcano un cammello; un mulo che ha gettato a terra il padrone); inoltre Pan con Bacco su una spalla, un moscoforo, una donna che porta una brocca, giochi circensi. Sul fondo bianco animato dalla trama raffinatissima del motivo a pelte, ma sostanzialmente neutro, le figure, vivide e tridimensionali, si esprimono con una gestualità ricca e verosimile; come in una parata vengono alla ribalta le immagini di edifici di salda radice ellenistica. Ciò che incrina felicemente la pelle organica dell'insieme è il meraviglioso disinteresse verso qualsivoglia unità o verosimiglianza di tipo spaziale. Non è tenuto presente il punto di vista, cosicché le figure e i motivi appaiono 'galleggiare', disseminati sul fondo. Più in generale, se si valutano i termini compositivi, il pavimento finisce per essere considerato a ragione un ragguardevole esempio di tappeto figurato, secondo tipologie già sperimentate ad Antiochia e altrove nel 5° secolo. Ma spostando l'analisi dallo schema tipologico a quello della realizzazione, le affinità si affievoliscono e perdono di efficacia (Kitzinger, 1977): altrove non sono stati raggiunti sia il livello di perspicuità e padronanza formale ed esecutiva, che fa delle stesure dei mosaici costantinopolitani un vero e proprio unicum, sia la grana senza sbavature della sua cultura figurativa di segno profondamente ellenistico. Proprio quest'ultimo aspetto anche recentemente (Trilling, 1989) ha spinto a individuare nella temperie che maturò a C. durante gli anni di Eraclio (610-641) il clima storico, culturale, ideologico più appropriato per i mosaici del palazzo imperiale, che dunque verrebbero a rappresentare il versante dell'arte profana in felice parallelismo con quello dell'arte a soggetto religioso della quale è superba espressione il gruppo degli argenti con le Storie di Davide. Come per tante altre opere preiconoclaste, anche per i mosaici del Grande Palazzo i problemi della datazione non possono dirsi definitivamente chiusi. Tuttavia qualunque sia la datazione riferita al complesso - gli anni di Giustiniano, di Giustino II, di Eraclio o anche dopo -, è destinata a non accorciarsi la distanza che separa concettualmente, visivamente ed esecutivamente tali mosaici pavimentali da quelli parietali preiconoclasti di C.: i minimi frammenti da S. Polieucto, i mosaici di Giustiniano e di Giustino II nella Santa Sofia, il pannello della Kalenderhane Cami, il frammento con il volto di un angelo una volta nella chiesa di S. Nicola al Fanar (Lazarev, 1967).In sintesi, ciò che si verifica è una divaricazione a chiasmo: tanto le stesure musive pavimentali tendono alla resa quanto più possibile pittorica, attraverso l'iter di una raffinata e sorvegliatissima gamma di microvariazioni cromatiche e di passaggi di piani, quanto le stesure dei mosaici parietali perseguono l'obiettivo di un percorso autonomo nei riguardi della pittura: da qui il senso e il ruolo diverso che nei mosaici parietali vengono ad assumere le scelte dei materiali (uso di tessere d'argento) e le specifiche modalità tecnico-formali (per es. andamento, allettamento e inclinazione delle tessere); da qui l'impiego della tessera in funzione di cellula germinativa dell'intero sistema di rappresentazione.Diverse fonti testuali (per es. Stefano Diacono, Vita sancti Stephani iunioris, PG, C, col. 1113; Lazarev, 1967, p. 106) consentono di penetrare nelle opposte dinamiche figurative dominanti nella C. del lungo periodo iconoclasta: da una parte il moto di distruzione applicato alle immagini sacre, dall'altra il rigoglioso rinnovamento degli apparati decorativi. L'imperatore Costantino V ordinò la distruzione di un ciclo evangelico nella chiesa delle Blacherne ma vi sostituì, come narra Stefano Diacono, raffigurazioni di "alberi, fiori, vari uccelli e altri animali, circondati da tralci d'edera, tra i quali brulicano in gran numero gru, cornacchie e pavoni", trasformando in tal modo la chiesa in "un verziere e in un'uccelliera" (PG, C, col. 1120). L'imperatore Teofilo si prese cura di far adornare le pareti del palazzo imperiale con dipinti rappresentanti figure che colgono frutta, vari animali, alberi, ghirlande, armi. Una decorazione di questo tipo appare debitrice a quella splendida fioritura che conobbe l'Oriente islamico alla corte dei califfi di Damasco e di Baghdad (Grabar, 19842, pp. 192-193).A C. nulla è superstite del patrimonio pittorico di carattere profano del periodo iconoclasta, inghiottito a sua volta dalla drastica reazione iconodula. Tuttavia se ne può cogliere un riflesso, e non flebile, nella superba serie di stoffe custodite nei tesori e reliquiari dell'Occidente: per es. i frammenti di seta con quadriga (Aquisgrana, Domschatzkammer; Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny); quella della chiesa di Saint-Calais, presso Le Mans, raffigurante la caccia di Bahrām Gūr, soggetto di origine sasanide utilizzato a C. per esprimere la glorificazione del trionfo imperiale; la seta di Lione (Mus. Historique des Tissus), anch'essa con la raffigurazione di una caccia imperiale; il frammento con il busto d'imperatore di Sens (Trésor de la Cathédrale; Byzance, 1992, pp. 192-199).Un'idea delle grandi decorazioni profane di C. irrimediabilmente perdute può essere fornita dalle decorazioni musive di epoca omayyade - dai mosaici della Cupola della Roccia a Gerusalemme a quelli del portico della Grande moschea di Damasco - nonché dai frammenti musivi che decorano la parete nord della basilica della Natività a Betlemme, i quali, sebbene siano stati compiuti tra il 680 e il 724 e in un contesto non iconoclasta, trattano il tema della raffigurazione dei sei concili provinciali in modo simbolico e astratto, secondo un'inclinazione alla quale non è estraneo l'influsso dell'arte islamica (Stern, 1948).Esempi di quell'arte aniconica perseguita dagli iconoclasti all'interno degli spazi sacri sono invece parzialmente noti. Immagine prediletta fu la croce. Accanto al citato caso pertinente agli interventi nella stanza sopra la rampa nella Santa Sofia occorre almeno menzionare il mosaico nell'abside della chiesa della Santa Irene, dove sul fondo dorato campeggia ancora oggi una croce immensa.A C. il ritorno all'ortodossia è segnato da un mosaico figurato di eccezionale qualità, in un luogo denso quanto altri mai di valenze speciali. Il mosaico è quello raffigurante la Theotókos in trono con il Bambino e due angeli stanti, dei quali rimane solo quello di destra; il luogo è l'abside e il sottarco della Santa Sofia, tanto altamente strategico da un punto di vista del 'potere dell'immagine', quanto spazialmente indifferente o peggio inappropriato nei riguardi dei valori compositivi, e non felice per la sua fruizione, che, di norma, può contare su punti di stazione troppo lontani per consentire di cogliere tutta la forza e la sottigliezza di un'opera che a ragione si annovera fra le più alte e significative dell'intera pittura bizantina. A ragionevole distanza sono godibili tanto l'effetto spaziale della figura della Vergine prodotto dal piedistallo del trono arditamente scorciato, quanto il bel nodo compositivo e gestuale fra la Vergine e il Bambino seduto sulle sue ginocchia; inoltre è possibile sia apprezzare in tutta l'abbagliante luminosità la ieratica eppur nervosa e dinamica figura dell'angelo e l'apertura delle superbe ali sia sorprendere il punto di fusione fra seducente sensualità e ardente spiritualità nei volti della Theotókos e dell'angelo (Lazarev, 1967). Ma solo a distanza ravvicinata è dato cogliere quelle modalità tecnico-formali attraverso le quali si giunge agli esiti altissimi del mosaico: la scioltezza pittorica delle forme, la liquida e digitale sensibilità a cui rispondono docilmente le superfici e i lineamenti dei volti, eseguiti con tessere in pietra naturale di piccole dimensioni, la trasparenza delle ombre, la carica illusionistica degli sguardi e del pollice e del palmo della mano dell'angelo visti dietro il globo in trasparenza, il disegno magistrale e astratto del panneggio, fino a seguire la disposizione delle tessere, il gioco del loro andamento - ora attento e organico al disegno, ora discontinuo, laddove sono richiesti più intensi gli effetti impressionistici -, le modulazioni degli interstizi fra tessera e tessera, la mappatura delle tessere vitree e di quelle lapidee, lo spettro cromatico delle tinte e delle mezze tinte, per realizzare le quali si giunge a dipingere le tessere allorquando si prevede che l'effetto cromatico delle tessere di pasta vitrea o lapidee non sia del tutto soddisfacente in rapporto alla cosa da raffigurare. È questo il caso del colore rosso delle pantofole della Theotókos. Alla confluenza delle cifre stilistiche e delle modalità tecnico-formali emerge la consapevolezza di trovarsi davanti a una delle opere che incarna vividamente e a un livello formalmente assai alto il fenomeno della reviviscenza ellenistica a Costantinopoli. E tutto ciò avviene in un'opera che per l'autorevolezza della sua ubicazione assume quasi il valore di una dichiarazione di intenti. L'iscrizione ubicata nell'abside della Santa Sofia - della quale sopravvivono quattro lettere del principio e nove della parte terminale, ma che è nota dal testo di un epigramma dell'Anthologia Palatina ("Le immagini che gli ingannatori avevano qui distrutto, i pii imperatori hanno ripristinato"; Antoniades, 1907-1909, I) - incontrovertibilmente attesta l'avvenuta riconciliazione nei riguardi dell'immagine dopo la crisi iconoclasta. D'altra parte in seguito a un'analisi autoptica delle stesure musive è assodato che il fondo oro e il gruppo con la Theotókos in trono con il Bambino e gli angeli furono eseguiti prima della fascia con le ghirlande del sottarco e della contestuale iscrizione (Mango, Hawkins, 1966). Da qui la datazione del mosaico dopo l'843 e prima dell'867, allorquando l'immagine allora visibile nell'abside della Santa Sofia venne menzionata dal patriarca Fozio. Senonché testimonianze scritte e figurative - dall'omelia del patriarca Fozio fino alla biografia del patriarca Bucheiras (1347-1349) e a una serie di medaglie - descrivono o riproducono le figure rappresentate nell'abside in forme e iconografie palesemente differenti - la Theotókos stante che regge il Figlio secondo l'aspetto dell'Odighítria - rispetto al mosaico esistente. Talché in passato si è potuta anche far strada con vigore l'idea che al mosaico competa una collocazione cronologica nel corso dell'avanzato Trecento, cronologia alla quale si oppongono decisamente ragioni stilistiche e le prove a favore della contestualità esecutiva delle parti figurate del mosaico e dell'iscrizione, di incontrovertibile tenore iconodulo. L'evidente stallo in cui versa la questione ha suggerito un andamento dei fatti che s'impernia sulla ipotesi che il mosaico oggi in vista sia stato concepito ed eseguito negli anni successivi al secondo concilio di Nicea (787), nell'interludio fra prima e seconda fase iconoclasta (787-813), durante il regno di Costantino VI e di sua madre Irene. Scialbato in occasione del secondo periodo iconoclasta, al suo posto alla fine della crisi sarebbe stata dipinta quell'immagine della Vergine Odighítria in piedi alla quale farebbero riferimento le fonti scritte e iconografiche fino a quando, forse in conseguenza della terribile serie di terremoti avvenuti a metà del Trecento (14 e 18 ottobre, 20 novembre 1344), con la caduta degli intonaci si intravide il mosaico celato per cinque secoli e mezzo e si decise di rimetterlo in luce. Sta di fatto che nella medaglia del patriarca Neilos (1380) l'immagine della Theotókos in trono con il Bambino sulle ginocchia corrisponde all'iconografia del mosaico dell'abside, che a quel tempo era dunque visibile (Oikonomidés, 1985). Se la ricostruzione di Oikonomidés, per molti aspetti convincente, trova conferma, il mosaico dell'abside della Santa Sofia, con il sorvegliatissimo equilibrio fra illusionismo raffinato di radice ellenistica e processi di spiritualizzazione, è da considerare come l'opera in grado di aderire, anzi di incarnare le istanze e gli esiti del dibattito sull'immagine, la sua natura, la sua funzione, la sua struttura, promosso dal secondo concilio di Nicea.Prevalgono registri stilistici di matrice diversa negli altri mosaici della Santa Sofia risalenti al momento posticonoclasta e alla temperie macedone. Nella stanza sopra il vestibolo, identificata con il grande sekréton del palazzo patriarcale (Mango, 1959; Cormack, Hawkins, 1977), i mosaici scoperti da Underwood (1955-1956b) restituiscono un complesso frammentario ma ricostruibile nelle sue linee principali. Sulla parete d'ingresso campeggia la Déesis; venti figure - fra le quali si possono riconoscere il profeta Ezechiele, il martire Stefano, l'imperatore Costantino - distribuite in due zone occupano la volta; sulle lunette delle pareti erano rappresentate le mezze figure degli apostoli e dei quattro più accesi avversari degli iconoclasti, i patriarchi Germano, Tarasio, Niceforo e Metodio. La presenza di Metodio nel ciclo permette di fissare all'847, anno della sua morte, il terminus post quem per i mosaici, dei quali a ragione è stato rinvenuto il filo conduttore nel tema dell'ortodossia con richiami al Synodikón. Concepiti, come indica il tema raffigurato, in un clima intellettuale particolarmente interessato al problema delle immagini come era quello della capitale imperiale, allorquando nel concilio di Fozio (861) e nel quarto concilio di C. (869-870) si discuteva ancora dell'iconoclastia, i mosaici del grande sekréton non possono oltrepassare la soglia degli anni settanta del sec. 9° (Cormack, Hawkins, 1977). In questi mosaici del terzo quarto del sec. 9° i caratteri sono quelli di un'intonazione che ha nell'icasticità e nel prosciugamento di una presentazione concentrata sullo statuto iconico il suo punto di maggior forza.Sono di qualche anno posteriori, essendo state eseguite non prima dell'877, data della morte del patriarca Ignazio, le figure dei Padri della Chiesa (Giovanni Crisostomo, Ignazio Teoforo, Ignazio patriarca) scoperte nel timpano nord della Santa Sofia (Underwood, 1955-1956b) e appartenenti a un programma decorativo che comprendeva quattordici Padri della Chiesa e sedici profeti. Le grandi figure, dallo squadro ampio, dalle teste piccole e dalle vesti sobriamente panneggiate, sono accompagnate da scritte che giganteggiano in modo volutamente coprotagonista sul fondo oro. Ugualmente semplificata appare la tavolozza, imperniata sui toni chiari, in prevalenza sui grigi e sui bianchi, tranne nei visi dove prevalgono tonalità rosate su fondo verde nella duplice funzione di tono di base e di delineazione delle ombre.Non è dato invece verificare in medias res il nuovo sistema di decorazione pittorica dell'organismo ecclesiastico che, elaborato nel corso della seconda metà del sec. 9° e destinato a divenire canone per ben tre secoli in tutti i territori di fede ortodossa, ebbe proprio a C. le prime grandiose applicazioni. Descritti da Fozio, da Nicola Mesarite, da Leone VI, i cicli che decoravano le chiese di nuova fondazione (la Nea Ekklesia di Basilio I, dell'867-886; la chiesa della Vergine del Faro di Fozio; la chiesa del monastero di Kauleas; la chiesa fondata da Stiliano, ministro e principale consigliere dell'imperatore Leone VI) sono andati distrutti. Aderenti alla concezione del tempio come 'un altro cielo' sulla Terra, 'dimora di Dio' (Jenkins, Mango, 1955-1956), le pitture avevano come punti di forza la rappresentazione del Cristo Pantocratore, circondato da angeli nella cupola, la figura della Vergine orante nell'abside e numerose immagini di patriarchi, profeti, apostoli e martiri.Sono parimenti distrutti i mosaici della sala del Crisotriclinio nel palazzo imperiale (856-866), dove sul trono dell'imperatore fu posto il mosaico con la figura di Cristo re dei re assiso in trono e, sulla parete opposta, un altro mosaico con la Theotókos in trono, circondata dall'imperatore, dal patriarca e dal loro seguito; erano raffigurati inoltre angeli, apostoli, profeti.Subito dopo il terremoto dell'869, sulla cupola della Santa Sofia comparve l'immagine di Cristo fra i cherubini; sull'arco ovest, restaurato da Basilio I, la Vergine con il Bambino fra i ss. Pietro e Paolo (Mango, 1962); nei timpani nord e sud le figure di Padri della Chiesa, profeti e angeli, alcune delle quali sono state riscoperte di recente.Si afferma che provenga dal monastero di S. Giovanni di Studios ed è ascritto al sec. 9° il frammento musivo con una testa, forse della Vergine, conservato ad Atene (Benaki Mus.; Coche de la Ferté, 1981, tav. 69). Se venissero confermate provenienza e cronologia, il brano - appartenente con ogni probabilità a una scena cristologica, plausibilmente una Crocifissione - sarebbe una rara testimonianza dell'esistenza a C. di cicli di datazione alta; l'ipotesi finora aveva il suo punto forte nella menzione del ciclo evangelico nella chiesa della Vergine del Faro da parte di Nicola Mesarite, ciclo che tuttavia da altri viene ritenuto un'aggiunta alla decorazione originaria, che risale a epoca foziana (Jenkins, Mango, 1955-1956).Nel nartece della Santa Sofia sulla lunetta sovrastante la porta Regia l'originario mosaico giustinianeo a fondo oro e croce risulta essere stato sostituito in epoca successiva. Il nuovo mosaico comprende la figura di Cristo seduto in trono che regge il vangelo dove sono leggibili le parole: "La pace sia con voi. Io sono la pace del mondo". Ai piedi di Cristo, nell'atto della proskýnesis, è raffigurato l'imperatore - identificato dalla maggior parte degli studiosi con Leone VI (886-912) - mentre sul fondo ai lati di Cristo stanno entro clipei la Vergine nel gesto della Haghiosorítissa e l'arcangelo Gabriele.Pochi soggetti della pittura costantinopolitana possono vantare un'attenzione esegetica paragonabile a quella di cui ha goduto il mosaico sulla porta Regia dall'indomani della sua scoperta, avvenuta in occasione della prima campagna di attività del Byzantine Inst. nel nartece della Santa Sofia (Witthemore, 1933-1952, I). Una volta individuato nell'incarnazione e nell'intercessione l'orizzonte dottrinario sotteso alla raffigurazione, le letture divennero progressivamente meno generiche e più concentrate su fonti e sfondo storico. Sulla base di un passo del De caerimoniis di Costantino VII Porfirogenito, Grabar (1936) prospettò di vedere nel mosaico il riflesso della solenne cerimonia concernente il momento dell'ingresso dell'imperatore nella Santa Sofia e di leggere la scena come un omaggio dell'autocratore al Pantocratore e la testimonianza della diretta derivazione del re della terra dal re del cielo. Su questo asse interpretativo sono confluite poi altre sfaccettature, elaborate alla luce delle opere di Leone VI, in particolare dell'omelia dell'Annunciazione, cui sembrano ispirarsi le figure della Theotókos e dell'arcangelo rappresentati nel mosaico in veste di intercessori e patroni dell'imperatore genuflesso davanti al panbasiléus. Successivamente si fece strada una nuova interpretazione complessiva in base alla quale l'imperatore raffigurato sarebbe Leone, ma in atto di penitente. Il senso del mosaico collocato nel nartece, lo spazio dei non battezzati e dei penitenti, sarebbe da ravvisare nel contesto storico relativo alle conseguenze del quarto matrimonio di Leone, celebrato contro le leggi ecclesiastiche, all'origine di uno scisma all'interno del patriarcato di C. che si ricompose solo con il concilio del 920. Secondo questa nuova lettura il mosaico è da datare dopo il 920, essendo raffigurato Leone alla destra del Cristo fra i salvati, dopo il pentimento avvenuto poco prima di morire (912) e dopo l'assoluzione nel corso del concilio. La pace annunciata dalle parole di Cristo andrebbe appunto riferita a quella dopo lo scisma; la funzione profonda della lunetta sarebbe quella di monito verso i futuri imperatori (Oikonomidés, 1976).Il timbro specifico dell'opera è dato soprattutto da due elementi: dall'accentuazione del principio lineare che raffredda la temperatura delle reminiscenze dei prototipi antichi, preiconoclasti, emergenti nei volti di Cristo, della Theotókos e dell'arcangelo; inoltre dalle modalità tecnico-formali messe a punto nelle stesure musive. Fra queste merita attenzione il procedimento dell'allettamento delle tessere nei filari del fondo oro. Le tessere, ordinatamente disposte in linee orizzontali fra loro distanziate, sono però allettate con accentuato angolo d'inclinazione (fino a 26°; Nordhagen, 1984), raggiungendo così un duplice effetto: in primo luogo neutralizzare gli spazi vuoti fra filare e filare, non visibili in tal modo dal normale punto di stazione (ca. m. 10 di distanza), in secondo luogo rendere estremamente dinamico il rapporto con la luce, accrescendone l'intensità.Risale al 912 il mosaico, rinvenuto alla fine degli anni Cinquanta, ubicato sul pilastro nord-ovest della tribuna nord, raffigurante l'imperatore Alessandro, fratello di Leone VI. L'identificazione è sicura grazie al nome leggibile nel medaglione disposto sul fondo e all'invocazione monogrammata contenuta in altri tre medaglioni: "Signore aiuta il tuo servitore, imperatore ortodosso e fedelissimo" (Underwood, 1960; Underwood, Hawkins, 1961). Strutturato come un ex voto, il pannello consegna un'immagine dotata di concentrata e simbolica rappresentatività. Raffigura infatti l'imperatore nelle vesti e con le insegne che indossava e portava durante la processione della domenica di Pasqua nel tratto dai palazzi imperiali alla Santa Sofia, come testimonia il De caerimoniis. L'imperatore Alessandro regge infatti nella mano destra l'anexikakía o akakía - un fazzoletto di seta pieno di terra, simile a un rotulo, simbolo del destino mortale dello stesso imperatore - ed è cinto da un lungo lóros, tempestato di pietre preziose, alludente al lenzuolo funebre e simboleggiante la morte e la risurrezione di Cristo (Underwood, 1960; Underwood, Hawkins, 1961). Se l'impostazione della figura nei suoi connotati di monumentale ieraticità riflette orientamenti cari all'arte macedone, la fattura musiva, particolarmente sensibile, è la principale responsabile di quelle impercettibili modulazioni che rendono il volto di Alessandro così mobile nella ferma ossatura tipologica. In altra direzione si constatano interessanti 'messe a fuoco'. È caratteristica peculiare dei mosaici bizantini, e costantinopolitani in particolare, la tendenza a mescolare le tessere d'argento con quelle d'oro, onde intensificare lo scintillío dello sfondo aureo. Nella Santa Sofia se ne reperisce un uso ricorrente, ma variato di continuo nelle modalità, onde raggiungere di volta in volta fini mirati. Nel fondo contestuale al pannello di Alessandro l'altissima percentuale di tessere d'argento, che rappresentano addirittura un terzo del totale (Underwood, 1960), è certamente dettata dall'essere il luogo assai poco illuminato. Diversamente la percentuale di tessere d'argento nel fondo del mosaico, forse appena più tardo, ubicato sopra la c.d. porta dell'Orologio o porta Bella nel vestibolo sud-ovest della Santa Sofia, raggiunge meno di un decimo del totale, trovandosi il mosaico in un ambiente meno buio del precedente. È comunque impiegata una concentrazione di tessere d'argento con effetti di intensa rifrazione luminosa nel piano del suppedaneo del trono e nella resa delle vesti d'oro del Bambino; mentre l'inclinazione delle tessere della lunetta (posta a m. 6,50 di altezza) è meno della metà di quella precedente (Nordhagen, 1984).La cronologia del mosaico, il cui soggetto - la Theotókos in trono con il Bambino, affiancata da Costantino e Giustiniano che le offrono rispettivamente il modello della città di C. e del tempio della Santa Sofia - rinnova il tema dell'offerta di radice antica, oscilla tra la fine del sec. 8° e il 12°, ed è forse da collocare nel corso dell'avanzato sec. 10° (Lazarev, 1967). Il suo stile, espressione di un neoclassicismo maturo, segna contemporaneamente l'inizio del nuovo processo che si sarebbe compiuto nel sec. 11° (Lazarev, 1967). Nei riguardi delle espressioni più precoci dell'arte macedone, il mosaico del vestibolo sud si distingue per almeno tre diverse tendenze: una concezione dello spazio percepito e costruito nella dimensione della profondità, per cui appare abitato dalle figure; un'accentuazione del trattamento lineare, particolarmente evidente nella formulazione dei volti dei due imperatori, della quale è espressione nel registro delle modalità tecnico-formali la regolarità dell'andamento delle tessere disposte in filari meno distanziati e discontinui rispetto al mosaico del nartece; infine l'apertura verso una gamma cromatica densa e severa, frutto di una scaltrita scelta di sfumature.Alcuni degli orientamenti già intravisti nel mosaico del vestibolo sud, quali la tendenza alla riduzione grafica del trattamento delle forme e la ricerca intorno al colore, compaiono anche nella più tarda opera di pittura monumentale della temperie macedone di C., il mosaico situato sulla parete est della tribuna sud della Santa Sofia, con Cristo assiso in trono, al quale Costantino IX Monomaco (1042-1055) e l'imperatrice Zoe (m. nel 1050) offrono doni per la Santa Sofia. Gli esiti puntano verso una qualificazione della cromia in termini di gemmea matericità e durezza, evidente nell'azzurro scelto per le vesti del Cristo e nell'enfatizzazione delle stoffe e degli ornamenti, e verso una graficizzazione che raggiunge nel volto di Zoe, specie nella definizione dei pomelli, la valenza di una cifra. Questo mosaico risulta essere frutto di un montaggio, dal momento che le teste di tutte e tre le figure sono state rifatte e quella dell'imperatore sostituita alla preesistente, raffigurante il precedente marito di Zoe, Michele IV Paflagone (1034-1041). La sostituzione nel pannello di Zoe, dovuta soprattutto alla damnatio memoriae, è un esempio indicativo non solo del potere delle immagini, ma anche delle capacità tecniche sviluppate nelle botteghe bizantine, in grado di staccare superfici musive, integrarle, manipolarle in vario modo.Il sec. 12° e la nuova temperie figurativa legata alla dinastia comnena si aprono con un altro pannello musivo (1118), anch'esso un ex voto, compositivamente e tipologicamente affine al precedente e, come quello, ubicato nel vestibolo sud. Giovanni II Comneno e l'imperatrice Irene, stretti entro vesti tempestate di gemme e con le corone - rispettivamente Kameláukion e modíolos -, offrono doni per la chiesa e affiancano la figura della Vergine. Al pannello fu aggiunta la figura del figlio di Giovanni, Alessio, sfruttando uno dei lati del pilastro adiacente, allorquando Giovanni lo associò al trono nel 1122. Nel mosaico la svolta verso esiti legati ai valori di pura superficie e alla graficizzazione estrema non solo del disegno ma anche del colore è radicale, eppure il trattamento dei volti, specie di Irene e in secondo luogo di Alessio, lascia trasparire un'orma vivida di inquieta vitalità.I resti dei dipinti della chiesa inferiore di Odalar Cami e l'affresco con la Vergine Blacherniótissa rinvenuto in una cappella in rovina nel quartiere di Etyemez non illuminano particolarmente la pittura di un secolo che nella capitale, diversamente da quello che accadde fuori C., rimane a livello di produzione monumentale povero di testimonianze.Le monumentali icone a mosaico del S. Giovanni Battista Pródromos e dell'Odighítria, oggi nella chiesa di S. Giorgio al Patriarcato greco, ma provenienti dalla chiesa della S. Maria Pammakaristos (Fethiye Cami), insieme all'innegabile qualità, ostentano uno stampo figurativo di tipo ambiguo, non essendo pacifico se si tratti di opere della temperie macedone, postmacedone ma con tratti arcaizzanti, oppure già del sec. 12° (Furlan, 1979).Ritenuto talora frutto supremo del percorso artistico di epoca comnena, sulla base di confronti con i mosaici dell'abside di Cefalù (1148) e con l'icona della Vergine di Vladimir, della prima metà del sec. 12° (Mosca, Gosudarstvennaja Tretjakovskaja Gal.; Lazarev, 1967), il mosaico con la Déesis, sulla parete occidentale della tribuna sud della Santa Sofia, è da datare probabilmente al terzo quarto del 13° secolo. In tal modo viene ad assumere il ruolo di apertura nei riguardi del nuovo corso paleologo, all'indomani dello iato forzoso che conobbe la pittura a C. durante i decenni dell'occupazione latina della città (Demus, 1949). La sua scoperta a opera del Byzantine Inst. (Whittemore, 1933-1952, IV) ha restituito una testimonianza musiva di qualità assolutamente eccezionale, sia sotto il profilo stilistico sia sotto quello delle modalità tecnico-esecutive. Su un asse di riferimenti rivolto da una parte al recupero di tipologie antiche - sono sintomatici al riguardo la figura del Cristo, per cui vale il richiamo all'antica icona del Sinai, e il motivo a pelte del fondo oro -, dall'altra all'orizzonte figurativo di radice comnena, l'artista costantinopolitano, lavorando sul registro del disegno e del colore, giunse a produrre esiti del tutto innovativi. Affinando al massimo quei canali espressivi e riscattandoli dalla convenzionalità della cifra, dall'essiccamento manierista al quale erano approdati nella fase tardocomnena, l'artista li reinserisce nel circuito dell'organicità della forma con la funzione di griglia portante ma interna. Cosicché tutto ha un respiro classicamente umano e naturale: i volti e i panneggi grandemente lavorati, la trasparenza delle ombre, la gradualità piena di sapienza dei piani e dei passaggi cromatici, fino alla declinazione di una tendenza al patetico spiritualizzato. Il medium musivo si piega docilmente alle esigenze di questo progetto stilistico e riesce a sostenerlo senza perciò abdicare alle proprie specifiche prerogative. Si direbbe che nella Déesis della Santa Sofia il mosaico, in quanto genere tecnico-formale della rappresentazione, raggiunge il traguardo di essere massimamente pittorico, ma ancora mosaico e non pittura.Diversi altri dipinti scoperti di recente aggiungono nuovi tasselli alla fisionomia ancora dai lineamenti solo accennati dell'avanzato 13° secolo. Dovrebbe risalire a questa epoca (Naumann, Belting, 1966) il ciclo, dallo stile asciutto e impersonale, con quattordici scene della Vita di s. Eufemia nel martýrion della santa, ubicato vicino all'ippodromo, che ostenta un'adesione a impaginazioni iconografiche e a modi precedenti, mentre stilisticamente trova rapporti con le pitture originariamente sulla facciata sud della chiesa di S. Maria Pammakaristos, databili poco dopo il 1292 (Belting, Mango, Muriki, 1978).Quanto variegata e vivace fosse la situazione figurativa a C. al volgere del secolo lo suggerisce la serie dei dipinti scoperti nel corso degli scavi all'interno della Kalenderhane Cami. Partecipa della temperie paleologa il bel frammento di affresco rinvenuto, staccato e caduto, con la testa di un apostolo dormiente nell'area dell'esonartece (Striker, Kuban, 1971); si ritiene di epoca tardoduecentesca e di impronta paleologa anche il mosaico con la figura frammentaria dell'arcangelo Michele (Striker, Kuban, 1967), seppure non siano né pochi né marginali i legami con la pittura comnena. La stessa oscillazione tocca l'affresco di eccellente qualità campito nella nicchia del diaconico e rappresentante la Theotókos (in base al titulus la Vergine Kyriótissa) con il Bambino e il donatore.Vanno infine ricordati i sorprendenti affreschi con scene della Vita di s. Francesco, ubicati in origine nella semicupola della cappella nell'area del diaconico (Istanbul, Arkeoloji Müz.). Degli undici assai piccoli pannelli originari, dislocati su tre registri, si sono conservati i frammenti di quattro scene, fra le quali è identificabile con certezza la Predica agli uccelli. Il tema degli affreschi, che costituiscono la prima testimonianza nota di pittura murale dedicata alla vita di Francesco, e i caratteri latini dell'iscrizione monumentale che corre sull'arco d'ingresso permettono di datare le pitture entro l'arco di tempo compreso fra la canonizzazione di Francesco (1228) e la conclusione del regno latino di C. (1261). La coloritura stilistica da 'lingua franca' e da 'arte del Commonwealth mediterraneo' rende gli affreschi con Storie di s. Francesco della Kalenderhane Cami, per i quali all'indomani della loro scoperta fu suggerita la prossimità con la cerchia del pittore della Bibbia dell'Arsenale (Parigi, Ars., 5211; Striker, Kuban, 1967), un tassello assai prezioso all'interno delle dinamiche artistiche fra aree orientali e occidentali nel corso del Duecento.Con l'affacciarsi del nuovo secolo le tendenze paleologhe poco pronunciate nelle testimonianze pittoriche precedenti si affermarono con vigore. Esse sono attestate in una rosa di opere sparse e talora isolate, fra le quali vanno citati il frammento musivo della chiesa di S. Maria dei Mongoli al Fanar, i mosaici delle cupole del nartece esterno della Vefa Kilise Cami; i dipinti murali frammentari della Odalar Cami, di Isa Kapı Cami, della chiesa della Theotokos Chalkoprateia, della Santa Irene, del secondo strato degli affreschi a palinsesto rinvenuti nel quartiere di Etyemez (Lafontaine, 1959-1960). Ma laddove esse trovano la massima espressione è nei complessi di S. Salvatore in Chora, (Kariye Cami) e di S. Maria Pammakaristos. All'incirca coevi, risalendo al secondo e terzo decennio del Trecento, i mosaici della chiesa di S. Maria Pammakaristos e i mosaici e gli affreschi di quella del monastero di S. Salvatore di Chora condividono oltre al comune orientamento figurativo anche il tipo di committenza aristocratica e colta.I mosaici di S. Maria Pammakaristos ornano il parekklésion della chiesa del monastero costruita dal protostratore Michele Ducas Glabas Tarchaniotes nel 1292. Il parekklésion fu aggiunto in funzione di cappella funeraria in memoria appunto dello ktétor o fondatore del monastero dalla vedova Marta dopo la morte di Michele, avvenuta non prima del 1310. Marta commissionò al poeta di corte Manuele Philes il compito di comporre gli epigrammi commemorativi per la nuova costruzione; per ornarla scelse gli artisti nel milieu certamente più aggiornato onde suggellare un'operazione promozionale e di prestigio assai ardita, come era quella di destinare un'intera cappella a una sola sepoltura (Belting, Mango, Muriki, 1978).Nel loro complesso i mosaici sono un'opera unitaria, ma venata da molte sottili variabili. Come è stato a ragione notato, la bottega e l'artista bizantini possedevano agli inizi del Trecento modelli in una quantità e in una varietà non accessibili in passato (Belting, Mango, Muriki, 1978) e ovviamente una propensione a utilizzarli e a manipolarli come non mai. Le varie classi di immagini (Cristo e i profeti nella cupola, la Déesis nella conca absidale, il Battesimo di Cristo, la Dormizione della Vergine, quattro arcangeli, figure di santi e monaci) nascono dall'impatto fra modello esterno e maniera personale, distinguibile quest'ultima con molta nitidezza all'interno degli orientamenti più generali del cantiere. In questo scenario trova anche posto il recupero di partiti decorativi antichi, come la decorazione a girali su fondo bianco, scelta per le volte della protesi, del diaconico e altrove, che rimanda pianamente a soluzioni del tipo di quelle incontrate nella volta sopra la rampa sud-ovest della Santa Sofia, dell'inoltrato 6° secolo. Affini specialmente ai mosaici della chiesa dei Ss. Apostoli di Salonicco, oltre che a quelli di S. Salvatore di Chora, i mosaici di S. Maria Pammakaristos non sono tuttavia attribuibili alla medesima cerchia di artisti.Nella mappatura intorno ai processi e alle articolazioni stilistiche della pittura paleologa fra il 1260 ca. e il 1330, formulata da Belting (Belting, Mango, Muriki, 1978), mentre i mosaici di S. Maria Pammakaristos rappresenterebbero una fase denominata 'neoellenismo del I stile', i mosaici e gli affreschi di S. Salvatore di Chora rappresentano al massimo grado le tendenze del II stile, caratterizzato da un irrazionale trattamento delle superfici dei panneggi e dall'inosservanza dei canoni delle figure classiche. I mosaici si stendono nel nartece interno ed esterno (cicli dell'Infanzia di Cristo e della Vergine) e nel naós (Dormizione della Vergine, pannelli con il Cristo e la Theotókos Odighítria); gli affreschi nel parekklésion, dove sono raffigurati diversi soggetti fra i quali l'Anastasi, vari episodi pertinenti al Giudizio universale, le scene evangeliche della guarigione della figlia di Giairo e la risurrezione del figlio della vedova di Nain, diverse scene dell'Antico Testamento, soggetti che sono legati insieme dalla funzione sepolcrale dell'ambiente aggiunto alla preesistente chiesa del Salvatore di Chora da Teodoro Metochite, uno dei dotti bizantini più raffinati del sec. 14°, fine conoscitore della letteratura antica, committente del vasto programma decorativo e raffigurato appunto nel ruolo di ktétor ai piedi di Cristo sull'ingresso dal nartece interno al naós.L'ottimo stato di conservazione rivelato pienamente dal restauro a opera del Byzantine Inst. consente di cogliere la qualità e le caratteristiche di un complesso eccezionale. Appaiono pervase da grande novità e forza la libertà delle composizioni, dinamiche e piene di fantasia, la concezione delle figure eleganti, slanciate, ora fasciate da panneggi aderenti, ora entro panneggi ampi e svolazzanti, ma soprattutto il senso di un'unità spaziale che serra insieme in mille modi diversi e figurativamente inediti sfondi architettonici complicati, paesaggi e figure, e infine l'invenzione di un registro cromatico chiaro, festoso, fatto dalla combinazione di colori molto accesi con l'inserto di sfumature delicate, con effetti di forte cangiantismo nelle pieghe.Pochi complessi della pittura monumentale bizantina possono vantare un dispiegamento di motivi, che va al di là della pura e semplice economia dettata dalle ragioni iconografiche, e un piglio narrativo veloce, ricco di spunti, assai mobile, come i mosaici di S. Salvatore di Chora. L'accumulo che riguarda soprattutto gli sfondi dei paesaggi architettonici e il continuo movimento che incalza le figure spesso raffigurate con tagli inediti, da tergo, con i profili perduti - strutture compositive e ritmi di raffigurazione - squadernano un mondo rappresentato assai ricco di uomini e cose, colorato, 'cinematografico', ma antinaturalistico.Dietro le classi di immagini di S. Salvatore di Chora e dei loro modi srotolano infatti i binari di un iter figurativo legato al filo ininterrotto delle tradizioni ellenistiche a Costantinopoli. In questo senso le analogie fra i mosaici e un'opera come il rotulo di Giosuè (Roma, BAV, Pal. gr. 431), della prima metà del sec. 10°, sono assai illuminanti.Il processo della pittura a C. può dirsi che abbia il suo ideale epilogo proprio nei mosaici di S. Salvatore di Chora. Successivamente continuarono a farsi pitture nella capitale bizantina: nello stesso S. Salvatore, dove sono stati rinvenuti affreschi e mosaici negli arcosoli di una serie di tombe fino all'affresco nell'arcosolio della parete ovest del parekklésion, che rappresenta la figura di una donna davanti alla Vergine in trono con il Bambino, eseguito intorno alla metà del sec. 15° (Underwood, 1958), ma da un artista occidentale, probabilmente italiano e dell'area padana.
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Non vi è dubbio che i più splendidi libri miniati del mondo bizantino siano stati prodotti a C.; non è facile invece stabilire quali fossero i caratteri della produzione costantinopolitana ordinaria e come la si possa distinguere da quella provinciale. Uno dei problemi più complessi che la critica moderna deve affrontare consiste nel far assumere all'aggettivo 'costantinopolitano' una connotazione topografica e non qualitativa. Altrettanto arduo è definire il ruolo che ebbe la corte o l'imperatore nella produzione di opere di miniatura; i libri con ritratti imperiali sono, infatti, per lo più doni per l'imperatore e non opere di sua committenza (Spatharakis, 1976) e il concetto di scriptorium imperiale, così ben definito nelle ipotesi degli studiosi, potrebbe essere, nella maggior parte delle fasi della storia di C., appunto nulla più che un concetto.Alla base di tali questioni si pone il problema fondamentale di come fosse organizzata la produzione dei libri miniati nel mondo bizantino, questione che ha favorito lo sviluppo di teorie pertinenti alla codicologia piuttosto che alla pittura e ha inoltre accentuato il ruolo di C., in effetti l'unico centro bizantino cui sia attribuibile con certezza un numero consistente di libri miniati. Le indagini sui caratteri della produzione e della committenza sono state agevolate dalle splendide riproduzioni degli elementi ornamentali e delle miniature dei manoscritti conservati ad Atene (Marava-Chatzinikolau, Tuphexi-Paschu, 1978-1985), a Oxford (Hutter, 1977), sul monte Athos (The Treasures of Mount Athos, 1975-1992), a Patmo (Patmos, 1988), in Russia (Lichačeva, 1977), nel monastero di S. Caterina sul monte Sinai (Weitzmann, Galavaris, 1990) e a Venezia (Furlan, 1978-1988). È noto che anche artisti armeni e georgiani realizzarono a C. codici di lusso, ma la presente trattazione riguarda la sola produzione greca.La storia della miniatura costantinopolitana comincia a definirsi nel sec. 9°, giacché in precedenza il solo Dioscoride di Anicia Giuliana, del 512 (Vienna, Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1; Gerstinger, 1965-1970), è attribuibile con certezza alla produzione locale. Nella miniatura costantinopolitana apparsa dopo la crisi iconoclasta confluirono tre tradizioni: quella della stessa capitale, legata a valori classicheggianti, testimoniata per es. dal Tolomeo vaticano, del terzo decennio del sec. 9° (Roma, BAV, Vat. gr. 1291), quella palestinese (Weitzmann, 1979) e quella italiana, evidente nelle iniziali dipinte del codice con le Omelie di Gregorio Nazianzieno (Parigi, BN, gr. 510), che segnano l'avvio di una tradizione bizantina delle iniziali ornate distinta dalle illustrazioni a carattere figurativo (Brubaker, 1983).Gli elementi ornamentali dei cinque codici miniati di epoca post-iconoclasta risultano trascurabili se messi a confronto con le miniature a carattere figurativo, che sono invece numerose e complesse. Un codice del sec. 9° (Roma, BAV, Vat. gr. 699), che copia una Topographia christiana di Cosma Indicopleuste (sec. 6°), sia nel formato sia, con alcune aggiunte, nel ciclo illustrativo attesta quell'elemento di continuità che è tratto ricorrente di tutta la pittura costantinopolitana. Al contrario il citato codice di Parigi, dono del patriarca Fozio all'imperatore Basilio I, illustra le quarantacinque omelie di Gregorio Nazianzieno con miniature a piena pagina di inedita e irripetuta complessità esegetica. Infine tre piccoli salteri a figurazioni marginali, conservati rispettivamente a Mosca (Salterio Chludov; Gosudarstvennyj Istoritscheskij Muz., Add.gr. 129), sul monte Athos (Pantocratore, 61) e a Parigi (BN, gr. 21), rielaborarono i precedenti modelli dell'illustrazione libraria, creando un ciclo che per secoli venne riprodotto nel mondo bizantino: essi traducono la tipologia delle catene marginali in vere e proprie miniature marginali, che interpretano il testo con intensità 'verbosa' e polemica, trasformando i salmi in un'affermazione di ortodossia cristiana, spesso con valenze antisemite ed enfaticamente iconodule (Corrigan, 1992).Nella seconda metà del sec. 10° si ha un aumento significativo dei libri miniati. Tre manoscritti legati all'ambiente della corte - il Salterio di Parigi (BN, gr. 139; Buchthal, 1983, pp. 188-191), la Bibbia di Leone sakellários (Roma, BAV, Reg. gr. 1; Dufrenne, Canart, 1988), il rotulo di Giosuè (Roma, BAV, Pal. gr. 431; Josua-Rolle, 1984) - hanno in comune quell'ambizioso stile classicheggiante che ha indotto a contrassegnare con la globale definizione di rinascenza macedone l'arte del 10° secolo. Anche numerosi evangeliari del tardo sec. 10° presentano ritratti degli evangelisti in uno stile pittorico spesso di notevole livello qualitativo (Weitzmann, 1935). I tre manoscritti citati costituiscono, tuttavia, casi eccezionali piuttosto che esempi rappresentativi di quest'epoca, i cui caratteri possono essere invece meglio individuati attraverso tre diversi aspetti. Il primo consiste nel fissarsi di schemi illustrativi in relazione a determinati testi: l'evangeliario, in cui i ritratti dei quattro evangelisti vennero ripetuti sistematicamente; il vangelo per uso liturgico o lezionario (Anderson, 1992), che, con alcuni esemplari del tardo sec. 10° (per es. S. Caterina sul monte Sinai, Bibl., gr. 204), si avvia a divenire uno dei tipi librari più splendidamente ornati del mondo bizantino; infine, il salterio con miniature entro cornici, attestato nel sec. 10° dal suo più straordinario esempio, il Salterio di Parigi.La seconda caratteristica dei manoscritti del sec. 10° è data dallo sviluppo autonomo del repertorio ornamentale (Weitzmann, 1935; Madigan, 1987; Dufrenne, Canart, 1988), i cui elementi si distinguono per il colore e per i motivi decorativi da quelli delle cornici delle miniature a carattere figurativo che venivano generalmente realizzate su fogli aggiunti; ciò induce a ritenere che i pittori delle scene figurate fossero diversi da coloro che realizzavano le decorazioni, i quali lavoravano invece sulla pagina scritta, in modo analogo a quello degli scribi. Un indizio di entrambi i processi sopra descritti si ritrova nel Menologio eseguito per Basilio II (Roma, BAV, Vat. gr. 1613), un tipo di opera liturgica che in seguito - nella rivisitazione testuale di Simone Metafraste redatta su suggerimento dello stesso Basilio - divenne, insieme ai lezionari, uno dei tipi librari più riccamente illustrati del mondo bizantino. Questo manoscritto, privo di decorazione ornamentale, presenta oltre quattrocento miniature realizzate da otto pittori, il più importante dei quali è stato identificato da Ševčenko (1972) come un pittore di icone che non faceva parte di uno scriptorium organizzato - e men che mai di uno scriptorium imperiale - bensì era stato appositamente ingaggiato per quel lavoro.Un terzo elemento che caratterizza la miniatura del sec. 10° è costituito dal nascere di un rapporto di scambio tra C. e quelle che possono essere definite le sue province. Questo fatto è evidenziato dal folto gruppo di manoscritti in minuscola bouletée: una produzione dapprima considerata propria di C., ma attualmente attribuita anche ad altri centri (Agati, 1992). A questo tipo di minuscola si affiancò la decorazione c.d. a Laubsäge (con elementi vegetali a intarsio), nota nella capitale, che divenne per secoli una costante della decorazione dei manoscritti provinciali. Tale interscambio è evidente nel campo dell'ornamentazione, ma non in quello delle miniature a carattere figurativo.Nella seconda metà e in particolare nel terzo quarto del sec. 11° si ebbe la fase più importante della miniatura costantinopolitana, caratterizzata da un'abbondante produzione di libri riccamente miniati, da ampi cicli illustrativi e da una squisita raffinatezza di stile e di impaginazione (Weitzmann, 1971). Dominato da splendidi lezionari, come quelli conservati sul monte Athos (Dionisio, 587) e a New York (Pierp. Morgan Lib., M. 639), nella cui redazione trovano un perfetto equilibrio il repertorio ornamentale, le scene miniate entro cornice e i disegni marginali, questo periodo vide anche la produzione a C. della maggior parte dei menologi miniati conservati (Ševčenko, 1990) e delle edizioni liturgiche di Gregorio Nazianzieno (Galavaris, 1969), nonché la creazione di vasti cicli miniati, la cui aderenza letterale al testo è in forte contrasto con il carattere spiccatamente esegetico di quelli post-iconoclasti. Per quanto riguarda questi ultimi vanno menzionati gli ottateuchi (Lowden, 1992), i libri dei Re (Lassus, 1973), la Scala del Paradiso di Giovanni Climaco (Martin, 1954), il 'romanzo' di Barlaam e Iosafat (Der Nersessian, 1937) e i vangeli, in una particolare versione con fregi figurati (Omont, 1908; Velmans, 1971). Il salterio fu decorato in diversi modi. Sono conservati numerosi esemplari di piccole dimensioni con miniature entro cornice, chiaramente ideati per un uso privato (Cutler, 1984); un salterio vaticano (Roma, BAV, Vat. gr. 342) fu realizzato materialmente dal suo colto possessore, così come altri a figurazioni marginali. Tra questi ultimi, il più noto (Londra, BL, Add. Ms 19352; Der Nersessian, 1970) fu eseguito nel 1066, per l'abate del famoso monastero costantinopolitano di S. Giovanni di Studios, da un Teodoro di Cesarea, che, a quanto egli stesso afferma, eseguì sia la parte scritta sia la scrittura in oro, vale a dire le miniature. Queste sono dipinte nel c.d. style mignon, minuto e prezioso, scintillante d'oro, che compare in numerosi altri raffinati manoscritti dello stesso periodo e che è stato individuato da parte della critica come elemento caratteristico di un ipotetico scriptorium di Studios, adibito alla produzione di libri miniati (Dufrenne, 1967). Sulla base di due codici di piccolo formato, conservati a San Pietroburgo (Saltykov-Ščedrin, gr. 214) e a Mosca (Gosudarstvennyj univ. im. M. V. Lomonosova, 2280), eseguiti per l'imperatore Michele VII, si è ipotizzata invece l'esistenza di uno scriptorium imperiale (Lichačeva, 1976). Altre opere danno invece l'impressione di un più articolato sistema di produzione proprio di C., nel quale gli artisti venivano ingaggiati a seconda delle necessità per singoli progetti e potevano scambiarsi le idee nel corso del lavoro (Anderson, 1978).Dopo un periodo contrassegnato da varie tendenze stilistiche, il secondo quarto del sec. 12° vide l'emergere di una maniera decisa e fortemente decorativa, nella quale l'ornamentazione che denota un vivace dinamismo acquista spazio, giungendo a creare frontespizi simili ad arazzi e fantasiose iniziali zoomorfe, che si armonizzano per colore e per vivacità con le miniature a carattere figurativo. Praticata da diversi pittori (Anderson, 1979; Buchthal, 1983, pp. 140-149), tale maniera è associata principalmente a un grande artista noto come Maestro di Kokkinobaphos, definizione dovuta a due copie superbamente illustrate dei sermoni sulla vita della Vergine del monaco Giacomo Kokkinobaphos, altrimenti ignoto (Hutter, Canart, 1991). La ricca gamma cromatica, le caratteristiche iconografiche e l'esuberante ornamentazione di tale maestro compaiono in altri quattordici codici, soprattutto testi del Nuovo Testamento, almeno tre dei quali furono donati alla famiglia regnante dei Comneni o da essa commissionati (Anderson, 1982). Questo maestro collaborò con molti scribi diversi (Nelson, 1987) e - sebbene fosse specialista di un'arte libraria per la quale figure e decorazione erano parti integranti della stessa mansione - non sembra aver fatto parte di uno scriptorium che associasse scribi e pittori ai fini di una produzione seriale.Le opere miniate individuabili come costantinopolitane diminuirono decisamente nella seconda metà del 12° secolo. In un codice conservato a Istanbul (Lib. of the Ecumenical Patriarchate, 3; Nelson, 1978) il frontespizio multiplo con scene tratte dai Vangeli è testimonianza dell'innovazione più importante di quest'epoca, costituita da una modificazione delle scelte dei cicli evangelici raffigurati, atta a riflettere il carattere intensamente devozionale delle immagini in età comnena, per cui i Vangeli divenivano strumenti destinati a suscitare partecipazione emotiva. Evidente nell'aumento sia delle pagine di frontespizio sia dei cicli di illustrazioni, tale sviluppo ebbe il suo culmine nell'ultimo terzo del secolo con il cospicuo gruppo di libri realizzati nel c.d. decorative style, la cui relazione con C. è comunque estremamente problematica (Weyl Carr, 1987).La miniatura costantinopolitana all'epoca del regno latino (1204-1261) costituisce un enigma, la cui soluzione si basa su elementi di matrice latina e bizantina. Molti dei codici miniati delle epoche precedenti la fase della dominazione latina dovettero rimanere a C., come è testimoniato da una vera e propria abbondanza di cicli dal carattere retrospettivo a partire dall'ultimo terzo del sec. 13°: i salteri, le cui pagine di frontespizio sono frutto di accorti assemblaggi dalle miniature del Salterio di Parigi (Belting, 1972), i ricchi cicli dei vangeli del monte Athos (Iviron, 5) e di Parigi (BN, gr. 54), gli ottateuchi (Lowden, 1992), i salteri a figurazioni marginali, i libri dei profeti, la catena del libro di Giobbe e diversi evangeliari. Come Buchthal (1979) ha dimostrato a proposito delle serie dei ritratti degli evangelisti nel manoscritto di Atene (Nat. Lib., 118) e in quello del monte Athos (Iviron, 5), queste opere non sono esenti dall'influsso occidentale. Un vangelo di Parigi (BN, gr. 54), imparentato per iconografia con quello del monte Athos (Iviron, 5), e un salterio a figurazioni marginali, il c.d. Salterio Hamilton (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kupferstichkab., 78.A.9), hanno testo bilingue, latino e greco. L'effetto d'insieme è comunque quello di una vigorosa riaffermazione da parte di Bisanzio della propria tradizione.Dei vasti cicli pittorici che caratterizzano queste opere dell'epoca immediatamente successiva alla dominazione latina non vi è più traccia nei secc. 14° e 15°, secondo un processo già evidente nel folto gruppo di ventidue codici databili a cavallo tra il sec. 13° e il 14°, noti come gruppo Paleologina (Buchthal, Belting, 1978; Nelson, Lowden, 1991). Questo gruppo - che comprende opere di incomparabile eleganza, scritte in oro su pergamena bianchissima, come un Vangelo (Roma, BAV, Vat. gr. 1158) e un codice con le Epistole e gli Atti degli Apostoli (Roma, BAV, Vat. gr. 1208), le cui tavole dei canoni recano il monogramma di un personaggio femminile della famiglia paleologa che ha dato il nome al gruppo - non si caratterizza per le miniature, ma per l'ornamentazione estremamente raffinata, con motivi con intricati tralci vitinei propri del sec. 12° e profili di palmette tracciati in oro e blu intorno ad aree di pergamena bianca che richiamano la Laubsäge del 10° secolo. I ritratti degli autori, legati alla tradizione iconografica del sec. 10°, costituiscono le poche miniature presenti nei codici del gruppo e appaiono dipinti da mani diverse su fogli inseriti, assumendo così il ruolo aggiuntivo di appendice al libro. Il gruppo Paleologina, l'ultimo insieme coerente di manoscritti costantinopolitani di lusso destinati a essere miniati, segna il trionfo dell'arte miniatoria intesa come ornamento piuttosto che come pittura.La miniatura costantinopolitana dei secc. 14° e 15° costituisce un capitolo nuovo (Buchthal 1983, pp.157-172) e può essere esemplificata dai molti manoscritti prodotti nell'arco di un secolo nel monastero di Hodegon da una serie di scribi, che culmina con il grande uomo di lettere ed egumeno Joasaf, noto per avere eseguito trentuno libri firmati e altri non firmati tra il 1360 e il 1406 (Politis, 1977). Degli undici libri con miniature a carattere figurativo realizzati da Joasaf, soltanto quattro furono sicuramente concepiti per contenere immagini (Weyl Carr, 1981); negli altri sette le figure costituiscono un'aggiunta e persino la parte ornamentale fu inserita spesso per desiderio dei successivi proprietari dei manoscritti. Nello scriptorium del monastero di Hodegon, che era il principale centro di produzione di codici di lusso, la miniatura costituiva quindi un elemento aggiuntivo, inserita qualora ve ne fosse particolare richiesta. Laddove compaiono, le miniature sono per lo più limitate a immagini isolate a piena pagina, in sostanza icone su pergamena.Sebbene esistano libri di epoca paleologa con un maggior numero di miniature, come per es. l'inno Acatisto di Joasaf (Lichačeva, 1972), in essi non si ritrovano i cicli tradizionali che si erano sviluppati per i libri di lusso a carattere devozionale o per uso liturgico. Si tratta piuttosto di creazioni uniche, ideate appositamente; poche sono le miniature direttamente correlate al testo e per lo più si tratta di ritratti degli autori o dei donatori.La separazione tra testo e immagini in età paleologa viene generalmente spiegata in termini economici, come crisi degli scriptoria integrati a causa del ridotto mercato dei libri di lusso nel piccolo impero tardobizantino (Belting, 1970). Va tuttavia sottolineato che lo scriptorium rigidamente integrato non era mai stato caratteristico della produzione libraria costantinopolitana; sarebbe pertanto necessario studiare con maggiore attenzione la concezione bizantina del libro miniato, che permise ai grandi uomini di lettere della tarda epoca bizantina di superare tale separazione.
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I primi espliciti indizi sulle industrie suntuarie a C. sono individuabili già nella legislazione dei secc. 4°-5°, volta a monopolizzare sotto l'egida dello Stato la manifattura della seta, che si impose rapidamente soprattutto a partire dal sec. 6° con l'introduzione della coltura del baco sul territorio bizantino. Il sec. 6° siglò peraltro una fase di grande sviluppo per le arti suntuarie della capitale, in sintonia con il periodo di generale fioritura artistica e culturale coincidente con il regno di Giustiniano. Dalla seconda metà del sec. 7° al 9° l'esiguità delle opere superstiti sembrerebbe invece segnalare una sensibile flessione della produzione artistica, sebbene le testimonianze delle fonti contemporanee non diano questa impressione. Fu comunque il sec. 9° a inaugurare, sullo sfondo di quella straordinaria rinascita della cultura e delle arti di cui si fece interprete la dinastia macedone, l'età d'oro delle arti suntuarie, che fino a tutto il sec. 12° divennero le incontrastate protagoniste delle pompe imperiali e delle liturgie ecclesiali. Emblematica a riguardo è la testimonianza del De caerimoniis di Costantino VII Porfirogenito, dove viene registrato anche il ruolo attribuito agli oggetti, all'abbigliamento e agli arredi suntuari nell'ambito della complessa etichetta palatina. Le vesti, a seconda del colore e della qualità, identificavano tra l'altro le diverse gerarchie, scandendo altresì i tempi delle processioni e delle udienze imperiali, che prevedevano reiterati cambi d'abito, di corona e di altri accessori. Ne emerge parallelamente il messaggio politico affidato agli oggetti suntuari, esibiti nei grandi banchetti o elargiti in dono agli ambasciatori, ai sovrani stranieri e ai papi di Roma, come segni tangibili della ricchezza, della gloria e della potenza dell'impero bizantino. Per quanto riguarda invece il ruolo delle arti suntuarie nell'economia urbana il Libro degli Eparchi, del sec. 10° - raccolta di norme governative che regolamentavano rigidamente la produzione e il commercio degli artigiani afferenti a ventidue specifiche corporazioni professionali, dette systémata o somatéia -, tramanda le informazioni più interessanti, specie sull'articolata organizzazione dell'industria tessile.Nonostante i ricorrenti contrasti politici che turbarono nei secc. 11° e 12° l'impero dei Ducas, dei Comneni e degli Angeli, non sembrerebbe delinearsi alcuna recessione nelle produzioni suntuarie: il lusso ostentato dalla corte costantinopolitana appariva anzi ancora più opulento, finché tutto si dissolse nel saccheggio perpetrato dai crociati latini (1204), dal quale C. non si risollevò più. Il suo declino offuscava ormai i passati splendori, il cui ricordo era tuttavia perpetuato da quegli oggetti che in forma e situazioni diverse avevano preso da tempo la strada dell'esilio (Riant, 1876-1878). Non in Oriente bensì in Occidente, soprattutto nei tesori delle chiese, dove le stoffe preziose portate da C. servirono ad avvolgere le reliquie dei santi o furono impiegate come arredi liturgici, vanno infatti ricercati i frammenti dei tessuti creati dai prestigiosi laboratori costantinopolitani. Molti pezzi, specie quelli conservati a Roma, provengono da doni imperiali, altri furono acquistati da pellegrini e ambasciatori, mentre un numero cospicuo faceva parte del bottino crociato.Molteplici difficoltà complicano tuttavia lo studio delle sete bizantine, e non solo per la frammentarietà dei materiali superstiti: assai problematiche sono infatti le datazioni e incerta è l'identificazione dei luoghi di manifattura. Non sempre è facile distinguere le stoffe bizantine da quelle sasanidi, alessandrine o siriache, e quindi islamiche, accomunate da medesime connotazioni tecniche e da analoghi repertori decorativi, sebbene la produzione costantinopolitana presenti solitamente composizioni più equilibrate, eleganti abbinamenti cromatici e soprattutto raffinate sfumature delle tinture porpora, riservate esclusivamente ai tessuti imperiali (Falke, 1913; Beckwith, 1974).I lacerti superstiti, anche se danno solo in minima parte un'idea della straordinaria varietà del repertorio ornamentale dei tessuti prodotti nei laboratori metropolitani, ne offrono comunque un'interessante campionatura sia per i soggetti cristiani, mitologici e imperiali, sia per i motivi zoomorfi, geometrici e vegetali racchiusi in grandi medaglioni, ovvero ripetuti in serie simmetriche, come nel tessuto porpora (Liegi, Mus. d'Art Religieux et d'Art Mosan) con ornati vegetali stilizzati di colore giallo includenti il monogramma dell'imperatore Eraclio (610-641; Liegi, Mus. d'Art Religieux et d'Art Mosan). Reiterati sono i richiami ai modelli sasanidi, soprattutto nelle scene di caccia al leone del re Bahrām Gūr (Lione, Mus. Historique des Tissus), utilizzate a C. per enfatizzare il trionfo imperiale, e nelle decorazioni zoomorfe, con animali reali e fantastici come il senmurv, il cavallo alato, il grifone, l'elefante, il leone e anche l'aquila, che sono tra l'altro documentate senza soluzione di continuità dal sec. 6° al 12° da una splendida serie di esempi: il bianco tessuto con grifoni porpora intessuti d'oro (Sens, Trésor de la Cathédrale); quello con grandi aquile su fondo giallo (Auxerre, Trésor de la Cathédrale); il tessuto porpora con leoni passanti e i nomi di Basilio II e Costantino VIII (Colonia, Erzbischöfliche Diözesan- und Dombibl.); la seta porpora con figure di elefanti, recuperata nel sarcofago di Carlo Magno ad Aquisgrana (Domschatzkammer), con un'iscrizione che specifica eccezionalmente il luogo di fabbricazione, lo Zeuxippos, una manifattura imperiale situata in prossimità del palazzo imperiale di C. e della c.d. casa delle Luci, denominazione derivata dall'illuminazione notturna dell'edificio, ove si svolgevano le compravendite degli articoli di lusso (Giorgio Cedreno, Historiarum compendium; CSHB, IV, 1838, p. 648).Sovente i tessuti erano impreziositi da ricami d'oro e da pietre preziose: celebri sono le cortine del ciborio della Santa Sofia giustinianea, ricamate con le figure di Cristo, della Vergine e degli imperatori (Paolo Silenziario, Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae, vv. 758-805). Fu del resto proprio il ricamo a divenire protagonista dell'abbigliamento in età paleologa, siglando emblematicamente anche l'ultimo atto della parabola bizantina; infatti le aquile ricamate sulle calzature di seta purpurea permisero di identificare il corpo di Costantino XI, morto nella difesa di C. il 29 maggio 1453 (Giorgio Franze, Annales, III, 9).Fu tuttavia nell'oreficeria che i laboratori suntuari di C., padroneggiando con grande maestria le tecniche ereditate dall'Antichità, riuscirono a esprimere al meglio gli ideali estetici bizantini, il piacere del lusso e l'ostentazione della ricchezza, soprattutto nei secc. 10°-12°, allorquando predominò la tecnica dello smalto cloisonné, di cui il Tesoro di S. Marco a Venezia ha conservato alcuni tra gli esempi più superbi (Il Tesoro, 1986). Di alta qualità appare comunque sin dal sec. 6° la lavorazione dei metalli preziosi, testimoniata da piatti, coppe, vasi, calici e altri oggetti di carattere liturgico o di uso profano per lo più in argento, anche dorato, con decori sbalzati, incisi o niellati, da cui si ricavano peraltro utili informazioni sul lusso quotidiano e sulla cultura della società dell'epoca, le scelte della quale riflettono da un lato lo sviluppo dell'iconografia cristiana e dall'altro la forte impronta della cultura classica, evocata dai temi pagani su un gran numero di suppellettili. Di tradizione classica è anche lo stile del modellato, che mostra una piena comprensione della forma e del movimento delle figure sia nelle opere di età di Giustiniano, come per es. un piatto con scena pastorale siglato appunto dal bollo di questo imperatore (San Pietroburgo, Ermitage), sia in quelle leggermente più tarde, come un secchiello con divinità pagane (Vienna, Kunsthistorisches Mus.) e un piatto con Atalanta e Meleagro (San Pietroburgo, Ermitage), entrambi datati dal bollo di Eraclio (Age of Spirituality, 1979). Nonostante la presenza dei bolli di controllo su questi e numerosi altri oggetti (ca. 200), è assai problematico ricondurne la lavorazione a C., non potendosi in effetti stabilire il momento della stampigliatura (Dodd, 1961; Feissel, 1986).Dipendono ugualmente da modelli classici i gioielli coevi: collane, braccialetti (Lepage, 1971), cinture matrimoniali (Vikan, 1990), ornamenti di cinture, medaglioni, orecchini, soprattutto di forma semilunata con pendenti, caratterizzati da delicati motivi vegetali e animali ritagliati a traforo su una sottile lamina aurea (opus interassile), con raffinati contrappunti cromatici di perle, pietre preziose o semipreziose e di smalti, nonché di ornati a niello, specie gli anelli, su cui venivano iscritti monogrammi, indicazioni gerarchiche e invocazioni cristiane. Frequenti sono del resto le raffigurazioni cristiane sui gioielli bizantini, molti dei quali erano anche specificamente destinati a contenere reliquie (enkólpia) e venivano indossati a guisa di amuleti (Vikan, 1984). In epoca mediobizantina i gioielli si appesantirono: gli orecchini, lavorati a filigrana, assunsero forme più tridimensionali, le collane moltiplicarono i pendenti e i braccialetti divennero fasce assai pesanti con figurazioni a rilievo. Ampiamente documentata è anche una gioielleria 'minore', che imitava nel bronzo dorato i più costosi modelli d'oro e d'argento (Hackens, Winkes, 1983).La disomogeneità dei materiali e soprattutto l'ampia distribuzione geografica dei ritrovamenti rendono assai problematica la localizzazione dei centri di produzione e quindi la precisa individuazione dei gioielli di manifattura costantinopolitana. Non sussistono invece dubbi sulla provenienza dalla capitale imperiale della croce-reliquiario del Tesoro di S. Pietro a Roma, con ogni probabilità donata da Giustino II (565-578) a papa Giovanni III, decorata con pietre preziose e ornamentazioni a sbalzo, in cui, nonostante interventi posteriori, è forse possibile cogliere un suggestivo riflesso della ricchezza degli arredi liturgici della Santa Sofia giustinianea decantati da Paolo Silenziario; in questo oggetto si preannunzia peraltro quel gusto per una ridondante decorazione policroma che nelle oreficerie mediobizantine venne superbamente amplificata dagli smalti.Tranne alcuni esempi riferibili forse a epoca iconoclasta - i problematici smalti della brocca di Saint-Maurice d'Agaune (Trésor de l'Abbaye de Saint-Maurice), un medaglione di Parigi (Louvre) e i braccialetti (perikárpia) di Salonicco (Archaeological Mus.), tutti caratterizzati da temi decorativi profani di ispirazione sasanide che ebbero appunto larga diffusione in quel periodo -, la maggior parte degli smalti oggi nota si colloca in un periodo compreso tra i secc. 11° e 12°; in quest'epoca abbondano tra l'altro testimonianze letterarie circa le opere di oreficeria che accompagnavano la vita pubblica e privata dei sovrani, dai preziosi oggetti esibiti nei ricevimenti imperiali agli arredi liturgici, come la recinzione e il ciborio in oro e argento tempestati di perle e pietre preziose della Nea Ekklesia fondata da Basilio I (867-886) e il témplon dell'oratorio di Cristo Sotér, costruito dallo stesso imperatore, che presentava anche medaglioni figurati a smalto (Teofane Continuato, Chronographia, V).Gli esempi di oreficeria profana sono rari, mentre predominano gli oggetti di uso liturgico, quasi tutti creati nelle botteghe orafe della capitale, che abbinano al pregio artistico un grande interesse documentario che si incentra sia sui personaggi di rango imperiale o comunque aristocratico, al cui nome sono legati il possesso o la committenza degli oggetti stessi, sia sull'intrinseco significato storico dell'oggetto; è il caso del coperchio di un reliquiario proveniente dalla chiesa della Vergine del Faro, acquistato a C. da s. Luigi nel 1241 (Parigi, Louvre), o dell'encolpio del Santo Sangue (Siena, Spedale di S. Maria della Scala), che faceva parte della collezione imperiale e che fu venduto ai veneziani nel 1356-1357 dall'imperatrice Elena Cantacuzena, moglie di Giovanni V Paleologo (Hetherington, 1988). Di straordinario interesse documentario è anche il piccolo reliquiario smaltato di Maastricht (Schatkamer van de Basiliek van Onze Lieve Vrouwe), il cui prototipo iconografico ebbe forse come modello un'icona a smalto conservata nella chiesa di S. Demetrio a C. (Wessel, 1967, nr. 39).Questa serie di oggetti fornisce inoltre ampio materiale di studio a proposito delle tecniche esperite dagli orafi costantinopolitani. Per quanto riguarda gli smalti cloisonnés, è possibile ripercorrerne l'evoluzione attraverso alcuni esemplari che a loro volta costituiscono i referenti cronologici per numerosi altri smalti privi di oggettivi elementi di datazione: la corona votiva di Leone VI (886-912; Venezia, Tesoro di S. Marco), le eleganti montature dei due calici di Romano (probabilmente l'imperatore Romano II, 959-963; Venezia, Tesoro di S. Marco), la stauroteca di Limburg an der Lahn (Staurothek Domschatz und Diözesanmus.), la cui committenza è legata al nome di Basilio Proedro (940-986), figlio naturale di Romano I Lecapeno, la corona di Costantino IX Monomaco (1042-1055) e quella d'Ungheria (1074 ca.), entrambe a Budapest (Magyar Nemzeti Múz.), e infine le placchette in opera nel grandioso palinsesto della Pala d'oro (secc. 11°-13°; Venezia, S. Marco). Si tratta di un'evoluzione senza scadimenti di qualità, caratterizzata dall'arricchimento delle gamme cromatiche e degli effetti traslucidi, dall'abbandono delle stesure smaltate per gli sfondi delle figure (medaglione con l'Ultima Cena in una patena d'onice: Bruxelles, Coll. Stoclet; legatura con Crocifissione e Vergine orante: Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. Cl.1.101), privilegiando piuttosto l'isolamento delle immagini a smalto sul terso fondo della lamina d'oro (calici di Romano, calice dei Patriarchi: Venezia, Tesoro di S. Marco), e soprattutto dalle più o meno fitte trame di cloisons che disegnano le figure, sino al ridondante decorativismo di maniera delle opere del sec. 12° (icona dell'arcangelo Michele stante; Venezia, Tesoro di S. Marco), che s'impone per l'ineguagliabile maestria tecnica.Altrettanto pregevoli sono le altre tecniche orafe: il niello, frequente nella decorazione di piccoli oggetti, in particolare anelli ed encolpi; la filigrana, peculiare dei rivestimenti d'icona di epoca paleologa, ma nella più economica versione in argento (Grabar, 1975); lo sbalzo (Bank, 1970), presente soprattutto nelle incorniciature delle icone e nei rivestimenti delle stauroteche (Frolow, 1965). Tra queste ultime l'esempio più celebre è la citata stauroteca di Limburg an der Lahn, portata in Europa da C. nel 1207 da Heinrich von Ulmen, oggetto che esibisce accanto alle altre tecniche orafe figurazioni a smalto di elevatissima qualità, la cui peculiare sigla stilistica, individuabile nelle fluide stesure bicrome delle vesti a due tonalità di azzurro, ricorre anche in altre opere, come i citati calici di Romano, probabilmente realizzati nel medesimo laboratorio.Per la maggior parte i calici del Tesoro di S. Marco di Venezia, ben più sontuosi degli esemplari paleobizantini solitamente in argento dorato con decori sbalzati o incisi, racchiudono entro preziose montature d'argento dorato, con smalti, perle e cabochons, coppe di pietra dura, soprattutto agata e sardonica, che nel caso dei calici di Romano e di quello di Sisinnio sono di antica fattura, mentre negli altri sono di produzione bizantina. Infatti si segnalano alcune incertezze nella lavorazione, verificabili soprattutto nell'irregolarità degli spessori, nelle levigature approssimative e nella semplicità delle forme prive di anse e di piede, che si riscontrano anche in una più ampia serie di vasi e di coppe di pietra dura che testimoniano il recupero di questa antica tecnica nel corso del sec. 10°; tale ripresa di gusto antiquario ben si colloca sullo sfondo della colta committenza macedone, alla quale è stata del resto ricondotta anche una serie di piatti e di coppe di vetro spesso e incolore con decori a dischi concavi (Venezia, Tesoro di S. Marco) che riproducono probabilmente più antichi manufatti di cristallo di rocca di tradizione sasanide.L'arte della glittica, specificamente per quanto riguarda intagli e cammei, non sembrerebbe aver avuto invece soluzione di continuità dal sec. 6° al 14°, come attesta il gran numero di esemplari pervenuti, per lo più con iconografie cristiane, dei quali peraltro datazioni e luoghi di manifattura sono ancora una volta difficili da definire. Ben pochi sono infatti i pezzi datati e, in considerazione del fatto che questo tipo di produzione si rivolgeva a una clientela diversificata socialmente, risulterebbe fuorviante attribuire a C. solo i pezzi iscritti con un nome imperiale, tra i quali vanno comunque segnalati un diaspro con il Cristo benedicente e sul verso la croce con il nome Leone, forse Leone VI (886-912), e un medaglione di serpentino con il busto della Vergine orante che reca il nome di Niceforo III Botaniate (1078-1081), entrambi a Londra (Vict. and Alb. Mus.; Wentzel, 1959), o i pezzi di più alta qualità, come due cammei di lapislazzuli eccezionalmente incrostati d'oro (Parigi, Louvre; Mosca, Cremlino, Oružejnaja palata). Quest'ultima tecnica, assai rara, si ritrova solo su una coppa d'agata (San Pietroburgo, Ermitage) e su un grande medaglione di lapislazzuli con la Crocifissione (Venezia, Tesoro di S. Marco), tutte opere il cui stile ne orienta la datazione all'11°-12° secolo.Altrettanto raro in epoca mediobizantina fu l'intaglio di pietre preziose o semipreziose. Questa tecnica di antica tradizione sembrerebbe in effetti declinare dopo la metà del sec. 7° e non è forse casuale che il suo riapparire sia collegato alla corte macedone, come testimoniano uno smeraldo incastonato nell'anello che reca iscritto il nome di Basilio parakoimómenos, identificato con Basilio I (867-886; Parigi, BN, Cab. Méd.), e un'agata con i ritratti di Leone VI e Costantino VII, del 908 ca. (Baltimora, Walters Art Gall.). Anche questa ripresa ben si adeguerebbe al contemporaneo clima culturale immerso nel culto dell'Antichità, che viene del resto suggestivamente evocato dal celebre vaso di vetro purpureo (Venezia, Tesoro di S. Marco), dipinto a smalto con scene mitologiche, tratte forse da antiche gemme, che si abbinano a iscrizioni pseudocufiche in una sorta di erudito pastiche ispirato probabilmente dallo stesso Costantino VII Porfirogenito, grande collezionista di gemme antiche (Cutler, 1974; Kalavrezou-Maxeiner, 1985b).Il vaso veneziano configura tra l'altro un raro esempio dell'arte vetraria della capitale bizantina. È infatti ancora tutta da verificare la provenienza da C. di una serie di vetri caratterizzati da un'analoga tecnica decorativa ritrovati a Dvin, Corinto, Cipro, Novogrudok e, più recentemente, a Otranto e Tarquinia, attribuiti ipoteticamente ad ambito costantinopolitano (Lafond, 1968; Grabar, 1971; Harden, 1971; Whitehouse, 1983). È stata piuttosto riconosciuta l'opera di artisti occidentali attivi durante l'occupazione latina (Lafond, 1968) nei frammenti di vetrate dipinte ritrovati nella chiesa meridionale del monastero del Pantokrator e in S. Salvatore di Chora, già datati al sec. 12° e attribuiti a una bottega costantinopolitana (Megaw, 1963).Per quanto riguarda gli avori, la loro produzione può essere circoscritta in due fasi distanti nel tempo e prive di espliciti collegamenti: la prima nel 6°, la seconda compresa tra la seconda metà del 10° e l'11° secolo. Al di là della ben nota serie di dittici consolari, imperiali e con iconografie cristiane e della problematica cattedra di Massimiano (Ravenna, Mus. Arcivescovile), eclettico capolavoro dell'arte giustinianea, occorre riconsiderare alcuni aspetti della splendida produzione mediobizantina, il cui riapparire, dopo oltre tre secoli di eclisse, coincise con il regno di Costantino VII Porfirogenito, ponendosi dunque ancora una volta come intenzionale recupero di un'arte antica.Negli avori dei secc. 10°-11°, che rappresentano forse la testimonianza più elevata della rinascenza macedone, emergono due precise tendenze: da un lato le eleganti e raffinate rievocazioni antiquarie dei decori profani ricorrenti nei c.d. cofanetti a rosette, che palesano appunto il tentativo di restare il più possibile fedeli alle forme e allo stile del modello antico, dall'altro gli avori con soggetti religiosi, solitamente in forma di trittico, a guisa d'icona portatile, nei quali le tradizioni classiche appaiono rielaborate e attualizzate in uno stile che è compiutamente bizantino.Assai più articolata è la classificazione cronologica e stilistica proposta da Goldschmidt e Weitzmann (1930-1934) secondo raggruppamenti che individuano la produzione di differenti botteghe gravitanti nell'orbita della corte imperiale, come il c.d. gruppo pittorico o antichizzante dei cofanetti a rosette e degli avori con vivaci iconografie sacre derivate forse da modelli pittorici e il 'gruppo di Romano', che include anche due avori legati al nome di Costantino VII (trittico: Roma, Mus. del -Palazzo di Venezia; tavoletta con l'imperatore incoronato da Cristo: Mosca, Gosudarstvennyj Istoritscheskij Muz.). Proprio questo gruppo, e più precisamente l'avorio da cui deriva il nome, con la raffigurazione di Cristo che incorona Romano ed Eudocia (Parigi, BN, Cab. Méd.), è stato oggetto di una revisione cronologica implicante un problematico prolungamento nel tempo, oltre la metà del sec. 11°, dello stile 'Romano' (Kalavrezou-Maxeiner, 1977).Sembrerebbe coincidere con il declino e la scomparsa degli avori la diffusione degli oggetti, per lo più piccoli rilievi con soggetti esclusivamente sacri, lavorati in steatite, una pietra assai morbida di colore grigio-verde sovente provvista di policromia; anche se gli esordi di questa produzione si individuano già sul volgere del sec. 10° - per es. il rilievo con l'Etimasia e santi militari (Parigi, Louvre), che imita in tono minore alcuni peculiari stilemi degli avori del 'gruppo di Romano' - il suo grande sviluppo, alimentato da numerosi laboratori attivi non solo a C., si focalizza nei secc. 11° e 12° e ancora in epoca paleologa (Kalavrezou-Maxeiner, 1985a).Il sec. 11° vide anche un'intensa ripresa nella fabbricazione di porte di bronzo, i cui precedenti sono testimoniati a C. dalle grandiose porte della Santa Sofia, sia quelle giustinianee (Bertelli, 1990) sia la c.d. porta dell'Orologio o porta Bella, un vero e proprio palinsesto di elementi antichi, assemblati in epoca giustinianea e nuovamente ristrutturati nella prima metà del sec. 9° (Borrelli Vlad, 1990). La produzione del sec. 11° è documentata dal gruppo di porte con intarsi d'oro e d'argento offerte da una committenza italiana alle chiese di Amalfi, Montecassino, Roma, Monte Sant'Angelo, Atrani, Salerno, Venezia (Matthiae, 1971; Frazer, 1973; Mango, 1978). La porta donata nel 1070 alla basilica romana di S. Paolo f.l.m. da Pantaleone di Amalfi, prima di essere danneggiata dall'incendio del 1823, recava iscritto in greco il nome del fonditore Staurachio e in siriaco il nome, purtroppo perduto, del decoratore. Le porte della cattedrale di Amalfi, ugualmente donate da Pantaleone nel 1060 ca., sono invece firmate da Simeone il Siriaco. Le iscrizioni latine delle porte di S. Paolo f.l.m. e del santuario di Monte Sant'Angelo (1076) esplicitano inoltre la loro provenienza costantinopolitana. Questa inconsueta commistione di lingue diverse da un lato evidenzia la fisionomia cosmopolita della fabbrica costantinopolitana, dall'altro - tenendo conto del fatto che nell'iscrizione della porta di Monte Sant'Angelo Pantaleone si dichiara come colui che portas has struxit e raccomanda nel contempo un modo speciale per pulirla - potrebbe lasciare spazio all'ipotesi che Pantaleone e il figlio Mauro, al cui nome sono legate le porte di Montecassino (1066), fossero a capo di una sorta d'impresa internazionale che impiegava specialisti orientali per fabbricare a C. oggetti destinati all'esportazione (Mango, 1978). Anche le porte bronzee della Grande Lavra e del katholikón del monastero di Vatopedi sul monte Athos, l'una con decori a sbalzo, l'altra con ornati damaschinati, datate rispettivamente al 1000 ca. e al sec. 14°, furono probabilmente fabbricate a C. (Lala Comneno, 1990).Nell'ambito della produzione ceramica costantinopolitana testimoniata da molte suppellettili di uso comune (Peschlow, 1977-1978; Hayes, 1992) vanno segnalati la serie di elementi (placche, cornici, colonnette, con decori policromi anche figurati) rinvenuti nella basilica di S. Giovanni di Studios e in quella del Topkapı (Istanbul, Asari Atika Müz.; Ettinghausen, 1954) e altri pezzi conservati a Parigi (Louvre) e a Sèvres (Mus. Nat. de Céramique), ugualmente attribuiti a manifatture attive nell'orbita metropolitana tra i secc. 9° e 10° (Coche de la Ferté, 1957). Non è improbabile che questi materiali facessero parte, come quelli di Preslav (Totev, 1987), di un'iconostasi. Dal punto di vista stilistico il confronto più calzante è individuabile nei decori plastici della chiesa nord del monastero di Costantino Lips (907), caratterizzati peraltro da un analogo lessico ornamentale d'ispirazione sasanide. In questo monastero furono recuperati anche numerosi frammenti di pannelli figurati con incrostazioni di marmi colorati, forse in origine pertinenti a un'iconostasi che potrebbe essere stata addirittura concepita a imitazione dei preziosi arredi delle fondazioni di Basilio I (Grabar, 1963).
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