COSTANZA d'Altavilla, imperatrice e regina di Sicilia
Figlia di re Ruggero II di Sicilia e della terza moglie Beatrice di Rethel (la quale discendeva da una famiglia comitale lorenese e quindi era imparentata, tramite la madre omonima, figlia del conte Goffredo di Namur, con i duchi di Zähringen e i conti di Hainaut) nacque nel 1154, probabilmente a Palermo, dopo la morte del padre avvenuta il 26 febbraio di quell'anno. Allevata dalla madre, trascorse l'infanzia alla corte di Palermo dove acquistò familiarità con i costumi e le usanze della sua terra natale. Prima del suo ingresso sulla scena della politica europea le fonti la ricordano una sola volta. Quando nella primavera del 1168, a Messina, l'opposizione contro il cancelliere Stefano di Perche andava sempre più crescendo, fu diffusa la voce che il cancelliere progettasse di mettere sul trono un suo fratello, il quale avrebbe dovuto sposare C. per conferire all'operazione un'apparenza di legittimità. La voce non mancò di produrre l'effetto desiderato: i francesi che si trovavano a Messina furono trucidati dalla folla esasperata e Stefano di Perche fu costretto a fuggire, mentre la rivolta dilagava con grande rapidità.
I posteri non vollero accontentarsi di notizie così scarne. D'altra parte è evidente che la figura e la sorte dell'imperatrice dovevano necessariamente accendere la fantasia del popolo fornendo materiale per "leggende" che, dopo essersi diffuse oralmente, vennero recepite dai cronisti e da loro presentate come fatti autentici. Nelle lotte tra Papato e Impero, tra guelfi e ghibellini, la storiografia antisveva dei secoli XIII e XIV si impadronì delle leggende sorte intorno alla figura di C., ampliandole, perfezionandole e facendone strumento di propaganda. Non era ancora trascorso un secolo dalla nascita di C. e già si credeva di sapere che la principessa fosse cresciuta nella solitudine di un monastero ed avesse pronunciato i voti, dai quali il papa l'avrebbe sciolta per permettere il suo matrimonio con Enrico VI di Svevia (Breve Chronicon, p. 891).È questa, per quanto sappiamo finora, l'origine della cosidetta "leggenda del monacato", immortalata da Dante nella Divina Commedia (Paradiso, III, 113 ss.). Comunque, a differenza di molti suoi contemporanei, Dante lasciò di C. un ritratto maestoso che suscita rispetto. In seguito, la leggenda fu ulteriormente elaborata dalla fantasia popolare e non c'è da meravigliarsi se anche la cronologia e la genealogia ne uscissero sempre più confuse. A partire dal secolo XIV, poi, vari monasteri si contesero l'onore di aver ospitato tra le loro mura l'imperatrice, come monaca se non addirittura come badessa. Col tempo, esibendo "prove" migliori, il monastero basiliano di S. Salvatore a Palermo si impose sugli altri. Non si accontentò di vantare una tradizione orale ininterrotta a suo favore, ma pretese di possedere anche prove concrete. Ai visitatori si mostrava con orgoglio il breviario greco dell'ex consorella, nonché il sepolcro di una sua serva, e si affermava di sapere dell'esistenza di documenti relativi alla dispensa di C. nell'archivio pontificio. La "prova" più importante era, però, un codice di lusso del Nuovo Testamento, con il voto monacale di C. scritto di proprio pugno, che si conservava nella biblioteca del monastero (P. Batiffol, L'abbaye de Rossano, Paris 1891, pp. 126, 128). Contro questa leggenda e il "culto" di C. che si andava formando si levarono voci critiche sin dal sec. XVI, voci che in parte non hanno avuto ascolto fino ad oggi.
Il fidanzamento con il figlio dell'imperatore fece uscire C. di colpo dall'oscurità della vita appartata che aveva condotto fino ad allora. Fu un avvenimento di portata storica, molto più importante nelle sue conseguenze del breve matrimonio tra il figlio dell'imperatore Enrico IV, Corrado (morto nel 1101), e Massimilla, figlia del conte Ruggero I. Il fidanzamento fu concluso ad Augusta il 29 ott. 1184, mentre a Verona l'imperatore Federico Barbarossa stava conducendo negoziati con il papa circa alcuni punti controversi nei loro rapporti, punti che, peraltro, sarebbero rimasti irrisolti.
Il fatto che le trattative per il fidanzamento siano rimaste del tutto sconosciute ha suscitato le più varie interpretazioni. Pietro da Eboli, l'unico testimone, afferma in un passo del suo poema - peraltro viziato da vari grossolani errori storici - che a mediare il matrimonio fosse stato il papa stesso. E. Rota e J. Haller hanno cercato di dare a questa affermazione basi più consistenti, ma il loro tentativo non sembra riuscito.È impensabile, infatti, che il papa sia stato talmente privo di intuito politico da mettersi con le proprie mani in una trappola del genere. Le ambizioni del Barbarossa non erano nuove. Già nel 1173-74 egli aveva tentato di rompere il fronte dei suoi nemici offrendo a Guglielmo Il di Sicilia la mano di una delle sue figlie (probabilmente di Beatrice); ma il progetto era fallito perché Guglielmo II non aveva voluto mettersi in urto con il papa. Il nuovo orientamento politico dell'imperatore e il crescente distacco tra Bisanzio e il Regno di Sicilia avevano modificato profondamente la costellazione delle potenze europee e lasciavano sperare in un esito favorevole del nuovo tentativo. Ormai i vantaggi dell'alleanza erano evidenti per ambedue le parti. All'imperatore un accordo con la Sicilia poteva garantire maggiore libertà di movimento nell'Italia settentrionale, mentre a Guglielmo offriva la copertura per le sue mire su Bisanzio che ora, dopo la morte dell'imperatore Manuele, avevano più che mai prospettive di successo. Certamente, al momento della conclusione dell'accordo non poteva ancora essere previsto l'effettiva successione di C. sul trono siciliano e quindi la pacifica realizzazione dell'"antiquum ius imperii" sulla Sicilia. Ma di fronte all'evidente debolezza genealogica della dinastia normanna una eventualità del genere doveva pure essere stata presa in considerazione. Tuttavia la tesi secondo cui Guglielmo II già nel 1184 aveva rinunciato alla speranza di avere figli dal suo matrimonio ed aveva voluto controbilanciare le inevitabili difficoltà della sua successione con l'accostamento della Sicilia all'Impero, offrendo come una specie di dote l'Impero di Bisanzio (così G. Fasoli e G. Baaken) non trova fondamento nelle fonti e resta quindi una mera ipotesi. E personaggio della corte palermitana che maggiormente sostenne il matrimonio fu l'arcivescovo Gualtiero di Palermo, contrastato soprattutto dal vicecancelliere Matteo di Aiello.
All'inizio dell'estate 1185 Guglielmo II tenne una Curia a Troia, nel corso della quale i grandi del Regno, tra cui Tancredi di Lecce, Ruggero di Andria e il vicecancelliere Matteo di Aiello giurarono che avrebbero riconosciuto la successione di C. nell'eventualità che Guglielmo Il fosse morto senza eredi diretti.
Nell'estate del 1185 C. lasciò Palermo per trasferirsi a Milano dove dovevano celebrarsi le nozze. È significativo che proprio la vecchia protagonista della politica antimperiale in Italia abbia chiesto l'onore di ospitare la cerimonia: un'evidente prova del nuovo indirizzo politico del Barbarossa suggellato davanti agli occhi del mondo con un'alleanza tra l'imperatore e il Comune l'11 febbr. 1185. Guglielmo II accompagnò personalmente C. e il suo spettacolare seguito di uomini, cavalli e muli, fino a Salerno. A Rieti C. fu accolta, in rappresentanza dello sposo trattenuto in Germania, dove a Spira assisteva ai funerali della madre, da una delegazione imperiale. A Foligno, poi, incontrò probabilmente l'imperatore. Passando per Piacenza e per Pavia (dove forse festeggiò il Natale) C. giunse finalmente a Milano. Le nozze furono celebrate il 27 genn. 1186 (che stranamente non era un giorno festivo) in S. Ambrogio con grande pompa, ma senza la partecipazione del papa. Il patriarca Goffredo di Aquileia incoronò Enrico VI (non è ben chiaro il significato di questa innovazione: si trattava forse della corona del regno d'Italia?) e C. fu incoronata regina da un vescovo tedesco di cui le fonti non indicano né il nome né la sede (ma forse era l'arcivescovo di Magonza).
Le fonti non menzionano C. nel periodo successivo che vide Enrico VI operare nello Stato della Chiesa. Dopo il ritorno di Enrico in Germania il nome di C. è ricordato una sola volta e precisamente nel 1188 in connessione con le trattative relative alla successione nella contea di Namur alla quale aspirava un parente di C., il conte Baldovino di Hainaut. C. intervenne a suo favore (evidentemente con successo) presso il marito e il suocero. Meno fortunato fu invece nel 1191-92 uno zio di C., Alberto di Rethel, che, nonostante le assicurazioni ricevute in precedenza, non riuscì a prevalere nella contrastata elezione alla sede vescovile di Liegi.
Nell'estate del 1189 Enrico VI assunse la reggenza per il padre in procinto di partire per la crociata e trattava con Clemente III in merito alla sua incoronazione imperiale. Durante il conflitto con Enrico il Leone, tornato dall'esilio inglese, si diffuse la notizia della morte di Guglielmo II (18 nov. 1189) che apriva prospettive del tutto nuove e concentrava tutta l'attenzione di Enrico sulla Sicilia, tanto più che i baroni siciliani, come ben presto si vide, non erano disposti a rispettare gli impegni presi per la successione di Costanza.
Guidata dal vicecancelliere Matteo di Aiello, la nobiltà di corte aveva infatti approfittato dei diffusi sentimenti antitedeschi per privilegiare una "soluzione nazionale" eleggendo re il conte Tancredi di Lecce, un nipote illegittimo di Ruggero II, in dispregio ai diritti di C. sostenuti invano dall'arcivescovo Gualtiero di Palermo; ma non era riuscita a convincere anche la nobiltà della terraferma a passare compattamente dalla parte di Tancredi, che il 18 genn. 1190 fu incoronato re di Sicilia.
Enrico VI era deciso ad accettare la sfida. All'inizio del 1191 era di nuovo nell'Italia settentrionale e il lunedì di Pasqua (15 apr. 1191) fu incoronato imperatore, insieme con C., dal nuovo papa Celestino III che inizialmente aveva opposto resistenze. A maggio iniziò, con l'aiuto della flotta dei Pisani, suoi alleati, l'assedio di Napoli che tuttavia gli resistette strenuamente. Un'epidemia, di cui si ammalò gravemente anche Enrico VI, lo costrinse nell'agosto ad abbandonare definitivamente ogni ulteriore progetto di conquista e a ritornare in Germania. A rendere più completa la disfatta dell'imperatore venne la cattura di C. che a Salerno era caduta nelle mani degli avversari.
Pietro da Eboli è l'unica fonte che riferisca sulle circostanze della cattura di C. (vv. 392 ss.) ed è anche probabile che nei punti essenziali il suo racconto, ricco come al solito di dettagli fantasiosi - i quali non meritano alcun credito e rivelano soltanto l'intenzione dell'autore di esaltare C. e di mettere in cattiva luce i suoi avversari - corrisponda a verità. Secondo la testimonianza di Goffredo da Viterbo (Gesta, p. 336) C. era sofferente e questa circostanza sarebbe di per sé sufficiente a spiegare la decisione di Enrico VI. Pietro da Eboli racconta, invece, che un'ambasceria di Salernitani aveva chiesto all'imperatore di poter accogliere dentro le loro mura C. per garantire la fedeltà della città ad Enrico VI. Questa versione, d'altronde, non contrasta necessariamente con il racconto di Goffredo. L'arcivescovo di Capua accompagnò, secondo Pietro da Eboli, l'imperatrice che fu accolta con grandi onori a Salerno e prese alloggio nel castello di Terracina. Per la sua sicurezza la città consegnò ostaggi all'imperatore. Soltanto nella Cronaca di Burcardo di Ursberg (p. 72) troviamo la notizia, piuttosto confusa per la verità, che C., prima di essere catturata, era stata assalita presso Cuma, mentre si stava recando dall'imperatore. Durante il soggiorno di C. a Salerno furono coniate, a quanto pare, anche monete con la sua effigie, accanto a quelle imperiali.
Dopo l'interruzione dell'assedio di Napoli, a Salerno presero il sopravvento i seguaci di Tancredi (l'arcivescovo Nicola era uno dei suoi principali sostenitori) e, impressionato dalla falsa notizia della morte dell'imperatore, anche l'umore della folla cambiò. Solo a stento il seguito dell'imperatrice riuscì a difendere il castello. Un nobile salernitano, di nome Elia di Gesualdo, intimò a C. di seguirlo come prigioniera: C. riuscì ad ottenere soltanto che fosse concesso agli imperiali di lasciare la città. Un'altra fonte afferma che fu l'ammiraglio Margarito ad accompagnare C. a Messina; tale notizia non sembra contraddire al racconto di Pietro da Eboli (Sicardi ep. Cremonensis Cronica, pp. 173 s.).
A Messina C. fu consegnata a Tancredi, il quale, preoccupato per la sua sicurezza, la mandò presto a Palermo affidandola alla sorveglianza della moglie Sibilla. Ma alla fine, viste le manifestazioni di simpatia della folla, per consiglio del suo cancelliere la fece trasferire a Napoli e rinchiudere nel Castel dell'Ovo, sotto la custodia di Aligerno Cottone, un nobile distintosi in occasione dell'assedio di Napoli (in seguito, al più tardi nel 1194, il Cottone passò dalla parte dell'imperatore, il quale lo investì della contea di Sorrento).
L'indicazione di Pietro che C. fosse stata trasferita a Napoli è spesso stata messa in dubbio, ma non ci sono argomenti validi per smentire il soggiorno di C. in quella città. È invece certamente inventato il testo delle lettere che secondo Pietro da Eboli sarebbero state scritte da Tancredi, da Sibilla, da Matteo di Aiello e da Celestino III in connessione con la prigionia di Costanza. È fuori dubbio che sia stato il papa ad ottenere la liberazione di C., tanto più che le fantasticherie del cod. Giordano a questo proposito, del resto molto posteriori agli avvenimenti, non meritano alcun credito (Muratori, Ant., IV., p. 985). In precedenza Enrico VI si era lamentato con Celestino III della cattura di C. (Ottonis de Sancto Blasio Chronica, p. 56) e aveva forse chiesto la mediazione pontificia (Roger de Hoveden, III, p. 164). Il papa però "putabat Romae curri ea de concordia tractare" (Annales Casinenses, p. 316). Pare che durante le trattative, che avrebbero portato al concordato di Gravina (giugno 1192), Celestino III abbia chiesto a Tancredi di consegnargli C. a Roma, allo scopo di esercitare una pesante pressione su Enrico e costringerlo a venire a patti.
C., comunque, fu consegnata ai cardinali incaricati dal papa e insieme con loro si diresse verso Roma. Presso Ceprano, sul confine con lo Stato pontificio, la piccola comitiva si imbatté nell'abate Roffredo di Montecassino che stava tornando dalla Germania ed era accompagnato da una schiera di armati. Non si conoscono i particolari precisi dello scontro. Qualcuno (Haller, p. 104) addirittura non ha voluto escludere del tutto la possibilità che C. sia stata liberata contro la sua volontà, ma è una pura ipotesi che non trova supporto nelle fonti. Una volta liberata C. si recò in Germania, passando da Tivoli e da Spoleto, senza aver visto né Roma né il papa.
Del soggiorno di C. in Germania sappiamo soltanto che a Hagenau vide Riccardo Cuor di Leone ivi imprigionato (Roger de Hoveden, III, p. 209). Munito del denaro del riscatto ottenuto per la liberazione del re inglese, Enrico VI nel maggio del 1194 lasciò con la moglie la Germania per scendere in Italia e tentare ancora una volta la conquista della Sicilia. La situazione sembrava favorevole. Tancredi, che con continue spedizioni militari era riuscito a difendere la sua posizione contro i fedeli dell'imperatore, senza però mai tentare una battaglia decisiva, era morto a Palermo il 20 febbr. 1194, poco tempo dopo il figlio maggiore Ruggero. Il suo erede, Guglielmo III, era ancora un fanciullo che governava sotto la tutela della madre Sibilla ed era in balia delle fazioni di corte, tanto più che già nel 1193 era morto Matteo, il fidato cancelliere di Tancredi.
Rinnovata l'alleanza con Genova e Pisa, fu facile questa volta per Enrico VI conquistare il Regno. Trascorsa la Pentecoste a Milano insieme con C. (è anche testimoniato un soggiorno dell'imperatrice incinta nel monastero di Meda [Memoriae Mediolanenses, p. 400]) alla fine di novembre Enrico VI poté fare il suo ingresso a Palermo, dove fu incoronato re di Sicilia il giorno di Natale. Il giorno successivo all'incoronazione C. mise al mondo a Iesi, dove si era fermata durante il viaggio verso Sud, un figlio che in un primo momento chiamò Costantino, ma che più tardi "in auspicium cumulandae probitatis" (Ann. Casinenses, p. 318) fu battezzato con il nome di Federico Ruggero.
Pare che la nascita del futuro imperatore abbia suscitato dubbi già tra i contemporanei, visto che C. aveva quarant'anni e non aveva mai concepito prima. Marquardo di Annweiler avrebbe messo in circolazione la voce che Federico non era figlio di C.(Gesta Innocenti III, pp. XLIII, LVII) e Roger de Hoveden afferma (IV) p. 31) che C., in occasione delle trattative con la Curia del 1198, dovette attestare sotto giuramento la legittimità della nascita di Federico Il. Persino in tempi moderni spiriti ben altrimenti critici hanno avuto un momento di esitazione, vedendo che l'imperatrice stessa in uno dei suoi diplomi sottolineava la "legittimità" del figlio. Ma si tratta semplicemente di un errore di lettura ("karissimo", invece di "una cum legitimo filio": Ries, n. 114). Anche questa leggenda venne ampiamente sfruttata in seguito e utilizzata a fini propagandistici (cfr. ad es. Annales Stadenses, p. 357). La fantasia popolare costruì un racconto secondo il quale il parto sarebbe avvenuto pubblicamente per volontà di C. la quale, con saggia preveggenza, avrebbe voluto così dissipare ogni eventuale dubbio.
Alla fine di marzo C. compare di nuovo a fianco del marito a Bari, dopo aver affidato il neonato alle cure della moglie del duca Corrado di Spoleto a Foligno, la città in cui Federico avrebbe passato i primi tre anni di vita. Si sono fatte molte ipotesi su questo fatto e - probabilmente a ragione - non ci si è accontentati della spiegazione secondo la quale la coppia imperiale prese tale decisione solo perché preoccupata della sicurezza dell'erede al trono, tanto lungamente atteso. Anzi, si è voluto vedere nell'episodio un indizio della frattura tra i due coniugi, protrattasi tra l'altro a causa delle dure misure adottate per il Regno da Enrico VI dopo l'incoronazione.
Una congiura (forse simulata) contro la sua persona aveva fornito all'imperatore, il pretesto di mandare prigioniera in Germania la famiglia di Tancredi, insieme con i suoi più stretti consiglieri. Gli uffici resisi vacanti furono affidati a persone di sua fiducia, il tesoro del Regno fu requisito e destinato ad essere custodito nel castello tedesco di Trifels nel Palatinato, i registri fiscali furono sottoposti a un severo controllo. Forse venne emanato allora il divieto di appellarsi alla Curia romana.
La Curia convocata a Bari per la Pasqua del 1195 prese decisioni importanti, soprattutto nei riguardi del futuro governo del Regno. Conferendo la reggenza alla moglie, Enrico VI cercava di realizzare l'unione della Sicilia con l'Impero mediante la finzione di un "autogoverno", nella speranza di ridurre gli attriti tra gli elementi normanni e quelli svevi. In realtà non c'era bisogno di un atto formale, perché in base al diritto ereditario C. era la regina legittima, anche se non aveva potuto essere incoronata insieme con il marito a Palermo.
In una lettera a Celestino III del 3 ott. 1195 (Ries, n. 13) C.si basa espressamente su questo suo titolo, ponendo, a ragion veduta, prima della "imperialis adquisitio" la "paterna successio", mentre è indicativo che Enrico VI anteponesse al diritto ereditario l'"antiquum ius imperii". È tuttavia interessante constatare che la Cancelleria manifestò quella pretesa solamente dopo la occupazione di Palermo, quando sui diplomi viene introdotta una nuova intitulatio. Ma anche se C. metteva l'accento sul diritto di successione, è pure vero che soltanto la imperialis adquisitio aveva potuto realizzarlo conferendo all'imperatore svevo la dignità di re di Sicilia. In questa situazione dovette sembrare opportuno all'imperatore stabilire una divisione di compiti tra sé e la moglie. Per quel che sappiamo Enrico VI, dopo aver lasciato il Regno, intervenne nelle vicende siciliane una sola volta con un diploma. Tuttavia è completamente errato pensare che Enrico VI avesse dovuto chiedere il consenso di C. per tutte le disposizioni riguardanti il Regno (come afferma Kowalski, p. 116). C., dal canto suo, finché il marito si trattenne nel Regno, rilasciò un solo diploma in favore di un destinatario siciliano (Ries, n. 55, a favore del vescovo di Penne; Ries, n. 54 è un falso). Nelle datazioni solenni dei suoi diplomi sono indicati, finché rimane in vita l'imperatore, soltanto gli anni di governo di Enrico VI, e due volte C. rilasciò propri diplomi con l'esplicita riserva di una possibile revoca da parte dell'imperatore (Ries, nn. 45, 55).
Stupisce che durante la Curia di Bari non si abbiano notizie relative all'incoronazione di C. che tuttavia è avvenuta sicuramente. Che fosse stata ripetuta a Palermo il giorno di Pentecoste, cioè il 21 maggio 1195, è possibile, ma non è comprovato dalle fonti. Nei suoi diplomi comunque C. data gli anni del suo governo a partire da un giorno di maggio non meglio individuabile a causa dell'indicazione dei mesi poco precisa. Anche dopo l'incoronazione di Federico a re di Sicilia (17 maggio 1198) C. emanò i propri diplomi come sovrana effettiva e non al posto del figlio, anche se già a partire dal dicembre 1197 nelle datazioni Federico è ricordato come correggente.
Nella Curia di Bari a C. furono affiancati il vescovo di Troia Gualtiero di Palearia, un fedele servitore dell'imperatore e ora nominato cancelliere del Regno di Sicilia, e Corrado di Urslingen, duca di Spoleto cui fu conferito l'ufficio di "Regni Sicilie vicarius". Non siamo in grado di precisare l'estensione della loro attività politica. È dubbio se il duca Corrado fosse mai intervenuto personalmente nel Regno durante l'assenza di Enrico VI, mentre il cancelliere Gualtiero aveva comunque detenuto il sigillo dell'imperatrice che Costanza gli riprese dopo la morte di Enrico, facendolo persino imprigionare: il che lascia pensare che non sia esistito un rapporto di piena fiducia tra l'imperatrice e il cancelliere. Ed è anche indicativo che egli, diversamente da quanto si usava nella Cancelleria normanna, non figurò mai come datario, sebbene i notai della Cancelleria sin dall'inizio fossero tutti originari del Regno ed avessero esercitato il loro ufficio gia al tempo di Guglielmo II e persino durante il regno di Tancredi e di Guglielmo III.
Le conseguenze del nuovo governo sul personale della corte possono essere conosciute soltanto nelle linee generali. Subito dopo l'incoronazione di Enrico VI si può già cogliere un certo movimento negli uffici più elevati. Quello di ammiraglio fu affidato dall'imperatore al genovese Guglielmo Crasso (in questa carica è menzionato per la prima volta nel 1197), qualificato da C. nel 1198 come "inimicus noster" (Deutsches Archiv, XXXIII [1977], pp. 506 s., 519). La secrezia fu decentralizzata. L'attività dei funzionari regnicoli (magistri duane) si concentrava, a quel che pare, sulla Sicilia e sulla Calabria, mentre nel 1197 agivano in Puglia il tedesco Federico di Hohenstadt come magister camerarius, insieme con il legato imperiale (totius Italiae et regniSiciliae legatus) e cancelliere Corrado di Hildesheim. Quest'ultimo, dal canto suo, aveva per consigliere l'ex ammiraglio Eugenio, nel frattempo rimesso in libertà, al quale C. nel 1198 affidò l'ufficio di camerario maggiore per Puglia e Terra di Lavoro (Ries, n. 112a). Anche se C. rilasciava diplomi a favore di destinatari pugliesi, pare tuttavia che, finché rimase in vita l'imperatore, almeno in questa provincia la sua autonomia fosse fortemente limitata dal cancelliere Corrado che si dedicava, per incarico imperiale, a imponenti preparativi per la crociata. Non sappiamo se Enrico abbia tentato di esercitare il proprio controllo anche sul tribunale della Magna Curia. Il giustiziere della Magna Curia, Guglielmo Malconvenant, attestato in questa carica, aveva esercitato comunque quest'ufficio già al tempo di Guglielmo II. Ma è probabile che la composizione completamente nuova della Curia che si osserva dopo il 1200 fosse dovuta ancora a Costanza. Fino al 1198 mancano notizie sicure anche per il Collegio dei familiari, ricordati più volte come esaminatori dei documenti presentati. Poco prima di morire C. affiancò al figlio il cancelliere Gualtiero e gli arcivescovi di Capua, Palermo, Monreale e Reggio, ed è, molto probabilmente, questa la cerchia delle persone sulle quali C. si era appoggiata anche in precedenza. Di questi Matteo di Capua era anche familiare di Enrico VI, mentre Bartolomeo di Palermo addirittura era già stato familiare di Guglielmo III. Ma, nonostante l'influenza esercitata da Enrico VI, sarebbe certamente sbagliato pensare che la posizione di C. fosse stata essenzialmente rappresentativa (così Peri, p. 271). Certo, era un compito pressoché irrisolubile soddisfare le aspettative sia sveve sia normanne nel confronti della sua reggenza. Ma le misure sempre più dure, a volte anche crudeli, di Enrico VI dovettero ben presto indurla a farsi portavoce della tradizione siciliana.
Dopo la Curia di Bari C. si trasferì a Palermo dove risiedette stabilmente fino al ritorno di Enrico VI, e da lì aveva iniziato - forte anche di una richiesta del papa - ad intervenire con la sua mediazione nei rapporti faticosamente ripresi tra imperatore e papa. Ma quest'ultimo prese decisioni contro le quali C. all'inizio di ottobre protestò sdegnosamente (Ries, n. 13). Senza un accordo preventivo con la corte regia Celestino III aveva, infatti, nominato un legato generale per la Puglia e la Calabria (forse il cardinale diacono Pietro di S. Maria in via Lata), era intervenuto nell'elezione dell'abate di S. Giovanni degli Eremiti a favore di un "magestatis imperatorie proditor" e aveva nominato Ugo di Troia arcivescovo di Siponto. Il pontefice agiva in base alle clausole imposte a Tancredi nel concordato di Gravina (giugno 1192), mentre la protesta di C. si basava sullo stato quo ante, cioè sulle disposizioni dell'accordo di Benevento (1156), riconfermato ancora nel 1188 da Guglielmo II. Il nocciolo del problema (e tale sarebbe rimasto fino al 1198) erano i rapporti tra Regno e Papato, perché Enrico VI si rifiutava decisamente di ricevere la Sicilia in feudo dal pontefice come avevano fatto i suoi predecessori normanni. Nella sua lettera di protesta C. si dimostra una strenua sostenitrice del suo diritto ereditario. Lo menziona consapevolmente prima della "imperialis adquisitio", affermando così la propria concezione giuridica che era diversa da quella del marito. Anche il momento specifico della protesta doveva sembrare particolarmente inopportuno all'imperatore che allora mirava soprattutto ad ottenere il consenso del papa per i suoi progetti lungimiranti. Solo più tardi, quando i rapporti si furono di nuovo raffreddati, Enrico avrebbe appoggiato la moglie a questo proposito. Non si conosce l'andamento delle trattative per le quali C. mandò alla Curia il magister Tommaso da Gaeta che era stato notaio di Tancredi. Comunque finché rimase in vita Enrico VI, non si giunse ad una definizione dei rapporti reciproci.
Fino al ritorno di Enrico VI in Sicilia (1197) le fonti tacciono praticamente su Costanza. La corrispondenza con Gioacchino da Fiore è una finzione, ma cio non vuol dire che sia priva di qualsiasi fondamento effettivo. Dalle memorie, degne di fede, dell'arcivescovo Luca di Cosenza, un amico fidato di Gioacchino, apprendiamo che l'abate era stato insieme con lui a Palermo (probabilmente tra l'aprile e il maggio del 1196) e che C. aveva chiamato presso di sé Gioacchino per confessarsi con lui (a cura di H. Grundmann, in Deutsches Archiv, XVI [1960], pp. 542 s.).
Fallito definitivamente il progetto di costituire un impero ereditario, il cui unico risultato concreto era stato l'elezione di Federico a re tedesco (dicembre 1196), l'imperatore tornò ancora una volta in Sicilia. In occasione di una Curia tenuta a Capua fece giustiziare il conte di Acerra, il più fedele seguace di Tancredi. L'imposizione di una tassa imperiale generale e l'editto di revoca dei privilegi emanato probabilmente già allora misero in subbuglio gli animi nel Regno. Passando da Cosenza l'imperatore si trasferì a Messina dove si incontrò con la moglie, alla quale aveva ingiunto di raggiungerlo. Insieme la coppia si recò a Palermo per festeggiare la Pasqua. Nella capitale, dove rinnovò l'editto di revoca dei privilegi, Enrico rimase fino al 25 aprile. Senza C. andò poi a cacciare nella sua riserva presso Patti. Fu allora che scoppiò una congiura contro di lui, dalla quale però riuscì a salvarsi rifugiandosi a Messina. Con un esercito messo insieme rapidamente, i ribelli furono battuti presso Catania; Castrogiovanni, la loro ultima roccaforte, fu cinta d'assedio e ai primi di luglio la rivolta era domata. Enrico VI si vendicò crudelmente con gli sfortunati e fece punire anche quelli incarcerati in Germania.
Il ruolo di C. in questa congiura è problematico. Le fonti principali, tutte tedesche e perciò sospette di parzialità, parlano, ad eccezione di Roger de Hoveden, della complicità se non addirittura della partecipazione personale dell'imperatrice, facendo riferimento a voci che circolavano anche nell'entourage dell'imperatore, se il suo cappellano Federico, testimone oculare degli avvenimenti, è effettivamente, come si ritiene generalmente, l'autore degli Annales Marbacenses. Le fonti, comunque, non permettono di ritenere sicura la partecipazione di C., anche se è fuori dubbio che allora, se non già da prima, si aprì una frattura profonda tra i due coniugi. Appare certamente priva di fondamento, comunque, la notizia fornita da Alberto di Stade (morto intorno al 1265), lontano dagli avvenimenti sia nel tempo sia nello spazio, secondo la quale C. avrebbe scambiato doni con un certo Giordano (forse Giordano Lupino?) e questi si sarebbe vantato di essere il futuro re di Sicilia che avrebbe sposato Costanza (p. 352). Difficilmente però i sentimenti dei Siciliani potevano rimanere nascosti all'imperatrice e non è facile credere che ella abbia assistito passivamente agli avvenimenti e alle loro inevitabili conseguenze.
Comunque sia, anche se Enrico prestava fede alle voci che correvano sul conto dell'imperatrice, non dimostrò tuttavia nessuna reazione apparente. Immediatamente dopo il ritorno da Castrogiovanni rilasciò, insieme con C., un diploma a favore dei cittadini di Caltagirone (Ries, n. 56) e anche nel periodo successivo C. emanò vari diplomi insieme con il marito. Enrico VI comunque, morì poco tempo dopo la repressione della rivolta. Sofferente da tempo, morì il 28 sett. 1197 a Messina alla presenza della moglie. Il rapido peggioramento della malattia e la morte improvvisa fecero nascere il sospetto che C. avesse avvelenato il marito; ma gia i contemporanei più critici ritennero questa voce priva di fondamento.
Poco prima di morire Enrico VI aveva fissato nel suo "testamento politico" le direttive per i negoziati che Marquardo di Annweiler avrebbe dovuto condurre in Curia circa la successione di Federico nell'Impero e nel Regno di Sicilia. In base a queste direttive al papa si dovevano cedere certi diritti riconosciutigli già da precedenti re Siciliani. In caso di morte prematura di C., sarebbero dovute entrare in vigore le sue disposizioni relative al figlio Federico, e se questi fosse morto senza eredi il Regno sarebbe dovuto passare alla Curia romana; ove C. fosse sopravvissuta al figlio, il Regno sarebbe passato alla S. Sede, ma C. avrebbe governato la Sicilia fino alla morte. Il papa doveva assicurare l'elezione imperiale a Federico ottenendo in cambio i beni di Matilde. Quando nell'estate del 1200 il documento, tramandato solo frammentariamente, giunse nelle mani del papa, la situazione politica era già cambiata radicalmente. La supposizione che C. non abbia avuto conoscenza del contenuto del "testamento" sembra del tutto improbabile, perché senza il suo consenso non potevano essere presi accordi vincolanti.
La situazione precaria dopo la morte di Enrico VI richiedeva misure rapide ed efficienti. C. rimase in un primo momento a Messina e fece seppellire il corpo dell'imperatore in maniera provvisoria. Poi si precipitò a Palermo per assicurarsi il possesso della capitale e per preparare i funerali solenni. Richiamò presso di sé da Foligno il figlio che i conti Pietro di Celano e Berardo di Loreto accompagnarono nel Regno. Berardo fu ricompensato con la contea di Conversano. Al più tardi in dicembre C. tornò a Messina, dove probabilmente poté riabbracciare il figlio che dal dicembre 1197 in poi compare nei diplomi come correggente.
Nel frattempo l'imperatrice aveva preso due importanti decisioni politiche per garantirsi una maggiore libertà di movimento. Aveva deposto il cancelliere Gualtieri di Palearia, togliendogli il sigillo e facendolo incarcerare (Gualtieri riottenne l'ufficio soltanto per intervento di papa Innocenzo III). Non conosciamo i motivi che indussero C. a questo passo, ma più tardi anche il papa ammise (anche se in una lettera diretta contro il Palearia) che l'incarcerazione di Gualtieri era avvenuta "non sine causa forsitan" (Gesta Inn., p. LXI). Forse Gualtieri aveva usato illegittimamente il sigillo, forse egli aveva collaborato con i Tedeschi la cui espulsione dal Regno C. deve aver decretato poco tempo dopo la morte dell'imperatore, annullando così in larga misura la politica seguita dal marito per quel che riguardava il personale della corte e dell'amministrazione provinciale. Corrado di Urslingen e Marquardo di Annweiler, i due collaboratori più fidati di Enrico VI, si piegarono al suo ordine, rendendosi probabilmente conto dell'inutilità di ogni resistenza, ma soprattutto perché pensavano di consolidare la loro posizione nell'Italia centrale. Contro chi, come quel Federico di Calabria (da identificare forse con il "magister castellorum Calabriae et magister Silae" ricordato in Böhmer-Baaken, n. 582), opponeva resistenza, si procedeva con le armi. L'ordine di C. ebbe, però, scarso effetto nelle province settentrionali del Regno, dove i castellani insediati da Enrico riuscirono a resistere nelle loro posizioni, costituendo un pericolo latente.
Ma più della lotta contro questi avventurieri doveva importare a C. di raggiungere un accordo con la Curia sull'incoronazione di Federico a re di Sicilia. Questa missione così importante fu affidata all'arcivescovo Berardo di Messina. Ma mentre la Curia non sollevò obiezioni contro l'incoronazione di Federico, pare che Celestino III (morto l'8 gennaio del 1198) avesse voluto permettere i funerali dell'imperatore (forse perché scomunicato) solamente a condizione che il re inglese desse il suo consenso e che gli venisse restituito il denaro del riscatto (Roger de Hoveden, IV, p. 31); il che però non avvenne. Nonostante gli ostacoli, i funerali di Enrico VI poterono essere celebrati nel maggio del 1198. È probabile che Berardo abbia trattato anche con il nuovo papa Innocenzo III. Nell'aprile gli fu concesso di non assistere all'incoronazione di Federico fissata per la Pentecoste (17 maggio), con la giustificazione che la sua assenza era motivata da superiori interessi del Regno (Ries, nn. 77 s.). Quale fosse il motivo di questa strana concessione, non sappiamo. Sembra che Berardo non fosse ritornato in Sicilia ma si fosse trattenuto nella sede della Chiesa per seguire le attività di Marquardo.
Immediatamente prima dell'incoronazione di Federico le spoglie di Enrico VI furono trasferite a Palermo e ivi sepolte nel duomo. Sul modello dei due sarcofaghi donati da re Ruggero al duomo di Cefalù per esservi sepolto, C. aveva fatto scolpire un sarcofago di porfido che accolse le spoglie mortali dell'imperatore. La domenica di Pentecoste Federico fu incoronato re di Sicilia a Palermo. Da quel giorno nei documenti non figura più con il titolo di re dei Romani, al quale C. aveva probabilmente rinunciato o dovuto rinunciare, forse su pressione del papa, nonostante che i principi tedeschi che si trovavano ancora in Terrasanta, avessero riconfermato ancora una volta la successione di Federico nell'Impero. In seguito la situazione in Germania prese una piega diversa: Filippo di Svevia e Ottone di Brunswick furono eletti successivamente re tedeschi (6-8 marzo e 9 giugno 1198). C. continuò ad usare il titolo di imperatrice romana, ma nei suoi atti si limitò al Regno. Mentre in precedenza, in conformità con una disposizione di Enrico VI, aveva riconfermato al monastero di Casamari l'esenzione dai tributi che gravavano sul traffico delle merci, sia per l'Impero sia per il Regno, ora si limitò a concederla per il solo Regno (Ries, nn. 40, 110). D'ora in poi tutti i suoi diplomi sono emanati insieme con il figlio, i cui anni di regno compaiono regolarmente anche nelle formule di datazione. Madre e figlio risiedevano a Palermo che C. - per quanto sappiamo - non lasciò fino alla morte.
L'imperatrice resse il governo con energia. Quando un ammiraglio genovese osò catturare nel porto di Palermo nove galere da lui considerate navi pirate, C. fece catturare alcuni nobili genovesi e con questi ostaggi ottenne la restituzione (Ogerii Panis Annales, p. 116). C. iniziava anche i primi contatti per il matrimonio del figlio con una principessa aragonese, matrimonio che sarebbe stato realizzato dopo la sua morte.
Nonostante che la sua posizione in Sicilia fosse consolidata, C. era abbastanza realista per sapere che era indispensabile chiarire il problema della dipendenza feudale della Sicilia dalla Chiesa, come presupposto per poter stabilire buoni rapporti con la Curia; un obiettivo questo che anche Enrico VI aveva perseguito. Rimaneva sempre controverso il problema delle condizioni alle quali la Sicilia doveva essere presa in feudo dalla Chiesa. Già prima della sua consacrazione Innocenzo III aveva fatto capire inequivocabilmente che un accordo poteva essere raggiunto soltanto in base al concordato di Gravina che C. non riconosceva. All'inizio di febbraio il nuovo papa aveva dichiarato nulla l'elezione del vescovo di Santa Severina e proibito all'imperatrice di ostacolare una nuova elezione. Anche nel corso delle trattative con gli ambasciatori inviati da C. in Curia, l'arcivescovo Anselmo di Napoli, l'arcidiacono Aimerico di Catania, il magister Tommaso da Gaeta e il giudice Niccolò di Bisceglie, Innocenzo III non permise alcun dubbio sul suo atteggiamento intransigente: si rifiutava di riconoscere i "quattro capitoli" relativi a concili, legazioni, appellazioni ed elezioni.
Dato che neanche cospicui doni poterono indurre il papa a cambiare opinione, C. a novembre si vide costretta ad accettare le condizioni curiali, mitigate solo nel punto delle elezioni ecclesiastiche da una concessione apparente: C. doveva dare la propria approvazione all'eletto che non poteva essere insediato prima di aver ottenuto il consenso reale, mentre prima della conferma da parte del papa il vescovo eletto non poteva assumere l'amministrazione della sua Chiesa (cfr. Deér, Das Papsttum, p. 105).
A metà settembre Innocenzo III comunicò ai prelati siciliani il risultato delle trattative ed annunciò in un'altra lettera la missione del cardinale vescovo Ottaviano incaricato di ricevere il giuramento feudale e di consegnare il privilegio dell'infeudazione. Ma la morte che colse l'imperatrice improvvisamente impedì l'esecuzione dei due atti. La copia pontificia del giuramento feudale che C. era disposta a prestare come regina soltanto per la propria persona e quindi senza impegni per il figlio, si conserva ancora oggi nell'Archivio Vaticano (Ries, n. 119). La copia imperiale e il privilegio corrispondente forse non furono mai stesi. A prescindere dalla questione della effettiva entrata in vigore del "concordato", si deve ricordare che Federico II lo rinnovò soltanto nel 1212 e non sembra che fino a quel momento si fosse sentito vincolato da esso.
Mentre erano in corso le trattative, Marquardo di Annweiler si era accinto, nonostante il giuramento prestato, a ritornare nel Regno. C. lo dichiarò quindi traditore dell'Impero, ma il provvedimento, come si sarebbe visto, non sembrò preoccupare molto il capitano tedesco.
Presaga della prossima fine, il 25 nov. 1198, C. dettò il suo testamento, conservato soltanto frammentariamente (Ries, n. 127). In previsione dei disordini che si sarebbero abbattuti sul Regno raccomandò il figlio alla protezione del papa che nominò tutore e reggente, al quale tutti i sudditi erano tenuti a prestare il giuramento di fedeltà. In cambio Innocenzo III doveva essere ricompensato con una somma annua di 30.000 tareni e tutte le spese sostenute gli dovevano essere restituite. Al re minorenne affiancò come familiari gli arcivescovi di Palermo, Monreale, Capua e Reggio e il cancelliere Gualtieri di Palearia. Dispose di essere sepolta nel duomo di Palermo, dove le sue spoglie riposano, per disposizione di Federico II, in un sarcofago di porfido costruito originariamente per un sovrano di sesso maschile (forse per Enrico VI).
Le fonti non concordano sul giorno della morte. In due lettere di Innocenzo III è indicato il 27 nov. 1198, mentre un antico necrologio della Cappella Palatina di Palermo parla di sabato 28 novembre (ma le 3 kal. dec. corrispondono al 29 nov.) e aggiunge la notizia che l'imperatrice fu sepolta la domenica successiva. Il 29 novembre è indicato anche in un necrologio beneventano (cfr. Bethmann, in Archiv der Ges. f. ältere deutsche Geschichtskunde, XII [1874], p. 250). Un necrologio di Montecassino offre addirittura la data del 19 novembre, che è impossibile, ma sta forse erroneamente per il 29 novembre (M. Inguañez, I necrologi cassinesi, I, Roma 1941). Il Breve chronicon de rebus Siculis (metà sec. XIII e quindi posteriore) indica come giorno di morte la festa di S. Andrea, cioè il 30 novembre (ed. Huillard-Bréholles, Hist. dipl. Frid. II, I, p. 892). Non è possibile stabilire con esattezza la data, anche se appare da preferire quella indicata da Innocenzo III e quindi considerare il 29 novembre come giorno dei funerali.
Fonti e Bibl.: Per i diplomi di C. cfr. R. Ries, Regesten der Kaiserin Konstanze, Gemahlin Heinrichs VI., in Quellen und Forsch. aus ital. Archiven und Bibliotheken, XVIII (1926), pp. 30-100, cui bisogna aggiungere: W. Holtzmann, Papst-, Kaiser- und Normannenurk. aus Unteritalien, II, ibid., XXXVI (1956), pp. 24 ss. n. 1; A. Pratesi, Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall'Arch. Aldobrandini, Città del Vaticano 1958, pp. 109-12 n. 47, 122-25 n. 50; W. Hagemann, Kaiserurkunden aus Gravina, in Quellen und Forsch. aus ital. Arch. und Bibl., XI, (1960), pp. 195 s. n. 2; Regesta Imperii, a cura di F. Böhmer, IV, 3, Die Regesten des Kaiserreichs unter Heinrich VI., 1165 (1190) - 1197, Köln - Wien 1972-1979, ad Indicem;Ch. Schroth-Köhler-Th. Kölzer-H. Zielinski, Zwei staufische Diplome für Malta aus den Jahren 1195 und 1212, in Deutsches Archiv, XXXIII (1977), pp. 518ss. n. 1; Th. Kölzer, Neues zum Fälschungskomplex S. Maria de Valle Josaphat, ibid., XXXVII(1981), pp. 156 s. n. 1. Cfr. anche l'edizione critica dei diplomi di C.: Codex diplom. Regni Siciliae, s. 2, I, 2, Constantiae imperatricis et reginae Siciliae diplomata, a cura di Th. Kölzer, Köln-Wien 1983; vedi pure K. A. Kehr, Die Urkunden der normannisch-sicilischen Könige, Innsbruck 1902, passim;Th. Kölzer, Urkundon und Kanziei der Kaiserin Konstanze, Königin von Sizilien, Köln-Wien 1983 (con ampia bibl.). Documenti relativi ai rapporti col papa sono pubblicati da J. Deér, Das Papsttum und die süditalienischen Normannenstaaten 1053-1212, Göttingen 1969, pp. 102 ss. Per le monete di C. cfr. G. Sambon, Repertorio generale delle monete coniate in Italia, Paris 1912, nn.1102-1108, 1112 s.; e anche R. Spahr, Le monete sicil. dai bizantini a Carlo I d'Angiò (582-1282), Zürich-Graz 1976, nn. 26-30, 33. Per le più importanti fonti narrative su C. si veda: L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevii, IV, Mediolani 1741, p. 985;Petri Ansolini de Ebulo De rebus Siculis carmen, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXXI, 1, a cura di E. Rota, pp. 8, 64 ss.; Gesta Innocentii III, in Migne, Patr. lat., CCXIV, pp. XXX ss., XXXVIII s., XLIII, LVII, LXI; Breve chronicon de rebus Siculis, in J. L. A. Huillard-Bréholles, Historia dipl. Friderici II, I, Paris 1852, pp. 891 s.; Annales Stadenses, a cura di J. M. Lappenberg, in Monum. Germ. Hist., Scriptores, XVI, Hannoverae 1859, pp. 352. 357; Ogerii Panis Annales, a c. di G. H. Pertz, ibid., XVIII, Hannoverae 1863, p. 116; Memoriae Mediolanemes, ibid., p. 400; Annales Casinenses, a cura di G. H. Pertz, ibid., XIX, Hannoverae 1866, pp. 316, 318; Gotifredi Viterbiensis Gesta Heinrici VI, a cura di G. Waitz, ibid., XXII, Hannoverae 1870, p. 336;Gisleberti Chronicon Hanoniense, a cura di L. Vanderkindere, Bruxelles 1904, pp. 208, 258; Rogeri de Houedene Chronica, a cura di W. Stubbs, in Rerum Britann. 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Hofmeister, ibid., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XLVII, Hannoverae-Lipsiae 1912, p. 56; Die Chronik des Propstes Burchard von Ursberg, a cura di O. Holder-Egger-B. von Simson, ibid., XVI, Hannoverae 1916, pp. 71 s., 75. Su C. si veda inoltre: Palermo, Biblioteca comunale, ms. Qq C 34, fasc. 6 (1671): V. Auria, Discorso historico nel quale si prova il monacato di C....; Ibid., MS. 2 Qq F 18, fasc. 18: Mariano di Napoli e Bellacera, detto Tirsi Capaneo [✝ 1761], Discorso istorico-critico in cui s'impugna la falsa opinione del monacato e del parto della regina C.; T.Fazellus, De rebus Siculis decades duae, Panormi 1558, pp. 179 s., 471; A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli della mezzana età, XI, Napoli 1810, pp. 4 ss., 30 ss.; Th. Tocche, Kaiser Heinrich VI., Leipzig 1867, passim;E. Winkelmann, Philipp von Schwaben und Otto IV. von Braunschweig, I, Leipzig 1873, ad Indicem;M. 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