FALCONIERI, Costanza
Nacque a Roma intorno all'anno 1764. Era figlia, insieme con Alessandro, primogenito, Nicola, Isabella, Girolamo e Carlo, di don Mario, nobile romano coscritto, e della contessa Giulia Millini. Colta e graziosa, la F., appena quindicenne, fu designata da Pio VI come sposa del nipote Luigi, figlio di sua sorella Giulia Braschi e del conte Girolamo Onesti di Cesena. Secondo una voce raccolta da J. W. Goethe, la madre era stata in gioventù l'amante del futuro papa. Questo rapporto dovette avere il suo peso nella scelta, che comunque si rivelò assai felice, dimostrando la F. di saper rappresentare, nella società mondana, la casata del pontefice regnante.
Bruna, piuttosto piccola di statura quantunque ben proporzionata, non si distinse per bellezza folgorante, ma per eleganza di forme e di maniere. Occhi à ravir, viso "pallido abbronzatello", ricco di fascino e di promesse, la F. poteva ben dire, con le parole della Sulamite del Cantico dei cantici a lei adattate dalla satira del tempo, "Nigra sum, sed formosa" (il riferimento ai versetti biblici non è casuale dal momento che il passo di Salomone concerne la scelta del re fra le sessanta regine).
Il 22 dic. 1780 venne formalmente fissata in 30.000 scudi l'entità della sua dote - decisamente maggiore (dos egregia) di quella che solitamente assegnavasi alle giovani di casa Falconieri e per la cui eccezionalità fu emessa una speciale deroga pontificia - e fu sottoscritta la sua rinuncia ad ogni diritto sull'eredità paterna. Da quel giorno la F. ed il duca nipote del papa furono ufficialmente considerati promessi sposi. Finalmente il 4 giugno 1781, nella cappella Sistina del palazzo vaticano, Pio VI congiunse in matrimonio la F. e Luigi Braschi Onesti, duca di Nemi.
Le nozze vennero festeggiate come un vero avvenimento di Stato: nobili, principi e cardinali fecero a gara nell'offrire doni propiziatori agli sposi.
Agli innumerevoli omaggi con i quali vennero salutate le nozze vollero concorrere anche l'Accademia degli Aborigeni, con diversi componimenti poetici, e l'Arcadia, che il 19 ag. 1781 indisse una solenne adunanza nel Bosco Parrasio in onore degli sposi eletti ed acclamati "pastori": alla F., Egeria in Arcadia, venne affidata la custodia di una campagna presso il tempio delle Grazie e a don Luigi, Aldemonte Cleoneo, fu assegnata la regione Nemea. In questo modo la F. rappresentò la Venustà e il suo sposo la Fortezza. Tra le tante poesie epitalamiche presentate in quell'occasione, l'abate V. Monti compose La bellezza dell'Universo, grandioso inno di esaltazione degli sposi e più ancora della bellezza della duchessa.
In prima uscita ufficiale, il 5 giugno 1781, giorno successivo al matrimonio, la F. e suo marito si recarono al palazzo Doria Pamphili per assistere al battesimo di un figlio del principe Andrea e di Leopolda Maria di Savoia Carignano. Cominciò così per la F., "nipote" di Pio VI, una vita da vera sovrana giacché i vincoli di stretta parentela che la legavano al pontefice regnante le assegnavano una posizione assolutamente privilegiata e le conferivano grado ed onori quasi regali. La sua casa fu costituita come una corte. Lo stesso "gran Zio" volle stabilire una sorta di protocollo che vi regolasse il cerimoniale dei ricevimenti e che attribuisse alla F. diritti di omaggio del tutto speciali: dovevano recarsi a farle riverenza tutti i nuovi cardinali e, nel giorno anniversario dell'esaltazione del pontefice, tutta la nobiltà romana, i principi esteri, gli ambasciatori, il Sacro Collegio dei cardinali e la prelatura. Da quel momento in poi nessun principe regnante sarebbe entrato a Roma senza recarsi a complimentarla e tutti i grandi e tutte le autorità dello Stato le avrebbero fatto solenne omaggio. Era il tempo della prosperità dei Braschi ed in quelle sere le più belle signore, i più distinti patrizi e gli abati più galanti si adunavano nel palazzo della Falconieri. Il suo salotto fu uno dei più frequentati ritrovi mondani: il giovedì e la domenica, con l'intervento di V. Monti, tutta la più cospicua nobiltà italiana e straniera usò rinfrancarsi lo spirito fra le amabili conversazioni e le calunniose composizioni poetiche che tanto successo e davvero poca censura riscossero a quel tempo. Ed alla stessa F. vennero dedicati alcuni versi allusivi a suoi rapporti con V. Monti: "Scelta a divini onori Ebe sul ciel passeggia / E con lo sposo Alcide sembra d'amor la reggia. / Dal labbro giovanetto riso e dolcezza piove / E la sua man ministra l'ambrosia al sommo Giove. / Pur mentr'essa dirige ad alte sfere il volo, / Un vile auriga infame la fa cadere al suolo. / Dal Donatello amico forme e colori apprese. / Ma in faccia a Ganimede ludibrio alfin si rese" (Vicchi, p. 33).
L'idillio tra la F. e V. Monti, che i contemporanei ritennero cosa certa e fissarono in satire feroci, con tutta probabilità ebbe realmente luogo e legò la bella dama ed il poeta di un sentimento tenero e reciproco. Più difficile è, invece, individuare con altrettanta sicurezza il preciso momento in cui quel confidenziale rapporto ebbe inizio. Tra l'ottobre ed il novembre del 1781 V. Monti, in virtù soprattutto del successo ottenuto dal canto a La bellezza dell'Universo, venne assunto ufficialmente come segretario, ovvero come poeta cesareo, di casa Braschi. Si deve ritenere, però, che l'amore con la F. non maturò prima del 1789, o meglio, prima di quell'anno quell'intesa amorosa già esistente, sussurrata e sospettata da tutta la città, non sfociò in una vera e propria relazione extraconiugale. Inverosimile è infatti l'ipotesi, formulata in base ad una forzata interpretazione di alcuni versi dell'ode Al signor di Montgolfier (1784), di un rapporto amoroso già avviato dall'anno 1783: a quel tempo la F., che aveva appena diciotto-diciannove anni, era troppo novella sposa per essersi già stancata o vendicata del marito, ed il Monti, incertissimo dell'avvenire, era certo timoroso di non compromettere il sospirato impiego. A questo si aggiunga la considerazione del fatto che in quegli anni ardeva d'amore, corrisposto, per la bella Clementina Ferretti, con la quale intrattenne una lunga relazione, durata almeno fino al 1788. Che un interesse, invece, per la F. fosse presente fin dal 1786 è confermato da uno dei tre sonetti che V. Monti scrisse sul finire del 1788 in una lettera all'abate Torti: "Passa il terz'anno, Amor, ch'io mi lamento / Del tuo crudele doloroso impero ...": le attenzioni galanti, cioè, del poeta verso la duchessa cominciarono ben presto, ma per tre anni non sortirono alcun effetto. In particolare, poi, lo sbocciare dello spinoso amore, che può farsi risalire ai tempi della composizione dell'Aristodemo (1787) dedicato alla F., è documentato nella produzione letteraria di V. Monti in quegli anni, cosiddetta "a chiave" (come l'Amor dubbioso [1786], canzonetta dove dietro i personaggi bucolici di Fillide e Tirsi si nascondono i due giovani), produzione non indirizzata però solo alla F., ma letta e commentata da tutta Roma.
Il 15 giugno 1786 la duchessa, accompagnata da V. Monti e da don Luigi, si recò a Bagni di Lucca e visitò Livorno, Pisa, Firenze, Bologna e Ferrara. A Lucca con la data del 1786 il galante segretario stampò l'Ode alla fecondità, sospiro e desiderio di giovinette spose, dedicata alla duchessa, "bella del Tebro". Nella prima metà del 1787 la F. rimase incinta, per la quinta volta. Sulle prime questo fatto dovette imbarazzare non poco l'innamorato poeta; ma poi, forse con lo scopo di allontanare i sospetti di don Luigi e del papa, e credendo così di mettere a tacere le maldicenze e le satire che già circolavano per la città, V. Monti volle scrivere dei versi per celebrare il fausto concepimento, e nell'agosto del 1787 compose un Sonetto dedicato a s. e. la signora C. Braschi, indirizzato a s. Nicola da Tolentino (la cui festività si celebrava il 10 settembre) perché si mostrasse propizio alla madre ed al nascituro.
Il 6 ott. 1787, dopo quattro aborti spontanei, la F. diede finalmente alla luce un figlio, che visse però soltanto cinquanta giorni. Date le maldicenze che già circolavano in Roma, l'infelice componimento scatenò un numero notevole di sonetti satirici in risposta (con le stesse rime o a rime libere e con modificazioni anche dell'intestazione, come questa: Celebrandosi la solenne festività della gloriosa santa Costanza Falconieri, sonetto dedicato a s. e. don Nicola da Tolentino). I poeti satirici romani, spinti soprattutto dall'invidia per la fortunata condizione di V. Monti in casa Braschi, insinuarono soprattutto che l'amore per la F. aveva già superato i limiti del decoro. Non solo si descrisse la F. come amante di V. Monti, ma ridipinsero i due come Iside e Osiride, simboli egizi dell'incesto e della licenziosità priapea. V. Monti rispose alla provocazione con vari sonetti e con il Galeotto Manfredi (1788), in cui le allusioni al duca Braschi, alla duchessa ed a se medesimo erano meditate e stabilite fino dal principio. Il proposito fu tanto scoperto che l'abate M. Berardi, sul cartellone che annunciava la recita di questa tragedia, fece in modo che il titolo venisse ribattezzato con il noto verso dantesco: Galeotto fuil libro e chi lo scrisse. A causa del difficile clima venutosi a creare e della morte di Giulia Millini, madre della F., sopraggiunta il 29 nov. 1788, l'amore subì un'ultima battuta d'arresto prima di scoppiare definitivamente e fino all'anno 1790. A fugare ogni ulteriore dubbio sull'esistenza e sulla genuinità di questo sentimento si leggano le dichiarazioni di V. Monti nelle lettere a Madame de Staël: "Non so se vi sia mai accaduto d'incontrarvi colla Duchessa Braschi. Io l'ho amata un tempo teneramente, e se il caso porta che la vediate, desidererei di sapere se sono più vivo nel suo pensiero. Le sue passate galanterie non han sempre fatto molto onore al suo nome. Ma ella ha un cuore eccellente, e questa è una grande scusa per tutte le sue follie"; "Godo che abbiate trovato la Duchessa Braschi quale ve l'ho dipinta ... Se la presente si trova in Roma, ringraziate la Duchessa della giustizia che ha renduta al mio carattere e a' miei sentimenti, e ditele che non ho mai cessato d'amarla" (Epistolario, II, pp. 392, 408). La fine di questo amore clandestino fu forse dettata dal proposito da parte del Monti di definire una posizione divenuta imbarazzante e pericolosa e di rientrare così nelle grazie del papa.
La confidenza con V. Monti attirò non poche satire sulla moralità della F.: così si legge in una del terribile G. Giraud, composta in occasione di una mascherata tenuta in casa Chigi durante il carnevale del 1805: "Sei Dea mia Flora, e pur senza esser Dio / Ebbi da te qualche fioretto anch'io", dove Flora era la F. (Silvagni, p. 55); così nel cosiddetto Trionfo del dio di Lampsaco (Vicchi, p. 42 8): "Donna Costanza è l'ultima che regge in mano l'asta / Piccina di figure e per lascivie guasta. Essa cammina attenta con molta divozione / Vestendo il sacro abito della fornicazione"; così infine in alcuni versi in cui si mette in dubbio la paternità della principessina Giulia, nata il 10 apr. 1793, per cui la F. "Seco adduce la figlia, quale amorosa madre, / Fra se cantando: o mia figlia, ma non del padre ..." (ibid., p. 460). Occorre ricordare che la F. ebbe altri due figli maschi: il primo morì dopo il battesimo, avvenuto il 2 dic. 1806, l'altro, Pio, nacque nel 1808 dopo ventisette anni di matrimonio. J.W. Goethe invece fa probabilmente confusione tra la F. e la principessa Livia Borghese Altieri ("... Che cosa offri tu, bella Borghese, / nipotina, che cosa offri di più al tuo amante?": Elegie romane, p. 81), apostrofando la seconda con l'appellativo di "nipotina" proprio della duchessa. Difficile è accertare se don Luigi fosse al corrente di tutto fin dall'inizio, ma certo quando ne venne a conoscenza "se n'adombrò momentaneamente, menò forse qualche rumore e poi se ne prese svago, come di cosa non sua" (Vicchi, p. 478). Del resto non fu davvero un marito modello il duca Braschi e la sua infedeltà coniugale, soprattutto con la Randanini, fu non ultima causa dello sbandamento della F. che con il tempo, se pure è vero, pose le sue simpatie nel conte Gaddi e da ultimo nel cardinale E. Consalvi.
In conseguenza della scomparsa di Pio VI (1799) e dell'ambigua linea di condotta tenuta dal duca Luigi in quegli anni e fino alla sua morte (1816), il prestigio dei Braschi Onesti subì una decisa flessione. La F., però, rimase tra le dame più ammirate della città almeno per tutto il pontificato di Pio VII (1800-1823).
Non si ha notizia della data della sua morte.
Fonti e Bibl.: V. Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, I-II, Firenze 1928, ad Indicem; J. Goethe, Philipp Hackert, in Schriften zur Kunst, Zürich 1954, p. 483; Id., Elegie romane, a cura di F. Fertonani, Milano 1989, p. 81; D. Silvagni, La corte e la società romana nei secoli XVII e XVIII, Firenze 1881, I, p. 210; II, pp. 51-55, 137-150, 238 s.; L. Vicchi, V. Monti, le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830, II, Fusignano 1885, ad Indicem; G. Del Pinto, Amori ed odi. V. Monti in Roma, in Nuova Rassegna, 10 giugno 1894, pp. 722-726; C. Bandini, Roma e la nobiltà romana nel tramonto del sec. XVIII, Città di Castello 1914; Id., V. Monti e la duchessa Braschi, in La Lettura, 1° luglio 1924, pp. 607-611; P. Romano, Pasquino e la satira in Roma. Pasquino nel Settecento, Roma 1934, pp. 22 s., 33.