COSTANZA (dal nome di Costanzo Cloro; ted. Konstanz; A. T., 56-57)
Città della Germania meridionale, capoluogo di uno dei quattro distretti del Baden, posta a 402 m. s. m., sul lago di Costanza e sul Reno, dove questo fiume si apre la strada attraverso il terreno morenico per passare dal Bodensee nell'Untersee, presso il confine con la Svizzera, sulla linea ferroviaria Singen-Romanshorn. Conta ora 31.252 ab. (12 mila nel 1875), per cinque sesti cattolici e il resto evangelici.
Sorta probabilmente come centro di ponte, avente la possibilità di sfruttare l'energia del fiume (mulini), la città romana era a nord del duomo e raggiungeva verso ovest l'odierna Untere Laube, mentre a sud si estendeva fino alla Zollernstrasse; un sobborgo occupava l'isola dove è ora il grande albergo che nel 1875 ha occupato i locali d'un convento domenicano. In seguito, specie tra il sec. IX e il XV, la città si è allargata verso sud fino alla Bodenstrasse; fu quindi difesa da mura che seguivano questa via verso ovest fino alla Schnetztor, quindi la Laube fino alla Pulverturm (sul Reno), per appoggiarsi poi al fiume fino alla Rheintorturm e quindi al lago fino all'altezza della Bodenstrasse. Nel 1410 fu aggregato il sobborgo di Stadelhofen. La città è restata cosi fino al sec. XIX, quando, distrutte le mura, essa si è volta verso il lago ed è stato possibile gettare le basi per un porto e trovare spazio per un parco.
Il quartiere degli affari è nella zona centrale; a nord del duomo è la parte della città più quieta, con numerosi edifici culturali; a sud si trova un piccolo centro di confine, mentre le abitazioni più ricercate sono presso le rive del lago e lungo il Reno. Quando passò al Baden (1806), Costanza contava appena 4000 abitanti; si è poi riavuta della perdita del retroterra svizzero in seguito allo sviluppo della navigazione fluviale (seguito alla regolarizzazione del Reno) e per il sorgere dell'industria tessile e metallurgica, che ha contribuito a consolidare la sua buona posizione commerciale. Al di là del Reno, ormai legate a Costanza, sono le borgate di Petershausen e Neuhausen. Il distretto di Costanza conta 337.508 ab. ed è ampio 3850 kmq. (densità 88 ab. per kmq.).
Bibl.: A. von Hoffmann, Die Stadt Konstanz. Historische Stadtbilder, Stoccarda e Berlino 1922; P. Motz, Konstanz, seine baugeschichtliche und verkehrswirtschaftl. Entwicklung, Costanza 1925.
Monumenti. - L'edificio più importante è il duomo, dei secoli X e XI, il cui interno, nonostante tutti i restauri posteriori, ha ben conservato il carattere romanico mentre l'esterno appartiene piuttosto al sec. XV. La decorazione nell'interno è d'una ricchezza straordinaria, con pitture e sculture dal periodo romanico al barocco, e tra l'altro i famosi stalli corali di Simone Haider e di Nicola da Leida (circa 1467). La chiesa di S. Stefano, originariamente romanica, è stata ampliata in stile gotico tardo (1428-1486). La chiesa dei gesuiti (sec. XVII) è tutta omogenea nella sua decorazione barocca. Tra gli edifici civili il palazzo comunale è, nella parte posteriore, in stile Rinascimento (fine del sec. XVI). Molte case private di epoche diverse dànno alla città un'impronta caratteristica meridionale, differente da quella delle altre città tedesche perché le costruzioni in legno e in muratura non fronteggiano le strade coi loro prospetti.
Bibl.: F.X. Kraus, Die Kunstdenkmäler des Grossherzgtums Baden, Frisburgo 1887; J. Gramm, Spätmittelalterliche Wandgemälde im Konstanzer Münster, Strasburgo 1905; H. Wienecke, Konstanzer Malereien des 14. Jahrh., Halle 1912; K. Gröber, Das Konstanzer Münster, Lindau 1921; G. Dehio, Handbuch der deutschen Kunstdenkm., IV, Berlino 1926, pp. 169-176.
Biblioteche e istituti di cultura. - La Stadtische Wessenberg-Bibliothek, fondata nel 1860, contiene circa 35.000 vol.; quella del Ginnasio del Baden circa 19.000 oltre a un certo numero di manoscritti e a 180 incunabuli. Il vicario Heinrich Ignaz von Wessenbeirg fondò per testamento, oltre alla biblioteca civica, l'archivio di stato e la Wessenberg-Galerie. Il Rossgarten-Museum, fondato nel 1870 da Ludwig Leiner, ha buone collezioni archeologiche, storiche e artistiche. Un apposito istituto si occupa delle ricerche relative al lago di Costanza (Anstalt für Bodenseeforschung).
Storia. - Fu originariamente castello romano di confine, costruito sotto l'imperatore Costanzo II sul posto di una più antica stazione; pervenne poi in possesso degli Ostrogoti e quindi degli Alamanni forse solo nel 537, in seguito al trattato del re ostrogoto Vitige con i Franchi, senza che la continuità della vita cittadina ne soffrisse. La popolazione romana passò quietamente sotto gli Alamanni.
Subito dopo la fine della dominazione romana e di quella ostrogota, Costanza divenne sede di vescovato, essendo stata trasportata in essa la sede del vescovo di Vindonissa. Il primo vescovo di Costanza fu forse Ursino. Il suo successore, Gaudenzio, è ricordato ai tempi di S. Gallo: visse quindi dopo il 600. Altri vescovi successivi portano ancora nomi romani; poi a poco a poco la loro serie viene interrotta da alcuni nomi germanici. Tra i vescovi del Medioevo eccelle Salomone III (890-919) che fu uno dei reggenti imperiali sotto Lodovico il Fanciullo (900-911) ed ebbe molta influenza anche sotto Corrado I (911-918). Il vescovo Corrado, un guelfo (937-975), fu canonizzato nel sec. XII. Durante la lotta delle investiture i vescovi furono fervidi sostenitori del papato e delle riforme ecclesiastiche. Attivo specialmente, quale legato apostolico, Gebardo III (1084-1110), figlio del duca Bertoldo I di Zähringen. Mentre in tempi più antichi le abbazie di S. Gallo e Reichenau dipendevano dal vescovato di Costanza, sulla fine del secolo XII monasteri della tendenza cluniacense, aderenti alla riforma, se ne staccarono. In epoca posteriore il vescovo Enrico di Klingenberg (1290-1306) fu fervente sostenitore della casa di Asburgo e fautore della poesia tedesca. La Riforma protestante cacciò il vescovo dalla città, che però rimase in prevalenza cattolica. Nel 1802 il vescovato fu secolarizzato; nel 1821 fu soppresso da Pio VII e nel 1827 trasferito a Friburgo in Brisgovia.
La città si sviluppò in correlazione con la fondazione del mercato (principio del sec. X) e divenne città libera dell'Impero nel 1192. La sua importanza si basava sul commercio della tela. A Costanza, nel 1415, fu bruciato Giovanni Hus. La città di Costanza crebbe specialmente nel sec. XIV. Dal 1342, e più specialmente dal 1370, le corporazioni d' arti e mestieri ebbero parte al reggimento cittadino accanto ai patrizî. Più tardi importanti case di commercio si portarono a Ravensburg e a S. Gallo. Dal 1502 l'Austria tenne in Costanza una guarnigione; ma la città aderì alla Riforma e alla Lega smalcaldica (1531). Quando questa fu sciolta (1556) si ebbero in Costanza ancora due anni di resistenza. Nel 1548 la città fu proscritta alla dieta di Augusta, e passò all'Austria. Nella guerra dei Trent'anni fu invano assediata dallo svedese Horn (1633). Con la pace di Pressburgo (1805), passò al granducato di Baden.
Bibl.: Regesta episcoporum Constantiensium, ediz. P. Ladewig, A. Cartellieri e K. Rieder, voll. 2 e appendice, Innsbruck 1886-1905; Ph. Ruppert, Chroniken der Stadt K., Costanza 1890-1892; A. Hauck, Kirchengeschichte Deutschlands, 3ª-4ª ediz., Lipsia 1911 segg., I-IV; A. Dopsch, Grundlagen der europäischen Kulturentwicklung, 2ª ed., Vienna 1923, I, pp. 169-70; E. Gothein, Wirtschaftsgesch. des Schwarzwaldes, Strasburgo 1892; A. Schulte, Gesch. des mittelalterlichen Handels und Verkehrs zwischen Westdeutschland und Italien, voll. 2, Lipsia 1900; Laible, Gechichte der Stadt K., in Schriften des Vereins für die Geschichte des Bodensee's, XV (1886); P.F.Kehr, Regesta pontificum romanorum, Germania pontificia, ed. A. Brackmann, Berlino, II, i, 1923, p. 120 segg.; II, ii, 1927, p. i segg., I. Hecht, Der romanische Kirchenbau des Bodenseegebietes, I, 1929.
La pace di Costanza.
La pace di Costanza chiude definitivamente quel periodo di lotta quasi trentennale tra i comuni dell'Italia Settentrionale e l'imperatore Federico I Barbarossa, iniziato quando questi era sceso in Italia col proposito di restaurare i diritti dell'Impero, di fermare i comuni sulla via dell'emancipazione, di rivendicare le regalie usurpate, di far portare davanti al tribunale dell'imperatore o a quello dei suoi messi le cause maggiori ecc. Fu conclusa a Costanza il 25 giugno 1183, al termine della tregua di sei anni stabilita nel congresso di Venezia del 1177, all'indomani della battaglia di Legnano, e segnò un riconoscimento assai ampio dei comuni.
L'imperatore Federico, insieme con suo figlio Enrico re dei Romani, rimettendo tutte le offese ricevute dai Lombardi, li accoglie nel numero dei suoi fedeli e stabilisce in molti capitoli i patti della pace. Concede alle città della Lega le regalie e le consuetudini come le avevano avute allora e in specie quelle relative al fodro, ai boschi, ai pascoli, ai ponti, alle acque e ai mulini, come pure quelle relative all'esercito, alle fortificazioni delle città e quelle relative alle cause criminali e civili. Il vescovo e uomini della città e della campagna, espressamente eletti a questo scopo, indagheranno quali regalie spettino all'imperatore e se non vorranno eseguire una tale inchiesta, basterà che paghino un tributo. Se qualcuno farà ricorso alla maestà imperiale contro le concessioni fatte alle città della lega, il ricorso non sarà accettato. Le concessioni fatte dall'imperatore e dai suoi antecessori prima della guerra rimarranno in vigore con l'obbligo soltanto di corrispondere i soliti servigi, ma senza però l'obbligo di pagare il censo. Non saranno comprese nel novero delle regalie per le quali si deve pagare il censo quelle concessioni fatte in città e fuori per mettere pace. Le concessioni fatte in pregiudizio delle città e delle persone della lega dall'imperatore o dai suoi nunzî saranno revocate. Nelle città in cui il vescovo in forza di privilegio imperiale o reale detiene il potere comitale, se i consoli sogliono essere investiti dal vescovo, continuino a esserne investiti; altrimenti nelle singole città i consoli riceveranno il consolato dall'imperatore, a mezzo di un nunzio scelto ogni cinque anni dalle stesse città e che riceverà dall'imperatore e gratuitamente la facoltà di investire i consoli. Le cause d'appello per somme superiori alle venticinque lire imperiali saranno giudicate nelle singole città da un nunzio dell'imperatore, scelto tra i cittadini delle rispettive città. I consoli, prima di assumere la carica, dovranno giurare fedeltà all'imperatore. I vassalli imperiali dovranno ricevere l'investitura dall'imperatore, e quelli che durante la guerra non hanno chiesto la detta investitura, o non hanno fatte le dovute prestazioni, conserveranno egualmente il loro feudo. Tutti i danni e tutti i torti subiti dall'imperatore da parte della lega saranno condonati. Le città potranno fortificarsi e rinnovare la lega tutte le volte che a esse piacerà. I patti conchiusi dalle città sotto la minaccia dell'imperatore o sotto la pressione dei suoi nunzî si riterranno come non avvenuti. Le sentenze pronunciate contro persone della lega, in conformità delle leggi e delle consuetudini, avranno valore anche se l'imperatore abbia concesso la grazia; quelle invece che furono pronunciate soltanto a cagione della guerra saranno ritenute nulle. Si dovranno restituire alle persone della lega i beni che a esse furono tolti violentemente durante la guerra, a meno che non si tratti di beni compresi nelle regalie imperiali. Si rimettono le offese fatte all'imperatore dal marchese Obizzo dopo essere entrato a far parte della lega. I Milanesi continueranno a esercitare la loro giurisdizione nei contadi del Seprio, della Martesana e della Bulgaria, salvi i patti dagli stessi conclusi con le città limitrofe. I patti conchiusi tra le varie città della lega rimarranno in vigore. Quando l'imperatore verrà in Lombardia le città della lega gli corrisponderanno il consueto fodro regale, restaureranno le vie e i ponti e metteranno a sua disposizione un sufficiente mercato. Nelle controversie feudali tra l'imperatore e una persona della lega, le sentenze saranno pronunciate dai pari delle rispettive città sotto l'osservanza delle consuetudini; tuttavia, se l'imperatore si trovasse in Lombardia, le controversie stesse potranno essere portate alla sua udienza.
Mediatori della pace furono Guglielmo vescovo d'Asti, Enrico marchese di Savona, frate Teodorico di Selva Benedetta e Rodolfo camerario imperiale. Le città con le quali fu conchiusa la pace furono: Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma e Piacenza; ne furono invece escluse Imola col castello di S. Cassiano, Bobbio, la pieve di Gravedona, Feltre, Belluno e Ceneda. Si dette facoltà alla città di Ferrara di accedere alla pace entro due mesi. La pace fu giurata dai principi e dai nobili di curia e dai nunzî delle città lombarde; fu anche accettata con giuramento dalle città che durante la guerra avevano parteggiato per l'imperatore, come Pavia, Cremona, Como, Asti, Genova, ed Alba, e da quelle che, come Alessandria, mutato il suo nome in Cesarea, e Tortona, avevano dovuto concludere con l'imperatore una pace separata. Da ultimo nella pace furono anche nominati i nunzî imperiali che per il primo quinquennio ebbero la facoltà di investire i consoli nelle singole città.
Concludendo, la pace di Costanza, mentre salvaguardava la suprema autorità imperiale, specialmente col sottoporre all'approvazione di un nunzio dell'imperatore la nomina dei consoli, col riserbare ai nunzî o giudici imperiali le cause d'appello superiori alle lire venticinque e col rivendicare all'imperatore i diritti di fodro e le regalie, lasciava poi ai comuni la più grande libertà e autonomia, poiché essi potevano eleggersi i consoli, governarsi secondo le proprie consuetudini, tenere esercito e fortificarsi. Perciò con essa pace comincia il periodo aureo dei comuni, che divengono altrettanti staterelli indipendenti sulle rovine di quello che era stato il Regno d'Italia e che continuava a esistere solo di nome e di diritto.
Ediz. principali: L. A. Muratori, Antiquitates, Milano 1741, IV, coll. 307-316; L. Weiland, in Mon. Germ. Hist., Constit., I, Hannover 1893, nn. 293-295, pp 408-420; C. Manaresi, Gli atti del comune di Milano, Milano 1920.
Il concilio di Costanza.
Lo scisma che dal 1378 lacerava la Chiesa, aveva condotto allo spettacolo doloroso di due papi, il romano e l'avignonese, di due collegi cardinalizî, di due curie, spesso di due vescovi o di due abati nella stessa chiesa o monastero; e, se gli studî recenti hanno dimostrato la legittimità del papa romano, riusciva allora presso che impossibile, anche agli uomini più illuminati, giudicare quale dei due fosse da tenere per legittimo papa. La reverenza al pontificato, già scemata nel periodo della schiavitù avignonese, veniva a mancare, mentre il diffondersi delle dottrine di J. Wycliffe (v.) e di J. Hus (v.) rendeva urgente la difesa dell'ortodossia cattolica, e la corruzione dei costumi e la mondanità, infiltratesi largamente nella chiesa, facevano sentire la necessità di una profonda riforma. Sorse allora in molti la persuasione che a tanti mali si potesse riparare solo con la convocazione di un concilio ecumenico, il quale togliesse lo scisma, condannasse l'eresia, riformasse la Chiesa nel capo e nelle membra. Nello scadimento dell'autorità papale, trovarono favore, soprattutto in Germania e in Francia, teorie che, contro la dottrina cattolica della piena podestà del pontefice, attribuivano al concilio il potere supremo nella Chiesa e sullo stesso papa e davano ai principi il diritto di convocarlo, anche senza l'autorità del pontefice.
Già alcuni cardinali delle due obbedienze avevano convocato a Pisa nel 1409 un concilio, il quale aveva deposto come eretici e fautori di scisma Gregorio XII, il successore del papa romano, Benedetto XIII, l'avignonese, eleggendo un terzo papa, che fu prima Alessandro V, poi Giovanni XXIII. La maggior parte dei fedeli riconobbe l'eletto dal concilio; ma a Gregorio rimasero obbedienti alcuni principi e città di Italia e di Germania e, per alcun tempo, il regno di Napoli; a Benedetto i regni spagnoli, la Scozia e qualche principe francese. La Chiesa aveva ora tre papi, né fra loro era possibile l'accordo.
Parve allora che spettasse all'imperatore, come a protettore della Chiesa, il diritto insieme e il dovere di far cessare lo scisma. Sigismondo, re dei Romani, si accinse all'opera con giovanile energia, e, valendosi delle strettezze in cui si trovava Giovanni XXIII obbligato da re Ladislao a fuggire da Roma, gl'impose la convocazione di un concilio nella tedesca città di Costanza. Il re lo annunciò il 30 ottobre 1413, Giovanni firmò la bolla il 9 dicembre; vi erano invitate non solo le nazioni dell'Occidente, ma l'Impero d'Oriente, del quale si sperava la riunione con la Chiesa romana.
Il concilio si aprì, il 5 novembre 1414, con una funzione solenne, e tenne il 16, sotto la presidenza di Giovanni, la sua prima seduta. Erano allora a Costanza o vennero poi, 29 cardinali, poco meno che 200 vescovi, 150 abati e proposti,300 dottori, migliaia di ecclesiastici; ma anche principi e ambasciatori, conti e cavalieri, e una folla immensa di operai, di mercanti, di giocolieri, di vagabondi, di donne perdute, forse centomila uomini. Nell'assemblea stessa gli alti dignitarî della Chiesa, che avevano diritto di sedervi, si trovarono presto sopraffatti dagli ecclestiastici minori e dai laici; molto più che, senza formale deliberazione conciliare, si tenne, dal febbraio 1415, la procedura di votare separatamente nelle assemblee generali delle quattro nazioni, che erano rappresentate allora a Costanza: l'italiana, la francese, la tedesca, l'inglese, raccogliere i voti di ciascuna nazione in una congregazione generale, promulgarli come decreti del concilio nelle sessioni solenni. I cardinali stessi, che prima avevano voto a parte, dovettero poi confondersi nel voto della propria nazione. Giovanni XXIII, il quale, contando sul forte numero degl'Italiani, aveva sperato di far riconoscere il concilio come continuazione del pisano e quindi sé stesso come legittimo papa, vide con terrore che esso si disponeva a chiedere, o a imporre, la rinunzia dei tre pontefici; e fuggì travestito da stalliere, nella notte del 21 marzo 1415, dirigendosi alla volta di Sciaffusa nelle terre del duca d'Austria.
La fuga di Giovanni XXIII cagionò un grande scompiglio all'assemblea e nella città. Ma Sigismondo, che era venuto a Costanza fin dal Natale, considerandosi advocatus et defensor militantis Ecclesiae (Acta, I, 380), volle a ogni costo la continuazione del concilio. E questo, nella terza sessione (26 marzo 1415), presente il re in veste imperiale, dichiarò che, legittimamente congregato, manteneva l'autorità sua, né poteva essere sciolto o trasferito senza il proprio consenso; e nella IV e V (30 marzo e 6 aprile) promulgò i celebri quattro articoli: affermando che il concilio rappresentava la Chiesa militante e che ognuno, anche il papa, era tenuto a obbedirgli quanto alla fede, all'estirpazione dello scisma, alla riforma: la teoria conciliare era così accolta in pieno. Giovanni XXIII, che dal vinto duca d'Austria era stato consegnato all'imperatore ed era tenuto prigioniero per conto del concilio, fu gravato da accuse di ogni maniera, deposto (29 maggio 1415), costretto a ratificare la sentenza, dato in custodia a Sigismondo, che lo consegnò a Ludovico III elettore del Palatinato che lo chiuse nel castello di Hausen.
Le deliberazioni dell'assemblea e il procedimento di essa contro quello che l'aveva convocata ed era stato tenuto come papa, davano ragione a critiche ben gravi. Ma la moderazione e l'accortezza di Gregorio XII mutarono aspetto alle cose. Il 4 luglio "felice e celebre giorno" (Acta, II, 45), nella XIV sessione, che era presieduta non da un cardinale, ma dal re dei Romani, il cardinale Giovanni Dominici, secondo la commissione di Gregorio, convocava e autorizzava come concilio generale la "congregazione" che il re aveva raccolta a Costanza; l'assemblea, accettando la nuova convocazione, ammetteva implicitamente che non si fosse avuto sino allora vero concilio, che perciò le deliberazioni prese non avessero valore giuridico, che fosse legittima la serie dei papi romani. Allora Carlo Malatesta in nome del papa legittimo (Gregorio XII) rinunziò davanti al concilio, come a rappresentante la Chiesa.
Benedetto XIII non volle seguire l'esempio di Gregorio, né valsero a piegarlo trattative condotte in persona da Sigismondo a Narbona e a Perpignano; riuscì invece un accordo (capitolazione di Narbona, 13 dicembre 1415) per il quale sia gli aderenti di Benedetto, sia i convenuti a Costanza dovevano scambiarsi reciproco invito alla costituzione di un concilio, come se questo non esistesse. Vennero infatti a Costanza prima gli oratori aragonesi (10 settembre 1416), poi i navarrini (dicembre), infine i castigliani (aprile 1417), e vi formarono una quinta nazione, la spagnola. Benedetto fu condannato come spergiuro, scismatico ed eretico, e deposto (XXXVII sessione, 25 luglio 1417). Lo scisma era così estirpato, quantunque Benedetto XIII continuasse a pontificare con pochissimi seguaci a Peñiscola presso Valencia.
Frattanto il concilio, che voleva apparire innanzi alla cristianità energico difensore dell'ortodossia, aveva proceduto con molto vigore contro le eresie. Erano state condannate le proposizioni e la memoria del Wycliffe (VIII sessione, 4 maggio 1415); la dottrina degli utraquisti sulla necessità della comunione sotto ambedue le specie, la quale comunione era vietata ai laici (XIII sessione, 15 giugno 1415); la teoria del francescano francese Jean Petit, che asseriva lecito il tirannicidio (XV sessione, 6 luglio 1415). Giovanni Hus, arrestato dal 28 novembre 1415, nonostante il salvacondotto di Sigismondo, fu condannato come eretico (XV sessione, 6 luglio 1415), abbandonato al giudizio secolare e arso. Girolamo da Praga, discepolo suo, dopo una prima abiura (23 settembre 1415), fu processato nuovamente, condannato come eretico relapso (XXI sessione, 30 maggio 1416) e anch'egli arso.
Ma, quanto alla riforma della Chiesa, le commissioni nominate dal concilio non approdarono ad alcun risultato. Il papato, nel quale molti avevano veduto l'impedimento principale alla riforma, era vacante, ma vi era lotta fra i cardinali e la grande maggioranza dell'assemblea, che li voleva mettere da parte; lotta fra i curiali e i prelati estranei alla curia, che volevano togliere o diminuire a questa le entrate; lotta fra l'alto clero e il clero minore e i laici, fra il clero secolare e il regolare, fra i vescovi e le università. Era, soprattutto, vivo il contrasto fra le nazioni, tra Francesi da un lato, Tedeschi e Inglesi dall'altro, tra Castigliani e Aragonesi, tra Italiani e stranieri all'Italia: Una nacio volebat uno modo, alia alio et diu fuit laboratum et parum actum (Fillastre, in Acta, II, 147). Sigismondo, poi, non solo era padrone dei Tedeschi, ma convocava i deputati delle nazioni, minacciava violenze contro gli oppositori, fin contro i cardinali, appariva caput et dispositor concilii (ivi, II, 116); era suo intento ritardare l'elezione del papa, abbassare, sotto colore di riforma, la curia di Roma, tenere la Chiesa in propria balia. Apparve allora chiaro come il volere procedere senza papa conducesse alla servitù della Chiesa. Guadagnò quindi terreno la tesi dei cardinali che sostenevano doversi ormai procedere all'elezione; e quando i Castigliani e i Navarrini, d'accordo con loro, si ritirarono minacciando un nuovo scisma (10 settembre 1417), la maggioranza delle nazioni si chiarì favorevole all'elezione immediata: lo stesso re Sigismondo si piegò a un'intesa.
Furono così promulgati, nella XXXIX sessione (9 ottobre), cinque decreti, sui quali le nazioni si erano potute accordare: essi stabìlivano la convocazione periodica dei concilî, facevano giudice il concilio in caso di scisma, imponevano al papa eletto una professione di fede, gli vietavano di trasferire i prelati contro loro voglia e di appropriarsi i diritti delle procure e degli spogli dei prelati defunti. Nella XL sessione (30 ottobre) si decretò che il papa futuro, prima di sciogliere il concilio, dovesse fare la riforma in capite et curia Romana e che l'elezione fosse fatta, per quella volta, dai ventitré cardinali e da sei deputati per ciascuna delle cinque nazioni, a maggioranza dei due terzi, sia di quelli, sia di questi. Il conclave, raccoltosi l'8 novembre nel Kaufhaus di Costanza fra le preghiere commosse del popolo, elesse papa dopo tre giorni Oddone Colonna romano, Martino V: e l'elezione fu accolta con grande gioia.
Il nuovo papa tentò di mettere d'accordo i cardinali e le nazioni su un programma di riforma; ma il concilio era troppo diviso e il papa inceppato dalle pretensioni del re, dalla scarsezza dei mezzi economici, dall'urgenza di ristabilire a Roma la sede papale. E del resto egli stesso, con le regole della cancelleria papale, promulgate il 26 febbraio 1418, mostrava di non comprendere a sufficienza la necessità di innovazioni radicali. Furono quindi promulgati nella XLIII sessione (21 marzo 1418) alcuni decreti, che contenevano la rinunzia del papa alle rendite dei benefici vacanti, condannavano la simonia, imponevano ai beneficiati l'obbligo dell'ordinazione, riserbavano al papa il diritto d'imporre decime, ma col consenso dei cardinali o della maggioranza del clero del paese, rinnovavano le leggi sulle vesti ecclesiastiche e la tonsura. Altre riforme erano sancite nei concordati, che Martino stipulò separatamente con le diverse nazioni: limitazione dei diritti papali quanto al conferimento dei benefizî minori, alle annate, alle commende, alla trattazione di cause nella curia; il cardinalato dover essere conferito a non più che ventiquattro o ventisei persone degne, di ogni nazione. Non trascurabili riforme, ma insufficienti al bisogno.
Il 19 aprile 1418 (XLIV sessione) si pubblicò il decreto, che indiceva un nuovo concilio a Pavia; il 22 (XLV sessione) il pontefice dichiarò di ratificare le deliberazioni prese in materiis fidei..., conciliariter..., non aliter, nec alio modo e sciolse il concilio, che fu il XVI generale o ecumenico dalla XLII sessione all'ultima (XLV). Per le precedenti sessioni la Chiesa non lo tenne per valido se non in quanto non danneggiasse il diritto e la dignità della sede romana. Il concilio di Costanza attestò insieme la gravità dei mali che affliggevano la Chiesa, l'urgenza di riformarli, la difficoltà di procedere alla riforma, l'impossibilità di compierla senza un rinvigorimento dell'autorità pontificale.
Bibl.: H. van der Hardt, Magnum oecumenicum Constantiense concilium, Berlino 1697-1700; Mansi, Concil. collectio, XXVII e XXVIII, Venezia 1784; K.I. Hefele e H. Leclerq, Histoire des conciles, Parigi 1916, VII, parte 1ª, dove sono, a p. 167, nota, ricordate le opere precedenti sull'argomento. Fondamentale, ora, H. Finke, Acta concilii Constanciesis, Münster 1896-1928, in 4 voll., il secondo dei quali contiene i preziosi diarî del cardinale Fillastre e del Cerretani. Vedi anche L. Pastor, Storia dei papi, I, Roma 1925.