Costi e benefici del commercio internazionale
Il 21° sec. vede i sistemi economici nazionali più vicini, legati e integrati dall’aumento dello scambio di beni e servizi, dai flussi monetari e dagli investimenti effettuati dalle imprese in diversi Paesi. Con la diminuzione dei costi di trasporto e delle telecomunicazioni, infatti, la rilevanza economica della distanza fisica (cioè la ‘distanza economica’) fra Paesi è diminuita, il commercio di beni e servizi finali, ma soprattutto di beni intermedi, è aumentato, i processi produttivi sono stati frammentati e si è prodotta una riallocazione delle risorse mondiali, con fasi e/o singole mansioni produttive localizzate in Paesi diversi, a sottolineare che i confini per beni, servizi e fattori produttivi sono diventati con il tempo sempre meno rilevanti. La maggiore integrazione si è tuttavia associata a una forte riorganizzazione produttiva internazionale, e le incertezze sul futuro hanno reso i politici, gli uomini di affari e i comuni cittadini di ogni Paese coscienti della necessità di monitorare costantemente le evoluzioni dei mercati internazionali, in modo da analizzare per tempo i cambiamenti e limitarne gli effetti negativi sul proprio sistema economico. Se l’utilità del commercio è riconosciuta nel caso in cui il proprio sistema non sia in grado di produrre un determinato bene, è molto forte lo scetticismo sui possibili vantaggi dello scambio di beni prodotti anche all’interno del proprio Paese.
La crisi finanziaria scatenatasi dopo la bolla del settore immobiliare nell’agosto 2007 e acuitasi dopo il crollo di alcuni importanti attori del settore finanziario nella primavera/estate 2008 ha messo in crisi il modello liberista di cui la liberalizzazione commerciale è stata l’asse portante. La crisi potrebbe accentuare lo scetticismo che ha circondato le politiche di liberalizzazione degli ultimi tre decenni. Nel momento in cui è stato scritto questo lavoro la crisi risultava ancora in corso e non lasciava intravedere segni di ripresa. Indicando i possibili effetti di questa crisi, in queste pagine ci poniamo l’obiettivo di presentare al lettore i cambiamenti più importanti nel commercio internazionale. Partendo dall’analisi dei flussi commerciali ed evidenziandone le recenti caratteristiche, vogliamo analizzare due fra le più rilevanti problematiche relative al commercio internazionale: la sostituibilità/complementarità tra esportazioni e investimenti diretti esteri (IDE) e il ruolo della rivoluzione tecnologica di informazione e comunicazione (ICT, Information and Communication Technology) nella competizione internazionale. Infine, vogliamo portare all’attenzione del lettore le nuove e le vecchie teorie elaborate a favore oppure contro il libero commercio.
Volumi, direzione e composizionedel commercio internazionale
La riduzione della rilevanza economica delle distanze (in primis dei costi di trasporto), ma soprattutto il numero crescente di beni che ogni Paese commercia hanno indotto importanti mutamenti nel volume, nella direzione e nella composizione dei flussi commerciali. Il baricentro geografico del commercio mondiale ha subito negli ultimi dieci anni un chiaro spostamento verso Oriente, mentre si assiste alla costante crescita dello scambio di servizi e attività fino a pochi anni fa ritenuti ‘non commerciabili’.
Le tre determinanti del volume degli scambi internazionali sono il numero di Paesi coinvolti, il numero di beni che ogni Paese scambia (margine estensivo) e infine il valore dell’interscambio (margine intensivo). Le modifiche nella struttura geografica del commercio mondiale dipendono invece sia dal fatto che al crescere del reddito pro capite di un Paese aumenta rapidamente anche il margine estensivo del commercio internazionale (il Paese produce, esporta e importa più beni), sia dal legame crescente e non lineare tra margine intensivo ed estensivo: i Paesi con un elevato margine estensivo sono anche quelli che commerciano di più; dopo aver raggiunto un livello soglia del margine estensivo, inizia a ritmi crescenti la crescita del margine intensivo. Il forte aumento del reddito disponibile nei Paesi emergenti, l’incremento del numero di Paesi che partecipano agli scambi internazionali e della varietà di beni commerciati hanno modificato i patterns di consumo e produzione a livello mondiale e la struttura stessa della produzione e degli scambi.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, i tassi di crescita del volume degli scambi commerciali sono risultati superiori a quelli del prodotto mondiale, con un aumento più evidente a partire dagli anni Ottanta del secolo appena trascorso. Il volume di scambi internazionali risulta essere ora pari a circa 15 volte i livelli del 1950. La fig. 1 riporta l’indice creato sul tasso di crescita annuo delle esportazioni e del reddito mondiali. È evidente la biforcazione fra i volumi scambiati e il prodotto annuale mondiale. Mediamente le esportazioni sono cresciute al tasso annuo del 5,7%, mentre il reddito a quello del 2,7%. È interessante notare come la crisi seguita agli attentati dell’11 settembre 2001 abbia solo temporaneamente frenato questa tendenza. Tuttavia a Paesi che crescono in termini di scambi con tassi a due cifre fanno da contraltare Paesi (soprattutto del continente africano) che hanno tassi di crescita mediamente inferiori al 3%. Due elementi possono spiegare la maggiore dispersione: l’emarginazione di aree geografiche come l’Africa e la dinamica accelerata di molte economie asiatiche e dei Paesi europei in transizione (De Benedictis, Giovannetti 2006). Gli effetti della crisi attuale sono incerti e dipenderanno dai tempi di recupero e dai cambiamenti strutturali in corso.
È importante sottolineare come l’aumento degli scambi internazionali si accompagni alla fase di forte delocalizzazione produttiva evidente sin dai primi anni Novanta del 20° secolo. L’attuale fase economica è caratterizzata da una ripresa delle attività di internazionalizzazione della produzione, che avevano conosciuto un brusco arresto nel 2001. Il livello mondiale dei flussi di IDE, infatti, nel 2000 aveva raggiunto la cifra record di oltre 1400 miliardi di dollari, per scendere fino a circa 560 nel 2003. Un rapido recupero ha poi riportato il dato a 946 miliardi nel 2005, con un incremento del 27% circa rispetto all’anno precedente. Nel 2006 vi è stata una crescita del 38%, con il raggiungimento di quota 1306 miliardi, molto vicino al picco del 2000. Infine, nel 2007 sono stati raggiunti i 1538 miliardi, superando il record del 2000 (UNCTAD, United Nations Conference on Trade And Development, 2006, 2007 e 2008). La crisi finanziaria sta avendo un rilevante impatto sui flussi di investimenti diretti esteri e non è prevedibile l’effetto di lungo termine. Tuttavia, fino al 2007 mediamente il valore dei flussi IDE ha mantenuto tassi di crescita superiori a quelli del prodotto lordo mondiale e dei flussi di interscambio. L’incremento non è stato omogeneo tra le aree di destinazione, e la sua redistribuzione ha comportato l’emergere di una nuova geografia economica. La quota dei Paesi industrializzati come destinatari degli investimenti è passata dall’80% del 1980 a un livello attuale inferiore al 60%, mentre il restante 40% è destinato ai Paesi di nuova industrializzazione e in via di sviluppo.
Recenti analisi concordano sullo ‘spostamento a est’ del fulcro degli scambi mondiali. La tabella riporta, per il periodo 1948-2007, i valori delle esportazioni mondiali e le quote per le differenti aree geografiche e in alcuni specifici Paesi. Analizzando le quote per le differenti aree è subito evidente come siano cambiati gli attori principali dei mercati internazionali. Inoltre, guardando ai singoli Paesi è possibile rilevare alcuni andamenti peculiari.
Innanzitutto è da sottolineare il minor peso degli Stati Uniti che, sul finire della Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, rappresentavano oltre un quinto delle esportazioni mondiali, mentre nel 2007 meno del 10%. D’altro lato l’Europa, che aveva visto crescere il suo ruolo fino a esprimere all’inizio degli anni Settanta la metà delle esportazioni mondiali, mantiene una posizione rilevante con oltre il 40%. È importante evidenziare la forte crescita, in termini di produzione e di scambi con l’estero, dei Paesi dell’Europa dell’Est, che in pochi anni hanno raddoppiato sia le esportazioni sia le importazioni sui mercati mondiali, entrando fra le aree più dinamiche degli ultimi dieci anni, anche se il loro peso sulle esportazioni mondiali resta abbastanza limitato (ICE, Istituto nazionale per il Commercio Estero, 2007).
Per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo, è evidente la perdita di quote subita dall’America Latina e dall’Africa: mentre negli anni Quaranta rappresentavano nel complesso quasi un quinto delle esportazioni mondiali, nel 2007 avevano soltanto una quota rispettivamente del 3,7% e del 3,1%. In Asia si sono riscontrati tassi di crescita a due cifre per India, Cina, Corea del Sud, Singapore, Malesia, Indonesia, Taiwan e Hong Kong. Come risultato, l’Asia contribuisce ormai a oltre un quarto del commercio mondiale di beni. La Cina, in particolare, è diventata il terzo esportatore mondiale di beni (il secondo di manufatti) e il terzo importatore: la sua quota di importazioni di materie prime, per es., è passata da meno dell’1% nel 1985 a più del 6% nel 2006 (Giovannetti 2008).
L’accentuata liberalizzazione degli ultimi vent’anni è stata ottenuta anche grazie all’approvazione di accordi multilaterali, seppure nello stesso periodo vi sia stata l’approvazione di una serie di importanti accordi a livello regionale. Questi ultimi trovano ragione d’essere nei maggiori costi di coordinamento (e quindi di difficoltà decisionale) dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO, World Trade Organization), che per condizione statutaria è tenuta a giungere a una posizione di mediazione consensuale tra i suoi membri. D’altra parte gli accordi regionali riducono il grado di separazione/lontananza dei singoli Paesi, promuovendo gli scambi: in Asia, per es., quelli effettuati all’interno della regione hanno raggiunto nell’ultimo decennio circa la metà del totale (De Benedictis, Giovannetti 2006).
Negli ultimi anni i flussi di scambio di servizi sono cresciuti con ritmi simili a quelli dei beni. Dall’inizio degli anni Ottanta anche le esportazioni di servizi sono aumentate sensibilmente, e all’inizio del 21° sec. rappresentano un quinto del totale delle esportazioni mondiali. I servizi risultano centrali nel processo di incremento dell’efficienza produttiva e possono essere un volano per lo stesso commercio di beni.
Gli scambi di servizi sono aumentati prioritariamente grazie a tre fattori: le migliori tecnologie di (tele)comunicazione, lo sviluppo dei processi di delocalizzazione produttiva e gli accordi di liberalizzazione dei flussi di servizi seguiti ad accordi internazionali. Precedentemente al rapido sviluppo nel campo dell’ICT, si riteneva che caratteristiche principali dei servizi fossero sia l’intangibilità sia l’impossibilità di stoccaggio. Questo presupponeva una simultaneità fra produzione e consumo. Risulta chiaro quindi che la possibilità di trasmissione telematica di alcuni servizi ha fornito un decisivo impulso al loro scambio internazionale. Inoltre, recenti analisi empiriche hanno mostrato come più della metà delle transazioni internazionali di servizi abbia luogo fra affiliate estere di compagnie multinazionali. Dato lo stretto rapporto esistente tra produzione e consumo, se i servizi non sono incorporati all’interno di beni e non è possibile trasmetterli attraverso reti di comunicazione (per esempio, i servizi bancari), si rende necessaria la presenza fisica di un’unità aziendale locale che effettui lo scambio. Nel corso del 2007 lo scambio di servizi commerciali ha superato i tremila miliardi di dollari (cfr. WTO 2007), rappresentando quasi il 20% del totale delle esportazioni dell’Europa, che costituisce più del 50% delle esportazioni totali, e a seguire quelle dell’Asia (23%) e dell’America Settentrionale (17%).
Una categoria importante di servizi è rappresentata dai servizi all’impresa (business services), il cui interscambio internazionale ha conosciuto ritmi di crescita superiori ai servizi finali o alla persona. In passato la gran parte di queste attività veniva integrata all’interno dell’impresa, dato il suo valore strategico nel processo produttivo. Tuttavia, sempre più di frequente si assiste all’acquisto sul mercato esterno di questi servizi, in maniera da poter approfittare di vantaggi in termini di economie di scala e di scopo. Questo tipo di servizi qualificati si trova a doversi confrontare con una domanda di mercato scarsamente concentrata. All’interno di un mercato regionale è presente un numero estremamente limitato di potenziali clienti, e anche nel caso in cui si instauri un rapporto di fornitura, la collaborazione risulta spesso occasionale e legata a singoli progetti. Inoltre, data l’estrema complessità del tipo di servizio che viene prodotto, la dimensione d’impresa minima in grado di permettere un utilizzo efficiente dei fattori risulterà maggiore rispetto a servizi di natura più ordinaria. Di conseguenza è possibile aspettarsi che i servizi più specializzati, che devono riuscire di volta in volta e in modo occasionale ad adattarsi alle specifiche esigenze di singoli clienti, vengano con più frequenza commercializzati attraverso grandi distanze. La natura stessa del contenuto della subfornitura di questi servizi rende trascurabili i costi di trasporto (o semplice trasmissione) e permette il contatto tra partner molto distanti.
I problemi aperti
In questo paragrafo vogliamo, da una parte, riportare all’attenzione dei lettori lo stretto rapporto fra commercio internazionale e IDE, dall’altra, analizzare le problematiche relative al crescente ruolo dei servizi nello sviluppo della produzione e dello scambio internazionale di beni.
Commercio internazionale e investimenti diretti esteri
Come abbiamo visto, gli scambi internazionali hanno registrato i tassi di crescita più elevati fra le attività economiche. Questo è vero anche per gli IDE. Essi consistono nella creazione di un’impresa ex novo in un Paese terzo o nell’acquisizione del controllo di un’impresa già esistente. Si differenziano dagli investimenti di portafoglio perché chi effettua questi ultimi è interessato esclusivamente alla remunerazione del capitale investito. Inoltre gli IDE possono essere di due tipi: orizzontali e verticali. I primi consistono nella produzione degli stessi beni e servizi in differenti Paesi, i secondi nella frammentazione geografica di diverse parti della produzione. Tuttavia, proprio l’inizio del nuovo secolo ha visto un sostanziale cambiamento nelle caratteristiche del commercio e degli IDE. Alla forte espansione del commercio di servizi, evidenziata nel paragrafo precedente, si è accompagnato l’aumento dello scambio di beni intermedi. Ed è proprio il fenomeno dell’integrazione verticale a essere chiamato in causa: le imprese che investono all’estero hanno aumentato la domanda di beni intermedi e in un secondo momento le esportazioni. È perciò facilmente individuabile una forte attenzione alla relazione fra IDE e commercio internazionale. Mentre la letteratura teorica sostiene che il legame può essere di sostituibilità o di complementarità, in funzione delle finalità dell’investimento estero, le analisi empiriche propendono per una forte complementarità.
Due interrogativi legati tra loro emergono sempre quando si parla di delocalizzazione: quali sono le motivazioni che spingono le imprese ad aprire filiali all’estero? Perché un’impresa non si limita a produrre in loco esportando parte della produzione? Le risposte sono complesse e non univoche. Tuttavia, a una prima ricognizione del problema ci si rende subito conto che effettuare la produzione in un solo Paese, per esportare successivamente il bene prodotto, presenta il vantaggio dei rendimenti crescenti di scala (le imprese possono produrre di più a un minor costo unitario), ma lo svantaggio di dover sopportare costi di trasporto per i beni esportati. D’altra parte, effettuare IDE comporta l’avvicinarsi al mercato di sbocco, sfruttare i più bassi costi degli input di produzione, ma anche duplicare alcuni costi di produzione (dato che bisogna gestire più impianti) e sostenere costi di coordinamento fra le diverse unità produttive (Basevi, Calzolari, Ottaviano 2001). Inoltre, partendo dal presupposto che le imprese che si internazionalizzano sono quelle che hanno vantaggi competitivi, è da sottolineare come il grado di trasferibilità di questi vantaggi dipenda dalla loro stessa natura. Se il prodotto è nuovo e necessita di controlli, miglioramenti e aggiornamenti, all’impresa potrebbe convenire produrre nelle vicinanze dei suoi centri di ricerca ed esportare da qui il prodotto finito: la semplice esportazione (fermi restando i costi di trasporto) potrebbe garantire lo sfruttamento della rendita data dall’innovazione. D’altra parte, se il prodotto è conosciuto e copiato dai concorrenti, ma l’impresa è in grado di sfruttare la sua immagine (in termini sia di marchio sia di qualità dei prodotti), allora una maggiore vicinanza con i consumatori, data dagli IDE orizzontali, garantirebbe maggiori profitti (Mori, Rolli 1998). Sempre in quest’ottica produrre in settori maturi potrebbe spingere l’impresa alla ricerca di minori costi di produzione attraverso IDE verticali. In linea generale, possiamo quindi pensare a un processo lineare che va dalla produzione per il solo mercato interno all’esportazione e infine agli IDE. D’altra parte, a questi vantaggi di impresa vanno sicuramente legate le motivazioni che spingono le imprese a localizzare la produzione in uno o più mercati.
In letteratura, il paradigma interpretativo che storicamente fa da riferimento per spiegare la relazione tra vantaggi di impresa e scelte di localizzazione produttiva è il cosiddetto approccio eclettico (Dunning 1977). In particolare, esso tiene conto di tre elementi che possono spiegare la scelta di effettuare IDE: la proprietà, la localizzazione e l’internalizzazione (ownership, localization and internalization, da cui l’acronimo con cui è conosciuto questo tipo di approccio: OLI). Le imprese multinazionali sono proprietarie di capitale umano, conoscenze, brevetti, tecnologie o vantaggi intangibili (la reputazione). Tutti questi elementi possono essere trasferiti e replicati in diversi Paesi senza costo. Inoltre la vicinanza con i mercati di sbocco permette una maggiore prossimità ai consumatori finali, l’aggiramento di eventuali barriere al commercio e l’abbattimento dei costi di produzione e di trasporto. Infine, le imprese internalizzano la produzione per evitare i rischi legati alla cessione di informazioni proprietarie a terzi esterni all’impresa stessa. Infatti, cedendo la licenza di una propria produzione, l’impresa innanzitutto incorrerebbe nel rischio di imitazione del prodotto, e inoltre dovrebbe sostenere costi di transazione con terzi.
Se tutti e tre gli elementi sono presenti, le imprese opteranno per gli IDE. Se il vantaggio di localizzazione non esiste, allora le imprese sceglieranno di produrre i loro beni nel mercato domestico, sfruttando le economie di scala per poi rivenderli all’estero. Se invece il vantaggio di internalizzazione non è presente, alle imprese può convenire appaltare a terzi la produzione senza strutturarsi attraverso IDE. Tuttavia, pur avendo un chiaro contesto teorico e il supporto dell’evidenza empirica, l’approccio eclettico permette essenzialmente valutazioni qualitative piuttosto che quantitative, e non è in grado di spiegare alcuni recenti fenomeni: per es., il fatto che gli IDE non vadano solo in una direzione. Gli ultimi sviluppi si sono indirizzati verso due strade: da una parte, analizzare i vantaggi di impresa e di localizzazione, dall’altra, studiare i vantaggi dell’internalizzazione (Basevi, Calzolari, Ottaviano 2001).
Uno dei filoni di letteratura più importanti sul commercio internazionale presuppone l’esistenza di rendimenti crescenti di scala, di prodotti differenziati e, di conseguenza, di competizione imperfetta (Helpman, Krugman 1985). È l’evidenza empirica a spingere gli economisti internazionali a cambiare alcune assunzioni di base. I vecchi modelli, infatti, non sono in grado di spiegare la crescita del commercio intraindustriale, cioè quello tra Paesi con caratteristiche omogenee. Inoltre viene fornita una struttura teorica che permette di considerare allo stesso tempo IDE e commercio internazionale. In questo tipo di modelli esiste una casa madre che fornisce servizi (ricerca e sviluppo, marketing) per tutti gli impianti che producono fisicamente il bene. Tali servizi hanno la caratteristica di essere beni pubblici, e possono essere quindi utilizzati da tutti gli impianti, ma il costo di produzione è unico ed è sostenuto dalla casa madre. Questi modelli assumono la presenza di vantaggi di proprietà e di localizzazione, e gli IDE generati vanno solo in una direzione. Per ovviare a questo problema, perciò, in lavori successivi la scelta di effettuare investimenti diretti è endogeneizzata. La scelta di internazionalizzarsi attraverso IDE dipende, fra l’altro, dalla presenza di barriere commerciali e di alti costi di trasporto. Tuttavia, in questi lavori risulta esserci una forte sostituibilità fra commercio e IDE, mentre già all’inizio degli anni Novanta si sosteneva che spezzettando la produzione in tanti stadi, gli IDE potessero accompagnarsi alla crescita degli scambi di beni intermedi.
Dal punto di vista normativo, la relazione fra IDE e commercio è importante per capire gli effetti degli IDE sui Paesi di origine. Se c’è sostituzione fra i due, allora spostare la produzione all’estero ha due effetti negativi sul Paese di origine: riduce il numero di lavoratori e ridimensiona le esportazioni. Tuttavia questo scenario non è supportato dall’evidenza empirica. Gli IDE verticali generano esportazioni perché le imprese trasferiscono alle loro sussidiarie beni intermedi, tanto che il commercio intraimpresa è aumentano fortemente nei primi anni del 2000. Inoltre l’affiliata potrebbe anche solo fare da cavallo di Troia della casa madre, permettendo a questa di avere nel Paese ospitante una piattaforma attraverso cui vendere i propri prodotti e/o servizi. D’altra parte, anche se la sostituibilità è sostenibile teoricamente per imprese che fanno IDE orizzontali, l’evidenza empirica relativa non è univoca: l’effetto complessivo dipende dall’incremento della domanda di beni del Paese di origine.
Recentemente, un nuovo filone di ricerca ha collegato la modalità di internazionalizzazione (esportazioni piuttosto che IDE) a caratteristiche intrinseche delle imprese. In particolare è stato notato come solo una piccola frazione del totale delle imprese effettui esportazioni e IDE. Queste imprese risultano essere più grandi e più produttive delle imprese che non si internazionalizzano. Inoltre le imprese che effettuano IDE sono a loro volta più produttive e più grandi di quelle che esportano. Infine, è risultato evidente come la semplice distinzione fra IDE verticali e orizzontali non rappresenti al meglio la più complessa ed eterogenea realtà del sistema economico: grandi multinazionali stabiliscono la loro produzione in Paesi con basso costo della mano d’opera e da questi esportano verso altri Paesi, e inoltre gli IDE fra Paesi sviluppati non sono esclusivamente IDE orizzontali (Helpman 2006). Queste nuove teorie, quindi, non si chiedono più perché le imprese effettuino IDE, ma quali tipi di imprese si rivolgano ai mercati internazionali e in che modo lo facciano (esportando o facendo IDE). In un recente rapporto, Thierry Mayer e Gianmarco Ottaviano (2007), analizzando dati a livello di impresa, mostrano come le esportazioni e gli IDE siano effettuati da poche imprese. In particolare queste risultano allontanarsi sensibilmente dall’impresa media del Paese di origine: sono più grandi, producono più valore aggiunto, pagano salari più alti, hanno occupati con più elevata scolarizzazione e una più alta produttività. Inoltre Mayer e Ottaviano evidenziano come il volume di esportazioni e IDE dipenda dal numero di imprese coinvolte più che dal valore medio esportato dalla singola impresa. Tenendo presente questi e altri elementi, i due autori individuano diverse priorità per la politica economica, tra cui: aumentare la competizione all’interno dei settori, incrementare il numero di esportatori e di multinazionali, ridurre i costi degli scambi internazionali e valutare le potenzialità in termini di esportazioni e IDE dei diversi settori.
La crisi attuale potrebbe giocare un ruolo importante nella relazione empirica fra complementarietà e sostituibilità fra IDE e commercio internazionale. Nel breve la crisi potrebbe frenare il commercio internazionale, sia per cause endogene sia per un ritorno al protezionismo. D’altra parte gli investimenti diretti potrebbero essere usati o per aggirare il protezionismo stesso o per la riorganizzazione della produzione al fine di riacquistare efficienza produttiva (si veda il settore dell’auto). La riorganizzazione è aiutata dal carattere prettamente finanziario della crisi. I valori azionari delle imprese sono crollati probabilmente ben oltre una reale previsione del valore atteso dei futuri profitti. Si potrebbe aprire perciò a livello internazionale una stagione di acquisizioni e quindi un aumento degli IDE. Il risultato combinato sarebbe una sostituzione fra commercio e IDE. D’altra parte, nel lungo periodo l’effetto sarà determinato dalla voglia dei Paesi di tornare a ridurre le barriere tariffarie e proseguire sulla strada della liberalizzazione commerciale. In tal caso la crisi sarà ricordata solo come un, seppur forte, declino lungo un trend positivo decennale e la complementarietà, già avvalorata da diversi studi, si ripresenterà nei dati.
Business services
Recentemente, diversi economisti hanno sostenuto che il processo di integrazione economica è entrato in una nuova fase. Tale cambiamento è considerato da alcuni tanto radicale da richiedere addirittura la formulazione di un nuovo paradigma interpretativo (Grossman, Rossi-Hansberg 2006), mentre altri parlano di una terza rivoluzione industriale, in grado di modificare le abitudini di vita delle persone tanto quanto le prime due che l’hanno preceduta.
Il nuovo paradigma di cui parlano Gene M. Grossman ed Esteban Rossi-Hansberg differisce dal precedente con particolare riferimento al livello di disaggregazione dei processi produttivi che vengono a essere coinvolti da questa nuova e prepotente ondata di globalizzazione. La competizione internazionale non si esprime più (se mai lo abbia fatto) attraverso il confronto sui mercati tra l’efficienza produttiva dei settori di produzione nazionali o tra la capacità di penetrazione commerciale delle imprese localizzate in uno Stato. Sempre più, nel futuro, saranno alcune mansioni svolte individualmente da singoli lavoratori in Paesi diversi a dover trovare un equilibrio tra efficienza produttiva e differenziale salariale. Trasversalmente a tutte le branche industriali e ai processi produttivi interni a ogni singola impresa, alcune categorie di lavoratori potrebbero risultare danneggiate, e per la prima volta in modo del tutto indipendente dal proprio livello di istruzione e di retribuzione relativa (Baldwin 2006). La figura professionale dell’esperto nella gestione della sicurezza di sistemi informatici potrebbe vedere ridotto il proprio differenziale salariale nei confronti di un addetto alla pulizia dei locali, a prescindere dal settore o dall’azienda di appartenenza di entrambi.
Come già avvenuto per le precedenti ondate di intensificazione dello scambio di merci e dei flussi di investimenti tra nazioni, la causa principale di quella in atto è l’accelerazione dello sviluppo tecnologico. Tuttavia, invece di coinvolgere i costi di trasporto di beni e persone, in questo caso il progresso tecnico ha determinato una caduta nei costi di comunicazione e coordinamento di alcune specifiche mansioni, permettendo il trasferimento per via telematica, anche su distanze considerevoli, di servizi la cui produzione era stata considerata fino a questo momento strettamente legata al luogo di consumo finale o intermedio.
L’attuale preoccupazione derivante dal considerare il proprio lavoro sottoposto alla competizione internazionale, potrebbe passare dal riguardare una minoranza di lavoratori nei Paesi sviluppati a coinvolgerne un numero molto più rilevante.
In base al vecchio paradigma di interpretazione della competizione internazionale, la singola impresa rappresentava il livello di disaggregazione più raffinato al quale rivolgere l’analisi. La sicurezza del proprio posto di lavoro era legata al successo della propria azienda, mentre dal punto di vista distributivo la competitività di un’industria favoriva le retribuzioni dei fattori produttivi più intensamente utilizzati. All’interno della forza lavoro, la suddivisione per grado di istruzione rappresentava uno strumento analitico di grande efficacia. Nella nuova visione, invece, l’eventualità che una singola posizione professionale venga delocalizzata dipende strettamente dalla possibilità di commercializzare attraverso una lunga distanza l’oggetto di tale prestazione funzionale, senza che questo processo determini un deperimento della qualità del servizio in questione. In tale definizione rientrano quei servizi che non necessitano di un contatto diretto del tipo face-to-face con il soggetto destinatario, che si basano su conoscenze altamente codificabili e il cui output è facilmente veicolabile per via telematica. Questi servizi per semplicità sono generalmente definiti impersonali. Rientrano in questa categoria servizi di programmazione software, di analisi finanziaria, di diagnostica medica di routine.
Risulta importante sottolineare come la linea di demarcazione tra servizi personali e impersonali non possa essere stabilita una volta per tutte, ma dipenda dalla tecnologia al momento disponibile. L’emergere di un’innovazione nel campo dell’informazione, della comunicazione o della gestione dei processi produttivi potrebbe rendere potenzialmente impersonale un servizio fino a quel momento considerato non delocalizzabile, senza alcuna possibilità di poter stabilire in anticipo fino a dove questo fenomeno possa essere in grado di spingersi.
Il cambiamento del paradigma interpretativo porta con sé tre principali caratteri di novità: l’imprevedibilità delle direzioni di sviluppo del processo di integrazione economica, la repentinità di cambiamento degli incentivi economici che guidano le scelte di riallocazione e, infine, lo ‘spiazzamento’ di alcune delle più condivise politiche economiche di gestione dell’aggiustamento strutturale.
I costi di trasporto e commercializzazione estera non differiscono in maniera radicale in base alla natura di un bene specifico. Pertanto all’interno del precedente paradigma interpretativo un abbassamento dei costi del commercio si ripercuoteva su tutti i settori allo stesso modo. Questo meccanismo permetteva agli strumenti dell’analisi economica di individuare quali sarebbero stati i prossimi settori a essere coinvolti nella competizione internazionale. Si sarebbe trattato di quei settori in cui il rapporto tra il differenziale di efficienza produttiva e il gap salariale era già tale da permettere un proficuo interscambio: questo tuttavia veniva impedito da costi di commercio i quali più che compensavano tale vantaggio. Richard Baldwin (2006) parla di un processo di ‘spacchettamento’ dei processi produttivi nelle singole mansioni elementari che li compongono e alle quali si estende la pressione della competizione internazionale. Nel momento in cui diviene conveniente delocalizzare l’espletamento di una singola mansione, a essere coinvolti sono un certo numero di lavoratori appartenenti a un ampio spettro di settori. Questo determina l’imprevedibilità delle direzioni di sviluppo della recente ondata di globalizzazione. Al carattere di imprevedibilità circa i soggetti interessati e le loro caratteristiche professionali, si deve aggiungere un’inedita repentinità di inversione dei meccanismi di convenienza economica che guidano le decisioni di localizzazione spaziale di determinate funzioni. Baldwin ha elaborato un elegante modello che descrive la determinazione di un effetto di massa critica per il quale una leggera modifica nel rapporto tra vantaggio salariale e handicap di coordinamento è in grado di determinare l’improvvisa profittabilità del trasferimento di un intero gruppo di mansioni complementari, là dove in precedenza risultava inefficiente la delocalizzazione di ogni singola posizione.
Un ulteriore elemento di novità del nuovo paradigma è rappresentato dall’assottigliamento delle possibilità di reazione degli Stati nazionali. Questi hanno accesso a un numero sempre minore di credibili contromisure a tutela dell’occupazione. In primo luogo, a risultare virtualmente impraticabile è la strada dell’adozione di politiche di stampo protezionistico. Nemmeno il più organizzato gruppo di interesse, infatti, sarebbe in grado di convincere il proprio governo a innalzare delle barriere tariffarie che possano risultare utili a impedire il commercio di servizi per via elettronica. Inoltre lo ‘spacchettamento’ descritto da Baldwin fa sì che i concetti di vantaggio e svantaggio competitivo, che venivano utilizzati per identificare industrie nazionali caratterizzate da costi di produzione relativi minori o da più elevati livelli qualitativi rispetto ai competitori esteri, non risultano più adeguati a distinguere un gruppo omogeneo di lavoratori che condivide con le proprie imprese uno stesso destino di successo o di insuccesso internazionale. In questa ottica, una strategia che punti a concentrare le risorse delle politiche industriali verso lo sviluppo di settori ad alta intensità di capitale umano non garantisce di mettere al riparo dalla competizione internazionale le mansioni di servizio impersonale.
Dal punto di vista delle politiche economiche, una tale constatazione determina lo ‘spiazzamento’ delle strategie di lungo periodo di numerosi Paesi sviluppati, che in questi anni hanno prodotto sforzi notevoli per orientare i propri sistemi educativi verso una società della conoscenza, come nel caso della ‘strategia di Lisbona’ per i Paesi appartenenti all’Unione Europea (Baldwin 2006). Al contrario, apparentemente i Paesi sviluppati potrebbero trovare più efficace concentrare il più possibile il loro vantaggio nei servizi non commerciabili e specializzarsi quindi nelle forniture di quel genere di prestazioni in cui la vicinanza fisica risulta essenziale o fortemente qualificante nei confronti del prodotto finale. Inoltre, se la competizione internazionale si gioca a livello di mansioni individuali, saranno i singoli lavoratori a dover rappresentare l’oggetto finale dei programmi governativi di assistenza. Una delle principali indicazioni di policy che emergono dallo sviluppo del nuovo paradigma richiede l’abbandono o un profondo ripensamento delle politiche di sostegno economico rivolte a specifici settori industriali o singole aziende in difficoltà (Baldwin 2006).
Prima di invocare un profondo ripensamento nelle prospettive strategiche dei sistemi educativi e delle politiche industriali delle nazioni sviluppate, è opportuno prendere in esame l’effettiva rilevanza empirica di questo fenomeno, che attualmente appare solo ‘in prospettiva’. Studi recenti sembrano ridimensionare di molto il diffuso allarmismo enfatizzato da numerosi media, sia riguardo alla presunta ampiezza del fenomeno in questione sia riguardo alle sue nefaste conseguenze sul mercato del lavoro dei Paesi sviluppati. Utilizzando dati industriali statunitensi, Rosario Crinò (2007) giunge alla conclusione che l’offshoring (trasferimento all’estero) di servizi incrementa la domanda di lavoratori maggiormente qualificati, mentre penalizza l’occupazione per i livelli di istruzione intermedi e bassi. Questi risultati mettono in serio dubbio la diffusa opinione secondo la quale l’offshoring di servizi disincentivi gli investimenti nel sistema educativo e riduca quindi il processo di accumulazione del capitale umano nei Paesi sviluppati.
Mary Amiti e Shang-Jin Wei (2005) osservano che l’outsourcing (appalto) internazionale di servizi, sebbene in lenta e costante crescita, è ancora da considerarsi un fenomeno marginale. Viene inoltre dimostrato che questo flusso di scambi favorisce maggiormente i Paesi sviluppati che risultano esportatori netti di servizi. Nel caso specifico degli Stati Uniti, per es., il surplus commerciale legato alla fornitura internazionale di servizi appare negli ultimi anni addirittura in crescita. A questa nota di cautela dovrebbe aggiungersi la considerazione che lo sviluppo dell’integrazione commerciale e produttiva tra le nazioni ha enormemente contribuito alla crescita del reddito e delle possibilità di consumo, nei Paesi sviluppati come in quelli in via di sviluppo. Il fatto che, grazie all’accelerazione tecnologica, aumenti ciò che può essere scambiato, permette al meccanismo del vantaggio comparato di esprimersi a livello delle singole mansioni di servizio oltre che tra settori produttivi e singole aziende. Ciò non modifica in alcun modo il meccanismo virtuoso che attraverso la specializzazione conduce a un incremento dei livelli di produttività e del benessere collettivo. È pertanto essenziale riuscire a mantenere consenso politico in favore del libero scambio e, in particolare, della riallocazione delle risorse tra Paesi. Il compito dei policy makers è quindi quello di mettere in campo politiche di sostegno adeguate a facilitare i necessari (e talvolta dolorosi) aggiustamenti.
A favore e contro il libero scambio
La teoria del commercio internazionale ha rappresentato un elemento cardine del pensiero economico moderno, fin dalle sue origini. Uomini di Stato, regnanti, studiosi si sono interrogati sulle ragioni del commercio tra i popoli e sui suoi esiti riguardo al benessere e alla ricchezza delle nazioni. I mercantilisti del 17° e 18° sec. hanno sottolineato per primi l’importanza di un surplus commerciale come mezzo per accrescere la potenza delle nazioni contro gli interessi dei propri partner di scambio. La supremazia economica di un Paese doveva quindi essere difesa attraverso una politica commerciale attiva di supporto alle esportazioni e di limitazione delle importazioni. È tuttavia con Adam Smith che si comincia a mettere in dubbio l’idea che dal libero commercio scaturiscano vincitori e perdenti, e prende piede la convinzione che a beneficiarne siano tutti i popoli coinvolti. Dopo la Seconda guerra mondiale una cospicua letteratura, riferita soprattutto ai Paesi in via di sviluppo, ha evidenziato alcuni limiti della teoria dei vantaggi comparati, rilevando l’esistenza di diversi effetti negativi derivanti dal libero commercio in condizioni di forte asimmetria. Quando lo squilibrio nel grado di sviluppo tra partner commerciali risulta troppo accentuato, lo scambio può andare a detrimento del soggetto più debole e causare problemi, quali: forti squilibri di bilancia dei pagamenti da parte dei Paesi in via di sviluppo, l’incremento della distanza (gap) tecnologica fra questi e i Paesi sviluppati e il trasferimento dei frutti del progresso tecnologico (Volpi 19993). In questa sede vogliamo riportare le principali argomentazioni addotte a favore e contro il libero scambio, portando l’attenzione sui temi di discussione più recenti che dividono gli schieramenti contrapposti. Inoltre, fra i due diversi e contrastanti approcci vogliamo sottolineare lo strano ruolo giocato dal settore agricolo.
Argomentazioni a favore
L’idea portante del lavoro di Smith era che la liberalizzazione dei commerci, permettendo una più profonda divisione del lavoro e una maggior specializzazione produttiva, promuove il grado di efficienza tecnica (con le stesse risorse si producono più beni), migliorando le possibilità di consumo di ciascun individuo. Confermando e arricchendo la posizione di Smith, David Ricardo fornì un’interpretazione dei flussi commerciali internazionali in base alla distribuzione tra i vari Paesi dei vantaggi comparati, determinati da differenze nei ‘costi opportunità’ di dedicarsi a una produzione piuttosto che a un’altra. Il concetto potrebbe apparire controintuitivo: un Paese può incrementare la propria capacità di consumo attraverso il commercio anche in mancanza di vantaggi assoluti nella produzione dei singoli beni. In questo modo tutti i Paesi beneficiano di una più efficiente produzione e della possibilità di una maggiore varietà di scelta per i consumatori fra beni e servizi di più alta qualità e a un costo minore (Krugman 1980). È proprio quest’ultima argomentazione, ‘l’amore per la varietà’, che viene spesso sottolineata dai fautori del libero mercato: l’abbattimento delle barriere permette ai consumatori di accedere al grande mercato globale, dove tutte le merci e tutti i servizi prodotti possono essere acquistati. Inoltre, la maggiore competizione che si affronta sui mercati internazionali stimola a innovare, alla ricerca di nuovi prodotti o di processi produttivi più efficienti e, di conseguenza, spinge la crescita dei Paesi coinvolti. Inoltre, il commercio permette il trasferimento di tecnologia e conoscenze che aiutano i Paesi a svilupparsi, e non solo in termini economici. L’evidenza empirica sottolinea spesso come i Paesi più aperti agli scambi internazionali siano anche quelli che hanno visto crescere maggiormente il proprio reddito e il benessere in generale.
Ultimamente il dibattito contrappone fautori del libero commercio e movimento antiglobalizzazione sul tema della possibilità che l’apertura agli scambi internazionali favorisca o meno la lotta alla povertà nei Paesi in via di sviluppo. Come rilevato da L. Alan Winters, Neil McCulloch e Andrew McKay (2004), la mancanza di una diretta connessione fra liberalizzazione commerciale e povertà, oltre a difficoltà nell’analisi dell’evidenza empirica, non hanno permesso fino a ora un chiaro studio dell’impatto del commercio internazionale. Inoltre i canali attraverso cui il commercio può influenzare i livelli di povertà sono molteplici, a volte specifici e (sfortunatamente) indiretti. Dipendono infatti, per es., dal livello di deprivazione, dalle infrastrutture esistenti, dalla ricchezza di materie prime, dal ruolo e dalle capacità dello Stato di mitigare shock esogeni. I tre autori citati partono dal presupposto che nell’analizzare la povertà sia necessario prendere in esame il ruolo di diverse istituzioni: la famiglia in primis, ma anche le imprese e lo Stato. Il secondo passo è analizzare come i cambiamenti nei prezzi determinati dall’apertura del commercio si trasmettano, in termini di reddito, ai vari settori della società. Le famiglie potrebbero essere danneggiate dalla liberalizzazione del commercio, se venissero colpite dalla competizione internazionale, ma allo stesso tempo potrebbero avere un miglioramento del loro reddito, se il prezzo dei beni si abbassasse, aumentando la loro capacità di acquisto. Le imprese favorite dalla liberalizzazione, da una parte, domandano più lavoro e, dall’altra, vendono di più sia sul mercato nazionale sia su quello estero. E l’aumento di domanda di lavoro permette alle famiglie di rispondere all’eventuale shock negativo grazie al conseguente aumento dei salari e quindi del reddito. Infine, se da una parte la liberalizzazione riduce gli introiti dello Stato derivanti da dazi e tariffe, dall’altra la maggiore crescita aumenta il gettito ottenuto dalla tassazione su altre attività produttive. Come può essere effettuato un bilancio fra effetti positivi e negativi? Quel che Winters, McCulloch e McKay suggeriscono è che gli effetti negativi sono di breve periodo, mentre nel lungo periodo la crescita (se incanalata al meglio dallo Stato) porta a un effetto positivo della liberalizzazione commerciale sulla povertà. Come sottolineato da Jagdish N. Bhagwati (2002), la liberalizzazione commerciale ottimale non è necessariamente quella effettuata con repentinità: una liberalizzazione per gradi può alleviare gli effetti negativi di breve periodo. Sostenere che il libero commercio porti alla crescita del benessere non vuol dire che una politica commerciale di repentina apertura (la cosiddetta shock terapy) non porti con sé effetti che facciano percepire la liberalizzazione come negativa.
Un caso particolare: il settore agricolo
Nell’ambito delle negoziazioni commerciali multilaterali, il settore delle produzioni agricole ha tradizionalmente beneficiato di uno status distinto. Fin dalla nascita dell’accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT, General Agreement on Tariffs and Trade), nel 1947, esso è stato ripetutamente escluso da tutte le iniziative intraprese a favore di una liberalizzazione commerciale condivisa. Il commercio dei prodotti agricoli è entrato per la prima volta all’interno dell’ambito delle regolamentazioni multilaterali nell’aprile del 1994, con la firma dell’Uruguay Round. Con questo accordo, i Paesi firmatari si sono impegnati alla riduzione della protezione doganale, dei sussidi forniti alle esportazioni e del supporto accordato alla produzione interna. Questo particolare settore produttivo fornisce i mezzi di sopravvivenza alla maggior parte della popolazione povera del pianeta, e ciò nonostante è sottoposto alle maggiori distorsioni e inefficienze allocative legate a pratiche protezionistiche.
Nonostante siano già stati compiuti i primi passi verso un’attenuazione della distanza tra la disciplina di regolazione dei settori delle manifatture e quella dei beni agricoli, le resistenze da parte di vari ambienti, tra i più distanti fra loro, rimangono fortissime. Da parte di numerosi Paesi industrializzati, tra i quali spiccano quelli maggiormente impegnati in politiche di sostegno del proprio settore agricolo, provengono serie obiezioni, che riguardano il timore di dover assistere alla scomparsa della propria intera produzione agricola, a grave discapito di priorità strategiche e politiche come la sicurezza alimentare, la protezione dell’ambiente e del paesaggio e, infine, la sopravvivenza di un sistema di vita e di cultura rurale (le cosiddette produzioni congiunte). Anche numerosi Paesi in via di sviluppo rimangono scettici sulla reale possibilità di trarre guadagno dalla liberalizzazione. Alcuni beneficiano di programmi speciali di importazione a condizioni preferenziali e temono che l’erosione di tali privilegi non sarà compensata dal miglioramento delle condizioni di accesso al libero mercato, anche a causa della recente tendenza a fare ricorso a strumenti di protezione commerciale non tradizionali; altri sono importatori netti di alimenti e ritengono che la liberalizzazione del commercio agricolo possa appesantire la propria bilancia commerciale e minacciare una già fragile sicurezza alimentare.
Uno dei principali argomenti a difesa delle distorsioni presenti nei mercati delle produzioni agricole viene spesso avanzato da quanti non concordano nel porre questo settore sullo stesso piano di tutti gli altri, e negano che vi si possano applicare le medesime considerazioni di efficienza ed equità. La ragione che farebbe di quello agricolo un settore sui generis si fonda sulla considerazione che esso in realtà risponda a esigenze che vanno ben oltre la semplice produzione alimentare o di fibre; tra queste, le più frequentemente menzionate sono le ‘produzioni congiunte’ (Wynen 2002). I maggiori sostenitori di questa argomentazione, che ha preso il nome di ‘multifunzionalità dell’agricoltura’, sono principalmente i Paesi industrializzati, tra i quali spiccano quelli più impegnati in politiche di sostegno del proprio settore agricolo (come Unione Europea, Giappone, Corea del Sud, Svizzera e Norvegia), ma anche numerosi Paesi in via di sviluppo, ai quali in qualche modo sono garantiti dei privilegi nel quadro dei sistemi di protezione dei Paesi più ricchi, attraverso canali di accesso preferenziale di varia natura. Queste argomentazioni sono comparse così sui tavoli dei negoziati multilaterali condotti all’interno del WTO, con lo scopo di frenare le misure di liberalizzazione in parte già intraprese e di difendere le produzioni interne dei Paesi protezionisti dalla concorrenza internazionale (Jank, Jales 2004). Il concetto su cui è imperniata questa linea di difesa può essere riassunto dall’opinione che i produttori di questo settore non solo forniscono beni agricoli in senso stretto, come alimenti o fibre, ma anche le ‘produzioni congiunte’, per le quali essi non sono in grado di ricevere alcun compenso, nonostante l’intera società ne tragga considerevoli benefici. Si tratterebbe quindi di veri e propri beni pubblici. Questi beni pubblici, che sono inseparabili dalla produzione, non sono in grado di generare reddito privato per coloro che ne garantiscono l’offerta, poiché chi ne beneficia può farlo senza dover sostenere alcuna spesa di fruizione. Ciò implica che il governo dovrebbe assumere il ruolo di garante, assicurandosi che tali beni vengano forniti in quantità adeguata all’interno del Paese, e giustifica trasferimenti diretti o l’imposizione di barriere tariffarie nei confronti di produzioni estere, volti a mantenere i livelli di produzione agricola domestica ai livelli desiderati. Analizzando però alcuni dei beni pubblici ai quali queste argomentazioni fanno riferimento, è possibile rilevare come la loro produzione, certamente apprezzabile, non sia affatto incompatibile con la liberalizzazione del commercio internazionale dei prodotti agricoli.
Argomentazioni contro il libero scambio
Già nel 19° sec., convinti assertori dei benefici del libero scambio avevano individuato alcune situazioni all’interno delle quali ritenevano accettabile un intervento temporaneo del governo, in vista del raggiungimento di obiettivi strategici, anche di natura non espressamente economica. Si faceva, in particolare, esplicito riferimento alla protezione di industrie nazionali strategiche, le cosiddette infant industries. In questa categoria rientrerebbero tutte quelle branche di produzione che risultano centrali nello sviluppo del Paese e che sono in grado di generare ricadute positive, soprattutto in termini tecnologici e di difesa nazionale. L’idea sottostante è che il sistema economico si gioverebbe della crescita di un determinato settore che presenta forti economie di scala ed esternalità di produzione; tuttavia la forte competizione internazionale non permetterebbe a tale industria di svilupparsi al meglio, uccidendola alla nascita. Si rende quindi indispensabile un intervento dello Stato che protegga l’industria per il tempo sufficiente a permetterle di acquisire conoscenze e forza, per essere competitiva sul mercato internazionale. Gli avversari di tale approccio ne hanno evidenziato due limiti: la difficoltà di individuare l’industria nascente e di determinare il periodo ottimale di protezione. Da una parte, infatti, non sono chiare le caratteristiche, oltre a quelle su menzionate, che un’industria dovrebbe possedere per essere definita nascente; dall’altra, coloro che beneficiano dell’esistenza di tale industria hanno l’incentivo a fare indebite pressioni sul governo per prolungare all’infinito la protezione. D’altra parte Ha-Joon Chang (2002) nota come le politiche di liberalizzazione proposte negli ultimi trent’anni dai moderni fautori del commercio internazionale ai governanti dei Paesi in via di sviluppo siano l’esatto contrario di quanto è stato fatto dai Paesi sviluppati: la Gran Bretagna al suo massimo splendore, infatti, ha protetto le proprie industrie contro la competizione crescente degli altri Paesi europei e delle proprie colonie.
A questa posizione contro il libero mercato, se ne aggiunge un’altra, derivante dai lavori empirici che a metà del 20° sec. hanno evidenziato il tendenziale squilibrio della bilancia commerciale dei Paesi in via di sviluppo: il libero scambio porta a peggioramenti nella ragione di scambio fra Paesi; la ragione di scambio è il rapporto fra esportazioni e importazioni e indica la capacità del Paese di effettuare con la valuta estera ricavata dalle proprie esportazioni le importazioni necessarie (o richieste) dal sistema economico. Questa tesi, esposta in diversi lavori da Paul Prebish e Hans Singer, parte dal presupposto che i Paesi in via di sviluppo sono produttori di beni primari, mentre i Paesi sviluppati lo sono di beni industriali. Data la caduta tendenziale della domanda della prima tipologia di beni, l’apertura del commercio porterebbe al peggioramento delle ragioni di scambio dei Paesi in via di sviluppo: la loro capacità di operare importazioni grazie alle esportazioni si ridurrebbe nel lungo periodo, portando a un loro impoverimento, quantomeno relativo. Da qui la necessità dell’intervento dello Stato, che attraverso una politica protezionistica può migliorare le ragioni di scambio e quindi lo sviluppo del Paese. Infine, storicamente sono state sviluppate argomentazioni contro il libero scambio che riguardano aspetti tecnici della teoria economica. La principale di queste concerne l’esistenza di fallimenti del mercato, cioè l’incapacità del mercato di assicurare una produzione e allocazione efficiente delle risorse.
Sul finire del secolo scorso e ancor di più in questi ultimi anni, l’attenzione si è spostata verso le implicazioni del commercio su variabili non economiche. Specificatamente, due nuove argomentazioni contro il libero commercio sono state sviluppate guardando agli effetti della maggiore integrazione sull’ambiente e sull’omogeneità culturale dei popoli. Agli inizi degli anni Novanta, le negoziazioni multilaterali per l’istituzione di un’area di libero scambio nell’America Settentrionale (NAFTA, North American Free Trade Agreement) hanno incluso per la prima volta all’interno del dibattito sui pro e i contro del libero scambio la tematica relativa all’impatto ambientale del commercio internazionale. Accanto a posizioni ecologiste oltranziste, che si oppongono allo sviluppo degli scambi secondo una filosofia di limitazione della crescita economica, dei livelli di consumo e dell’impatto antropico sul pianeta, si è andata sviluppando una crescente attenzione pubblica nei confronti della necessità di assumere un approccio di ‘sostenibilità ambientale’ nel processo di integrazione commerciale (Audley 1997).
Una delle principali argomentazioni di numerosi movimenti ambientalisti riguarda la preoccupazione che la liberalizzazione commerciale, producendo un incremento della pressione competitiva, induca una corsa al ribasso negli standard di giurisdizione ambientali da parte dei Paesi in via di sviluppo, al fine di acquisire competitività per la propria industria nazionale (Esty 2001). Per questa ragione, tali movimenti si appellano ai governi dei Paesi sviluppati perché si facciano promotori di standard ecologici internazionali e pongano vincoli all’importazione delle produzioni che non rispettano l’ambiente. Spesso questo genere di interventi ha provocato una dura reazione da parte dei Paesi in via di sviluppo, che in sede multilaterale hanno sostenuto che il rispetto di standard ambientali imposti dai Paesi sviluppati per l’accesso ai propri mercati rappresenti uno strumento di protezionismo commerciale che punta a indebolire uno specifico aspetto del loro vantaggio comparato.
La letteratura economica che indaga sulle conseguenze ambientali della crescita ricorre spesso a uno strumento analitico che viene definito curva di Kuznets ambientale (fig. 2). Si tratta di una curva costruita come una U rovesciata, all’interno di uno spazio cartesiano nel quale la retta delle ordinate mostra il livello di emissioni inquinanti di un sistema economico, mentre sulle ascisse sono riportati i dati relativi al reddito pro capite di un Paese. La relazione descritta dalla curva di Kuznets indica come nelle fasi iniziali del processo di sviluppo le condizioni ambientali peggiorino, mentre una volta superato un certo livello intermedio di reddito il Paese cominci a ridurre i propri livelli di emissione.
Dal momento che la liberalizzazione commerciale produce un effetto diretto sulla crescita economica, il suo impatto ambientale all’interno di un sistema economico si presta a essere interpretato attraverso l’attuale posizione del Paese lungo la curva di Kuznets (Esty 2001). Secondo questa impostazione, la relazione tra integrazione commerciale e degrado ambientale non risulta univoca, ma legata all’attuale fase di sviluppo di ogni singolo Paese. Nella realtà questa relazione coinvolge tre aspetti distinti. Un primo effetto ‘tecnico’ riguarda la capacità dell’integrazione commerciale di favorire l’accesso a tecnologie pulite e best practices ambientali. Inoltre, un effetto definito ‘di composizione’ coinvolge il cambiamento delle preferenze dell’opinione pubblica, che storicamente tende ad acquistare con il benessere una maggiore coscienza ambientalista. Infine un effetto definito ‘di scala’ produce un incremento dell’inquinamento dovuto ai livelli di consumo più elevati resi possibili dal maggiore reddito disponibile. L’impatto finale della liberalizzazione commerciale sulla qualità ambientale dipenderà quindi dalla capacità dei primi due effetti virtuosi di compensare la portata negativa dell’ultimo.
Per Bhagwati (2004), il 12 agosto 1999 rappresenta simbolicamente la data di nascita di un nuovo filone di critica al libero scambio. È il giorno in cui un gruppo di agricoltori francesi, capeggiati dall’attivista no global José Bové, ha distrutto un ristorante McDonald’s, con l’obiettivo di colpire un simbolo della minaccia anglosassone all’identità culturale e all’agricoltura francesi. L’idea sottostante è che la liberalizzazione del commercio possa avere un effetto rilevante sul tessuto culturale del Paese che decide di aprirsi, anche attraverso l’impatto sui gusti e le modalità di consumo alimentare. Portando questo ragionamento alle sue estreme conseguenze, si sostiene che la maggiore integrazione commerciale costituisce una minaccia alle culture marginali. In risposta a queste critiche, Bhagwati porta come esempio l’egemonia culturale rappresentata dalla lingua inglese, sostenendo come questa non sia nata dall’espandersi del commercio ma da due secoli di dominio politico e militare da parte di due Paesi di lingua inglese, Gran Bretagna e Stati Uniti. Inoltre egli sottolinea come l’inglese internazionale stia diventando un crogiolo di varietà dialettali nate dalla mistura delle lingue locali con l’inglese. Infine, in alcuni Paesi (tra i quali gli Stati Uniti) alla lingua locale si è affiancata una seconda lingua portata dai migranti. Il riconoscimento istituzionale del bilinguismo in certi territori rappresenta l’espressione principe del raggiunto sincretismo culturale. Riferendosi proprio alla catena McDonald’s, Bhagwati sostiene che la strategia di penetrazione locale della multinazionale è stata l’adeguamento a gusti e caratteristiche del Paese ospitante, abbandonando il punto di forza della propria espansione passata: la conformità. Il confronto tra culture diverse implica quindi un processo di contaminazione reciproco. Quando è in atto un processo di cambiamento, il «decadimento del vecchio e l’evoluzione del nuovo provocano sempre un senso di nostalgia» (p. 153). Tuttavia questo sentimento elementare non può offuscare i benefici del libero scambio.
Un secondo filone di ricerca cerca di spiegare le ragioni per le quali le argomentazioni di economisti come Bhagwati non abbiano fatto breccia in una parte rilevante dell’opinione pubblica. Si sostiene in particolare l’esistenza di una relazione fra la difesa dell’identità culturale e le posizioni di avversione alla liberalizzazione del commercio, partendo da una distorsione nella percezione individuale dei fenomeni di cambiamento in atto. Piuttosto che focalizzarsi unicamente sugli effetti economici della maggiore integrazione commerciale, l’opinione pubblica tende a privilegiare una valutazione olistica che comprende effetti non economici. L’apertura degli scambi ha portato con sé: immigrazione, perdita di omogeneità culturale, secolarizzazione e così via. Yotam Margalit sostiene che «quando mancano sufficienti informazioni o c’è bisogno di capacità critiche per districarsi fra i diversi effetti della globalizzazione, gli individui coinvolti da alcuni aspetti non economici dell’integrazione percepiscono di essere stati colpiti anche dai suoi aspetti economici» (2007, p. 3). Per sostenere tale ipotesi si argomenta che, per mancanza di capacità analitica, gli individui non sono in grado di separare correttamente i pro e i contro dell’integrazione economica. Di conseguenza l’apertura commerciale è riconosciuta sia come sinonimo di sviluppo sia come portatrice di insicurezza e incertezza, ma gli svantaggi sono percepiti dagli individui molto più intensamente e la bilancia pende sempre dalla loro parte.
La grave recessione che coinvolge oggi i sistemi economici internazionali ha prodotto un’acuta recrudescenza nei sentimenti di opposizione ai processi di globalizzazione. Il dibattito mediatico trova buon gioco nell’interpretare paure e ansietà puntando il dito sulle conseguenze di un sistema economico basato sui pilastri della liberalizzazione economica e finanziaria. Questi principi, affermatisi a partire dall’inizio degli anni Ottanta nelle economie anglosassoni e diventati punti di riferimento per la maggioranza delle forze politiche a livello mondiale, sono tacciati di aver condotto il sistema economico mondiale a una rovina annunciata. Pertanto, secondo alcuni, si sarebbero poste le basi per procedere a un profondo ripensamento del sistema economico internazionale. Tuttavia c’è da chiedersi se sia da mettere in discussione l’intero impianto delle liberalizzazioni commerciali o solamente l’eccessiva deregolamentazione. Astraendo dalla retorica più spicciola, i numeri ci raccontano una storia particolare. La crescita economica che ha caratterizzato gli ultimi due decenni del secolo scorso, spinta anche dalla liberalizzazione commerciale, ha ridotto la ‘periferia’ economica, facendo emergere nuove forze. Paesi al di fuori della stretta cerchia delle economie sviluppate come India e Cina potrebbero, paradossalmente, portare fuori dalla crisi le economie occidentali.
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