Abstract
La costituzione statunitense del 1787 riflette l’ambivalenza dei costituenti nei confronti della democrazia. Le sue istituzioni fondamentali – un legislatore bicamerale, bilanciato da un’amministrazione e da un potere giudiziario indipendenti, e da stati parzialmente sovrani – furono concepite come derivanti la loro legittimazione dal mito della sovranità popolare, ma allo stesso tempo come controlli repubblicani della volontà democratica. Nel corso del tempo il governo federale limitato disegnato dalla costituzione del 1787 è diventato più esteso e anche più democratico. Dopo 230 anni gli Americani continuano a mettere alla prova la resistenza di questi controlli e contrappesi costituzionali.
«Noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di realizzare una più perfetta Unione, stabilire la giustizia, garantire la tranquillità interna, provvedere per la difesa comune, promuovere il benessere generale ed assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi ed alla nostra posterità, ordiniamo e stabiliamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d'America».
Adottate da 55 delegati alla Convenzione costituzionale di Filadelfia del 1787, e ratificate da una proporzione sufficiente del “popolo” nei 13 Stati nel 1789, queste parole lanciarono un progetto nobile e fortemente contestato di autogoverno repubblicano. Le istituzioni fondamentali di questa costituzione – un legislatore bicamerale, controllato e bilanciato da un’amministrazione indipendente, da un giudiziario capace di effettuare controlli costituzionali, e da stati parzialmente sovrani – furono concepite come derivanti la loro legittimazione dai miti e dai meccanismi della responsabilità democratica. Allo stesso tempo, questa costituzione si proponeva di controllare i potenziali eccessi della democrazia, in modo da proteggere la proprietà ed assicurare la stabilità in una società complessa, contraddistinta sia da una relativa eguaglianza economica, sia dalla radicale subordinazione razziale. Dopo una storia lunga 230 anni, caratterizzata da cambiamenti costituzionali innescati da crisi, l’eterogenea cittadinanza americana continua sia a riverire la sua costituzione, identificandola con i suoi ideali, i suoi riti, le sue istituzioni e il suo potenziale redentore, sia a disperarsi per la sua incapacità di assicurare pace, giustizia, libertà e benessere per tutti i membri del «Noi, il popolo».
Le 13 colonie americane avevano dichiarato la propria indipendenza dal Regno Unito nel 1776, e l’avevano conseguita dopo una lotta violenta nel 1783. Per giustificare questa rivoluzione di fronte al mondo, Thomas Jefferson aveva asserito che i governi esistono per assicurare i diritti inalienabili – alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità – di uomini eguali e fondamentalmente liberi (Dichiarazione d’Indipendenza). Dopo la guerra rivoluzionaria, gli stati di recente indipendenza si organizzarono in una Confederazione poco vincolante, istituzionalizzata negli Articoli della Confederazione, la prima Costituzione statunitense.
Il governo della Confederazione non aveva poteri reali di tassazione e di imposizione su questi stati o sulle loro popolazioni. I governi degli Stati erano essi stessi più o meno aperti alla partecipazione democratica: negli stati più democratici l’autogoverno popolare generò espropri ai danni dei ricchi, quando le assemblee legislative molto partecipate concessero una ristrutturazione dei debiti agli agricoltori impoveriti (Virginia); in stati meno democratici, il debito opprimente provocò una ribellione civile quando i contadini armati presero il controllo dei governi locali (Massachusetts). In questo periodo post-Rivoluzionario, gli Stati Uniti non potevano pagare le proprie obbligazioni estere, né fare applicare i trattati o difendere i confini. Nell’estate del 1787 i delegati degli Stati si riunirono a Filadelfia per rivedere gli Articoli della Confederazione. Dopo forti contrasti sullo scopo del potere legislativo nazionale, sulla rappresentanza nell’assemblea legislativa e sul futuro della schiavitù, essi decisero di stracciare del tutto gli Articoli. La nuova Costituzione “Federalista” che essi adottarono consolidò al loro posto un potere centralizzato sulla tassazione, il commercio, l’espansione verso Ovest e la difesa. Gli Articoli della Confederazione avevano previsto la revisione solo mediante un consenso unanime dei governi statali; per aggirare ciò, i costituenti escogitarono un procedimento di ratifica mediante il quale l’approvazione da parte di 9 “popoli” dei 13 stati, organizzati in convenzioni appositamente istituite per la ratifica, sarebbe stata sufficiente. I dibattiti sulla ratifica al livello statale furono sferzanti: i populisti anti-Federalisti accusavano la Costituzione federale di rafforzare il potere potenzialmente tirannico, distante e antidemocratico delle élites commerciali e coloniali. Per rassicurare i cittadini degli stati che i loro diritti conquistati con le lotte recenti – quali la libertà di espressione, la libertà religiosa, la proprietà, il giusto processo e la giusta punizione – sarebbero stati al riparo da aggressioni federali, i Federalisti proposero un numero di Emendamenti, il Bill of Rights, che furono adottati dal primo Congresso nel 1789 e ratificati dagli Stati nel 1791.
La Costituzione del 1787 emerse dal compromesso politico pragmatico raggiunto dagli stati – grandi e piccoli, “schiavi” e “liberi” –, ma fu anche animata e giustificata dal nuovo ideale politico dell’autogoverno, propugnato da una popolazione eterogenea, distribuita su un vasto territorio. Questo ideale illumina i Federalist Papers, una serie di 85 saggi scritti tra il 1787 e il 1788 da Alexander Hamilton, James Madison e John Jay per difendere le istituzioni proposte dalla loro costituzione “federalista”. Nella misura in cui questa tentava di trasferire alcuni poteri dai legislativi statali, più democraticamente responsabili, verso un distante governo nazionale, gli oppositori anti-Federalisti la demonizzavano come uno strumento antidemocratico di un’élite commerciale tirannica. I suoi difensori federalisti offrivano una visione opposta di una repubblica dalle dimensioni inedite, in grado di comprendere una pluralità di popolazioni e di interessi diversi e perciò unicamente capace di perseguire sia la giustizia sia il benessere. Benché il governo nazionale si sarebbe collocato ad una certa distanza dal popolo, i Federalisti sostenevano che proprio questa distanza gli avrebbe consentito di proteggere i diritti e di perseguire nel lungo periodo il bene comune di tutti i cittadini.
La costituzione del 1787 riflette la profonda ambivalenza nei confronti della democrazia da parte dei costituenti – membri delle élites dei loro stati, tra cui molti proprietari di schiavi. Nel Federalist 10, Madison lamenta «l’instabilità, l’ingiustizia e la confusione» portata dalla democrazia popolare nei governi locali, dove la libertà e «il bene pubblico sono trascurati nei conflitti da partiti rivali, e ... i provvedimenti sono troppo spesso adottati non seguendo le regole della giustizia o in considerazione dei diritti della minoranza, ma secondo la forza superiore di una maggioranza interessata e prepotente» (Madison, J., Federalists 10). Egli temeva che una democrazia incontrollata degenerasse in una tirannia della maggioranza nel migliore dei casi, in un populismo demagogico o nell’anarchia nel peggiore.
Allo stesso tempo i Federalisti convennero sul principio repubblicano fondamentale del governo del popolo, per il popolo e mediante il popolo, che avrebbe costituito la fonte ultima del potere legittimo. Madison nutriva una sfiducia netta, realista nei confronti della natura umana, espressa nelle celebri parole del Federalist 51: «Ma che cos’è il governo stesso, se non la più grande riflessione sulla natura umana? Se gli uomini fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, non sarebbero necessari né i controlli esterni né quelli interni sul governo» (Madison, J., Federalists 51). Benché fossero lontani da una concezione angelicata del popolo, tuttavia Madison e gli altri costituenti consideravano il popolo fondamentalmente capace di essere virtuoso. Ciò è connesso al fatto che essi concepivano il popolo americano in un modo molto diverso dalle “canaglie delle città europee”. Jefferson spiegò che «qui ognuno può avere terra da lavorare se ciò vuole; oppure, preferendo l’esercizio di ogni altra industria, può esigere una compensazione in grado non solo di garantire una comoda sussistenza, ma anche capace di provvedere per il pensionamento in vecchiaia. Ognuno, mediante la proprietà, o mediante la sua situazione soddisfacente, è interessato a mantenere la legge e l’ordine. E tali uomini possono riservarsi in sicurezza e con vantaggio un controllo integrale sui loro affari pubblici, e un grado di libertà» (Jefferson, T., “The Natural Aristocracy”, Letter to John Adams, 1813).
Il postulato sociologico dei costituenti, secondo cui ogni cittadino sarebbe stato capace di uscire dalla povertà per conquistare un’autosufficienza di base, poggiava sulla possibilità mitizzata di un’espansione illimitata verso Ovest. Inoltre esso escludeva categoricamente gli schiavi, anche se emancipati, e la popolazione indigena.
Mentre la teoria politica sottostante la costituzione statunitense presuppone una cittadinanza virtuosa, essa implica anche che un governo stabile e giusto non può dipendere troppo dalla virtù dei cittadini. Sia Madison che Jefferson speravano che il popolo scegliesse uomini virtuosi per rappresentarlo nell’esercizio dell’autogoverno. Jefferson credeva che la ricetta migliore per il buon governo «è esattamente quella fornita da tutte le nostre costituzioni statali, che consiste nel lasciare ai cittadini la libera elezione e separazione degli aristoi dagli pseudo-aristoi, il grano dal fieno. In generale essi eleggeranno quelli realmente buoni e saggi. In alcuni casi, la ricchezza potrà corrompere, e il privilegio di nascita potrà accecarli; ma non in misura tale da mettere in piccolo la società» (Jefferson, T., “The Natural Aristocracy”, cit.)
Ma Madison era anche molto consapevole che «statisti illuminati non saranno sempre al comando». Anzi, è sempre possibile che «uomini dal temperamento fazioso, pieni di pregiudizi localistici, o di disegni sinistri, possano, mediante l’intrigo, la corruzione o altri mezzi, ottenere prima i suffragi e quindi tradire gli interessi del popolo» (Madison, J., Federalists 10). Madison credeva che gli esseri umani sono fondamentalmente egoisti, mossi più da un perseguimento appassionato di interessi egoistici e di breve termine, piuttosto che da un calcolo razionale del bene collettivo nel lungo periodo. Una buona costituzione, tuttavia, potrebbe mettere questo egoismo al servizio del bene pubblico. Le istituzioni rappresentative, predisposte per controllarsi e bilanciarsi a vicenda, avrebbero favorito «la deliberazione razionale, consentendo allo stesso tempo l’influenza preponderante di tutto il popolo» (Beer, S., To Make a Nation, Cambridge, 1993, 283-4). In una nazione grande ed eterogenea, si sarebbero formate maggioranze “civiche”, animate da interessi non opposti alla giustizia o al bene pubblico di lungo periodo. Attraverso processi di deliberazione incentivati dalla costituzione, il governo rappresentativo avrebbe potuto raffinare le passioni egoistiche nel perseguimento più razionale e collettivo del bene pubblico.
Nel far ciò, i politici e i cittadini virtuosi sarebbero stati importanti, ma non indispensabili. La virtù degli stessi costituenti, condensata nella Costituzione, sarebbe stata sufficiente per permettere alla nazione di attraversare acque paludose quando la virtù pubblica fosse stata in declino. Mentre, secondo Madison, la «dipendenza dal popolo è indubbiamente» la garanzia migliore per il buon governo, «l’esperienza ha insegnato all’umanità che sono necessarie altre precauzioni complementari» (Madison, J., Federalists 51). Motivata da «una preoccupazione quasi paranoica per la separazione dei poteri e il concomitante controllo e contrappeso di un’istituzione sull’altra» (Levinson, S., Our Undemocratic Constitution, Oxford, 2006, 75), la costituzione del 1787 disegnò un governo federale liberale e limitato. Così come originariamente concepito e difeso, esso avrebbe avuto pochi poteri per interferire nelle economie e nelle società locali (anche, e a maggior ragione, in quelle contraddistinte dalla schiavitù). E quei poteri enumerati di cui era dotato, sarebbero stati difficilmente mobilitati in circostanze normali. I costituenti capirono che la democrazia può degenerare nell’oligarchia o in una tirannia demagogica, soprattutto in periodi di crisi economiche, e pensarono che poteri divisi sarebbero stati capaci di impedire a tali malesseri democratici di uccidere la repubblica nel breve periodo. Dopo 230 anni gli Americani stanno mettendo alla prova la capacità di questi controlli e contrappesi costituzionali di impedire il peggio, che può essere commesso da leaders che disprezzano apertamente le forme costituzionali, nonché le norme convenzionali di decenza politica che le sorreggono.
Per vedere come i caratteri istituzionali della Costituzione riflettono l’ambivalenza dei costituenti rispetto alla democrazia, esaminiamo gli ostacoli e gli impedimenti posti sulla via di una legislazione effettiva. Dalla prospettiva della scienza politica, Dahl osserva che il sistema costituzionale americano non è «né consensuale né maggioritario ma un ibrido che possiede i vizi di entrambi senza possedere le virtù di nessuno» (Dahl, R., How Democratic is the American Constitution?, New Haven, 2002, 148-9). «In effetti una realtà centrale della Costituzione americana è che genera tanti punti di veto diversi con lo scopo di bloccare i desideri persino di una maggioranza robusta» (Levinson, S., Our Undemocratic Constitution, cit., 52). Il potere legislativo istituito dalla Costituzione USA è fortemente bicamerale, di modo che i progetti di legge debbono essere approvati sia dalla Camera dei Rappresentanti sia dal Senato. La creazione originaria di queste due camere diverse fu più il risultato del pragmatismo politico che non dell’ingegneria intenzionale. Alla convenzione di Filadelfia gli stati popolosi volevano basare la rappresentanza sulla popolazione, mentre gli stati meno popolati volevano basare la rappresentanza sul principio di eguaglianza. Il compromesso politico condusse i costituenti ad adottare un legislatore bicamerale, in cui gli stati sarebbero stati egualmente rappresentati nel Senato, e rappresentati invece in base alla popolazione (con ogni schiavo che contava 3/5 di una persona allo scopo di determinare la popolazione statale) nella Camera dei Rappresentanti. Ciascuna Camera può bloccare le proposte legislative dell’altra. Questo bicameralismo forte privilegia effettivamente nel procedimento legislativo gli stati meno popolati, che sono anche più rurali, e meno pluralisti; esso è antidemocratico nella misura in cui il Senato può effettivamente bloccare la legislazione maggioritaria approvata dalla Camera, che può essere svantaggiosa per gli interessi rurali, che sono sovra-rappresentati nel Senato (Levinson, S., Our Undemocratic Constitution, cit., 52-59).
Altri caratteri istituzionali della Costituzione USA che manifestano l’ambivalenza democratica dei costituenti può essere vista nella natura della Presidenza. Eletto da un collegio elettorale semi-popolare, il Presidente gode di una base di potere indipendente dal Congresso, e può persino rappresentare un partito politico diverso da quello che controlla una o tutte e due le camere. Oltre ad esercitare il potere amministrativo finale, il Presidente può apporre il veto sulla legislazione, creando un possibile freno aggiuntivo ad una maggioranza robusta. Il collegio elettorale che elegge il Presidente è composto da un numero di elettori, scelti secondo un criterio stabilito dai singoli stati, in cui ogni stato è rappresentato secondo la somma dei sui rappresentanti e senatori.
Benché difesa da Hamilton nel Federalist 68 in quanto capace di selezionare gli uomini più abili, in circostanze favorevoli alla deliberazione, di scegliere il presidente, l’ascesa dei partiti politici dopo la ratifica della Costituzione contribuì alla sua radicale trasformazione. A partire dagli anni 30 del XIX secolo, tutti gli stati hanno adottato un sistema elettorale popolare per la selezione di Elettori presidenziali, rendendo il processo più democratico che deliberativo. Ciò che rende il processo allo stesso tempo meno democratico è il fatto che quasi tutte le legislazioni elettorali statali prevedono che il partito politico che prevale nel voto popolare anche per un solo voto, conquista il potere di nominare tutti gli Elettori presidenziali dello stato. Questo sistema winner-take-all, né previsto né proibito dalla Costituzione, comporta che i candidati hanno bisogno di fare campagna elettorale solo negli stati politicamente contendibili (l’Ohio e la Florida, piuttosto che la California o il Texas), e che i cittadini negli stati non contendibili non hanno interesse a votare. Ma l’aspetto peggiore è costituito dal fatto che un candidato può vincere le elezioni senza ottenere la maggioranza dei voti del popolo. Questo è successo 5 volte nella storia americana, e in modo drammatico nel 2016 quando il candidato del Partito Repubblicano ha conquistato la presidenza con 5 milioni di voti in meno rispetto al candidato del Partito Democratico.
Mentre la Costituzione non prevede esplicitamente il controllo di costituzionalità, esso può essere ritenuto implicito nella natura limitata del potere federale da essa creato, connesso ai poteri legislativi enumerati di cui all’Art. I, sez. 10, e controllati dai diritti degli individui e degli stati. «Limiti del genere possono essere rispettati, in pratica, grazie alle corti di giustizia, le quali hanno il dovere di dichiarare nulli tutti gli atti manifestamente in contrasto con la Costituzione» (Hamilton, A., Federalists 78). Lungo il corso della storia statunitense, il controllo di costituzionalità è servito in alcuni casi a promuovere la partecipazione democratica in politica (come in Baker v. Carr che ha stabilito il principio “una testa, un voto”), e in altri ad ostacolarla (v. per esempio Bush v. Gore che interruppe i processi democratici per confezionare il risultato delle elezioni presidenziali del 2000, o Citizen’s United che ha riconosciuto il diritto alla libertà di espressione alle persone giuridiche per permettere loro di effettuare donazioni illimitate e segrete alle campagne elettorali). Esso è stato in passato (nell’era “Lochner”, 1897-1937), ed oggi lo è di nuovo, un potente ostacolo all’adozione di legislazione sociale, che può venire interpretata come una violazione dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa, di libertà di espressione, di libertà contrattuale o un esercizio ultra vires del potere federale.
La più grande limitazione della Costituzione al potere della maggioranza risiede nella sua resistenza, praticamente impenetrabile, alla procedura formale di revisione. L’articolo V – una «gabbia di acciaio» con «sbarre quasi di kryptonite» (Levinson, S., Our Undemocratic Constitution, cit., 165) – la qualifica come molto rigida, subordinando ogni cambiamento formale ad una proposta avanzata da una maggioranza di 2/3 del Congresso o dai legislativi di 2/3 degli stati, e quindi ratificata da 3/4 degli stati. Questo è il motivo per cui, ad esempio, gli Americani ancora hanno il vituperatissimo Collegio Elettorale: esso è largamente impopolare, ma avvantaggia gli stati abbastanza piccoli in modo tale da impedire il loro assenso alla sua sostituzione con l’elezione diretta del Presidente. La costituzione del 1787 è stata revisionata formalmente solo 27 volte: le modifiche più importanti sono avvenute con i primi dieci emendamenti, il Bill of Rights, ratificato nel 1791; con gli emendamenti della Guerra civile, che abolirono la schiavitù, concessero la cittadinanza, l’eguaglianza e i diritti fondamentali agli ex-schiavi, che furono ratificati sotto minaccia dagli stati sudisti tra il 1868 e il 1870; con gli emendamenti “progressisti” che furono adottati tra il 1913 e il 1920 e stabilirono la tassazione federale sul reddito, attribuirono il potere di eleggere i Senatori ai cittadini e non più alle assemblee statali, proibirono l’alcool ed estesero il diritto di voto alle donne. Nella storia statunitense il mutamento costituzionale è avvenuto più attraverso atti informali di interpretazione giudiziaria o mediante mobilitazione popolare.
Nel corso del tempo, gli Americani hanno usato la loro eredità costituzionale per «ridefinire se stessi come un popolo secondo caratteristiche sempre più democratiche, includendo un gruppo sempre più diverso di uomini e donne all’interno della cittadinanza»(Ackerman, 295). Mentre i costituenti avevano inizialmente immaginato una repubblica rappresentativa, ma pur sempre elitaria, «il popolo americano ed i suoi leaders hanno fatto sì che la nuova repubblica divenisse rapidamente una repubblica democratica» (Dahl, R., How Democratic is the American Constitution?, cit., 21). L’ascesa dei partiti politici negli anni ’90 del XVIII secolo mobilitò i cittadini a richiedere l’estensione del suffragio e la partecipazione popolare nelle sfere politiche statali. Lo stesso Madison sviluppò con il tempo un atteggiamento più favorevole nei confronti della democrazia, finendo per sostenere che anche i nullatenenti dovessero avere il diritto di voto. L’espansione della democrazia fu stimolata dalle opportunità reali della mobilità economica. La possibilità di un’espansione verso ovest significava che normali cittadini potessero acquisire proprietà individuali, dando loro un interesse nel bene pubblico di lungo periodo della nazione, e riducendo l’ascesa dell’ineguaglianza economica, generatrice di conflitti di classe.
L’elemento più antidemocratico della costituzione originaria era senza dubbio il suo sostegno implicito alle istituzioni della schiavitù nel Sud. Le tensioni economiche e politiche tra gli stati del nord e quelli del sud, esacerbati dall’espansione verso ovest, condussero alla secessione sudista dagli Stati Uniti. Iniziando con la Carolina del Sud nel 1860, gli undici stati che secedettero dall’Unione non riconobbero l’autorità costituzionale del potere federale – sulle tariffe sulle importazioni in questo caso – come superiore al potere statale. Considerando la spaventosa guerra civile che ne seguì, possiamo dire che la costituzione del 1787 fallì nel suo scopo primario di assicurare la “tranquillità domestica”. La vittoria militare del Nord sul Sud nel 1865 permise una riconfigurazione radicale della costituzione del 1787, espandendo e rafforzando enormemente il potere nazionale sugli stati.
Nel determinare che nessuno Stato potrà «privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge», il XIV emendamento (1868), successivo alla guerra civile, importò nella costituzione federalista del 1787 l’ideale dei diritti fondamentali e del principio di eguale cittadinanza. Questi principi sarebbero serviti a limitare non solo il potere del governo federale, ma, soprattutto, quello degli stati. Tuttavia, la Corte suprema sin dal principio dette ai suddetti principi «l’interpretazione più ristretta e meno favorevole dal punto di vista della protezione degli ex-schiavi». I diritti fondamentali “cominciarono a giocare un ruolo vitale nel proteggere le persone giuridiche dalla regolazione statale”, mentre “non furono quasi mai impiegati per favorire i diritti costituzionali dei neri” (Horwitz, M., The Warren Court and the Pursuit of Justice, New York, 1998, 16); la garanzia dell’eguale cittadinanza fu ritenuta compatibile con ciò che in realtà era un regime violento di apartheid razziale (Plessy v. Ferguson). Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che le corti federali iniziarono ad esercitare il controllo giudiziario di costituzionalità per proteggere i diritti fondamentali di minoranze politicamente vulnerabili quali gli Afro-americani, i Testimoni di Geova ed i Comunisti.
Finalizzata alla protezione delle “benedizioni della libertà”, l’espansione giudiziaria dei diritti fondamentali, e la correlata imposizione di limiti al potere legislativo federale, hanno spesso resa vana la promozione del “benessere generale”. Dalla prospettiva del welfare sociale, i diritti fondamentali sono stati un’arma a doppio taglio, invocati con successo per proteggere gli interessi delle élites economiche contro la regolazione statale tanto quanto per proteggere le minoranze vulnerabili. Nella emblematica decisione Lochner v. New York del 1905, la Corte Suprema qualificò la libertà economica come il diritto fondamentale per eccellenza da proteggere avverso indebite interferenze statali. Nel corso dei 30 anni successivi, la assoluta libertà contrattuale sarebbe stata invocata per invalidare più di 200 leggi federali e statali finalizzate alla protezione dei lavoratori, incluse donne e minori, nonché dei consumatori, contro un capitalismo incontrollato. Con l’elezione di Franklin Delano Roosevelt del 1932 e con un Congresso a maggioranza democratica che voleva conseguire una riforma economica (il New Deal) a fronte della Grande depressione, gli interessi imprenditoriali incontrarono la simpatia del potere giudiziario federale per l’annullamento della legislazione orientata al welfare sociale e popolare. Tuttavia, l’insistente mobilitazione popolare in favore del New Deal generò una profonda riconfigurazione dei poteri e delle priorità costituzionali. I costituenti non avevano stabilito chiaramente «la priorità della cittadinanza nazionale su quella statale» nel 1787. Nella costituzione ricostruita dopo la Guerra civile, il potere si spostò decisamente verso il centro. Ma i ricostruttori del dopo-guerra civile non «attaccarono frontalmente la nozione dei costituenti che il governo nazionale ha poteri limitati rispetto allo sviluppo economico e sociale; con il New Deal questo principio fondativo fu ripudiato decisamente. Da allora il governo federale avrebbe funzionato come un vero e proprio governo nazionale» ( Ackerman, B., We the People: Foundations, Cambridge, 1991, 105). Questa espansione del potere normativo federale sul commercio e sulla società continuò costantemente fino al 1991, quando dei litiganti libertari iniziarono a vincere delle cause in qui contestavano la competenza costituzionale di tale potere, ricaratterizzandone successivamente l’esercizio come una violazione dei principi del federalismo e dei diritti degli stati. Tali limitazioni si estendono, per esempio, al potere del Congresso di richiedere l’acquisto di un’assicurazione sanitaria da parte di individui, un elemento fondamentale della legge del 2010 che ha espanso l’accesso ai servizi sanitari negli Stati Uniti. Negli anni più recenti, la Corte Suprema ha annullato atti di legislazione sociale nel nome della protezione della libertà di espressione (come leggi che regolavano le contribuzioni finanziarie delle persone giuridiche nelle campagne elettorali, la pubblicità, il marketing di dati personali), della libertà religiosa (come leggi che imponevano l’obbligo ai datori di lavoro di garantire l’assicurazione sanitaria) e del diritto di portare armi (leggi che limitavano la proprietà di pistole). Questo “nuovo Lochnerismo” dimostra sia la flessibilità della costituzione nel corso del tempo, sia la natura politicamente ambigua delle sue tutele.
Nonostante la flessibilità costituzionale, o forse per sua causa, “Noi il popolo” (naturalmente costituito da diversi collegi elettorali in tempi diversi) si è sentito spesso nel mezzo di una crisi costituzionale, in cui si è dubitato della capacità della costituzione di organizzare il popolo in modo da perseguire il bene comune di lungo periodo. L’elezione del 2016 di un presidente apertamente ostile alle norme costituzionali fondamentali dello stato di diritto, della separazione dei poteri, della libertà dell’informazione, dei diritti umani e delle minoranze, dell’eguaglianza razziale e delle norme del fair play istituzionale, dimostra l’eterna fragilità della democrazia e del costituzionalismo americano. Il senso diffuso di perdita di potere democratico, l’ingiustizia razziale ed economica, e il disgusto nei confronti di istituzioni nazionali corrotte e apparentemente decrepite che hanno prodotto tutto ciò, contribuiscono ad una sorta di «putrefazione costituzionale» (Balkin, J., Constitutional Rot, in Sunstein, C., a cura di, Can It Happen Here?: Authoritarianism in America, New York, 2018). Questa decomposizione è stata operata da una base di potere oligarchica che ha sovvertito la natura democratica della rappresentanza. Questa oligarchia è stata prodotta da una crescente ineguaglianza economica, dall’influenza dell’industria sul finanziamento delle campagne elettorali e sulle politiche pubbliche, nonché dai cambiamenti nella struttura dei mass media. Questi molteplici fattori «hanno incoraggiato sfiducia politica, esacerbato la polarizzazione, e confuso la politica con l’intrattenimento». Come risultato, il «sistema costituzionale è ancora formalmente democratico ma nel corso del tempo è in pratica divenuto più oligarchico» (Balkin, J., Constitutional Rot, cit., 3-5). Il sistema costituzionale del 1787 di controlli e contrappesi presupponeva un presidente relativamente debole e con le qualità di uno statista che avrebbe potuto, nel caso in cui avesse tradito la fiducia del pubblico, essere contrastato da un Congresso meglio sintonizzato sulle esigenze popolari. Esso non contemplava la possibilità di un “governo diviso”, in base a cui un Congresso dominato da un partito si rifiuta di collaborare con un Presidente espresso dall’altro partito. Né contemplava il problema opposto rappresentato dall’assenza di un governo diviso: che un Congresso dominato da un partito avrebbe chiuso un occhio di fronte alla condotta impropria del proprio Presidente, al fine di perseguire una comune agenda politica. Gli americani possono trarre conforto dal fatto che «gli Stati Uniti ancora hanno molte altre difese repubblicane. Noi ancora abbiamo un giudiziario indipendente, elezioni regolari e una stampa libera» (Balkin, J., Constitutional Rot, 5). E, criticamente, l’America ancora possiede una cultura democratica, di cittadini attivi che lavorano duramente per far udire le proprie voci e quindi per influenzare le scelte istituzionali. Ackerman afferma che la costituzione statunitense «deve essere intesa come una tradizione radicata storicamente di teoria e pratica – e un linguaggio politico in evoluzione … attraverso cui gli Americani hanno imparato a parlarsi tra loro nel corso di una lotta secolare sulla propria identità nazionale» (Ackerman, B., We the People, cit., 22). Tuttavia, l’incapacità crescente degli Americani di parlarsi l’un l’altro segnala la fragilità di questa Costituzione. Ma nella sua capacità contraddittoria e a volte miracolosa di contenere moltitudini, la sua insistenza sulla costruzione di un unum identificato a partire da un pluribus rauco, risiede la speranza della sua resilienza.
Fonti Normative
Costituzione degli Stati Uniti d’America.
Bibliografia essenziale
Ackerman, B., We the People: Foundations, Cambridge, 1991; Balkin, J., Constitutional Rot, in Sunstein, C., a cura di, Can It Happen Here?: Authoritarianism in America, New York, 2018; Beer, S., To Make a Nation, Cambridge, 1993; Dahl, R., How Democratic is the American Constitution?, New Haven, 2002; Hamilton, A., Federalists 68, 78; Horwitz, M., The Warren Court and the Pursuit of Justice, New York, 1998; Jefferson, T., “The Natural Aristocracy,” Letter to John Adams, 1813; Madison, J., Federalists 10, 51; Levinson, S., Our Undemocratic Constitution, Oxford, 2006; Sitaraman, G., The Middle Class Constitution, New York, 2017.
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