Costituzione e giustizia costituzionale
L’introduzione nei moderni ordinamenti giuridici di un sistema di giustizia costituzionale, di un sistema cioè diretto ad assicurare il rispetto della costituzione da parte degli altri poteri dello Stato (compreso il potere legislativo), da intendersi come poteri costituiti e dunque subordinati nei loro comportamenti e nell’adozione degli atti di imperio rientranti nelle loro competenze alle norme costituzionali, si lega storicamente all’affermarsi, a partire dalla seconda metà del 18° sec., di una nozione della costituzione come legge fondamentale, dotata di una forza normativa superiore a quella di ogni altra fonte e, più in generale, come insieme di principi e regole dotate di un carattere di stabilità in grado di resistere all’invece sempre mutevole atteggiarsi della legge ordinaria, frutto della volontà di maggioranze parlamentari anch’esse mutevoli e transeunti.
È a questa nozione che ci si riferisce quando si parla di costituzioni rigide in contrapposizione alla diversa nozione di costituzioni flessibili. Anche queste ultime ambiscono a porsi come leggi fondamentali, ma trascurano di predisporre gli strumenti giuridici in grado di salvaguardare nel tempo questa aspirazione a dare stabilità ai principi e alle regole che esse contengono. Tra questi strumenti c’è senza dubbio quello rappresentato dalla previsione, contenuta nelle costituzioni di tipo rigido, di speciali procedimenti aggravati per apportare modifiche al testo costituzionale originario (così come è previsto dall’art. 138 della nostra Costituzione). Si tratta di procedimenti che consentono l’esercizio di una funzione di revisione (o di integrazione) della costituzione, che puntano ad assicurare il più ampio consenso alle modifiche (o integrazioni) proposte, in ogni caso più ampio di quello necessario all’approvazione di una semplice legge ordinaria (di qui la previsione di maggioranze parlamentari qualificate). Non solo, ma spesso l’esercizio di tale funzione incontra dei limiti in quello che è considerato il nucleo essenziale di principi che caratterizzano una determinata costituzione: così, nel nostro ordinamento, la Corte costituzionale ha individuato questo nucleo essenziale nei cosiddetti principi supremi dell’ordinamento costituzionale, rappresentati da quelli contenuti nei primi articoli in gran parte dedicati, oltre che all’affermazione del principio di eguaglianza, alla tutela dei diritti fondamentali.
A questo nucleo di principi si intende dunque assicurare un grado di stabilità superiore a quello delle altre disposizioni costituzionali, in quanto espressione di scelte costituenti non revocabili se non a prezzo di uno snaturamento del patto sociale che essi esprimono e che potrebbe essere mutato solo mediante un nuovo esercizio del potere costituente (certo questo privo di limiti). Ma, la previsione di procedimenti speciali e aggravati per procedere a modifiche (integrazioni) della costituzione non è né il solo e forse neppure il più efficace strumento posto a presidio della rigidità di una costituzione. Ve ne è un altro rappresentato dalla giustizia costituzionale, ossia dalla previsione di una giurisdizione dai caratteri del tutto peculiari volta a garantire, sul piano giuridico, che, come accennato, la Costituzione mantenga davvero il suo carattere di legge fondamentale, sovraordinata ad ogni atto degli altri poteri dello Stato, ivi compresi quelli espressione della volontà popolare, come le leggi. È lo strumento che mette al riparo le disposizioni costituzionali non tanto da modifiche espresse (per le quali operano i procedimenti di revisione costituzionale), ma da quelle indirette, che possono nascondersi nelle pieghe di atti legislativi ordinari; lo strumento di difesa contro gli ‘abusi’ del legislatore a danno della costituzione. Si può dire dunque che giustizia costituzionale e rigidità della costituzione rappresentino due acquisizioni del costituzionalismo moderno che vanno di pari passo implicando la prima (la giustizia costituzionale) l’avvenuta scelta a favore della seconda (costituzione rigida).
Storicamente, la giustizia costituzionale, intesa soprattutto come giudizio sulla conformità della legge alla costituzione (la judicial review of legislation), nasce nell’esperienza nord-americana pochi decenni dopo la proclamazione dell’indipendenza e l’approvazione della Costituzione del 1787.
La Costituzione americana era certamente una costituzione rigida nel senso che prevedeva un particolare procedimento per la sua revisione (quello estremamente complesso disciplinato dall’art. V), ma non prevedeva un sistema di giustizia costituzionale pur contenendo il suo art. VI, 2° co. la seguente affermazione: «Questa Costituzione […] costituirà la legge suprema del Paese e i giudici di ogni Stato saranno tenuti a conformarsi ad essa [...]»; una disposizione chiara nel collocare le norme costituzionali al vertice dell’ordinamento giuridico, in una posizione di supremazia gerarchica nei confronti della legge e di ogni altra fonte.
L’introduzione di un meccanismo che consentisse di garantire questa particolare posizione della costituzione rispetto alle altre fonti normative, e in particolare rispetto alla legge, si deve all’attività dei giudici americani; il sistema di judicial review of legislation è dunque una creazione giurisprudenziale e risale a una famosissima sentenza del presidente della Corte suprema, il giudice John Marshall, che, nel redigere la pronuncia relativa alla causa Marbury v. Madison (1803), affrontò con grande chiarezza e lucidità il problema del rapporto tra norme costituzionali e norme di legge ordinaria, per arrivare a concludere che, sulla base di quanto disposto dal richiamato art. VI, 2° co., non potevano esservi dubbi circa la supremazia delle prime rispetto alle seconde, con la conseguenza che spettava ai giudici accertare la conformità delle leggi (che dovevano applicare nei loro giudizi) rispetto alla costituzione e, in caso di accertato contrasto, disapplicare la legge incostituzionale (Cappelletti 1966, pp. 22 e segg.).
Da allora in poi, tutti i giudici americani hanno svolto questa funzione di garanzia della rigidità della costituzione (esercitata dunque in modo diffuso e non riservata a un organo giurisdizionale speciale), secondo le regole proprie dell’ordinamento giudiziario e in particolare del principio dello stare decisis (ossia del valore vincolante del precedente giudiziario). Questo significa che le decisioni in punto di costituzionalità o incostituzionalità di una legge presa da un giudice vincola la decisione di un altro giudice che affronti successivamente la stessa questione; un vincolo che è tanto più forte quanto di livello più elevato sia il giudice che ha dato luogo al precedente. Le decisioni adottate al riguardo dalla Corte suprema hanno dunque valore vincolante per tutti i giudici americani e possono essere modificate solo dalla Corte stessa, qualora sia chiamata una di nuovo a esaminare la stessa questione (non sono infrequenti i cambiamenti di giurisprudenza della Corte suprema, così come avviene, del resto, per le altre Corti costituzionali).
Dovrà passare oltre un secolo perché si affermino in Europa costituzioni rigide e garantite da sistemi di giustizia costituzionale. Questo ritardo può essere ricondotto essenzialmente a un duplice ordine di ragioni, tutte legate all’influenza che ebbe l’esperienza costituzionale francese, dalla Rivoluzione in poi, sullo sviluppo di gran parte degli ordinamenti giuridici degli Stati dell’Europa continentale.
Un primo ordine di ragioni si lega, infatti, al modello di Stato fortemente accentrato che caratterizza l’esperienza degli Stati europei nel corso di tutto il 19° sec. e oltre: Stati nei quali dunque poco o nessun rilievo viene dato al principio del pluralismo istituzionale rappresentato dalle autonomie locali e che, su altro versante, quello politico, mantenevano un rigido assetto elitario concedendo scarsissimo spazio al pluralismo sociale. È dunque innanzitutto l’assenza di un vero e proprio pluralismo istituzionale, sociale e politico o comunque di un pluralismo tale da porre l’esigenza di immaginare una sede imparziale di composizione dei conflitti che possono nascere dalla dinamica interna del sistema a spiegare il ritardo cui si è accennato.
Il secondo ordine di ragioni è di natura culturale e si lega, invece, alla difficoltà di staccarsi dal principio della ‘sovranità’ della legge (quella del Parlamento), anch’essa ereditata dalla tradizione francese. Una tradizione nella quale era un punto fermo e indiscutibile quello della insuscettibilità della legge di essere sottoposta a controlli da parte di organi esterni. In quanto espressione della volontà popolare, sia pure mediata attraverso i meccanismi della rappresentanza politica, essa doveva considerarsi l’atto sovrano per eccellenza e dunque legge giusta a priori in quanto volontà del popolo. In una impostazione di questo tipo, nella quale la natura del potere legislativo tende a confondersi con l’esercizio del potere costituente, in quanto entrambi espressione della sovranità popolare, una distinzione formale tra le due fonti, la legge e la costituzione, che assegnasse alla seconda la supremazia sulla prima, garantendo tale supremazia con appositi meccanismi non poteva trovare spazio.
Se si tiene conto di quanto ora detto, non vi è da stupirsi che, sulla scia di questa impostazione, la scelta operata nelle costituzioni europee ottocentesche (ivi compreso lo Statuto albertino, prima costituzione del Regno d’Italia), sia stata a favore di costituzioni flessibili, che assegnano un ruolo centrale alla legge, senza prevedere alcun rimedio giuridico nei confronti di violazioni dei principi costituzionali da parte del legislatore. È solo negli anni Venti del 20° sec. che si affaccia una diversa consapevolezza dell’esigenza di affrontare in termini diversi il problema dei possibili abusi del legislatore ordinario a danno della costituzione. Nascono così, nel periodo tra le due guerre mondiali, tre sistemi di giustizia costituzionale: quello introdotto dalla Costituzione austriaca del 1920, quello coevo introdotto dalla Costituzione cecoslovacca, sempre del 1920, e quello spagnolo previsto dalla Costituzione del 1931. Ma si tratta di sistemi, che nascono non tanto sulla spinta a dar vita a una giurisdizione sulle libertà, di una giurisdizione a tutela dei diritti, così come avvenuto negli Stati Uniti, (e del resto il clima che si respira nell’Europa del tempo non è proprio tra i più favorevoli alla tutela dei diritti ), ma come giurisdizione dei conflitti tra Stato e governi locali, alla luce del pluralismo istituzionale che in vario modo (l’Austria è uno Stato federale, la Spagna uno Stato regionale, la Cecoslovacchia ha anch’essa una struttura di tipo decentrato) trova spazio in quegli ordinamenti (Cappelletti 1971, pp. 37 e segg.).
Con la fine del secondo conflitto mondiale tutto il panorama cambia. Proprio l’esperienza del vecchio Stato liberale ottocentesco, quella vissuta tra le due guerre e quella tragica rappresentata dall’annullamento violento di ogni principio di rispetto dei diritti e della stessa dignità umana che la guerra aveva determinato, spingono i costituenti europei a edificare le nuove costituzioni democratiche su due pilastri fondamentali: l’affermazione della inviolabilità dei diritti dell’uomo (non solo le tradizionali libertà civili, ma anche i diritti sociali) e la scelta a favore di costituzioni rigide, in grado di assicurare stabilità a tali previsioni attraverso certo l’introduzione di speciali procedimenti di revisione costituzionale, ma anche e soprattutto attraverso l’introduzione di sistemi di giustizia costituzionale (Cappelletti 1968; Pizzorusso 2007). Nel 1945 viene ricostituita la Corte costituzionale austriaca, nel 1948 entra in vigore la Costituzione italiana che prevede l’istituzione di una Corte costituzionale, nel 1949 seguirà nella stessa direzione la Costituzione federale tedesca. A queste seguiranno poi la Costituzione portoghese del 1976, quella spagnola del 1978 sulla spinta di una tendenza che porterà in breve tempo all’adozione di sistemi di giustizia costituzionale in quasi tutti i Paesi europei, ivi compresi, dopo il 1989, i Paesi ex comunisti (Sadurski, in Annuario di diritto comparato e di studi legislatvi, 2011).
Naturalmente si tratta di sistemi che presentano caratteristiche diverse che spiegano in relazione alle caratteristiche dei singoli ordinamenti, ma che nascono da un’esigenza comune, ossia quella di una maggiore razionalizzazione della sfera politica, di una sua subordinazione al diritto maggiore di quella che non si fosse realizzata in passato (Cheli 1996, pp. 9 esegg. ). Con ciò si completa, come è stato detto (Cappelletti 1971, pp. 132 e segg.) l’itinerario avviatosi con l’affermarsi dello Stato di diritto: al principio di legalità che impone il rispetto della legge ai pubblici poteri (al giudice, quanto all’amministratore), si affianca ora un nuovo principio di legalità costituzionale, che si impone anche ai soggetti politici e agli atti che sono espressione dell’esercizio della loro volontà e in primo luogo alla legge. È questa l’essenza della nuova forma di Stato che nasce con le costituzioni del secondo dopoguerra e che prende appunto il nome di Stato costituzionale (Pizzorusso, in Annuario di diritto comparato e di studi legislatvi, 2011, pp. 37 e segg).
I sistemi di giustizia costituzionale oggi operanti in Europa presentano un dato comune: a differenza di quanto accaduto in America, si tratta di sistemi accentrati, nel senso che affidano a un unico organo il compito di esercitare il controllo di costituzionalità delle leggi ( che è la sola loro funzione, ma è certo quella principale), ma presentano, come detto, differenze nella disciplina della composizione dell’organo, nell’elenco delle funzioni a esso conferite, nelle modalità di accesso alla giurisdizione costituzionale e così via.
La scelta di un modello accentrato, volto all’introduzione di una speciale giurisdizione costituzionale, non è ovviamente casuale: in parte si lega ai precedenti rappresentati dai sistemi introdotti tra le due guerre, in parte alla scelta di affidare alle nuove Corti anche il compito di risolvere i conflitti tra i poteri dello Stato e quelli tra Stato e governi locali, in parte, ancora, alla tradizionale concezione del giudice comune, come giudice soggetto alla legge e dunque chiamato ad applicarla fedelmente e non a metterne in discussione la conformità a costituzione. Ma questa scelta ha portato con sé una serie di problemi: sganciata dall’ordinario percorso della giustizia ordinaria e affidata a un unico organo speciale, la giustizia costituzionale ha finito per assumere una natura ambivalente. Le nuove Corti, infatti, venivano chiamate a svolgere, in esclusiva, il compito di risolvere problemi giuridici e dunque a operare secondo il metodo tipico dei giudici (è la loro anima giurisprudenziale), ma anche chiamate ad affrontare questioni spesso ad alto tasso di politicità come quelle relative al giudizio sulla costituzionalità delle leggi o sui conflitti tra poteri (è la loro anima politica).
Questa ambivalenza ha dato origine in passato a una contrapposizione netta in dottrina circa la ricostruzione della natura delle Corti costituzionali e delle loro funzioni tra chi le vedeva come organi essenzialmente politici (Schmitt 1931; trad. it. 1981) sia pure di tipo del tutto peculiare, e chi invece le intendeva come vere e proprie magistrature , anche in questo caso di tipo speciale (Kelsen 1981). In realtà, gli sviluppi successivi all’entrata in vigore dei sistemi di giustizia costituzionale hanno mostrato come tale ambivalenza sia un carattere intrinseco e ineliminabile di questo ‘tipo’ di giustizia, ridimensionando di molto quel dibattito risalente: in certi momenti le Corti costituzionali hanno fatto emergere di più la loro anima giurisdizionale (soprattutto quando il potere politico assolve in modo soddisfacente il suo ruolo di mediatore dei conflitti sociali), in altri hanno messo in maggiore evidenza la loro anima politica (in situazioni nelle quali i soggetti politici stentano ad assolvere in pieno il loro compito). Una volta istituite e assestatesi all’interno dei diversi contesti istituzionali, esse hanno così rivelato quella che è la vera natura della loro funzione, che si colloca in una zona di mezzo tra politica e giurisdizione e che di entrambe partecipa, avendo come punto di riferimento esclusivo i valori, i principi e le norme costituzionali il loro carattere di stabilità, in una parola il valore di legge fondamentale dello Stato che alla costituzione si deve riconoscere (Caretti, Cheli 1984, pp. 17 e segg.).
Se si ripercorrono le varie fasi della nostra storia costituzionale, a partire dal 1861 per arrivare ai giorni nostri, è agevole constatare come essa si sia sviluppata, per gli aspetti che qui interessano, in perfetta sintonia con gli sviluppi del costituzionalismo europeo tra Otto e Novecento.
Nel corso della prima fase, quella che occupa i decenni successivi alla nascita del Regno d’Italia fino all’avvento del fascismo, è lo Statuto albertino, concesso da Carlo Alberto, re di Sardegna, ai propri sudditi a rappresentare la costituzione del nuovo Regno. Come tutte le costituzioni europee a esso coeve, lo Statuto è una costituzione flessibile, nel senso già precisato: non prevede alcun procedimento speciale, aggravato, per la sua modifica e tanto meno un sistema di controllo di legittimità costituzionale delle leggi. Al contrario, è proprio alla legge che lo Statuto riserva il compito di dettare la normativa attuativa delle disposizioni costituzionali in relazione alle materie più sensibili e delicate, come quella rappresentata dalla tutela dei diritti di libertà. Diritti solennemente proclamati dagli artt. 24 e segg. dello Statuto, ma la cui effettività veniva rimessa per intero alle deliberazioni del legislatore, libero di introdurre anche i limiti più incisivi al loro concreto esercizio. Vi è in questa scelta l’eco della richiamata nozione della legge, di matrice francese, quale atto espressione della volontà popolare (e perciò stesso elemento di massima garanzia), quale atto chiamato a dettare norme generali e astratte, applicabili a tutti i cittadini, in ossequio al principio di eguaglianza.
Gli sviluppi della legislazione ordinaria dovevano, tuttavia, mostrare ben presto la fragilità e i limiti di questa impostazione, tutta centrata su una visione non a caso definita ‘mitica’ della legge (Grossi 2001) e della sua funzione di garanzia. Il legislatore ordinario andò infatti sempre più allontanandosi dalla lettera e dallo spirito dello Statuto, dando dei principi e dei diritti in esso proclamati un’interpretazione così restrittiva da svuotare di significato, in certi casi, le relative disposizioni statutarie. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla limitazione del diritto di voto, legato al censo, a una parte ristrettissima della popolazione, e solo quella maschile (fino al 1904 vota in Italia solo il 7,5%), o allo status giuridico delle donne, relegate in una situazione di minorità non solo nell’esercizio dei diritti politici, ma anche dei diritti civili (Caretti 2011, pp. 4 e segg. ).
Questa situazione era inevitabilmente destinata a peggiorare con l’avvio della seconda fase della nostra storia costituzionale, segnata dall’avvento di un regime autoritario analogo a quello che caratterizza l’esperienza di altri Paesi europei nel periodo tra i due grandi conflitti mondiali (Spagna e Germania). Nel corso di questa fase, da una parte il Parlamento, con la legge, dall’altra, e sempre più spesso, il governo, con atti normativi di valore primario, non previsti dallo Statuto, come i decreti-legge e i decreti legislativi, oltre che con i regolamenti, non solo rendono ancor più rigidi i limiti all’esercizio dei diritti (in questo ponendosi peraltro in una linea di sostanziale continuità con le tendenze già manifestatesi nel corso della prima fase), ma si spingono fino alla negazione dei medesimi: dalla negazione delle libertà politiche alla più clamorosa violazione del principio di eguaglianza rappresentata dalle leggi razziali del 1938 (Cardone, Caretti 2009).
In assenza di una riconosciuta superiorità formale delle disposizioni statutarie rispetto alle leggi ordinarie, queste ultime erano sottoposte a un mero controllo di legittimità formale da parte dei giudici, consistente nell’accertamento della regolarità del procedimento seguito per la loro adozione, in sostanza nell’accertamento dell’esistenza della legge in quanto tale, che non toccava affatto il contenuto della legge stessa. Non deve dunque stupire se nella fase di rifondazione del nuovo Stato democratico, il tema della rigidità della costituzione garantita da un sistema di giustizia costituzionale trovasse la dottrina giuridica italiana particolarmente impreparata. E tuttavia, le conseguenze tragiche cui aveva portato l’intrinseca debolezza di una costituzione flessibile e l’assenza di un qualsiasi rimedio giuridico contro i possibili abusi del legislatore a danno dei principi costituzionali, che erano ben presenti nella memoria dei giuristi che contribuirono, dentro e fuori l’Assemblea costituente, alla nascita della costituzione repubblicana, determinarono una svolta decisa rispetto al passato. Una svolta che comincia a maturare già nel corso dei lavori della c.d. Commissione Forti, istituita presso il Ministero per la Costituente con il compito di predisporre dei materiali preparatori per i lavori dell’Assemblea costituente e non a caso quando si comincia a discutere di un nuovo sistema di tutela dei diritti fondamentali, secondo la linea tracciata in quella sede da Costantino Mortati (uno dei giuristi cattolici più autorevoli, poi eletto tra i costituenti) e successivamente seguita dall’Assemblea costituente.
In realtà, non si trattò di una scelta del tutto priva di contrasti: l’estraneità della giustizia costituzionale alla nostra tradizione giuridica, la conseguente difficoltà ad ammettere che un organo terzo potesse sindacare e porre nel nulla la volontà del Parlamento non mancarono di alimentare qualche opposizione anche consistente di natura sia politica sia giuridica. Sul primo versante è da ricordare non solo l’ostilità delle sinistre, che vedevano di mal occhio la prospettiva che scelte legislative, che esse auspicavano profondamente innovative rispetto alla situazione allora esistente potessero essere messe in discussione dai giudici (quei giudici, tra l’altro formatisi in gran parte durante il regime fascista) o peggio da un organo ristretto, creato ad hoc e privo di legittimazione democratica, ma anche le diffidenze di quella parte di costituenti appartenenti ad altri schieramenti, i quali, fedeli alla tradizione liberale, erano restii ad accettare non tanto l’ipotesi di una costituzione rigida, quanto soprattutto l’idea che tale rigidità fosse garantita da un sistema di giustizia costituzionale, ritenendo a ciò sufficiente il controllo politico del parlamento o della pubblica opinione (una posizione che ebbe in un giurista del calibro di Vittorio Emanuele Orlando il suo più convinto e accanito sostenitore). Ma alla fine furono le posizioni, anch’esse trasversali, sostenute da quei costituenti giuristi che, pur formatisi a cavallo tra l’esperienza liberale e quella fascista, avevano colto la natura rifondativa del passaggio storico che il Paese stava attraversando e che spingeva a volgere lo sguardo più al nuovo che non agli istituti e alle categorie del passato. Sono così i ripetuti interventi di Mortati, Egidio Tosato, Giorgio La Pira, Piero Calamandrei e Tommaso Perassi a rintuzzare con successo le perplessità e le obiezioni che vengono da altre da altri costituenti e, alla fine, a fare agio anche sulle diffidenze di ordine più strettamente politico (D’Orazio 1981, pp. 108 e segg.) e che consentono l’introduzione di un sistema di giustizia costituzionale a garanzia della rigidità della nuova Carta.
Si tratta di un sistema che mutua alcuni dei caratteri dei due modelli allora storicamente sperimentati: quello diffuso, affermatosi nell’esperienza americana, e quello accentrato, che aveva caratterizzato alcune esperienze europee tra le due guerre (si è accennato al modello austriaco). Così, del modello accentrato il costituente accoglie il principio di affidare questo particolare tipo di giurisdizione a un unico organo costituzionale, con tutte le garanzie di autonomia e indipendenza che caratterizzano gli organi di questo tipo (la Corte costituzionale); mentre del modello diffuso, esso accoglie il principio del coinvolgimento anche dei giudici comuni nel controllo di costituzionalità delle leggi, affidando loro la funzione di filtrare le questioni di costituzionalità da sottoporre al giudizio della Corte, attraverso il c.d. procedimento in via incidentale. Spetta infatti a tutti i giudici, sia ordinari sia amministrativi, il potere di promuovere un ricorso alla Corte, quando ritengano che sussistano fondati dubbi circa la conformità a costituzione di una disposizione di legge che essi debbono applicare per decidere la controversia che pende davanti a loro. In questo caso, una volta sollevata la questione davanti alla Corte, il processo viene sospeso (dunque si crea un incidente di percorso nel normale svolgimento del medesimo, che dà il nome a questo procedimento) in attesa della decisione del giudice delle leggi. Una decisione che, se è nel senso dell’illegittimità costituzionale della disposizione di legge impugnata, cancella quest’ultima dall’ordinamento, con la conseguenza che quest’ultima non solo non potrà più trovare applicazione nel processo dal quale la questione ha avuto origine, ma non potrà essere applicata in nessuna altra occasione e da parte di nessun altro soggetto. Quanto alla composizione della Corte, si prevede che di essa facciano parte quindici membri, eletti per un terzo dal Parlamento in seduta comune, con maggioranze qualificate, per un terzo nominati dalle più alte magistrature (Corte di cassazione e Consiglio di Stato) e per un terzo nominati dal presidente della Repubblica e scelti tra persone in possesso di specifici requisiti di professionalità giuridica. Durano in carica nove anni e non sono rieleggibili.
Le funzioni affidate alla Corte non si esauriscono nel controllo di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle regioni, ma riguardano anche la risoluzione dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e tra lo Stato e le regioni, il giudizio sull’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativi di leggi dello Stato, il giudizio sulle accuse promosse dal Parlamento in seduta comune nei confronti del presidente della Repubblica per attentato alla costituzione o alto tradimento. Quella che viene così disegnata è un’alta magistratura, che riflette nella sua composizione la natura peculiare della funzione che è chiamata a svolgere (giurisdizionale e insieme politica, come si è detto), alla quale possono rivolgersi sia soggetti istituzionali a tutela delle proprie competenze, sia i cittadini (sia pure in via mediata, attraverso il giudice comune) che ritengano violato dalla legge un loro diritto.
Se, una volta richiamate le ragioni storiche che hanno portato alla scelta di una costituzione rigida e di un sistema di giustizia costituzionale, nonché i tratti essenziali della disciplina di quest’ultimo, si rivolge l’attenzione agli sviluppi che la giustizia costituzionale ha conosciuto nella prassi, non può non riconoscersi come un istituto che all’inizio era ritenuto necessario ma nei confronti del quale si nutrivano diffuse diffidenze (diffidenze che tra l’altro spiegano il ritardo con cui si procedette alla sua attuazione: la Corte costituzionale entra in funzione solo nel 1956) abbia finito per svolgere un ruolo fondamentale nella dinamica politico-istituzionale nei decenni che abbiamo alle spalle, in ciò sostenuta in modo sempre più convinto dalla dottrina costituzionalistica e più in generale dalla dottrina giuridica italiana. E ciò nonostante le difficoltà che essa ha dovuto superare per collocarsi all’interno di un quadro istituzionale già consolidato.
Su questo piano, la Corte ha saputo, nel tempo, conquistarsi una posizione autorevole, trovando il modo di instaurare rapporti equilibrati con le istituzioni con le quali doveva confrontarsi più direttamente (i giudici comuni e il Parlamento), evitando conflitti che avrebbero pregiudicato sul nascere l’esercizio delle sue funzioni. Non che non siano mancati momenti di frizione sia sul versante del potere giudiziario (soprattutto con la Corte di cassazione, in ordine al monopolio dell’interpretazione della legge ordinaria rivendicato da quest’ultima), sia sul versante del legislatore (soprattutto in quelle occasioni nelle quali la Corte si è spinta fino a suggerire al Parlamento i modi per rendere conforme a costituzione la disciplina di una certa materia o a provveduto direttamente a sostituire con le proprie decisioni una disciplina ritenuta incostituzionale con una conforme a Costituzione, con le c.d. sentenze creative/additive). E tuttavia, si può dire che oggi su entrambi i versanti ciò che ha prevalso è un atteggiamento di reciproco rispetto.
Al raggiungimento di questo risultato, non è stata certo estranea la dottrina giuridica, la quale, nella sua quasi totalità, ha accompagnato e sostenuto la Corte nel suo progressivo assestamento nel quadro della nostra forma di governo. Si pensi, quanto ai rapporti con la magistratura, alla reazione della dottrina (da Calamandrei a Paolo Barile, a Vezio Crisafulli) al tentativo di distinguere le norme costituzionali in norme direttamente precettive e norme meramente programmatiche, con la conseguenza di limitare il controllo di legittimità costituzionale alle sole disposizioni di legge in contrasto con le prime (Occhiocupo 2006, pp. 505 e segg.). Ma si pensi anche, sul secondo versante, al sostanziale avallo, sia pure con qualche distinguo, ottenuto dalla Corte nel suo progressivo abbandono dell’alternativa secca tra pronuncia di accoglimento e pronuncia di rigetto e nella messa in campo di uno strumentario decisorio assai più ricco che le ha consentito di interloquire in modo assai più articolato e flessibile non solo con i giudici comuni (tutto il filone delle sentenze interpretative), ma anche con il legislatore (dalle sentenze creative-additive, alle sentenze auspicio, alle sentenze monito, alle sentenze di incostituzionalità accertata ma non dichiarata o, ancora a tutto quel filone giurisprudenziale con il quale la Corte si spinge a sindacare la ‘ragionevolezza’ delle scelte legislative e così via, Cheli 1996, pp. 55 e segg.). Uno strumentario reso necessario dalla stessa natura della giustizia costituzionale, tutta giocata sull’interpretazione di disposizioni costituzionali spesso formulate in termini generali e delle quali il giudice delle leggi è chiamato a definire il significato, alla luce del contesto complessivo e nel rispetto dei ruoli propri di altre istituzioni (Cappelletti 1957, pp. 120 e segg.).
Sul piano più sostanziale, quello sull’attività svolta dalla Corte soprattutto nella sua veste di giudice delle leggi, la valutazione complessiva è altrettanto positiva. Nonostante la pluralità delle funzioni attribuite alla Corte, essa ha finito per caratterizzarsi sempre di più come giurisdizione delle libertà, coerentemente del resto con le motivazioni di fondo che hanno portato alla sua istituzione. Questa evoluzione ha conosciuto due fasi.
Nel corso della prima fase, che ha occupato tutti i primi anni della sua attività, la Corte ha svolto una fondamentale opera di bonifica del tessuto normativo ereditato dal passato degli elementi non più in linea con i nuovi principi costituzionali. A fronte di un legislatore lento e riottoso, è soprattutto alla Corte che si deve il merito dell’eliminazione di gran parte dei limiti all’esercizio dei diritti fondamentali di cui, come detto, la legislazione ordinaria era ricchissima.
Nel corso della seconda fase, quella a noi più vicina, la Corte ha esercitato il suo sindacato sulle leggi del Parlamento repubblicano, anch’esse spesso non in linea con il dettato costituzionale. E lo ha fatto, in genere, promuovendo interpretazioni evolutive del testo costituzionale, ricavandone significati che hanno arricchito il catalogo dei diritti espressamente indicato in Costituzione: si pensi al diritto alla libertà di coscienza, al diritto all’informazione, al diritto alla riservatezza, al diritto a un ambiente salubre e così via e operando opportuni bilanciamenti là dove l’esercizio di un diritto si incrocia con l’esercizio di un altro e si tratta di stabilire fino a che punto la disciplina dell’uno non si traduce in un’indebita compressione dell’altro (Cheli 1996, pp. 71 e segg.) Al netto delle inevitabili, e spesso giustificate, critiche che le sono state rivolte, la Corte costituzionale, la più giovane delle istituzioni della nostra forma di governo, ha finito per offrire forse una resa migliore di quella di cui possono essere accreditate istituzioni che vantano una più lunga tradizione (Cheli 2011).
La storia del costituzionalismo moderno ci ha consegnato la costituzione e la giustizia costituzionale come elementi di una tendenza di carattere generale che ha investito una pluralità di ordinamenti, ma come prodotti, nel loro concreto atteggiarsi, delle vicende politiche e sociali proprie di un determinato Paese; in altre parole come prodotti dei singoli ordinamenti statuali: la costituzione è la legge fondamentale dello Stato; la giustizia costituzionale è lo strumento che ne difende la rigidità a fronte dei possibili abusi del legislatore dello Stato. Da qualche decennio, se guardiamo all’area dei Paesi europei, questo non è più vero o lo è molto meno. Infatti, uno dei fenomeni più originali e interessanti che si registrano quest’area è la tendenza della costituzione (delle costituzioni) e della giustizia costituzionale ad assumere una dimensione sovranazionale. Questa tendenza ha trovato espressione soprattutto negli sviluppi che ha avuto, a partire dagli anni Cinquanta, la tutela dei diritti fondamentali, per il passato materia riservata alle sovrane determinazioni degli Stati nazionali e divenuta, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, sempre più oggetto di disciplina da parte del diritto sovranazionale.
Il primo sviluppo in questo senso è rappresentato dalla Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Sottoscritta a Roma nel 1950 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa (la prima organizzazione sovranazionale europea che riunisce Stati con analoghe tradizioni politiche, economiche e sociali e che nasce nell’immediato dopoguerra), tra cui l’Italia. Il testo della Convenzione contiene un elenco di diritti che gli Stati firmatari si impegnano a tutelare e l’indicazione delle ragioni che possono giustificarne una limitazione al loro esercizio; essa presenta dunque tutte le caratteristiche di quella parte delle costituzioni nazionali che disciplinano questa materia. Non solo, ma la Convenzione (e in ciò risiede la sua grande novità rispetto alle tante convenzioni internazionali che si propongono di promuovere una più intensa tutela dei diritti) prevede l’istituzione di un apposito giudice (la Corte europea dei diritti del’uomo) che ha il compito di assicurare l’effettivo rispetto del contenuto della Convenzione da parte degli Stati che vi hanno aderito, predisponendo così un meccanismo di reazione nei confronti delle eventuali violazioni che opera sul piano delle sanzioni giuridiche e non solo meramente politiche. Alla Corte, infatti, possono ricorrere tutti i cittadini di tali Stati, una volta che abbiano esaurito infruttuosamente tutti i rimedi previsti dall’ordinamento di appartenenza (in una logica dunque di una tutela sussidiaria che si aggiunge e integra, ma non sostituisce quella nazionale) e possono chiedere alla Corte di condannare lo Stato di appartenenza, in caso di accertata violazione di un diritto sancito dalla Convenzione, al ripristino della situazione lesa ovvero al risarcimento del danno causato.
Il secondo sviluppo è rappresentato dalla nascita di un sistema di tutela dei diritti fondamentali anche in seno all’Unione europea. Quella che all’inizio si presentava come una forma inedita di cooperazione tra alcuni Paesi europei, destinata a svilupparsi essenzialmente sul piano economico, si è mano a mano evoluta, attraverso fasi successive (dall’Atto unico del 1986, al trattato di Maastricht del 1992, al trattato di Amsterdam del 1997, al trattato di Nizza del 2000, al trattato di Lisbona del 2007) in una organizzazione sovranazionale, la quale aspira oggi (sia pure ancora con molti limiti) a fungere da elemento di coesione e di cooperazione non solo economica, ma anche, se non soprattutto, politica.
Di questa evoluzione del processo di integrazione europeo, ciò che qui preme di sottolineare è che esso ha assunto il carattere sempre più marcato di un processo costituente del tutto originale e atipico, ma non per questo non riconoscibile come tale (Bin, Caretti 2008). Un processo che a un certo punto è sembrato dovesse approdare all’approvazione di una vera e propria costituzione europea. È quanto ci si proponeva di fare con il trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, sottoscritto a Roma nel 2004, ma il tentativo non ha avuto esito per le difficoltà incontrate dal trattato nell’iter di ratifica (si ricordino i due referendum popolari negativi che si sono tenuti in Francia e in Olanda, rispettivamente nel maggio e giugno del 2005). A questo esito negativo hanno concorso una pluralità di ragioni, non ultima la diffusa resistenza all’utilizzazione in un trattato europeo di un termine così evocativo come quello di costituzione, ma soprattutto il timore che la nascita di una costituzione europea rappresentasse un arretramento rispetto ai traguardi raggiunti con le costituzioni nazionali, ridimensionandone il significato non solo politico, ma anche giuridico.
Questo atteggiamento di diffidenza ha caratterizzato con non molte eccezioni (Pizzorusso 2002; Pinelli 2002; Manzella 2003; Caretti 2007) anche l’atteggiamento di una parte consistente della dottrina, restia ad ammettere che la nascita di una costituzione secondo modalità così atipiche (attraverso un trattato internazionale), riferita a un’entità (l’Unione europea) cui nessuno riconosce la natura propria di uno Stato e per giunta dotata di un valore normativo sovraordinato a quello delle costituzioni nazionali (La difficile costituzione europea, 2001). Ma, nonostante le accennate resistenze politiche e le non meno consistenti resistenze emerse sul piano scientifico, il processo costituente, cui si è fatto riferimento, è andato avanti comunque ed è approdato all’ultimo trattato europeo, quello di Lisbona del 2007 ( il c.d. trattato di riforma, che introduce modifiche al Trattato sull’Unione europea, TUE, e all’originario trattato Cee, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, TFUE ). Quest’ultimo, pur non recando più nell’intestazione il termine costituzione, ha ripreso gran parte dei contenuti del trattato del 2004 e dunque rappresenta un’ ulteriore tappa (certo non il punto d’approdo) di quel processo.
Più in particolare, esso rappresenta una tappa di grande rilievo proprio per aver attratto nella disciplina dei trattati la materia relativa alla tutela dei diritti fondamentali, ossia di una materia che costituisce l’oggetto tipico di ogni costituzione (secondo quanto già affermato dall’art.16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: «La società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la divisione dei poteri determinata, non ha Costituzione»). Questo dato emerge non solo dalle disposizioni iniziali del trattato, nelle quali sono enunciati i principi e i valori cui l’Unione intende ispirare la propria azione e nei quali riconosce i tratti distintivi della sua identità (dal rispetto della dignità umana, dell’eguaglianza, della libertà, della democrazia, dello Stato di diritto e della tutela dei diritti umani), ma soprattutto dal riconoscimento alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la c.d. Carta di Nizza, perché solennemente proclamata a Nizza nel 2000, in occasione della sottoscrizione dell’omonimo trattato, ma non inserita nel trattato e da allora rimasta in una sorta di limbo giuridico, nell’incertezza del valore che a essa dovesse essere attribuito) dello stesso valore giuridico delle disposizioni del trattato (Cartabia 2004, pp. 121 e segg.). Un elemento che testimonia dell’avvenuta incorporazione nei trattati di una delle materie a più alto tasso di costituzionalità. La Carta, infatti, contiene un elenco di diritti che sia le istituzioni dell’Unione, sia gli Stati membri si impegnano a tutelare e promuovere, nell’ambito delle rispettive competenze, raccolti sotto sei titoli, ciascuno dei quali allude a un principio di carattere generale (Dignità, Libertà, Eguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza e Giustizia). Quello che così si è venuto a creare in seno all’Unione europea è un terzo sistema di tutela dei diritti fondamentali, che, come quello della CEDU, opera a livello sovranazionale e che si va ad aggiungere a quelli nazionali in funzione non sostitutiva, ma integrativa, in una logica di sussidiarietà. Esso punta, infatti, ad assicurare uno standard comune di garanzia dei diritti previsti dalla Carta, liberi gli Stati membri di prevedere forme di tutela maggiori (la stessa Carta, all’art. 52.4, stabilisce che se uno stesso diritto sancito nella Carta è previsto anche in una costituzione nazionale, da esso non possa essere in ogni caso data un’interpretazione che riduca la misura della tutela accordata dalle costituzioni nazionali ).
In sintesi, dunque, a seguito degli sviluppi ora sinteticamente richiamati, risulta sempre più difficile parlare di costituzione e giustizia costituzionale con esclusivo riferimento alle sole esperienze statuali. Forse non si può ancora dire che abbiamo costituzioni nazionali e una costituzione europea, ma ciò che è certo è che ormai la tutela dei diritti è diventata oggetto di disciplina anche da parte di fonti di livello sovranazionale. E se si condivide l’idea che la giustizia costituzionale sia soprattutto giurisprudenza dei diritti, si può dire che nell’area europea siamo in presenza di più livelli di giustizia costituzionale (uno operante sul piano nazionale e due su quello sovranazionale), ciascuno dei quali interferisce inevitabilmente con gli altri. Il che spinge oggi le Corti costituzionali nazionali a confrontarsi con le due Corti europee in un quadro nel quale non è più tanto in gioco la tutela di questo o di quel diritto (dal punto di vista formale i diversi cataloghi sono largamente sovrapponibili), quanto invece la misura, l’intensità della tutela accordata, che può mutare proprio a seconda dell’interpretazione che il giudice dà a quelle formulazioni testuali. Ecco perché, a evitare contrasti e conflitti tra l’una e l’altra giurisdizione sui diritti, che comporterebbero il rischio di una compressione anziché di un’espansione della tutela, si allude spesso all’esigenza che tra le varie Corti si instauri un dialogo proficuo attraverso la circolazione e la reciproca presa in considerazione delle rispettive giurisprudenze (Il dialogo tra le Corti, 2003)
Ma, al di là di queste considerazioni, ciò che va sottolineato conclusivamente è che questi sviluppi hanno tratto alimento dalle tradizioni costituzionali proprie degli Stati europei, rispetto alle quali essi non costituiscono affatto una cesura, ma al contrario un elemento di continuità, proiettandone il precipitato in una dimensione fino a qualche tempo fa del tutto impensabile (Caretti 2007, pp. 175 e segg.). Da questo punto di vista, le costituzioni nazionali del dopoguerra hanno rivelato una straordinaria valenza espansiva proprio per la parte che ne rappresenta il cuore e l’aspetto più innovativo rispetto al passato: la tutela dei diritti fondamentali, contribuendo a dare sostanza al loro carattere di universalità.
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