Costituzione europea
Perché una Costituzione per l'Europa?
Il Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, ratificato dal Consiglio europeo a Roma il 29 ottobre 2004 e successivamente sottoposto al vaglio della definitiva legittimazione referendaria o parlamentare nei singoli Stati, segna una tappa storica decisiva nel processo d'integrazione politica dell'Unione Europea. L'inizio del dibattito costituzionale viene di solito fatto risalire all'ex ministro degli Esteri tedesco J. Fischer il quale, in un discorso pronunciato alla Humboldt Universität di Berlino nel giugno del 2000, ha per la prima volta richiamato l'attenzione sull'esigenza di una profonda riforma politica delle istituzioni comunitarie, prospettando perfino una trasformazione dell'Unione Europea in senso federale. A partire dal vertice di Nizza del 2001 e dalla proclamazione di una Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, la riflessione sulla necessità di superare l'automatismo dell'integrazione economica in direzione di un autentico progetto politico si è imposta anche nell'agenda istituzionale. Una serie di questioni fondamentali, tra cui la ripartizione delle competenze tra l'Unione Europea e gli Stati membri, la determinazione della funzione dei Parlamenti nazionali, un intervento di semplificazione e sintesi dell'esistente architettonica dei trattati e lo statuto da attribuire alla stessa Carta dei diritti fondamentali, si sono da quel momento imposte negli ordini del giorno.
La stesura di un primo documento di riflessione su tali questioni è stata affidata dal Consiglio europeo di Laeken, nel dicembre 2001, a un apposito organo, la Convenzione europea, convocata per riflettere su tre temi: avvicinare i cittadini al progetto europeo e alle istituzioni europee; strutturare lo spazio politico europeo in un'Unione allargata; rendere l'Unione un nuovo fattore di stabilizzazione e un punto di riferimento nel nuovo ordine mondiale. Dopo mesi di estenuanti negoziati, il testo finale, denominato soltanto in corso d'opera Progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, è stato consegnato il 18 luglio 2003 dal presidente della Convenzione, V. Giscard d'Estaing, all'allora presidente del Consiglio europeo, S. Berlusconi, per essere sottoposto a ulteriori revisioni da parte degli Stati firmatari. Dal momento della ratifica fino alla conclusione del 2005, il trattato costituzionale è stato approvato soltanto in undici dei venticinque Stati membri (Lituania, Ungheria, Slovenia, Italia, Grecia, Spagna, Austria, Lettonia, Cipro, Malta, Lussemburgo) e nei due Paesi candidati (Bulgaria e Romania). La prevalenza di voti contrari nei referendum tenuti in Francia e nei Paesi Bassi (maggio-giugno 2005), e il successivo rinvio sine die delle consultazioni popolari in Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Polonia e Portogallo, oltre ad aprire una profonda crisi politica in seno all'Unione Europea, hanno reso incerto l'esito del processo costituzionale.
Per cogliere a fondo il rilievo del dibattito sulla C. e. occorre sottolinearne il significato sia in termini di apporto giuridico e istituzionale, sia in quanto progetto teorico e processo politico. Soffermarsi soltanto sugli effetti che il testo avrebbe potuto comportare nella migliore ripartizione di competenze tra l'Unione e gli Stati membri rispetto all'esistente sistema dei trattati o al valore dell'inclusione di una Carta dei diritti fondamentali, sarebbe limitante. L'approvazione della C. e. è stata percepita, anche in vista dell'allargamento dell'Unione, come un atto istituzionale decisivo per l'elaborazione di una sintesi etica collettiva nella quale far confluire il codice morale, politico e giuridico di ogni singola esperienza nazionale e per il consolidamento di una comune identità politica. Eppure, le vicende relative alla stesura e all'approvazione del trattato costituzionale hanno mostrato che, mentre gli sforzi di concretizzare le iniziali proposte teoriche venivano intensificandosi, uno spirito scettico aleggiava intorno al tavolo dei negoziati facendo ricordare agli europei quanto fosse recente il riconoscimento collettivo in un'entità postnazionale rispetto a una storia secolare di ambizioni in conflitto, egoismi nazionali, interessi di parte. Alla luce anche della successiva accoglienza del documento nei singoli Stati, le critiche si sono successivamente moltiplicate rilevando ora la debolezza e l'arrendevolezza del testo nell'intervento giurisdizionale, ora le distorte vedute e le limitate pretese, e perfino il nesso strutturale tra il fallimento del progetto costituzionale e il processo d'integrazione inteso in senso ampio. Le problematiche concernenti la mancanza di un demos europeo in corrispondenza delle strutture politiche e giuridiche unificate, la vaghezza della nozione di cittadinanza europea stabilita dal trattato di Maastricht, la priorità del rispetto di alcuni diritti di matrice individuale e liberale rispetto ad altri di carattere collettivo e sociale, sono state poste ancora una volta al centro dell'attenzione.
Il dibattito teorico: euroscetticismo e patriottismo costituzionale
Il progetto di un'unione politica di Stati, volta a tutelare i diritti fondamentali e a promuovere il bene comune, ha costituito una parte integrante del patrimonio teorico-politico e culturale dell'Europa molto prima che i cortocircuiti dell'attuale processo d'integrazione ne traducessero l'iniziale portata utopica in un concreto progetto giuridico e sociale. Resa pensabile dal comune riconoscersi in un insieme di valori intellettuali e morali, resa necessaria dalla cupa minaccia di un permanente conflitto tra gli Stati sovrani, un'Europa cosmopolita fu considerata da molti pensatori del 17° e del 18° sec. (G.W. von Leibniz, l'abbé de Saint-Pierre, J.-J. Rousseau, I. Kant) l'unica soluzione che potesse ragionevolmente portare all'abolizione del precario principio dell'equilibrio tra potenze. Pur non costringendo gli Stati a rinunciare alla loro sovranità nazionale, la costituzione di una federazione politica avrebbe dovuto impegnarli nella creazione di un vincolo politico unitario volto a salvaguardarne la sicurezza interna e a limitarne il potere in merito ad alcune questioni di comune interesse.
Il riferimento alla tradizione illuministica e l'aspirazione a produrre un contratto sociale che fosse al contempo atto fondante di un soggetto politico unitario, hanno ispirato i lavori della Convenzione europea fin dall'inizio e compaiono anche nel preambolo del documento finale. Il testo è riuscito a superare le polemiche sul riferimento alle radici cristiane dell'Europa - fortemente presenti nei Paesi in cui maggiore era la pressione del Vaticano come l'Italia, la Spagna o la Polonia - aprendosi con un richiamo generale alle eredità culturali, religiose e umanistiche del continente. L'enfasi posta sui valori collettivi di libertà, democrazia e rispetto del diritto mira a fornire anche una prima risposta alla critica, ricorrente nel dibattito costituzionale, che la mancanza di un 'popolo' europeo, nel senso della condivisione di certi requisiti di omogeneità linguistico-culturali (D. Grimm) o di un effettivo sostrato di solidarietà sociale (C. Offe), renderebbe incomprensibile lo spazio comunicativo politico europeo e indesiderabile il suo sistema politico normativo. Infatti, secondo molti interpreti, nonostante l'acquis communautaire costituisca uno strumento giuridico vincolante, la mancanza di un sostrato sociale unitario lo priverebbe della legittimazione politica di cui gli Stati nazione godono in virtù dell'intesa linguistica e culturale dei propri cittadini o di un comune percorso politico di lotte contro l'esclusione.
La principale obiezione, condivisa da quanti criticano il presupposto che l'approvazione della Costituzione possa contribuire allo sviluppo di una coscienza pubblica europea, richiama l'attenzione su una delle caratteristiche più importanti dei moderni processi costituenti. Ogni processo d'approvazione di una costituzione, si sottolinea, vede mobilitata una comunità politica che trasforma in impegno normativo i valori politici e morali riconosciuti e condivisi. Ora, proprio questo manca all'Europa: un popolo e un'identità condivisa in grado di fondare il potere costituente e autorizzare la forza coercitiva in virtù della quale una costituzione, intesa come Grundgesetz, come legge fondamentale, possa distribuire il potere esistente. In assenza di un'immediata fonte di legittimazione del diritto comunitario, la C. e., lungi dal contribuire a saldare il legame tra cittadini e istituzioni, rischierebbe di sortire un effetto ancora più alienante. Essa, si sostiene, non riuscirebbe a compensare l'erosione di potere degli Stati mediante il riconoscimento reciproco dei cittadini come soggetti di un popolo europeo.
In una prospettiva divergente si collocano i fautori di un'interpretazione della costituzione come momento non di legittimazione di un'autorità da parte di una comunità politica preesistente, bensì come autentico luogo di fondazione di un nuovo soggetto politico. In questo caso, più che sul potere costituente, si pone l'accento sul potere costituito e sulla deliberazione fondamentale del demos che fonda e riconosce sé stesso. A titolo di esempio si cita spesso la Costituzione degli Stati Uniti d'America che nella sua formula iniziale ("we, the peoples of the United States") istituisce l'autorità formale e promuove la legittimità empirica del testo. Una Costituzione, viene dunque sottolineato, conferirebbe anche all'Europa la capacità di mobilitarsi in vista di obiettivi normativi in grado di alimentare la formazione di una coscienza pubblica europea.
J. Habermas, uno dei più strenui sostenitori di tale posizione - da lui stesso definita "patriottismo costituzionale" - ha, in effetti, criticato il presupposto che la coesione sociale e politica di un assetto democratico debba essere associata all'omogeneità linguistica e culturale di una comunità pre-politica di destino. Secondo Habermas, la costruzione della volontà civica si sarebbe tradizionalmente basata sui principi di sovranità popolare e sul rispetto dei diritti dell'uomo. Il patriottismo costituzionale e la coesione normativa dell'Europa dipenderebbero perciò non dalla "comprensione etico-politica" di una specifica comunità, ma dalla sua "auto-comprensione giuridico-morale". Ed è proprio in quanto medium giuridico capace di contribuire alla costruzione di una forma di solidarietà astratta e rigenerata dalla partecipazione politica, che la C. e. andrebbe sostenuta. Il processo costituzionale favorirebbe in tal modo il duplice scopo di mobilitare le forze politiche attorno a un progetto simbolico di partecipazione e inclusione che oltrepassi i territori di appartenenza nazionale, e di gettare le basi per la costruzione discorsiva di una coscienza pubblica di dimensioni europee.
L'essenza giuridica della Costituzione: tra internazionalismo e sovra-statalismo
La nozione di patriottismo costituzionale e l'invito a superare i particolarismi nazionali nella volontà generale di un corpo politico europeo potrebbero apparire un'ottima sintesi per il manifesto programmatico di quella "Europa dei popoli" celebrata anche nel preambolo del documento costituzionale. Tuttavia, alla luce delle dinamiche politiche che hanno accompagnato la stesura e l'accoglienza del Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, tali prospettive si sono rivelate eccessivamente ottimiste. Senza dubbio, il trattato costituzionale introduce alcune importanti innovazioni istituzionali: l'elezione a maggioranza qualificata da parte del Consiglio europeo di un presidente dell'Unione Europea, l'istituzione della carica di ministro degli Affari esteri, la riduzione del numero dei membri della Commissione, l'attribuzione di personalità giuridica all'Unione. Il trattato, tuttavia, resta saldamente ancorato ai tradizionali principi di competenze attribuite, sussidiarietà e proporzionalità che specificano le relazioni tra la prassi legislativa comunitaria e quella dei singoli Stati membri. Inoltre, il Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa mantiene un'essenza giuridica ibrida che rende molto difficile stabilire se l'Unione Europea sia davvero un'entità senza precedenti nella storia delle relazioni internazionali, oppure si tratti, mutatis mutandis, di una versione un po' più sofisticata di un normale organismo intergovernativo.
Per un verso, la prassi comunitaria ricorda molto da vicino le modalità operative del diritto internazionale, secondo il quale ogni decisione resta ancorata alla volontà degli Stati sovrani e l'applicazione della legislazione europea dipende dalle costituzioni nazionali. Per altro verso, il diritto comunitario si riserva una priorità vincolante nelle materie in cui sono state trasferite competenze all'Unione, ma rinunciando ad attribuire poteri più forti al Parlamento europeo, unica istituzione eletta con mandato popolare. La stessa denominazione ufficiale del documento, Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, denuncia immediatamente tali ambiguità. I trattati, infatti, sono atti di diritto internazionale che riconoscono come unici soggetti legittimati a stipularli gli Stati, assicurandone l'eguaglianza di posizione e il rispetto delle procedure intergovernative nella presa delle decisioni. Le norme sul "Ritiro volontario dall'Unione" secondo le quali "ogni Stato membro può decidere, in conformità alle proprie norme costituzionali, di ritirarsi dall'Unione Europea" (art. 59) non fanno che confermare una simile interpretazione. Eppure, come viene spesso sottolineato, le ambizioni di tale trattato vanno ben oltre il mero accordo stipulato tra Stati sovrani; esso mira a sancire una ', documento giuridico e politico di carattere profondamente diverso. La C. e. afferma in modo chiaro e radicale i valori comuni dell'Unione, vincola gli Stati membri al rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini e costituisce un'apertura importante all'evoluzione di un nuovo soggetto politico collettivo, nella certezza che i popoli dell'Europa intendano forgiare un "comune destino".
Le stesse modalità di funzionamento della Convenzione europea erano volte a restituire proprio quella democraticità procedurale che mancava alle riunioni intergovernative del Consiglio europeo. Come già avvenuto con i lavori per la stesura della Carta di Nizza, per la prima volta si riunivano in sede europea parlamentari nazionali ed europei, membri dei governi e rappresentanti della società civile che, superando il principio della segretezza diplomatica, operavano in modo del tutto trasparente e a porte aperte. La Convenzione avrebbe con ciò voluto proporre, nella tradizione del costituzionalismo francese e anglosassone, la formula di un'assemblea costituente riunitasi per discutere i contenuti del corpus legislativo fondamentale forte di un mandato popolare. Eppure, proprio dal confronto con tale tradizione, emerge la problematicità delle procedure, non di stesura, ma di approvazione finale. Queste sono infine sfuggite all'autorità della Convenzione, dove gli Stati erano disposti a negoziare la propria sovranità, per ritornare alla prassi del diritto internazionale in seno al Consiglio europeo, l'organo dotato di maggiori poteri decisionali.
Il conflitto fra trattato e costituzione rivela così una delle tensioni più radicali che hanno caratterizzato il processo d'integrazione dell'Unione Europea, facendone infine esplodere la contraddizione. Svuotata della sua carica innovativa, la Costituzione si è ridotta a mero artificio simbolico ed è ricorsa al trattato, ratificato dal Consiglio europeo, come strumento di legittimazione. Privo di una volontà popolare costituente e riconsegnato alle procedure intergovernative per la sua approvazione finale, il documento prodotto dalla Convenzione è tornato a scuotere lprassi decisionale dell'Unione Europea, con ciò risollevando le stesse questioni che mediante il processo costituzionale si intendevano superare.
Il dibattito politico
La critica alla Costituzione in quanto testo octroyé, risultato di un processo opaco e privo di legittimazione popolare, emerge come tema di straordinario rilievo alla luce delle riflessioni sulla "sostanza" del documento e sulla sua ricezione nei singoli Stati dell'Unione. Già nel corso dei negoziati per la ratifica del trattato era emerso chiaramente come gli Stati membri si adoperassero puntualmente per modificare clausole specifiche, ogni volta che la tradizione politica o l'interesse nazionale si ritenessero minacciati in merito a particolari questioni. I vari emendamenti proposti in materia di politiche sociali dal governo britannico, o l'ostinazione della Spagna e della Polonia a rimettere in discussione il principio della doppia maggioranza (secondo cui nelle decisioni del Consiglio si tiene conto non soltanto del numero dei voti spettanti a ogni Stato, ma anche della loro estensione demografica) sono soltanto due esempi di immediata visibilità rispetto a questo atteggiamento generale. Eppure, le controversie teoriche affrontate durante i lavori della Convenzione e le difficoltà per il raggiungimento dell'unanimità in seno al Consiglio dei ministri erano solamente scosse minori che anticipavano l'autentico terremoto politico che sarebbe in seguito scaturito dai referendum costituzionali.
Che in un'Unione Europea a venticinque membri ci fossero insoddisfazioni rispetto al testo costituzionale e che le consultazioni popolari in qualche Paese tradizionalmente euroscettico come, per es., la Gran Bretagna potessero anche avere un esito negativo era un dato largamente previsto e anticipato. La sensazione di stupore diffusa in seguito ai referendum di Francia e Paesi Bassi era quindi dovuta soprattutto al fatto che una simile risposta provenisse da due dei Paesi fondatori dell'Unione e da metà dell'asse franco-tedesco. Il no al trattato costituzionale veniva percepito, in un primo momento, anche come un rifiuto dello stesso progetto europeo, rifiuto che gettava nel vuoto istituzionale e nel caos ideologico qualsiasi ipotesi di risposta alla crisi politica, dilagante già dai tempi di Maastricht.
Ciò che rende difficile prospettare i futuri sviluppi del processo costituzionale in Europa è la controversa interpretazione delle rivendicazioni politiche che hanno originato imbarazzanti alleanze durante la campagna referendaria per il no al trattato costituzionale. Da una parte di tale fronte si collocavano i partiti politici euroscettici e xenofobi che - prospettando l'allargamento e mediante argomenti populisti - agitavano lo spettro dell'invasione da Est o del futuro ingresso della Turchia, per minacciare la scomparsa dei valori tradizionali o la perdita dei privilegi nazionali di cittadinanza. Dall'altro lato, il fronte del no era sostenuto da una parte delle forze più di sinistra - comuniste, socialiste e rappresentative dei movimenti sociali -che, in profondo conflitto con i partiti socialdemocratici, denunciavano l'elevazione a rango costituzionale del modello monetarista e liberista radicato nei trattati di Maastricht e Amsterdam. Entrambe le posizioni invitavano comunque a riflettere su almeno un elemento critico: dotare l'Unione Europea di una bandiera, di un motto e di un inno, tradizionalmente considerati come simboli dello Stato-nazione, che fossero sanciti dal trattato costituzionale, non bastava a renderla attraente per il futuro popolo europeo.
La problematica tendenza ad affermare pienamente i diritti di matrice liberale, riservando invece una formulazione ambigua a quelli sociali, era stata rilevata da più parti già in seguito all'approvazione della Carta europea dei diritti fondamentali, inclusa nel trattato costituzionale come sua seconda parte. Vale la pena a tale proposito di ricordare come anche la Carta fosse stata inizialmente celebrata come documento che testimoniava un cambio di marcia rispetto al metodo funzionalista, che aveva tradizionalmente guidato la prassi comunitaria, e una maggiore sensibilità nei confronti della logica dei diritti rispetto a quella economica. Essa introduce, in effetti, nell'acquis communautaire importanti articoli innovativi; viene, per es., affermato il divieto di fare del corpo umano fonte di lucro, proibita la clonazione riproduttiva e riconosciuto il diritto all'integrità fisica e psichica della persona (art. 3). In ambito sociale vi si affermano esplicitamente il diritto alla libertà di associazione in campo politico e sindacale (art. 12), il diritto all'istruzione e alla formazione professionale (art. 14), il divieto della discriminazione fondata sulla cittadinanza (art. 21), il diritto dei lavoratori all'informazione e alla consultazione nell'ambito dell'impresa, la tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art. 27), il diritto di sciopero (art. 28), il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque (art. 31), il divieto del lavoro minorile (art. 32), il diritto alla sicurezza sociale e all'assistenza sociale (art. 34), il diritto alla protezione della salute (art. 35), la tutela dell'ambiente (art. 37).
Tuttavia, ciò che i critici sottolineano relativamente all'efficacia costituzionale del testo è che, mentre il riconoscimento e l'estensione dei diritti di prima generazione si esprimono con formule inequivocabili, il linguaggio diventa maggiormente attento e sfumato quando si discutono i diritti sociali. A titolo di esempio si cita spesso l'art. iii-209 in materia di occupazione e politiche sociali: "l'Unione e gli Stati membri agiscono tenendo conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell'economia dell'Unione".
Una parte del rifiuto manifestato dai referendum in Francia e nei Paesi Bassi può dunque essere spiegata con la volontà di contrastare l'asimmetria tra l'affermazione indiscussa del neo-liberismo come sfondo normativo dell'Unione e il rinvio alle legislazioni nazionali di una protezione sociale adeguata per controbilanciarne le conseguenze. Tale riflessione, tuttavia, non semplifica una posizione che, pur criticando la lettera del trattato costituzionale, riconosce nel processo politico da esso innescato un'evoluzione cui, oltre che insensato, sarebbe dannoso sottrarsi. È chiaro, per un verso, che la vertiginosa espansione dei mercati, l'incontrollabilità dei flussi monetari transnazionali, l'aumento del potere d'intervento nelle politiche economiche degli Stati da parte di istituzioni finanziarie come la Banca centrale europea, sollevano la questione dell'indebolimento dello Stato nazionale e del declino delle sue capacità di proteggere i propri cittadini dalle decisioni prese da autorità esterne. Per altro verso, senza un progetto politico e istituzionale in grado di conferire legittimità alle istituzioni europee, si rischia di promuovere il successo delle forze neo-liberali nazionali e di favorire i movimenti nazional-populisti che si oppongono al processo di allargamento ed esprimono le pulsioni più razziste e xenofobe nei Paesi membri.
Un altro elemento critico nel dibattito sul trattato costituzionale riguarda il ruolo che un'Europa politica più forte e dotata di personalità giuridica svolgerebbe all'interno dello scacchiere geopolitico mondiale. Un'unione di tipo confederale e in continua espansione, dalla politica estera indipendente e con una moneta unica forte sui mercati finanziari, rappresenterebbe, infatti, una risorsa chiave nella ricostruzione dell'equilibrio multipolare globale, minacciato dal rafforzarsi dall'egemonia statunitense. Un'Europa indipendente e volenterosa di elaborare una sostanziale ristrutturazione dell'economia mondiale verso direzioni che superino concretamente la costante polarizzazione Nord-Sud, costituirebbe una svolta enorme sulla scena mondiale.
Tale prospettiva collide tuttavia con alcuni dati di fatto che sembrerebbero porre un ostacolo oggettivo allo sviluppo di una politica estera europea in contrasto con l'unilateralismo nordamericano: l'allargamento a Est dell'Unione e l'orientamento politico filostatunitense dei nuovi membri, l'esistenza dell'alleanza militare nord-atlantica e la debolezza di una strategia di difesa collettiva, lo sfruttamento in comune da parte delle multinazionali europee delle risorse nel Sud del mondo. Il rinnovamento di un progetto politico europeo dipende perciò dalla possibilità che le lotte sociali e politiche riescano a modificare quest'assetto e a imporre nuovi compromessi storici. In questo senso, il fallimento della proposta di un trattato costituzionale europeo non modifica la sua forza propulsiva come processo e come progetto. Al contrario, esso comporta un impegno nuovo nella costruzione di un percorso politico che miri a superare l'antinomia tra la costituzione meramente giuridica del demos e un egemonismo continentale privo di legittimità popolare.
Il futuro della Costituzione
La crisi politica in cui le vicende relative all'approvazione del trattato costituzionale hanno gettato l'Unione Europea suscita una serie di riflessioni con cui i sostenitori dell'integrazione dovranno in futuro fare i conti. È chiaro che, da Maastricht in poi, la via dell'integrazione solamente economica e degli accordi intergovernativi non è più percorribile. La C. e. prometteva un reale avanzamento sulla via del concentramento federativo dei poteri dell'Unione, eppure si è risolta in un ibrido fallimentare. L'approvazione di un documento di tale rilievo politico avrebbe dovuto sconfiggere l'automatismo economico e stabilire un nuovo ideale di cittadinanza, ma ha tradito le aspettative. Inoltre, la speranza che il suo richiamo simbolico servisse a riconquistare la legittimità delle istituzioni comunitarie e a sopperire al loro deficit democratico si è progressivamente rivelata illusoria. Proprio per questo, si sostiene, è necessario discostarsi da un progetto costituzionale inteso come calcolo e sintesi delle diverse fonti gerarchizzate del diritto comunitario per proporne un concetto evolutivo: una costituzione che sia contemporaneamente principio di apertura alla trasformazione delle istituzioni esistenti e loro superamento dall'interno. Tuttavia affinché ciò accada, è necessario non limitarsi a denunciare le ambiguità, i cortocircuiti o il minimalismo del documento esistente. Il rifiuto di questo trattato non decreta la morte dellstessa di Costituzione, ma forse, più semplicemente, ne lamenta la modestia. L'ideale di un nuovo contratto sociale, esemplificato nella Costituzione, rimane indispensabile per orientare le iniziative concrete in vista di una maggiore integrazione politica. Tuttavia, trasformazioni profonde potranno avere luogo solamente se accompagnate da una serie di iniziative sviluppate dal basso e realmente inclusive, che allarghino il fronte della cittadinanza democratica e apportino sviluppi sociali significativi alle costituzioni nazionali degli Stati membri. L'esito della scommessa costituzionale dipende dalla capacità dell'Unione Europea di conquistare la fiducia dei cittadini nel corso di un processo politico ampio, e non viceversa. In quale modo tale percorso sarà affrontato concretamente da parte dei vari attori istituzionali, politici e sociali, resta una questione aperta.
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