Costituzione formale-costituzione materiale
Nel lessico dei costituzionalisti italiani della seconda metà del 20° sec., la coppia concettuale «costituzione formale-costituzione materiale» acquisì grande fortuna a partire dalla teorizzazione che ne fece C. Mortati nel volume La Costituzione in senso materiale (1940).
A differenza di molti costituzionalisti, Mortati non riteneva che il diritto potesse esaurirsi nel complesso delle norme vigenti e tutte subordinate a una costituzione formalmente posta o definita come tale, né concordava con S. Romano, secondo cui ogni ordinamento si componeva anche e necessariamente dell’istituzione quale primigenio dato organizzativo. Prima e al di sopra della costituzione formale, occorreva riconoscere la presenza di una «costituzione originaria» composta di due elementi: uno scopo tanto comprensivo da «apprezzare in modo unitario i vari interessi che si raccolgono intorno allo Stato», e il partito politico quale strumento per realizzarlo. La costituzione «originaria» o «materiale» non era per lui il presupposto o il sostrato di quella formale, e non era meno giuridica di essa. Era anzi giuridica per eccellenza, perché da essa si ricavava il criterio per imprimere giuridicità «a tutto il sistema degli atti successivi, attraverso i quali si svolge»: contrapporre una «costituzione vera», basata sui rapporti di forza, a una «costituzione giuridica» significava porle su piani incomunicabili, e privare di fondamento la seconda. Proprio in quanto giuridica la costituzione originaria poteva trasferire sé stessa nella costituzione formale, che a sua volta avrebbe stabilizzato e garantito l’equilibrio dei rapporti di forza e i fini politici componenti la costituzione materiale, pur senza assorbire interamente e definitivamente la «ideologia sostenuta dalle forze politiche dominanti», che poteva sempre indirizzare lo svolgimento della costituzione positiva verso forme anche diverse dalla revisione del testo scritto.
Per Mortati fra costituzione formale e costituzione materiale doveva dunque esservi tendenziale compenetrazione, e non solo perché, una volta che le si fossero contrapposte, le due nozioni perdevano ogni capacità euristica. Combinando le funzioni ascritte a ciascuna – rispettivamente, imprimere finalità fondamentali e costitutive alle supreme istituzioni statuali con lo strumento del partito, e stabilizzarne e garantirne il perseguimento fin dove possibile –, si poteva prospettare in senso diacronico la nozione di costituzione e spiegarne, oltre alla nascita, la pretesa di durare nel tempo. La sua teoria superava anche per questo verso la tradizione giuspositivistica, che collocando lo Stato al centro del sistema giuridico riduceva la costituzione a una delle sue fonti, sia pure la fonte suprema, e che anche quando, nella versione organicistica, annetteva delle finalità allo Stato, ne manteneva la natura di ente atemporale, perché capace di assorbire in sé le mutevoli espressioni della società e di rendere irrilevante la politica. In Mortati l’elemento finalistico che pervade la costituzione in quanto coessenziale alla politica, nella forma organizzata che assume attraverso i partiti, è idoneo a proiettarsi nel lungo periodo, e permeando di sé la costituzione formale diventa il criterio cui commisurare in ogni ordinamento il tipo di rapporto fra stabilità e mutamento, e con esso la possibilità di raggiungere un equilibrio fra di essi tale da soddisfare la pretesa della durata insita in una costituzione.
L’opera di Mortati rifletteva l’epoca dell’affermazione nelle dinamiche costituzionali dei grandi partiti di massa, nell’Italia di allora del solo partito fascista, ma trascendeva la contingenza politica al punto che il suo autore poté trasferirne il nucleo di fondo all’ordinamento repubblicano. Grazie a una forte carica prescrittiva, la nozione di costituzione materiale si collocava infatti agli antipodi della teoria formulata da C. Schmitt nella Germania nazista, fondata sulla registrazione di una decisione politica fondamentale in una «situazione concreta». Ma il trasferimento riuscì anche per ragioni strettamente storiche. Mentre il fascismo, a differenza del nazismo, era sceso a patti con molte delle istituzioni dell’ordinamento che aveva soppiantato, a svolgere un ruolo cruciale nell’instaurazione della Repubblica e poi nel suo radicamento furono proprio i partiti democratici, che corrisposero così ben più fedelmente di quello fascista alla funzione che Mortati aveva ascritto alla «costituzione originaria». Il testo, la costituzione formale, era frutto di un incontro progressivamente raggiunto alla costituente fra partiti portatori di ideologie che inizialmente apparivano incompatibili. E solo un ampio consenso politico avrebbe potuto garantirne un’attuazione in forma legislativa.
La conseguente fortuna scientifica della distinzione costituzione formale-costituzione materiale non fu tuttavia senza prezzo. Essa venne assoggettata a sempre più forti slittamenti di significato. Nella costituzione materiale di Mortati i partiti erano strumenti di fini destinati ad animare costantemente la costituzione formale, e non solo quella «originaria», in quanto capaci di attribuire senso a un ordine altrimenti votato alla corruzione politica e insufficiente a mantenere una propria razionalità giuridica. Egli continuò nella sostanza a sostenere tale accezione, tanto da vedere negli inadempimenti, negli aggiramenti e nelle violazioni non sanzionate o non sanzionabili del testo il tradimento da parte dei partiti di una tensione etica pur ormai trasfusa nel diritto costituzionale positivo.
A prevalere nella scienza costituzionalistica fu invece la versione, ridotta e teoreticamente più debole, di costituzione materiale quale complesso delle forze politiche che sostenevano una costituzione formale. Una versione che, più che come teoria, poteva valere da direttiva metodologica per superare la concezione giuspositivistica concentrata sulla costituzione formale, come avvenne più o meno gradualmente a seconda delle aree tematiche oggetto degli studi costituzionalistici. Inoltre, in quanto direttiva metodologica, «costituzione materiale» poteva comprendere, oltre alle forze politiche, l’insieme dei «poteri di fatto», inclusi gruppi economici e sociali, capaci comunque di incidere sul funzionamento delle istituzioni: per questo verso, equivaleva a valorizzare il principio di effettività nello studio delle dinamiche giuridico-istituzionali. D’altra parte lo stesso riferimento al complesso delle forze politiche divenne troppo generico, quando negli anni Settanta giunsero da noi studi politologici americani di matrice funzionalistica che impiegavano la nozione di «sistema politico», con implicazioni che segnarono il definitivo distacco dall’accezione originaria.
Nella prima metà degli anni Novanta, a questa parabola scientifica si aggiunse la scomparsa, o la quasi irriconoscibile riedizione, dei partiti che avevano scritto e contribuito ad attuare la Costituzione. Venuti meno i figli dei costituenti, cadeva anche il presupposto di fatto su cui si reggeva la versione corrente di costituzione materiale. Restava il testo della costituzione formale, e si poneva la domanda se, e in quale misura, la nuova classe politica si sarebbe riconosciuta nei principi e nei fini di lungo periodo da esso enunciati.
Lo stesso termine «costituzione formale» andava peraltro inteso diversamente dal passato. Nel corso dell’esperienza repubblicana si era consolidata l’opinione che i limiti alla revisione costituzionale non potessero ridursi alla «forma repubblicana» di cui all’art. 139, ma comprendessero i principi fondamentali enunciati nei primi articoli, in quanto tali da individuare la forma di Stato, o la costituzione materiale. Questa volta il termine si riferiva ai fini o ai principi fondamentali, proprio a quella componente finalistica che si era persa di vista nell’avvicendarsi delle accezioni che abbiamo sintetizzato. Solo che essa assurgeva ora a criterio giuridico sostanziale o contenutistico, giustapposto al criterio formale-procedurale nella configurazione della gerarchia delle fonti. Simile sviluppo interpretativo ha dunque modificato la nozione di costituzione formale, a maggior ragione dopo che, con sentenza n. 1146 del 1988, la Corte costituzionale si è riservata il giudizio di legittimità su leggi costituzionali in ipotesi confliggenti con i «principi supremi», ricavati dalla sua giurisprudenza ma coincidenti con quelli che la dottrina ritiene sottratti a revisione; e per quanto la Corte eviti di richiamarsi alla nozione di costituzione materiale, divenuta pericolosamente polivalente, è acquisizione del costituzionalismo contemporaneo che nei principi di democrazia, libertà ed eguaglianza l’elemento promozionale o finalistico conviva con quello garantistico.
La componente finalistica della costituzione materiale può in definitiva ritenersi ormai incorporata in quella di costituzione formale. Si direbbe invece che le forze politiche prestino nei suoi confronti un ossequio soltanto formale, limitandosi a rispettarne procedure e congegni organizzativi. Volendo ancora impiegare la dicotomia, bisognerebbe allora precisare che i termini in cui si presentava all’origine si sono quasi rovesciati. Con quali conseguenze? Poiché, nonostante le epocali trasformazioni in corso, non si vedono ancora soggetti capaci di soppiantare i partiti nelle funzioni da essi svolte in una democrazia, la loro attitudine verso la costituzione rimane cruciale. E il fatto che nessuno rimetta più seriamente in discussione i principi costituzionali è cosa diversa dalla mancata attenzione all’esperienza che da quei principi è scaturita, e che con essi tuttora si può confrontare non solo in sede giurisprudenziale. In questo caso, si interrompono processi di apprendimento necessari alla convivenza nel lungo andare, e la durata della Costituzione si paga con il progressivo svuotamento del suo significato.
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