costituzione mista
Se di quel che M. scrisse in Discorsi I ii distinguendo tre forme di governo (il monarchico, o di uno, l’aristocratico, o di pochi, il democratico, o di molti) si propone la fonte, il rinvio al sesto libro delle Storie di Polibio nella parte dedicata alla costituzione romana appare, ed èin effetti, come il più ovvio. È vero che, nell’alludere a chi, parlando delle repubbliche, le aveva distinte nei tre ordini (principesco, ottimatizio e popolare), oltre che a Polibio egli poteva aver avuto la mente anche ad altri, a molti altri – se non a Tucidide (VIII 97 2), che aveva definita la costituzione di Teramene come una «equilibrata sintesi di aristocrazia e democrazia», almeno a Platone e ad Aristotele –, ma l’interpretazione più probabile è che gli «alcuni» citati come auctoritates in questa materia derivassero a M., dunque di seconda mano, da Polibio, nel passo (VI 3 5) in cui questi parlò dei «molti» che, intendendo procedere «in forma didascalica», insegnavano che si danno «tre tipi di costituzione», delle quali la prima chiamano monarchia, la seconda aristocrazia, la terza democrazia. Poiché, d’altra parte, M. rilevò che, alle tre forme qui menzionate i più savi ne avevano aggiunte altre tre, corrispondenti l’una alla prima, la seconda alla seconda e la terza alla terza, ma tutte e tre con segno negativo, ecco che la tripartizione diveniva esapartizione, il quadro si rivelava, a momenti alterni, inclusivo del positivo e del negativo, e il rinvio a Polibio come fonte primaria di questo suo capitolo si confermava come il più pertinente. Tanto più, del resto, si rivelava tale in quanto, se si fa eccezione per alcuni testi ciceroniani (ma il più importante in materia, il De republica, era ignoto all’età di M.), la teoria delle tre forme fu com’è ovvio conosciuta dalla cultura latina, che l’attingeva direttamente da quella greca, ma tuttavia utilizzata con parsimonia. Non la si trova in Livio, e Tacito (Annales III 33 1) la menzionò, ma, come scrisse Ronald Syme, soltanto «per ignorarla» (Tacitus, 2° vol., 1958, p. 549).
È ben vero, d’altra parte, che se fu Polibio a sintetizzare le linee della teoria, a semplificarla, a schematizzarla, se si vuole, in modo rigido, rendendola facilmente fruibile in riferimento non solo alla questione della Repubblica romana e delle sue tendenze espansive, ma anche alla teoria politica dei governi e del loro interno equilibrio, di qui proprio si ricava che quella delle tre forme e della loro «sintesi», o «mistione», come anche la si definì, fu una storia lunga e complessa, alla quale non è facile assegnare un inizio. Conviene inoltre avvertire, anche se lo si potrebbe giudicare superfluo, che una cosa è la storia che riguarda la tripartizione delle forme costituzionali o, come anche si disse in Italia nel 16° sec., dei «governi», un’altra quella che concerne la loro «mistione». La prima era, si potrebbe dire, una teoria descrittiva del modo in cui, agli storici e ai filosofi greci, le costituzioni si presentavano nelle loro differenze fondamentali, a seconda cioè che la prevalenza fosse dell’uno, dei pochi o dei molti. E nacque certamente prima dell’altra. La seconda fu una teoria che potrebbe esser definita, per un verso, valutativa dei limiti intrinseci alla «semplicità» delle forme politiche, e propositiva, per un altro, della necessità di superarli in una forma sintetica. Fu, in entrambe le parti, una storia complessa, che, non senza utilità, può esser letta in riferimento a Polibio, il quale, avendola rielaborata nelle sue due parti in una forma, insieme schematica e semplificata, può per un verso essere considerato come il suo punto di arrivo, da cui è tuttavia possibile, per un altro, retrocedere verso le fonti che utilizzò per costruirla e porla a fondamento della sua interpretazione della costituzione romana. Sia per la teoria descrittiva delle tre forme sia per quella valutativa e propositiva della «mistione», non facile né evitabile è la questione delle fonti, che implica, come ovvia, quella della sua formazione e della qualità della cultura che ne è presupposta.
Già alla fine del 19° sec., in un libro che resta per molti aspetti fondamentale – fatti salvi i più ovvi rinvii a pagine platoniche e aristoteliche, sulle quali al momento opportuno anche qui ci si dovrà fermare – relativamente alla teoria polibiana, Rudolf von Scala (Die Studien des Polybios, 1890: cfr. in partic. pp. 103-06) aveva individuato non pochi precedenti. In aggiunta, proposte di fonti si trovano nel libro, assai più recente, di Heinrich Ryffel, Μεταβολὴ πολιτειῶν: der Wandel der Staatsverfassungen (1949, pp. 65-66). Ma si tratta, com’è facile comprendere, di testi che, mentre documentano la presenza e la diffusione della teoria delle tre forme – e quindi, in minor numero, di quella della loro «mistione» – in ambienti diversi della cultura greca, non consentono di tracciare una linea unitaria e di proporre connessioni persuasive. Nemmeno, d’altra parte, sarebbe facile indicare un testo in cui, prima che Polibio la schematizzasse e semplificasse nella forma che le dette nel sesto libro delle sue Storie, la teoria della c. m. fosse delineata con altrettale nettezza. Si è citato Platone nelle Leggi. Ma si tratta di un luogo che, facendo parte di un contesto teorico di altra complessità, non la delinea tuttavia con pari nettezza e completezza. Se perciò si trattasse di stabilire a chi, in questa materia, dovesse assegnarsi la palma del primato, non ci sarebbe ragione di premiare il filosofo e non, invece, lo storico.
Deve anche considerarsi che non è facile decidere se, nel delineare il suo pensiero sulle costituzioni, Polibio procedesse in modo così approfondito e possedesse tanta dottrina da avere, per esempio, saputo di prima mano di molte delle tesi che gli studiosi hanno considerate come sue fonti, o se, solo in modo generico, egli parlasse dei «molti» che, in questa materia, avevano dato ammaestramenti. Non è sicuro (F.W. Walbank, Polybius, 1972, p. 38, per es., ne dubitò) se Polibio sapesse di Erodoto e del dialogo sulle forme dei governi che, in Storie III 80-82, egli immaginò che si fosse svolto fra tre capi persiani circa quella che avrebbero dovuto adottare dopo che si fossero liberati dalla tirannide dell’usurpatore Mago nel 522 a.C. e perché niente di simile avesse più a ripetersi. Si tratta di un testo famoso e altrettanto importante. Ma se della conoscenza che Polibio poté averne, dubitare è legittimo, non altrettanto lo sarebbe sul punto che con i «discorsi» riferiti da Erodoto ci si trova non all’inizio, bensì piuttosto nel vivo di una riflessione entrata a far parte delle idee del ceto intellettuale ellenico e pervenuta quindi a un grado assai elevato di maturità. L’influenza che su Erodoto si suppone fosse stata esercitata dal pensiero di Protagora e dalla sua attitudine dicotomizzante è probabilmente all’origine della sua tendenza a disporre i ragionamenti nella forma dei «discorsi duplici», ossia di dibattiti nei quali le idee in conflitto erano, ciascuna, pari, per forza logica, a quella che le si opponeva, e a nessuna ne era concessa tanta da poter prevalere sull’altra. Così il primo dei tre disputanti, Otane, si presentava come un critico deciso del governo di uno, che è infatti il peggiore perché chi esercita il potere in solitudine è tale che, non dovendo render conto a nessuno di quel che fa, nell’assenza del limite incontra le ragioni dell’avviarsi suo e dello Stato verso la degenerazione. La soluzione proposta da Otane che il governo fosse affidato a uomini adulti che lo esercitassero nel nome dell’eguaglianza, fu contrastata dal secondo interlocutore, Megabizo. Il quale sapeva bene lui pure che nel governo di uno la tendenza alla «violenza» è irresistibile e incontrastata. Ma non nutriva alcuna illusione sulla possibilità che essa fosse evitata dai governi popolari, che infatti ne erano vittime allo stesso modo, o anche più, avendo in meno del tiranno, che talvolta poteva essere dotato di intelligenza e saggezza, proprio queste qualità che, essenziali al buon governo, quasi per definizione erano loro estranee. Sono argomentazioni che si ritroveranno nell’Athenàion politèia (III 8-13) dello Pseudo-Senofonte, e che, anche in riferimento a Erodoto, sono state discusse e commentate, fra gli altri, da Marcello Gigante in La Costituzione degli Ateniesi. Studi sullo Pseudo-Senofonte (1953, pp. 112 e segg.). L’elogio dei «migliori», che, nel discorso di Megabizo e poi dello Pseudo-Senofonte, si avvaleva di argomenti destinati a essere ripetuti per secoli, e quello altresì del buono e savio consiglio («è secondo ragione che riceverete dagli uomini migliori il miglior consiglio») non trovarono in Dario, il terzo interlocutore, un critico deciso quanto Megabizo era stato di Otane. Si potrebbe dire, per conseguenza, che la simmetria per contrasto dei discorsi avesse perduto, in questo punto, la nettezza delle convinzioni emerse dai precedenti due discorsi. Ma solo in parte questo rilievo coglierebbe nel segno. Se il logos di Dario non si contrapponeva per intero al primo era perché si contrapponeva anche al secondo, sì che la forza che, per un verso, perdeva nel duplice riferimento, la ritrovava intera, per un altro, proprio in virtù di questo e della maggiore ampiezza che in tal modo conferiva al proprio oggetto. Del resto, non sarebbe per intero nel giusto chi ritenesse che l’oggetto del logos pronunziato da Dario fosse costituito dai due che lo avevano preceduto. L’argomento di Dario era infatti rivolto non tanto a questa o a quella forma politica e alle sue difettive caratteristiche, non era rivolto ai difensori dell’una o dell’altra. Si riferiva piuttosto all’idea stessa che, quale che essa fosse, potesse nella realtà esserne esente: sì che, di questa natura essendo il suo argomento, e dovendo tuttavia proporre, lui pure, qualcosa di positivo agli argomenti che erano stati addotti dagli altri due, non gli era restato che indicarlo nella virtù dell’uomo che, essendo per sé stesso il migliore, era perciò quello a cui era necessario rivolgersi perché governasse con prudenza e saggezza.
I capitoli del terzo libro delle Storie di Erodoto sono tanto noti quanto importanti. Ma è sembrato giusto ricordarli in modo non troppo sintetico, non solo perché costituiscono il primo (forse) contributo che sia stato dato alla definizione delle essenziali forme costituzionali considerate nelle loro differenze, ma anche per un’altra ragione che pure merita di esser messa in rilievo. Si dà infatti, in questo testo, un contributo significativo, non solo alla psicologia del-l’uomo politico che vive la sua esperienza e rende concreta, nel governo, la forma costituzionale che rappresenta, ma, a partire dalla sua e dalle modificazioni a cui è soggetta, a quella altresì che sembra appartenere alle stesse forme politiche; che sono rappresentate, infatti, nella tendenza degenerativa che è propria di ciascuna, esattamente come se a ciascuna fosse intrinseca un’anima soggetta, al pari di quella umana, alla vicenda della trasformazione e del pervertimento.
Da una parte, per conseguenza, sembra che Erodoto anticipi l’esigenza che condurrà più tardi a prospettare ciascuna forma come una sinossi del positivo e del negativo. Da un’altra, nelle sue pagine è invece come prefigurato il pessimismo per cui dalla considerazione delle forme costituzionali, tutte per sé stesse soggette al destino della degenerazione, si passa a quella dell’uomo che sia in sé stesso «migliore» e questa sua virtù trasmette a quelle; che perciò soltanto in relazione al suo pregio, e non altrimenti, meritano di essere definite. Un argomento, questo, che si ritrova nei dialoghi politici di Platone; e anche in Aristotele.
Ci si è chiesti se, nel delineare il suo quadro costituzionale, Polibio sapesse di Protagora, fra le cui opere Diogene Laerzio (Vite dei filosofi IX 55), indicò un Perì politèias; se fosse informato dell’origine probabilmente sofistica della teoria delle tre forme; se avesse saputo di Isocrate, Panatenaico 119, 132 e di Eschine, Contro Timarco 4 e Contro Ctesifonte 6, citati da von Scala (Die Studien des Polybios, cit., p. 105); se avesse avuto notizia di Ippodamo di Mileto e della sua tripartizione costituzionale (F.W. Walbank, A historical commentary on Polybius, 1° vol., 1957, p. 639), della quale è per altro probabile che avesse tratto informazioni da Aristotele, Politica 1267 b 22, perché non risulta che Ippodamo ne avesse scritto direttamente. D’altra parte, la connessione che è stata proposta fra la tripartizione delle forme politiche e la tesi pitagorica secondo cui «il tutto e i tutti sono definiti dal tre» (Aristotele, De caelo A 268 11) per un verso suscita perplessità per l’estrema distanza che separa, l’una dall’altra, le due tesi, ma non c’è, per un altro, ragione di escluderla se si considera la suggestione che l’idea, secondo cui il «tutto» e i «tutti» sono definiti dal tre, può aver esercitata su menti disposte a imprimere, su una materia empirica com’è quella che concerne il vivere politico, la forma razionale del numero. Nella storia che non senza fatica si può tracciare di questa idea nelle sue due dimensioni (quella delle tre forme semplici e l’altra della «mistione»), l’importanza di Polibio, che è innegabile, consiste, d’altra parte, non nella qualità e nella quantità della sua scienza, non nel grado dell’informazione che, per via diretta o indiretta, poté avere di quanti su questa strada lo avevano preceduto, ma, come Walbank (A historical commentary on Polybius, cit., p. 155) ebbe a notare insieme ad altri, nell’essere stato il primo ad aver posto la teoria greca delle costituzioni e, questa volta, della loro «mistione» al servizio dell’interpretazione, non tanto delle pòleis elleniche, quanto piuttosto di Roma, ossia della città egemone e conquistatrice con la quale lui, greco che era entrato a far parte del circolo degli Scipioni, ebbe un complesso e tormentato rapporto. Per affermare (con Domenico Musti) o per negare (con Arnaldo Momigliano), si è discusso se, abbozzata almeno nelle grandi linee, in Polibio vi fosse una teoria dell’imperialismo. La questione resta controversa. Ma comunque se ne debba giudicare, certo non negabile è che il suo problema fu quello della potenza conquistatrice dei Romani, della importanza imprescindibile della loro costituzione per la comprensione della loro politica espansiva, del destino non necessariamente felice delle conquiste una volta che queste fossero state sottoposte all’ulteriore prova della storia. La questione dell’eccellenza costituzionale si intrecciava perciò con l’altra, destinata a una lunga storia, della Roma eterna o peritura e, a questa luce, di nuovo si proponeva quella dell’aitìa costituzionale, della sua irresistibilità o, alla lunga, del suo possibile fallimento.
Per questo insieme di motivi, sarebbe impossibile, per chi considerasse con attenzione questa dottrina delle forme semplici e poi del loro nesso, sminuirne l’importanza. Ma, soprattutto, chi s’impegnasse a farne la storia dovrebbe far conto della centralità che la teoria polibiana finì per assumere: a causa non tanto della maggiore profondità che, nel trattarla, egli attingesse nei confronti di quella raggiunta da altri, quanto piuttosto, e al contrario, della minore, ossia della semplificazione da lui introdotta in teorizzazioni filosofiche giudicate troppo complesse e sottili per poter essere riproposte e fatte conoscere, per quel che effettivamente erano, a chi della storia avesse avuta l’idea pragmatica che ne aveva lui, e di quella si contentasse. La sua fu, beninteso, una semplificazione assai abile. A esserne sacrificati furono, infatti, non soltanto gli argomenti filosofici che, soprattutto in Platone, accompagnavano il disegno della teoria e ne complicavano il profilo. Furono anche gli esempi storici, le analisi che entravano nelle analisi, aggiungendovisi e aggrovigliandone i fili, gli esempi che si moltiplicavano negli esempi. Del resto, a rendere il quadro da lui dipinto più mosso e suggestivo di quanto l’arida analisi costituzionale di per sé non comportasse, nella trattazione costituzionale, o al margine di essa, egli introdusse il breve excursus che dedicò al problema degli esordi dell’umanità. Di origine essenzialmente stoica non senza, forse, inserzioni epicuree (ma anche su questo le opinioni divergono: cfr. F.W. Walbank, A historical commentary on Polybius, cit., pp. 650-51), questo excursus merita di essere apprezzato per la ragione che già è stata addotta: non tanto per la qualità del racconto, che è piuttosto scialbo, quanto per l’esigenza che gli è intrinseca a non mantenere in un’atmosfera rarefatta, e remota dalla realtà delle cose storiche, la trattazione costituzionale. Sta comunque di fatto che, quando se lo trovò di fronte, a M. riuscì naturale combinare quel che trovava scritto in Polibio con il quadro delle origini che, ottimo conoscitore e trascrittore del suo poema, egli leggeva nel quinto libro del De rerum natura di Lucrezio.
L’altro elemento che della teoria di Polibio, o della sua semplificazione della teoria, contribuisce a fare un punto di riferimento e, per chi cerchi di tracciare le linee di una storia che si presenta comunque difficile, di orientamento, è la forte introduzione nel suo quadro del principio che egli denominò dell’«anaciclòsi», con questo termine intendendo l’avvolgimento delle forme costituzionali in un circolo nel quale esse si succedono le une nelle altre secondo necessità. Ma con questa differenza, che per suo conto M. intuì ed ebbe cura di segnare. Gli schemi possibili erano infatti, al riguardo, due. Il primo prevedeva che ciascuna forma passasse direttamente in quella, positiva ma di diversa natura, che nel circolo le teneva dietro, in modo che la successione avvenisse dalla monarchia all’aristocrazia senza aver fatto conoscenza della tirannide, dall’aristocrazia alla democrazia senza una sosta nell’oligarchia, dalla democrazia di nuovo alla monarchia senza che fosse stata fatta esperienza della sua degenerazione nella demagogia, che Polibio chiamava anche, in senso ulteriormente peggiorativo, «oclocrazia»; e prevedeva altresì che di qui il circolo ricominciasse con la medesima modalità, ossia, come il testo in molti casi specificava, «secondo necessità», così da configurare una «regola interna alla natura» caratterizzata in termini di «necessità». Il secondo schema, che s’intrecciava con il primo e ne complicava, ma pur sempre in modo schematico, la linearità, prevedeva puntualmente quel che nel primo restava escluso, e cioè il passaggio dal positivo al negativo in ogni punto del ciclo: con una conseguenza importante e, rispetto al primo schema, una differenza notevole. Poiché si svolgeva attraverso il succedersi di forme che, nel secondo schema, assumevano tutte il carattere della positività, di una diversa positività; considerato alla luce di questo, il primo conduceva a escludere che, a rigore, si desse, e potesse darsi, il fenomeno della decadenza; che il secondo ammetteva nella forma, per altro, non di una definitiva, bensì di una parziale catastrofe. La «regola della natura» imponeva infatti che, toccato il traguardo della negatività, le cose politiche pervenissero, in una nuova forma, a quello della positività. Ne derivava che la morte delle società umane era bensì prevista, nello schema a sei momenti, ma come morte soltanto parziale, ossia come degenerazione di un governo politicamente sano in uno corrotto. E come autentica morte, come «distruzione della stirpe degli uomini», soltanto in seguito allo scatenarsi di eventi naturali, inondazioni, pestilenze o altro del genere: al di fuori, quindi, della dimensione della politica, e della saggezza oppure dell’insipienza, costituzionali. L’ulteriore questione che, nel segno della physis e della sua oikonomìa, si poneva in modo acuto riguardava la possibilità della «mistione», ossia come fosse possibile che alla «necessità» che le era intrinseca, e rendeva inesorabili i suoi processi, potessero essere imposte un’eccezione, una deviazione, un’alterazione del ritmo, tali che la regola del passaggio fosse modificata in un punto essenziale: e cioè in modo che, invece di transitare dall’una alla successiva, escluse le corrotte, le tre forme sane entrassero le une nelle altre costituendo un ambito nel quale, invece di escludersi, convivessero e realizzassero l’equilibrio politico, il reciproco controllo e così via. Insomma, se alla physis fosse stato conservato il carattere per il quale le forme politiche non potevano svolgersi e succedersi se non in modo lineare, la «mistione» avrebbe dovuto esser dichiarata impossibile. Per renderla logicamente possibile, sarebbe stato necessario che quell’idea della natura fosse sostituita da un’altra in ragione della quale fosse stato ammissibile sia che in essa non avesse agito quella inesorabile disposizione a collocare le forme politiche le une dopo le altre senza eccezione, sia che su di essa potesse comunque aver avuto presa o la saggezza di un singolo legislatore (Solone, Licurgo) o quella con la quale, attraverso i travagli e le contese, i Romani erano giunti al risultato che altri avevano conseguito «mediante il ragionamento». Ma la questione che nasceva da queste riflessioni non era di quelle che appartenessero all’orizzonte intellettuale di Polibio. Il quale, com’è ben noto, ci teneva a tenersi stretto alla prassi, a diagnosticarla e prevederla nei suoi sviluppi senza perdersi fra le sottigliezze dei filosofi: salvo che, in certi casi, a causa delle inconseguenze a cui metteva capo, era proprio questo il costume che faceva insorgere la necessità di provvedere alla loro eliminazione. Non apparteneva invece al suo modo di concepire il racconto della storia e l’analisi dei processi costituzionali, o non vi appartiene almeno con altrettanta necessità, la questione che è stata posta, soprattutto da Walbank (A historical commentary on Polybius, cit., p. 646), se anche la «mistione» fosse destinata a decadere «secondo natura». In realtà, si potrebbe obiettare, se non si ha «mistione» se non sfuggendo alla «necessità della natura» e infrangendo la sua legge, perché quel che ha fatto eccezione alla regola dovrebbe tornare sotto il suo dominio?
La connessione che Polibio stabilì fra la «mistione» e la «regola interna della natura» è, che si sappia, un tratto caratteristico della sua esposizione; alla quale pone perciò problemi che né in Platone né in Aristotele hanno un qualsiasi riscontro. In compenso, chi dovesse affrontare nella loro complessità i temi filosofici, politici, religiosi che s’intrecciano nelle loro opere politiche – la Repubblica, il Politico, le Leggi, per Platone, la Politica, ma anche l’Etica nicomachea per Aristotele –, si troverebbe dinanzi a un compito nei confronti del quale la limitazione dell’analisi al rilevamento dei temi concernenti la differenza delle forme costituzionali e eventualmente la loro sintesi subito rivelerebbe la sua angustia. I confini entro i quali questa breve storia deve svolgere il suo filo sono, d’altra parte, segnati con nettezza e non possono né debbono essere oltrepassati. Essendo obbligatorio muoversi nel loro interno, per cominciare conviene rilevare che, nell’analisi delle forme costituzionali svolta nella Repubblica, Platone ne enumerò ben più di tre; sì che, seguendola, subito ci si avvede che la classica distinzione di esse in relazione all’uno, ai pochi e ai molti rivelava la sua insufficienza e poneva il lettore delle sue pagine nella necessità di seguirne gli svolgimenti ben al di là di quella semplice enumerazione. Non era, come subito risulta chiaro, questione soltanto di numeri, ossia se le forme politiche fossero tre o più di tre. La questione concerneva le complicazioni concettuali che immediatamente vengono in primo piano e costituiscono esse la vera questione. Certo, in Repubblica 338 D 7-8, a Trasimaco che proclamava con molto impeto le sue idee riduttive di ogni diritto alla forza e alla sua irresistibile legge, Socrate chiedeva se, per caso, non sapesse quel che di necessità doveva sapere, e cioè che «alcune città sono rette a tirannide, altre da regimi democratici, altre ancora da regimi aristocratici», e che insomma tre erano le loro forme possibili; quella che traeva il suo carattere dall’uno essendo definita come tirannide a causa, forse, dell’oscillazione che ancora qui si registra fra questo termine e quelli della monarchia e della «basileia», che soltanto in determinati contesti si contrapporranno al primo, che così ne rivelerà uno negativo, con il carattere della positività. Che, comunque, qui si abbia una tripartizione di forme e questa abbia il suo criterio non nel positivo o nel negativo riscontrabili in esse, ma nella diversa organizzazione del potere, è ovvio: salva l’avvertenza che, nel dibattito da Socrate intrapreso con quel tracotante sofista, il punto in questione riguardava assai meno la tripartizione delle forme politiche che il concetto dell’utile, se fosse diverso a seconda che si trovasse a essere esercitato nell’una o nell’altra, o lo si dovesse considerare in relazione a un più rigoroso criterio, con il quale a essere affisato era il volto, non dell’«interesse del più forte» ma della giustizia. Insomma, la questione filosofica aveva avuto la meglio su quella politica, giuridica, costituzionale: a meno che non si preferisca dire che la vera questione era filosofica, e le altre dovevano essere ricondotte sotto il suo segno. Se non proprio nello stesso, in modo comunque non dissimile perché concernente l’educazione e le leggi fondamentali della polis, alla fine del quarto libro, da tre che erano stati all’inizio, cinque erano diventate le forme costituzionali, e ciascuna corrispondeva alle «forme dell’anima». Il punto essenziale era allora che, se il tipo di costituzione passato in rassegna e descritto in quella parte dell’opera era definibile come «basileia», quando la prevalenza fosse stata di un sol uomo, o come «aristocrazia», quando fosse stata di più di uno, la cosa essenziale era tuttavia che, da parte dell’uno o dei pochi, si esercitasse il rispetto delle leggi della città, una volta, beninteso, che costoro fossero stati allevati secondo la forma dell’educazione descritta in quel libro. La prevalenza dell’elemento che, in linguaggio moderno, si direbbe etico su quello politico e giuridico, si rivelava, del resto, anche nel luogo (543 D) famoso in cui Platone parlò del pericolo – da lui avvertito allora nella costituzione di Sparta – che l’aristocrazia si trasformasse in timocrazia attraverso il peso eccessivo dato, appunto, all’onore. Si rivelava altresì nell’altro luogo (557 A 2-B 2), famoso anch’esso, in cui egli descrisse l’insorgere della democrazia e della degenerazione che, essendo all’origine della sua nascita, era da essa potenziata tanto che, nella confusione che vi regnava nel segno della libertà, era come se tutte le costituzioni vi fossero contenute e ciascuno potesse a suo piacimento scegliere per sé quella che più gli piacesse e giudicarla perciò bellissima perché, comprensiva di tutte, era come se di tutte fosse un autentico bazar.
Si è detto spesso che, assente nella Repubblica, dove di una «mistione delle costituzioni» in effetti non si parla, l’idea della c. m. compaia, prima che nelle Leggi, nel Politico. Ma, a rigore, non è propriamente così. In questo dialogo, a 291 C 3-6, il Forestiero d’Elea si era proposto di guardare a fondo nella questione delle costituzioni politiche, sfuggendo alle insidie oratorie dei sofisti, maestri dell’illusione. Aveva cominciato con la monarchia, di cui non sarebbe stato possibile negare che fosse una delle forme costituzionali di cui si aveva esperienza. Aveva proseguito nominando il governo dei pochi, o aristocrazia. A questa aveva fatto seguire la democrazia. Μa – quasi cedendo al gusto ironico della distinzione – subito da tre le forme erano, come nella Repubblica, salite a cinque. Le prime due, infatti, l’aristocrazia e la monarchia, pativano in sé la divisione provocata da quello che potrebbe denominarsi il loro opposto degenerativo. Sulla via del degrado, all’aristocrazia seguiva infatti l’oligarchia, alla monarchia teneva dietro la tirannide, soltanto la democrazia essendo libera dal destino di una duplice denominazione. Ne discendeva che, sebbene Platone si fosse limitato a indicare l’esistenza di due nomi per lo stesso disegno costituzionale, e avesse perciò evitato di presentare le prime due forme come, per natura, attese dalla decadenza, era indubitabile che, sottolineando l’impossibilità che per la democrazia esistesse un sinonimo contrario, la degenerazione era tout court la sua essenza. Il che, per altro, non lo induceva a prendere senz’altro per buone le forme delle quali si avevano due nomi. La questione era, per lui, quella della «scienza» che doveva essere in possesso del monarca o dei pochi ai quali spettava di governare i rispettivi reggimenti politici: come il Forestiero d’Elea diceva senza mezzi termini in 293 E 5-D 2, era indispensabile che per retta costituzione s’intendesse quella che si trovava a essere affidata alle cure di uomini savi e competenti. Erano infatti costoro a determinarne il carattere in termini di positività, al di qua o al di là della definizione che dovesse darsi della sua forma costituzionale.
Se la «mistione» fosse presa nell’accezione polibiana e tre, per conseguenza, fossero le forme incluse nella sua sintesi, nemmeno nelle Leggi sarebbe, a rigore, possibile trovare qualcosa di simile. La mescolanza di autorità e libertà, che in questo dialogo così arduo e di inusitata lunghezza Platone mostrò di avere in mente, implicava niente più che il temperamento della violenza che, inevitabilmente, avrebbe dato segno di sé e mostrato il suo volto distruttivo se quelle due attitudini – appunto l’autorità e la libertà – fossero state lasciate a sé stesse e messe perciò in grado di svolgere tutta intera la loro distruttiva potenza. Il tema, destinato a lunghissima fortuna, della autorità orientale che rendeva servi e vili i popoli, e della libertà occidentale, che li faceva liberi ma sfrenati, questo tema che s’incontra anche in Aristotele conobbe qui la sua più ampia e articolata espressione, così come, per converso, di qui nacque l’idea della necessità che l’una desse all’altra la sua parte migliore. L’autorità non doveva fare della legge uno strumento di mortificante coercizione. La libertà non doveva oltrepassarla, ponendo come regola, in alternativa a essa, il suo arbitrio. Ma il vecchio Platone sapeva che le cose umane sono complesse e restie a lasciarsi guidare dalla sapienza e dall’educazione. Sapeva anche che la civiltà ateniese non aveva retto alla sfida che a essa proveniva dalla sua democrazia e che le sue ambizioni erano naufragate. Nacque di qui il sentimento filospartano che anima questo dialogo, e che ha dato luogo a tante discussioni e interpretazioni. Ma la diarchia spartana, che trovava negli efori e negli anziani il suo punto di equilibrio, presupponeva una bipartizione, non una tripartizione di forme. La «mistione» rinvenibile in questo dialogo era dunque, nella migliore delle ipotesi, una sintesi di due, non di tre momenti costituzionali. E ancor più che di momenti costituzionali, lo era delle attitudini psicologiche e morali che, con la loro tendenza alla violenza e al conseguente oltrepassamento del limite, ne costituivano lo spirito profondo. Era perciò lontana dalla «mistione» quale era stata concepita da Polibio, e che M. avrebbe ripresa da lui, e non da Platone.
Nella storia di questa idea – che è insieme, ma anche distintamente storia delle analisi consacrate alle tre forme e, quindi, alla loro mescolanza in una forma sintetica – l’importanza del pensiero politico e costituzionale di Aristotele è, come è ovvio, fuori discussione. Ma, sebbene non sia questa la sede in cui si possa distesamente trattarne, conviene proporre un’avvertenza, che alla sua importanza non toglie, bensì piuttosto aggiunge un elemento essenziale. La riduzione del discorso concernente le costituzioni all’indicazione di ciò che, schematicamente, le oppone le une alle altre (l’uno, i pochi e i molti) è, in senso proprio, una riduzione; e cioè un impoverimento della straordinaria ricchezza analitica che della Politica fa un’opera fondamentale per l’intelligenza, non solo della riflessione politica ma della storia delle pòleis greche. Essenziale, per la comprensione, è che, anche per quest’opera e per quel che vi è ragionato, sia richiamato il principio che vale in sede logica e metafisica: e cioè quello per cui come l’essere «si dice in molti modi», così anche è, e deve essere, per le forme costituzionali: almeno nel senso che ciascuna di esse è bensì, innanzi tutto, sé stessa, ma non senza che nella sua trama sia dato di scorgere anche il profilo delle altre. Ne deriva che, per un verso, i due elementi fondamentali della realtà costituzionale – e cioè, da una parte, il governo monarchico, da un’altra l’aristocrazia – richiedono di essere previamente giudicati non solo per sé stessi, e perciò cercando di decidere quale dei due sia in astratto il migliore, ma in concreto: come si vede dalle straordinarie pagine del terzo libro, che, dedicate a questo confronto, offrono un esempio eminente di un’attitudine storiografica che, se queste distinzioni avessero sul serio un senso, farebbe della Politica un classico, oltre che del pensiero politico, della storiografia. Altro era infatti il giudizio che doveva darsi della monarchia quale era nei tempi arcaici, e altro quello concernente la sua forma quale si trovava a essere in seguito alle trasformazioni che a essa erano state imposte dalle cose, sia che tali trasformazioni fossero dovute alla decisione del re di privarsi di determinate quote di potere sia che queste privazioni gli fossero state imposte da forze emergenti all’interno del principato. Con l’occhio rivolto all’evoluzione storica, Aristotele vi distingueva perciò quattro momenti, ai quali aggiungeva un quinto che, senza necessariamente essere tale nei riguardi del tempo storico, lo era in quanto caratterizzato dalla trasformazione che, in certi casi, il potere politico subiva in potere familiare e la sua forma veniva con ciò a rappresentare il momento di massima degenerazione. La tendenza a distinguere, e quindi, a sottodistinguere, che costituisce il pregio delle analisi costituzionali di Aristotele, era presente del resto anche in quelle da lui dedicate alla forma aristocratica, e altresì a quella democratica. Non è possibile seguirle, e commentarle come meriterebbero, in una sede come questa. Ma non si può invece non rilevare che, anche in lui, era presente un criterio che si ritrova in molti documenti del pensiero politico greco, quale che ne fosse stato, di volta in volta, l’orientamento specifico. Non prima, per altro, di aver notato che – a differenza di Platone, che la detestava in ogni sua manifestazione – senza essere propriamente un teorico della democrazia e un pensatore democratico Aristotele riteneva che la collettività fosse meglio disposta dell’uno e dei pochi a giudicare circa le cose di comune interesse. Le attribuiva, soprattutto, una migliore capacità di resistere al morbo della corruzione; e questo, com’è facile comprendere, non era un riconoscimento di poco conto. Il criterio richiamato qui su era invece quello che potrebbe esser fatto consistere nell’elogio rivolto alla legge; che, come suona una sua celebre sentenza, non conosceva la passione e, escludendo che, com’è giusto, ciascuno avesse, nella polis, più potere di quello che subiva, faceva in modo che in questa regnasse l’eguaglianza.
Questo breve profilo ha preso l’avvio non dall’inizio, ma, a causa dell’importanza che il sesto libro delle sue Storie riveste per il pensiero di M., da Polibio; e cioè da un autore appartenente non all’alba di questa teoria, ma al suo pieno meriggio. Partendo da lui, il discorso si è svolto a ritroso, incontrando pensatori e scrittori che furono, forse, presenti a Polibio quando era impegnato a schematizzare, a semplificare, a sistemare i pensieri che vi trovava. Ad alcuni di questi autori si è fatto cenno, ad altri si è dedicata qualche maggiore attenzione. Chi intendesse informarsi sugli svolgimenti che la teoria della c. m. ebbe negli ambienti pitagorici, ai quali anche Cicerone (ad Attico 13, 32, 2) fece riferimento quando s’interessò di Dicearco di Messana e del suo Tripolitikòs, può ancor oggi ricorrere all’opera di Armand Delatte, Essai sur la politique pythagoricienne (1922).
Bibliografia: Oltre alle edizioni commentate dei Discorsi (→), si veda G. Sasso, Machiavelli e la teoria dell’«anacyclosis» e Machiavelli e Polibio, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 3-65, 67-118 (dove si trova indicata anche la letteratura critica precedente).