Costituzione
di Vezio Crisafulli e Aldo M. Sandulli
COSTITUZIONE
Costituzione di Vezio Crisafulli
sommario: 1. Molteplicità di significati. 2. La costituzione in senso politico-ideologico. 3. Influenza del ‛costituzionalismo' ottocentesco sul concetto moderno di costituzione. 4. La costituzione in senso formale: costituzioni ‛rigide' e costituzioni ‛flessibili'. 5. La costituzione in senso materiale. a) Il problema. b) Alla ricerca di una definizione. c) La costituzione identificata con le norme sulla legislazione. 6. Dalla costituzione ‛in senso materiale' alla costituzione ‛materiale' negli orientamenti a indirizzo politico-sociologico della dottrina contemporanea. 7. Costituzione materiale, limiti alla revisione costituzionale e problema della identità-continuità dello Stato. □ Bibliografia.
1. Molteplicità di significati
Diversi sono i significati che la parola ‛costituzione' assume nell'ambito del pensiero politico-giuridico: nel quale, d'altronde, al pari delle equivalenti espressioni che si ritrovano in altre lingue, deve considerarsi acquisizione relativamente recente.
Diversi, un po' a causa della varietà (subiettiva) delle concezioni che ne sono state elaborate nella dottrina e dei relativi presupposti, anche di ordine gnoseologico e metodologico; molto, però, e soprattutto, per la ben più profonda ragione che, dietro la parola, non c'è - neppure circoscrivendo l'indagine al fenomeno ‛Stato' quale si configura nell'era moderna - un solo, pur se complesso, oggetto (e già tale sua complessità giustificherebbe la varietà dei punti di vista dai quali è suscettibile di essere riguardato). Il fatto è che gli oggetti cui si allude, accomunandoli sotto il medesimo segno linguistico, sono più di uno, dando luogo, per ciò stesso, a concetti distinti e diversi (anche se tra loro interferenti e influenzantisi a vicenda, come si vedrà nel corso della esposizione).
Altro è, ad esempio, il ‛dato' concretantesi in un testo normativo scritto, deliberato o elargito come ‛la costituzione' di uno Stato determinato, altro il dato dell'esistenza, nell'ordinamento preso in esame, di certi istituti e norme ‛fondamentali e condizionanti' (che si tratta poi di individuare per il loro contenuto o per il loro oggetto); altro esso sarà ancora, se, passando oltre a testi e a norme, considerati, quelli e queste, come epifenomeni, la realtà della costituzione voglia rintracciarsi nella sottostante struttura socio-politica, o nella struttura socio-economica, della comunità statale, e via dicendo.
Vengono con ciò stesso segnati il metodo e i limiti della presente trattazione: la quale, come non potrebbe passare analiticamente in rassegna tutte le possibili accezioni della parola (e cioè, tutti i diversi concetti che la parola è suscettibile di esprimere), così nemmeno potrebhe utilmente pretendere di aggiungervene per proprio conto, o sovrapporvene, un'altra, asserendone la ‛verità' (o, più semplicemente, la maggiore esattezza). Bisognerà invece procedere a certe scelte, tratteggiando i punti di vista e le corrispondenti definizioni che sembrano più significativi (ed è superfluo aggiungere che scelte siffatte non potranno non essere in qualche modo ‛arbitrarie'); nell'intento, soprattutto, di portare un minimo di chiarezza e di ordine in una problematica, per sua natura, più ancora che complessa, intricata e spesso confusa.
Una trattazione ‛aperta', quindi: rivolta piuttosto a suggerire motivi di riflessione, che non a squadernare una serie di notizie manualistiche o a fornire con presuntuosa sicurezza risultati compiuti.
Ferme restando queste avvertenze, il significato di costituzione che, logicamente, incontriamo per primo è quello designato per lunga tradizione dottrinale come ‛materiale' (o ‛sostanziale'), perché ha riguardo alla intrinseca natura del fenomeno, prescindendo dai modi e dalle forme in cui esteriormente si manifesta (rilevanti, invece, quando la costituzione venga in considerazione sotto l'aspetto che suol dirsi ‛formale'), come pure dai particolari contenuti politico-ideologici, specificamente propri di un determinato tipo storico di costituzioni (v. sotto, cap. 2).
In linea di primo approccio, l'idea di costituzione in senso materiale richiama, conformemente all'etimo della parola, quel che ‛costituisce' l'ente (ordinamento), vale a dire il complesso delle condizioni necessarie per il suo esserci. Così intesa - è chiaro - una costituzione si rinviene in qualsiasi fenomeno sociale che abbia struttura unitaria e sia, quindi, giuridicamente ordinato (come del resto, più largamente, vi è pure una costituzione dei corpi naturali, delle molecole, degli organismi viventi, ecc.); ed è scientificamente accettato, infatti, che si parli di costituzione della Chiesa cattolica, ad esempio, o della comunità internazionale, oltre che di costituzione dello Stato (e anzi, delle costituzioni degli Stati, al plurale).
Vero è che, per quel che di solenne sembra accompagnare la parola e per le rappresentazioni che essa psicologicamente finisce ormai per evocare quando abbia riferimento all'esperienza sociale, l'uso comune si mostra invece alquanto restio ad estenderne l'ambito di applicazione ai minori ordinamenti, pubblici e privati, infrastatuali, con riguardo ai quali trova più spesso impiego l'espressione ‛statuto' (‟Ma gli statuti di private società nessuno direbbe costituzioni", si legge nel Dizionario dei sinonimi del Tommaseo; e bisogna dunque aggiungere, nemmeno quelli degli enti pubblici minori). Ciò non toglie che - qualitativamente - analogo sia il fenomeno cui si fa riferimento negli uni e negli altri casi, e perciò l'idea che si vuole esprimere: com'è dimostrato, a tacer d'altro, dal rilievo che ‛statuto' (e sia pure, magari, con la iniziale maiuscola) è, poi, il termine generalmente adoperato, anche nel linguaggio delle scienze politico-giuridiche, a indicare una specie particolare di costituzioni (statali), tra le quali rientrava il nostro vecchio Statuto albertino (statuto come costituzione octroyée o ‛Carta', in contrapposizione allora a costituzione, deliberata invece dal popolo o, per esso, dai suoi rappresentanti). E ad ulteriore conferma può rammentarsi, più che altro a titolo di curiosità, che di recente, in Italia, la fase di elaborazione degli statuti delle neo-istituite Regioni di diritto comune (che sono enti pubblici territoriali infrastatuali, non sovrani, ma ‛autonomi') è stata chiamata, nel gergo politico corrente e in larga parte della letteratura giuridica, fase ‛costituente': denominazione che rivelava, bensì, un intento amplificativo ed enfatizzante, e tuttavia, per quanto si è qui venuti dicendo, non propriamente inesatta.
Ma, per tornare allo Stato, così evidente e necessaria è l'inerenza ad esso (ad ogni Stato ‛esistente') di una costituzione, pur tenendo nel debito conto l'elasticità, e al limite, l'ambiguità del concetto che la parola è suscettibile di esprimere, che si è potuto, muovendo dai più diversi punti di vista (sempre, però, nel contesto di correnti dottrinali orientate in senso sociologico), giungere a identificarli l'uno con l'altra.
Si è affermato, per esempio, che lo Stato non ‛ha', ma ‛è' la costituzione, come concreta unità politica e ordine sociale (ed ‛è', infatti, più specificamente, una monarchia o una repubblica; una aristocrazia o una democrazia, perché e in quanto effettivamente ‛costituito' nell'una o nell'altra forma): così, richiamandosi anche al pensiero dell'antica filosofia greca, C. Schmitt (v., 1928, p. 4), che però a questo primo e generico concetto altri ne fa seguire e sviluppa, come si dirà più oltre (v. cap. 6). Dove, com'è chiaro, per costituzione s'intende l'ordine ‛esistenziale', e cioè lo stabile assetto del gruppo statale, descritto per come realmente è: oscillandosi tra un significato latissimo della parola, per cui la costituzione finisce per coincidere con quell'ordine nella sua totalità (e in questo senso, appunto, lo stesso Schmitt può concludere che lo Stato cesserebbe di esistere, ove tale ordine concreto venisse a mancare), e un significato più specifico (e vicino a quello usuale), circoscritto, invece, alla forma che l'organizzazione assume limitatamente ai suoi aspetti o momenti, come suol dirsi, ‛fondamentali'.
2. La costituzione in senso politico-ideologico
Ciò nonostante, vi è pure un concetto di costituzione che sorge e si afferma in un certo momento della evoluzione storica: in base al quale si contrappongono forme di Stato ‛costituzionali' e forme che sarebbero invece ‛non costituzionali', quasi che taluni Stati soltanto abbiano ‛una costituzione', a differenza di altri che, viceversa, ne sarebbero sprovvisti.
È fin troppo noto che la rivoluzione liberale borghese, tra la fine del sec. XVIII e la prima parte del sec. XIX, si è fatta sotto la parola d'ordine della costituzione: i popoli reclamavano ‛la costituzione', oppure erano gli stessi principi che, sotto la pressione della pubblica opinione, elargivano ‛statuti' e ‛carte' costituzionali. Perciò di Stato ‛costituzionale' o ‛a governo costituzionale' si è parlato e si parla con riferimento a un tipo storico di ordinamento statale, che all'incirca corrisponde al cosiddetto ‛Stato moderno' (o ‛Stato di diritto'), scaturito dalla rivoluzione liberale e organizzato sulla base di principi politici determinati.
In realtà, la polemica e le rivendicazioni del ‛costituzionalismo' liberale e democratico ‛ottocentesco' esprimevano la duplice esigenza: 1) di dare allo Stato ‛una certa costituzione', ossia un particolare tipo di ordinamento, diverso da quello assolutistico e feudale, e che anzitutto garantisse una serie di libertà individuali, ritenute patrimonio essenziale della persona umana, circoscrivendo e limitando in conseguenza l'azione del potere (e realizzando così, in pratica, le condizioni necessarie alla emancipazione politica e al pieno sviluppo economico della borghesia); 2) di ‛una costituzione scritta', e anzi, più specialmente, consacrata in apposito testo distinto dalle (altre) leggi, per la maggior garanzia che il fatto stesso della enunciazione espressa dei nuovi principi (e tanto più se fatta in apposito documento rivestito di forme solenni) avrebbe agli stessi conferito nei confronti di tutti, governanti e governati.
Infatti, il passaggio dallo Stato assoluto allo ‛Stato moderno', nel senso restrittivo e antonomastico testé accennato, coincide ovunque - ad eccezione soltanto dell'Inghilterra, dove il passaggio si è venuto attuando gradualmente attraverso una lenta evoluzione storica, ma che ci offre, tuttavia, nell'Instrument of Government del 1653 un esempio ante litteram di carta costituzionale nel senso moderno - con le prime costituzioni scritte (da quelle delle singole repubbliche nordamericane, a quella federale del 1787, alle costituzioni della Francia rivoluzionaria): coincide, cioè, con il sorgere dei documenti costituzionali, enuncianti i nuovi principi dell'ordinamento statale.
Più specialmente, può dirsi che alle esigenze indicate al punto 1) corrisponde l'ideologia politica della costituzione, come ordinamento dello Stato informato a determinati principi e articolantesi nelle strutture a questi adeguate (paradigmatico in questo senso l'art. 16 della Dichiarazione francese del 1789, per la quale: ‟toute societé dans laquelle la garantie des droits n'est pas assurée ni la séparation des pouvoirs déterminée, n'a point de constitution"). A sua volta, alla esigenza di cui al punto 2) corrisponde il concetto di costituzione come ‛documento', vale a dire come una particolare legge tra le altre, differenziantesi per il nome (‛costituzione', o anche ‛statuto' o ‛carta' o ‛legge fondamentale'), nel testo della quale quei principî e quelle strutture sono formalmente consacrati.
Il caso che lungo tutto lo scorso secolo ricorre abitualmente è quello della coincidenza tra la costituzione nel senso della ideologia politica liberal-democratica e la costituzione come documento (costituzione, come alcuni dicono, in senso ‛strumentale'). Ma non può escludersi che si abbia una costituzione nel senso politico della parola, senza però che essa sia redatta per iscritto in apposito documento (l'ipotesi si verifica concretamente, come già accennato, per l'Inghilterra, che ha una costituzione liberal-democratica avanzatissima, ma non possiede una costituzione in senso formale). Così come nulla vieta, all'inverso, che un regime assolutistico si rispecchi, tuttavia, in un suo documento costituzionale: che ci sia, in altri termini, costituzione in senso formale, anche dove manchino i contenuti storicamente caratteristici delle forme di governo dette, per antonomasia, ‛costituzionali'. Esemplare, in questo senso, il caso della Kongeloven (o lex regia), data da Federico III alla Danimarca nel 1665 (e durata sino al 1849), che instaurava quella che è stata definita la monarchia più assoluta dell'epoca, e presentava, formalmente, molte delle caratteristiche proprie di una vera e propria costituzione scritta, così come modernamente siamo avvezzi a concepirla.
D'altronde, lasciando da parte l'assolutismo, che appartiene ormai al passato, l'Unione Sovietica ha una sua costituzione, in senso documentale o strumentale che dir si voglia, che tuttavia deliberatamente respinge alcuni dei principi propri del costituzionalismo ottocentesco (e non risponde perciò al concetto ‛politico' di costituzione); e un discorso analogo vale, con qualche diversità da caso a caso, per gli Stati socialisti sorti dopo la seconda guerra mondiale.
Lo scambio, che diventa contrapposizione, anche se non sempre consapevole, tra i diversi significati emersi già da quanto si è fin qui detto (costituzione in senso materiale, e costituzioni scritte, politicamente orientate in un determinato senso; costituzione come tutto, o come una determinata parte della organizzazione statale), affiora continuamente nelle dispute dottrinali originate dalla Rivoluzione francese del 1789, largamente esemplificate da C. H. Mcllwain (v., 1947, pp. 12 ss.), e da G. Burdeau (v., 19692, pp. 21 ss.).
Così, a chi, in Francia, proprio alla immediata vigilia della rivoluzione, domandava, in chiave polemica, dove mai fosse la costituzione francese, chi l'avesse fatta, in quali testi fosse codificata (con chiaro riferimento, al tempo stesso, ad una nozione restrittiva della costituzione, come ordinamento supremo e fondamentale, e al concetto politico-ideologico, che doveva poco dopo decisamente affermarsene), si rispondeva dai ‛conservatori' invocando le lois fondamentales de la Monarchie (con riferimento, bensì, alla nozione restrittiva, ma anche, per altro verso, alla costituzione in senso materiale, ad un concetto, cioè, politicamente ‛neutrale').
E quando, in quest'ultimo ordine di idee, veniva addotta l'assurdità di pretendere che uno Stato quale la Francia, gagliardamente esistente da milletrecento anni, non fosse mai stato ‛costituito'; o quando, risalendo ancora più indietro nel tempo, J. B. Bossuet, parlando di quella stessa Francia che, alla stregua del concetto politico di costituzione (nel senso del ‛costituzionalismo'), ne sarebbe stata priva, affermava che ‟la France peut se glorifier d'avoir la meilleure constitution d'État qui soit possible" (v. Jallut, 1956, p. 35), il punto di vista dal quale ci si collocava era, del pari, quello materiale, e probabilmente anche dell'accezione esistenziale e più lata della parola (nel senso, all'incirca, assuntone dallo Schmitt, nel passo in precedenza rammentato).
3. Influenza del ‛costituzionalismo' ottocentesco sul concetto moderno di costituzione
La diffusione crescente del ‛costituzionalismo', e più tardi del democratismo liberale, fin quasi a ricoprire l'intera area della geografia politica del mondo occidentale, ha portato, com'è agevolmente comprensibile, a dare sempre minor rilievo alla nozione politico-ideologica della costituzione, essendo venute a cessare quelle forme assolutistiche, che ne avevano rappresentato l'originario antagonista. Tanto che quella nozione, sorta in un determinato contesto storico, poté sembrare a un certo momento, nello scorcio tra la seconda metà del sec. XIX e gli anni precedenti la prima guerra mondiale, praticamente superata e svuotata ormai della sua iniziale carica politica.
Molte cose, però, nella storia, tornano o si riproducono, anche se sotto aspetti mutati. Ed ecco, ai giorni nostri, che la nuova contrapposizione tra Stati a regime ‛totalitario' e Stati a regime liberal-democratico è venuta in qualche modo a restituire vigore e ragion d'essere agli orientamenti dottrinali che tendono a fissare il concetto di costituzione nei termini corrispondenti ad un modello ‛ideale', caratterizzato essenzialmente da una determinata concezione delle libertà individuali e delle connesse garanzie.
Già ad un simile modello si riferisce, ad esempio, B. Mirkine-Guétzévitch (v., 1931, p. XI), quando definisce la costituzione ‟una tecnica della libertà". Ma si pensi ai più espliciti svolgimenti di C. J. Friedrich (v., 1950, pp. 33 e 173 ss.), che - in un ordine concettuale, peraltro, dichiaratamente di scienza politica - vede nella costituzione ‟l'istituzione e il mantenimento di limitazioni efficaci all'azione politica", con specifico riferimento all'azione governativa (la costituzione, dunque, come limite al potere). Né molto diverso è, per questa parte, il pensiero di un autore come F. A. Hermens (v. 1964; tr. it., pp. 197 ss.), il quale, dopo avere identificato la costituzione (evidentemente, in senso materiale) nella ‟forma politica", precisando impeccabilmente che ‟ovunque c'è uno Stato, c'è una forma politica" (e quindi anche, parrebbe, una costituzione), finisce poi per contraddirsi escludendo ‟dal senso vero e proprio del termine" (?) tutte le ‟forme di governo illegittime" (?), esemplificate nella monarchia assoluta e nella ‟dittatura".
Questi pochi cenni, benché sommari, permettono di scorgere l'influsso decisivo e duraturo che, per un verso introducendo il concetto politico-ideologico della costituzione ‛per antonomasia' e per altro verso inaugurando la prassi, oggi assolutamente dominante, delle costituzioni scritte, il ‛costituzionalismo', fiorito tra la fine del sec. XVIII e il sec. XIX, nel clima culturale del razionalismo illuministico, ha esplicato sul formarsi di una distinta consapevolezza e sulla successiva elaborazione dottrinale del concetto neutrale di costituzione, in senso, invece, materiale, che tuttavia - astrattamente - se ne distingue, e anzi gli si contrappone.
Lo stesso uso generalizzato della parola, pur nelle varie sue accezioni moderne, ha inizio a partire da quel periodo storico. Nel mondo antico greco-romano, infatti, prescindendo da qualche caso sporadico che talora si adduce traendolo, per solito, da Cicerone: ‟illa praeclara constitutio Romuli" (De rep. II, 31, 53), ad esempio; e anche, descrivendo la repubblica romana come forma mista, ‟haec constitutio" (ibid., I, 45, 69), il vocabolo o era assente (e vi corrispondevano semmai, più o meno puntualmente, espressioni come politeia o status rei publicae), o indicava tutt'altra cosa, e precisamente le ‛costituzioni' imperiali, che, come poi quelle pontificie, sono semplicemente una particolare specie di atti normativi tra gli altri, sia pur dotati, per la loro provenienza dal sovrano, di maggiore autorità, che nessun legame peraltro ricollega all'idea, più o meno generica, di costituzione dello Stato. E in seguito, lungo tutto il travagliato processo di formazione dello Stato (modernamente inteso, come ente territoriale sovrano, quale ne sia il regime politico), erano, semmai, le ‛leggi fondamentali del regno' (o ‛della monarchia'), che possono, con molta cautela, assimilarsi alla costituzione così come modernamente la si intende, nell'una o nell'altra accezione.
D'altro canto, è lecito congetturare (anche qui, con le dovute cautele) che al definitivo affermarsi della parola - con limitato riferimento, dapprima, ai documenti consacranti un certo tipo di ordinamenti politici; e con più largo riferimento, poi, a qualsiasi costituzione, anche non scritta e ispirata a diversi od opposti principî - abbia in qualche misura contribuito quel precedente e diverso uso, nel quale la parola stava a designare singoli atti del sovrano: se è vero, com'è stato acutamente rilevato dal Burdeau (v., 19692, pp. 24 ss.), che dall'idea moderna di costituzione (anche materialmente intesa, anche se prevalentemente consuetudinaria) è inseparabile un elemento di volontarietà razionale, e perciò l'idea della imposizione o dell'autoimposizione di un ordinamento ‛voluto' (e non passivamente ‛subito' come mero ordine naturalistico).
4. La costituzione in senso formale: costituzioni ‛rigide' e costituzioni ‛flessibili'
Ogni volta, dunque, che ci sia costituzione scritta, esteriormente formalizzata in uno o più testi legislativi, può correttamente parlarsi di costituzione ‛in senso formale'.
A volte, tuttavia, costituzione formale sta a indicare, in senso restrittivo, una più particolare specie di atti costituzionali, ai quali in un determinato ordinamento sia riconosciuta, in ragione della loro forma tipica, diversa da quella di ogni altro atto normativo, una particolare forza giuridica, detta perciò ‛formale': che si concreta in una posizione di preminenza, giuridicamente rilevante, rispetto a tutte le altre fonti di diritto dell'ordinamento considerato (costituzione come legge suprema o ‛superlegge'). Quando ciò avviene, com'è il caso della Costituzione italiana del 1948, la costituzione si dice ‛rigida', ad esprimere che è modificabile soltanto attraverso procedure e in forme differenziate rispetto a quelle della legislazione ordinaria (leggi formalmente costituzionali). ‛Flessibili', invece, sono quelle modificabili dalle comuni fonti primarie dell'ordinamento rispettivo (praticamente, con riguardo ai moderni ordinamenti statali: dalle leggi ordinarie o da provvedimenti adottati sulla base di queste).
È da avvertire, peraltro, che, anche quando la costituzione è flessibile, essa riveste, almeno in alcune sue parti, che sono poi quelle cui, per comune sentire, si attribuisce carattere materialmente costituzionale, un valore ‛politico' maggiore rispetto alle restanti leggi ordinarie. Anche se queste ultime possono - come possono, giuridicamente - innovare o derogare a ogni disposizione contenuta nei testi costituzionali, è vero tuttavia che siffatti mutamenti e deroghe sono, in pratica, più difficili; incontrano più tenace opposizione nelle forze politiche attive e nella pubblica opinione; sono spesso deliberatamente evitati per ragioni di ‛correttezza'; giustificano, se e in quanto posti in essere, censure di incostituzionalità, che possono avere un peso considerevole pur se soltanto sul terreno politico (mancando, in regime a costituzione flessibile, un controllo di costituzionalità materiale delle leggi). In questo senso, rilevava O. Jellinek che anche nei paesi retti da costituzioni flessibili ‟v'è un certo numero di istituzioni fondamentali, alle quali, in forza di situazioni storiche, politiche e sociali, si attribuisce una stabilità maggiore che non ad altre" (v. Jellinek, 19143, p. 534).
5. La costituzione in senso materiale
a) Il problema
Una costituzione scritta e, a maggior ragione, una costituzione formale, nel senso restrittivo di rigida, possono, dunque, esserci come non esserci, e comunque può ben darsi (ed è, anzi, accadimento frequente) che comprendano disposizioni concernenti materie che soltanto per motivi politici contingenti sono state in esse disciplinate e non, invece, materie che dovrebbero ritenersi, ‛in sé', costituzionali: ciò si verifica in special modo allorché la costituzione è rigida, per l'interesse delle forze politiche costituenti a ‛privilegiare', sottraendoli al mutevole arbitrio delle (semplici) maggioranze future, oggetti da esse considerati di importanza qualificante.
Di qui l'esigenza, spesso avvertita, di ricercare un altro e più vasto concetto di costituzione, generalmente valido perché indipendente, come detto all'inizio, da elementi e vicende formali. L'esigenza, cioè, di determinare in che cosa intrinsecamente consista una costituzione: quale sia, in altre parole, il peculiare oggetto di quella parte del diritto statale suscettibile di essere definito costituzionale.
Certo, l'interesse pratico della ricerca può sembrare molto scarso nei sistemi a costituzione flessibile: dove, non essendo prestabiliti procedimenti e forme particolari per la legislazione in materia costituzionale e per modificare il testo della costituzione, la legge non incontra limiti giuridici di competenza, ed è perciò in grado di validamente regolare qualsiasi oggetto, anche se in quella ricompreso.
Deve, tuttavia, avvertirsi: 1) che anche in ordinamenti a costituzione flessibile, un limite risulta dalle norme che regolano procedimenti e forme della legislazione le quali saranno, bensì, liberamente modificabili, in generale e per l'avvenire, da semplici leggi ordinarie, ma soltanto da leggi adottate conformemente a quanto da esse frattanto prescritto, mentre non potrebbero venir disapplicate caso per caso da singole leggi, nell'atto del loro farsi; 2) che, stando ad opinioni autorevolmente sostenute (benché discutibili) e oggi largamente diffuse, anche dove la costituzione sia flessibile, vi sarebbero norme dalle quali deriverebbero per la legge limiti giuridici di contenuto (secondo le diverse concezioni: meramente direttivi, ovvero propriamente vincolanti), e cioè, altrimenti detto, certi ‛punti di resistenza' al mutamento (v. sotto, cap. 7).
All'inverso, negli ordinamenti a costituzione rigida, tutto ciò che si trova in questa regolato è - per ciò solo - assistito dalla ‛forza' differenziata alla medesima attribuita, sottraendosi in conseguenza alla competenza della legge ordinaria.
Dal che traggono argomento coloro che negano, non soltanto l'utilità, quanto la stessa possibilità di individuare un concetto di costituzione, che non sia basato sopra criteri esclusivamente formali: di guisa che la costituzione sarebbe semplicemente il testo così denominantesi o l'insieme delle leggi formalmente costituzionali, in quanto l'uno o le altre sottratti a revisione per le vie della ordinaria legislazione (in questo senso possono ricordarsi, tra i molti, L. Duguit, R. Carré de Malberg, V. E. Orlando, e anche lo stesso Jellinek, che pure, in altri passi della sua Allgemeine Staatslehre, sembra pervenire a un concetto della costituzione, materialmente intesa, non proprio insoddisfacente, cui si accennerà tra non molto).
È stato in contrario rilevato che, non esaurendo di solito la costituzione formale l'intera materia alla quale i convincimenti collettivi, a livello di forze politiche attive e di scienza giuridica, tendono a riconoscere natura costituzionale, l'interesse pratico di una ricerca, che trascenda i dati meramente formali, permarrebbe tuttavia, specie ove fosse stabilito, ad esempio, in un determinato ordinamento, che ad un concetto (materiale) debba farsi capo per accertare se e quali oggetti, non ricompresi nella costituzione formale, siano validamente regolabili con leggi ordinarie. E cioè, traducendo il discorso in termini rigorosa- mente tecnici: ove fosse positivamente istituita una ‛riserva' di legge costituzionale per la disciplina della ‛materia' costituzionale, non rientrante - in atto - nei testi costituzionali vigenti.
Una simile eventualità è stata inizialmente prospettata nella dottrina italiana con riguardo all'art. 138 della Costituzione, che prevede distintamente (pur sottoponendole ad unica e identica procedura di formazione) le leggi di ‟revisione della Costituzione" e ‟le altre leggi costituzionali". Giacché, mentre le prime sono di agevole individuazione (tutte quelle che sono rivolte a modificare norme espresse o comunque contenute nella costituzione formale, come pure, secondo l'opinione preferibile, in altre leggi formalmente costituzionali), è apparso, in un primo momento, oscuro a quale specie di leggi alludesse lo stesso art. 138 sotto la denominazione ‟altre leggi costituzionali", la specificazione ‛altre' sembrando togliere ogni possibile dubbio sulla eterogeneità tra queste ultime e quelle di revisione.
Ora, una tra le possibili soluzioni del problema interpretativo che in tal modo veniva a porsi era, appunto, che la materia costituzionale fosse, dall'art. 138, riservata a leggi costituzionali (dal punto di vista del procedimento, e quindi della forma) con la conseguente invalidità (sindacabile dalla Corte costituzionale) di leggi ordinarie incidenti sulla materia stessa. Nel qual caso, dunque, sarebbe stato necessario che il Parlamento, dapprima, e la stessa Corte in un secondo momento (qualora investita della questione) possedessero un preciso concetto, se pur storicamente relativo, della materia costituzionale.
Che poi questa ipotesi interpretativa sia stata ben presto abbandonata dalla dottrina, andatasi orientando verso una diversa lettura dell'art. 138, per ragioni e considerazioni su cui non è questa la sede per intrattenersi, non basta ad escludere che una qualche riserva di legge costituzionale per le materie costituzionali sussista realmente in altri ordinamenti: ciò sarebbe sufficiente a giustificare, anche sul terreno pratico, la ricerca di quali oggetti vi rientrino.
A maggior ragione, naturalmente, da un concetto materiale di costituzione non possono prescindere le dottrine, cui si è poc'anzi accennato, che affermano - esattamente o meno - la presenza in ‛ogni ordinamento' di limiti assoluti ai mutamenti costituzionali. Senza dire, infine, che una tale ricerca vale certamente a soddisfare esigenze euristiche, alle quali il pensiero scientifico non saprebbe facilmente rinunciare.
b) Alla ricerca di una definizione
La ricerca è stata, infatti, più volte intrapresa, anche se i risultati non vanno poi molto oltre quella nozione che se n'è qui anticipata, in linea di prima approssimazione, all'inizio del discorso (v. sopra, cap. 1): e ciò sia per la fluidità dell'argomento, che si colloca agli estremi confini tra politica e diritto, sia per la suggestione che inevitabilmente esercita sull'indagine teoretica il dato empirico rappresentato dai contenuti comunemente assunti nei testi costituzionali scritti del mondo moderno (e qui torna a manifestarsi l'influenza che questi ultimi hanno avuto sulla stessa elaborazione dottrinale del concetto di costituzione, anche materialmente intesa).
Non è un caso se, quando non ci si voglia appagare di definizioni troppo scopertamente tautologiche (‟quel che vi è di fondamentale nell'organizzazione dello Stato", ad esempio; oppure ‟l'ordinamento supremo dello Stato", e simili), si ricorre con frequenza e successo, in argomento, alle metafore, come già quella aristotelica della costituzione come una forma di ‟vita dello Stato" (Aristotele, Pol., IV, 11, 1295 b); o come quelle, modernamente, di S. Romano che, configurando l'ordinamento statale a guisa di ‟un albero", ne ravvisa nella costituzione ‟il tronco", da cui si dipartono, ma cui si riattaccano, restandone ‟generati e sostenuti", i diversi ‟rami" o anche, configurandolo piuttosto a guisa di ‟un edificio", ne scorge nella costituzione ‟le armature e i muri maestri" (v. Romano, 19472, pp. 3 ss.).
Ma ecco, invece (e spesso, nel contesto delle medesime dottrine), i ‛cataloghi' di oggetti che avrebbero natura costituzionale, sui quali finisce con il porsi maggiormente l'accento. ‟La costituzione [...] è l'ordinamento delle cariche in uno Stato, in che modo sono distribuite, qual'è il potere sovrano della costituzione, quale il fine di ogni comunità" (Aristotele, Pol., IV, 1, 1289 a). Per G. Jellinek (v., 19143, p. 505), che tuttavia, come abbiamo visto, finisce per aderire poi alla conclusione scettica, la costituzione dello Stato comprende di regola ‟le norme (Rechtsätze) che designano gli organi supremi dello Stato e determinano il modo della loro creazione, i loro reciproci rapporti, la loro sfera di azione, e inoltre la posizione fondamentale dell'individuo di fronte al potere statale".
Più analiticamente espressi, concetti analoghi si ritrovano nella elencazione offertaci dal Romano (v., 19472, pp. 3 ss.) il quale, peraltro, traducendo in termini di maggior rigore la metafora del ‟tronco", vi aggiunge ‟i principî più generali da cui si svolgono quelli particolari dei vari rami" dell'ordinamento statale. Il discorso si trasferisce, così, ‛dalle materie' ‛alle norme' e alle loro relazioni (sebbene, nella logica della concezione ‛istituzionistica', di cui il Romano è tra i massimi esponenti, i principi non siano proprio e soltanto norme). E il concetto di costituzione ne risulta allargato oltre quanto concerne l'organizzazione del potere, in sé e nei suoi rapporti con coloro che vi sono sottoposti, investendo il fenomeno statale complessivo, anche nel suo configurarsi come ‛società civile', oltre che come ‛società politica'; pur cercandosi di evitare, al tempo stesso, di dilatarlo fino al punto di farlo coincidere con l'intero ordinamento e assetto dello Stato, in ogni sua parte (come avviene, invece, secondo una delle prospettazioni dello Schmitt, in precedenza accennata: v. sopra, cap. 1).
Non tutto il diritto statale, ma i soli ‟principi più generali" che ne stanno a fondamento avrebbero, infatti, nel pensiero romaniano, natura materialmente costituzionale. Fra i quali principi dovrebbe ritenersi incluso, sebbene il Romano non lo dica espressamente, trattandone anzi distintamente, quel ‟principio o indirizzo fondamentale che informa tutte le istituzioni dello Stato", che ne rappresenterebbe il ‟regime politico": il ‟primo principio giuridico, il principio più generale che ha natura ed efficacia costituzionale - così prosegue l'autore - e domina tutto l'ordinamento", quale potrebb'essere - soggiunge ancora, esemplificando - ‟il principio liberale o il principio democratico o il principio socialista", e così via.
Sennonché, la distinzione tra norme-principio e altre norme, e massimamente quella tra principi più e meno generali, fondamentali o non, sono distinzioni essenzialmente relative, che si basano, in ultima istanza, sopra giudizi di valore, storicamente condizionati e quindi mutevoli. E lascia del pari largo margine agli apprezzamenti subiettivi degli interpreti la individuazione caso per caso di quale sia il ‟principio o indirizzo fondamentale" che informa, come si esprime il Romano, l'intero ordinamento dello Stato: tanto più nei regimi ‛misti', fondantisi sul compromesso tra ideologie e principi diversi e anche opposti e pertanto ben difficilmente riconducibili ad un solo principio unitario.
Di qui, il passo è breve a concludere che l'ambito proprio della costituzione non sia suscettibile di definizione logico-giuridica, trattandosi di un concetto ‛politico', anche se giuridicamente rilevante (così, nella recente letteratura italiana, C. Esposito, mettendo in risalto come il carattere delle norme costituzionali sia, precisamente, il loro ‟politico determinante": v. Esposito, 1934, p. 210).
Nel quale rilievo deve consentirsi, quando si abbia riguardo alla costituzione come condizionante lo specifico ‛modo d'essere' di uno Stato determinato; non anche, invece, con riferimento a una nozione, più circoscritta, della costituzione, come condizionante lo stesso ‛esserci' dello Stato, in quanto tale: gruppo a base territoriale stabilmente ordinato attorno ad un potere, entro quell'ambito, ad ogni altro sovrastante e da ogni altro, esterno, indipendente. Così inteso e delimitato, il concetto sarà, magari, generico; ma presenta una sua validità logica, perché ‛generalizzabile' a qualsiasi fenomeno statale, prescindendo dalla forma politica di volta in volta storicamente assunta. E bisogna dare atto al Romano di avere colto felicemente questo punto, allorché, nel medesimo passo poc'anzi rammentato, esordisce affermando che la costituzione è ‟quel diritto che segna la stessa esistenza dello Stato"; che ‟ne pone e collega gli elementi essenziali, ne circoscrive la sfera di efficacia" (rectius, di validità).
c) La costituzione identificata con le norme sulla legislazione
È il concetto cui perviene la dottrina pan-normativistica che fa capo alla Scuola di Vienna e che è qui presa in esame nella versione, ad un tempo, più compiuta e più generalmente nota, datane dal maggiore tra i suoi rappresentanti, H. Kelsen.
Punti qualificanti della quale sono, per quel che ora interessa, l'affermata ‛purezza' metodologica dell'indagine giuridica, raggiungibile soltanto attraverso la risoluzione totale del fenomeno giuridico nella norma, nonché la conseguente identificazione dello Stato con l'ordinamento giuridico, identificato a sua volta con il ‛sistema' normativo: gerarchicamente costruito, questo, per gradi successivamente discendenti dal vertice alla base, superiori essendo le norme che condizionano la validità (nel senso di appartenenza al sistema) delle altre, che perciò si collocano in un gradino inferiore, e così seguitando.
Ora, il grado più alto, dal quale tutti gli altri dipendono, per dir così, a catena, è la costituzione, che vien fatta consistere, dunque, nelle norme sulle norme: più specificamente, nelle norme ‟sulla produzione delle norme generali", e cioè in definitiva, con riguardo all'ipotesi modernamente più comune, nelle norme sulla legislazione, comprensive, oltre che di quelle strettamente organizzative, istituenti gli organi legislativi, anche delle norme prescriventi limiti (negativi o positivi) al contenuto delle leggi future (quali sarebbero, ad esempio, le ‛dichiarazioni dei diritti', tradizionalmente e comunemente considerate materialmente costituzionali, perché ineriscono al concreto atteggiarsi del rapporto di supremazia politica governanti-governati, e cioè, in sostanza, all'ordinamento del potere).
Coerentemente con le premesse da cui muove, ecco però che, a un certo punto, si presenta alla dottrina kelseniana il problema di accertare su quale norma si fondi la validità della stessa costituzione positiva (intesa nel senso ora appena accennato) e perciò, mediatamente, dell'intero ordinamento statale. Si risalirà - questa è la risposta - andando a ritroso nel tempo, a una costituzione più antica, che sia storicamente la prima e che sarà stata posta, come incisivamente dice il Kelsen, da una qualche assemblea o dall'arbitrio di un singolo usurpatore (o potrà essere sorta, invece, per via di consuetudine); ma non potendo spingersi ancora più indietro, la validità di questa costituzione storicamente prima dipenderà a sua volta da una norma fondamentale, presupposta a guisa di ‛ipotesi' razionale, quale fonte di legittimazione di quell'assemblea o di quell'usurpatore o di quella consuetudine.
È questa Grundnorm, prescrivente che valga come diritto tutto quel che i ‛Padri della costituzione' abbiano disposto e che sarà successivamente disposto dalle autorità da essi ‛delegate', la costituzione materiale in senso logico-giuridico, che condiziona la stessa costituzione materiale giuridico-positiva, e attraverso questa il restante ordinamento che su di essa si fonda.
Sdoppiamento, peraltro, artificioso, giacché, spingendo più a fondo l'indagine, la Grundnorm si rivela in realtà una ‛cifra' per esprimere - mantenendosi sempre esclusivamente sul più rigoroso terreno normativistico, così come esigono le premesse della dottrina - il ‛fatto' storico che sta alle origini di uno Stato e che si riassume nell'ordinarsi di un determinato gruppo sociale, subordinandosi ad un comune potere in grado di ricevere obbedienza e al tempo stesso indipendente da ogni altro. Ma questo ‛fatto', se non effimero e puntuale, ma instaurativo di un ordinamento (relativamente) stabile, reca già in sé la norma o le norme che quell'ordinamento, appunto, condizionano. È fatto e norma tutt'assieme; o, se si preferisce, è quel diritto che - secondo la profonda intuizione del Romano, sopra ricordata, e che tuttavia si inquadra nell'opposta dottrina istituzionistica - segna l'esistenza stessa dello Stato. Così intesa, allora, la Grundnorm non si colloca più ‛sopra' (e cioè, fuori), ma ‛dentro' la costituzione positiva in senso materiale, precedendo logicamente le stesse norme sulle fonti, che, nell'ordine concettuale del normativismo puro, ne esaurirebbero, invece, da sole il contenuto.
Pur tenendo conto di questa precisazione, il concetto che della costituzione (giuridico-positiva, per ripetere, a scanso di equivoci, la locuzione kelseniana) ci viene in tal guisa offerto pecca ancora per difetto, perché il potere statale si configura esclusivamente come potere normativo. Il vero è, invece, chè anche nei moderni ordinamenti di diritto scritto, dove certamente sussiste stretta connessione tra potere governante e produzione normativa, quest'ultima non ne esaurisce il contenuto. Lo Stato, qualunque Stato, si afferma anzitutto come ‛concreto governare': scelta dei fini, decisione politica sul ‛che fare', nella situazione data, irripetibile nella sua individualità storica. E queste espressioni primarie del potere, che logicamente precedono e condizionano la stessa posizione delle norme, non possono non trovare il loro fondamento legittimante nella costituzione, proprio in base alle medesime esigenze logiche che inducono, giustamente, il Kelsen ad affermare la necessaria intrinseca costituzionalità delle norme sulla legislazione.
6. Dalla costituzione ‛in senso materiale' alla costituzione ‛materiale' negli orientamenti a indirizzo politico-sociologico della dottrina contemporanea
Il nuovo secolo registra un mutamento di prospettiva, che può dirsi caratterizzato dallo sforzo di cogliere la più profonda ‛realtà' del diritto, dello Stato, della costituzione, allargando l'area della ricerca oltre i confini che il positivismo giuridico aveva assegnato alla competenza del giurista. L'accento si sposta dall'ordine normativo, all'ordine sociale; l'oggetto dell'indagine che qui specificamente interessa vien fatto consistere nel ‟guardare nell'interno delle idee e delle forze fondamentali dell'effettiva vita costituzionale, che sono nascoste dietro le norme" (v. Scheuner, 1952, p. 423, con esplicito e significativo riferimento ‟all'intera epoca del dopoguerra tedesco dal 1920 al 1930": vale a dire agli anni della deludente esperienza della Repubblica di Weimar, con la sua costituzione ‛professorale', modello di democratismo razionalizzato ma quotidianamente insidiata da sinistra e da destra e troppo presto precipitata, per autodissolvimento, nelle braccia del regime nazionalsocialista).
Certo, da un punto di vista cronologico, anche la reine Rechtslehre si inscrive in pieno nel XX secolo e fa parte della cultura contemporanea, della ‛nostra' cultura d'oggi: pur volendo prescindere dai contributi degli altri suoi esponenti e dall'influenza, intensa ed estesissima, esplicata per almeno un cinquantennio sulla scienza giuridica, già la sola opera individuale del Kelsen si spinge ben oltre gli anni sessanta, giungendo, fuor di metafora, proprio ai nostri giorni. Al paragone, non sono più recenti (e spesso, anzi, lo sono meno) le concezioni che, in maggiore o minor misura, rispecchiano quel diverso modo di accostarsi ai problemi dello Stato e del diritto, al quale si è appena accennato: anche a tralasciarne, ovviamente, le ben più remote radici culturali e certe anticipazioni che risalgono molto più indietro nel tempo (come quella di F. Lassalle, per esempio, che, scrivendo nel lontano 1862, contrapponeva, con chiara consapevolezza del problema, alla costituzione formale e legale, semplice ‟pezzo di carta", la costituzione ‟secondo la sua essenza", identificata negli effettivi rapporti di forza tra le diverse classi sociali esistenti in una determinata società).
La Verfassungslehre di C. Schmitt è del 1928, e quindi precede la prima edizione della kelseniana Reine Rechtslehre (1934); anche del 1928 è la monografia di R. Smend, Versfassung und Verfassungsrecht. A sua volta, la seconda edizione della Reine Rechtslehre, che ne costituisce in realtà un vero e proprio aggiornato rifacimento, porta la data del 1960, seguendo perciò di ben vent'anni La costituzione in senso materiale, di C. Mortati, pubblicata nel 1940. Le dottrine ‛istituzionistiche', che del diritto affermano l'assoluta inerenza al fatto dell'organizzazione sociale sino a identificarlo con questa e comunque relegandone in subordine il momento normativo, si intrecciano con i maggiori contributi del Kelsen: quella di M. Hauriou prende l'avvio a cavallo tra i due secoli, per trovare compiuta espressione nel 1923 (Précis de droit constitutionnel) e nel 1925 (La théorie de l'institution et de la fondation); quella di Romano (non condotta, peraltro, alle sue ultime conseguenze, specie in ordine al concetto di costituzione, che si inserisce piuttosto - pur con gli aspetti di originalità che non abbiamo mancato di rilevare - nella scia della tradizione) viene formulata nel 1917-1918 (la prima edizione dell'Ordinamento giuridico è del 1918).
Ma la storia delle idee non si riduce a mera cronologia; e la dottrina pura del diritto, per i suoi presupposti filosofici e (inconfessatamente) ideologici, per il suo spirito informatore, per la fiducia - che tutta la sorregge - nella ragione e nella capacità ordinatrice e pacificatrice del diritto, rappresenta piuttosto l'estrema propaggine, il coronamento, e anche - se si vuole - la coscienza critica di quel positivismo giuridico, intimamente razionalistico, che aveva dominato vittoriosamente lungo il sec. XIX. È bensì ‛moderna', ma come può esserlo un ‛classico', che, sebbene datato nell'arco del Novecento, compendia in una sintesi rigorosamente lucida e coerente i risultati di una pressoché secolare evoluzione del pensiero giuridico.
Si possono, invece, considerare culturalmente ‛contemporanee' le dottrine, pur diverse tra loro, che, nel proclamato intento di conseguire - come poc'anzi si è detto con le parole dello Scheuner - risultati più concretamente aderenti alla realtà sociale e alla effettiva dinamica politico-costituzionale, si oppongono al normativismo, al formalismo nonché, più a monte (ma non tutte: si pensi, in Italia, al Romano), allo stesso positivismo giuridico. Nate o alimentate dalla crisi dello Stato moderno ‛di diritto', drammaticamente scoppiata già nel periodo tra le due guerre con l'affermarsi da protagonisti sulla scena politica, per effetto della raggiunta e generalizzata conquista del suffragio universale, di nuovi e più larghi strati sociali, esse testimoniano della difficoltà di inquadrare entro i moduli del costituzionalismo ottocentesco il pluralismo erompente (e spesso dirompente) della moderna società di ‛massa'. Vi confluiscono - variamente, e magari confusamente - tendenze filosofiche, ideologie, e anche miti, che formano un po' il clima spirituale della prima metà del nostro secolo: pragmatismo, fenomenologia, strutturalismo, vitalismo irrazionalistico, frammisti anche a certo idealismo ‛oggettivo' di derivazione hegeliana più o meno ortodossa; ma soprattutto vi contribuiscono, in modo spesso decisivo, i nuovi sviluppi della sociologia nei suoi diversi indirizzi.
In genere, e beninteso in grado diverso, si tende - già lo si è accennato - a superare e, in qualche caso, ad abbandonare il piano dei dati normativi, per andare alla ricerca di principi, ideologie, forze politiche ed economiche, e cioè di ‛fatti', anteriori alle norme e dotati - come si assume - di un valore assolutamente determinante. Ma, in tal modo, è aperta la via a porre il problema della definizione di costituzione in termini diversi, e talora addirittura eterogenei, rispetto a quelli cui ci aveva abituato la dottrina tradizionale.
Di qui, la possibilità, anche, di equivoci verbali, che conviene affrettarsi a dissipare: come quando, per esempio, il Mortati (e specialmente, sulle sue orme, gran parte della più recente letteratura giuridica italiana) chiama ‟costituzione materiale" il ‟fine politico fondamentale sostenuto dalle forze sociali dominanti" (risultante ‟dall'organizzazione delle forze sociali stabilmente ordinate intorno a un sistema di interessi e di fini ad esse corrispondenti"; v. Mortati, 1940, p. 168). Ora, è chiaro che questa costituzione ‛materiale', condizionante la validità - si aggiunge - della costituzione formale, ma dotata essa stessa di una sua intrinseca normatività giuridica (e capace persino, all'occorrenza, di farsi valere direttamente, scavalcando l'ordine legale), è cosa diversa da quella costituzione ‛in senso materiale', e cioè definita per il suo oggetto o per il suo contenuto, della quale si è discorso in precedenza. Al più, potrà dirsi che vi è inclusa, rappresentandone il nucleo politicamente essenziale e determinante; e in quest'ordine di idee, infatti, il Mortati (che, peraltro, adopera promiscuamente le locuzioni ‟costituzione in senso materiale", ‟costituzione materiale", ‟costituzione sostanziale" e anche ‟reale") si mostra incline a riconoscere una ‛gerarchia' tra le diverse norme poste dai testi della costituzione formale, ritenendo preminenti quelle che sono espressione diretta e necessaria della costituzione materiale, nel senso da lui accolto.
Notevoli punti di contatto con la concezione del Mortati presenta la teoria dello Schmitt (alla quale, tuttavia, il primo rivolge critiche spesso penetranti): dove, la ‟costituzione positiva" è fatta consistere nella ‟decisione complessiva sulla specie e forma dell'unità politica dello Stato", promanante ‟dal titolare effettivo del potere costituente" (e cioè, dal monarca, nella monarchia ‛pura', e dal popolo, nella democrazia); e viene recisamente contrapposta, come fenomeno dell'ordine esistenziale, alle ‟leggi costituzionali", e cioè, in pratica, a quella che per solito si considera la costituzione in senso formale (v. Schmitt, 1928, p. 21).
A sua volta, la concezione dello Schmitt è stata talora avvicinata a quella dell'Hauriou (v. Balladore Pallieri, 1964, p. 153), con particolare riguardo alla idée-force, che lo scrittore francese vede alle origini dello Stato (come, più largamente, di ogni ‛istituzione'): la quale, dando vita a un'organizzazione e a un potere, perverrebbe a stabilizzarsi, mercé una sorta di consenso consuetudinario - di giorno in giorno rinnovantesi - del gruppo entro il quale si afferma. Vi sarebbe, infatti, analogia tra l'idée-force e la schmittiana Gesamtentscheidung, entrambe prefigurando - nell'essenziale - (non diversamente dal ‛progetto' di cui si discorre nella più moderna genetica) l'ordinamento costituzionale dello Stato.
Sotto altri aspetti, nella costruzione dell'Hauriou potrebbero fors'anche ravvisarsi delle analogie con la Integrationslehre dello Smend: che, muovendo da presupposti fenomenologico-dialettici e opponendosi tanto al formalismo normativistico quanto alle scuole sociologiche a indirizzo causal-naturalistico, configura lo Stato come realtà spirituale, risultante da un processo di ‛integrazione' (del singolo nelle comunità, e viceversa), perpetuamente rinnovantesi sulla base di valori diffusi nella coscienza sociale: oscillando poi tra un concetto socio-politico della costituzione, come fattore di integrazione essa stessa, e un concetto giuridico, meno lontano da quello tradizionale, come ordinamento normativo di quel processo politico (di integrazione, appunto) in cui consisterebbe la vita dello Stato.
Il quadro che precede è - deliberatamente - incompleto e schematico: sufficiente, tuttavia, prescindendo da critiche particolari che qui sarebbero fuori luogo, a mostrare come le concezioni che vi abbiamo ricomprese - al pari delle altre, sostanzialmente analoghe, che abbiamo tralasciate - non conferiscano chiarezza alla problematica della costituzione, né riescano nell'intento di determinarne, con maggior concretezza di quanto non facciano le dottrine tradizionali, l'essenza specifica. Considerando promiscuamente e sul medesimo piano, quali componenti della costituzione, ‛norme' giuridiche e ‛forze' politiche e sociali, che sono entità tra loro qualitativamente eterogenee, esse confondono politica e diritto, e nel modo peggiore, poiché non c'è politologo accorto che scambi, all'atto pratico, i sistemi politici e i corrispondenti programmi e ideologie, che formano l'oggetto delle sue indagini, con la costituzione, nell'ambito della quale quei sistemi si enucleano e vanno svolgendosi; ché anzi, avrà sempre l'occhio attento alle reciproche interrelazioni, con ciò stesso presupponendo e confermando che si tratta, appunto, di cose distinte e diverse. Così come non c'è, d'altro canto, giurista degno di questo nome, il quale non sappia che la ‛positività' dello Stato e della sua costituzione si fonda, in ultima istanza, sopra reali rapporti di forza, convincimenti collettivi, fattori storici e psicologici i più vari, e via dicendo (la ‛forza normativa' del fatto era stata, fin dagli inizi del secolo, teorizzata dallo Jellinek; e l'autore che, di recente, più e meglio di ogni altro, ha fatto leva sul criterio di ‛effettività', è proprio il normativista puro Kelsen...).
Ma tutto ciò non autorizza a contrapporre una pretesa costituzione sociologica o socio-politica alla costituzione ‛giuridica' (spesso inavvertitamente, e inesattamente, identificata, nella nomenclatura delle dottrine sopra rammentate, con la costituzione formale), né a proclamare la diretta normatività giuridica della prima, quasi fosse una supercostituzione allo stato magmatico, che, per la sua stessa inevitabile genericità e quindi ‛disponibilità', si presta - oltre tutto - ad essere strumentalizzata ai più diversi fini politici di parte.
Sul filo di queste concezioni, la costituzione finisce per venir meno a quella funzione ordinatrice e unificante, che è ad essa, invece, connaturale, come riconoscono anché i più consapevoli tra i loro sostenitori. Crisi dello Stato, crisi del diritto e crisi del concetto di costituzione si implica- no così a vicenda. Ha detto molto bene G. Burdeau (v., 1956, p. 62) che ci si può chiedere a questo punto se il concetto di costituzione sia a tal segno solidale con la filosofia razionalistica, da non avere più corso in un'epoca in cui i soli valori dotati di un prestigio sociale sono quelli che esaltano la vita nelle sue forme elementari e spontanee: ‟Édifice rationnel élevé pour des êtres de raison, elle ne serait plus qu'un temple allégorique habité par des ombres".
7. Costituzione materiale, limiti alla revisione costituzionale e problema della identità-continuità dello Stato
Spesso, alla costituzione materiale nel senso stretto del quale si è discorso poc'anzi, è attribuito in dottrina il valore di principio di individuazione dello Stato, in quella forma storicamente determinata che in essa si fonda e si riassume. Conseguentemente, che la costituzione formale sia rigida ovvero flessibile, assolutamente immodificabili ne sarebbero pur sempre le norme che sono diretta espressione della costituzione materiale, così intesa; e ogni mutamento che tuttavia dovesse (malgrado il divieto) intervenire spezzerebbe la continuità dello Stato, causando l'estinzione del vecchio Stato e il sorgere in suo luogo di uno nuovo e diverso, caratterizzato da una diversa costituzione materiale.
Una apparente convergenza si registra al riguardo tra dottrine come quelle di uno Schmitt o di un Mortati e la concezione pan-normativistica della Scuola di Vienna. Anche per quest'ultima, infatti, in tutti gli ordinamenti sussisterebbero limiti assoluti al mutamento, oltrepassati i quali si verificherebbe una frattura nella continuità dello Stato. Con la differenza, peraltro, che, qui, il limite è di ordine esclusivamente formale, consistendo nel rispetto della Grundnorm e quindi della procedura da essa stabilita: vietato, perciò, ogni mutamento operato fuori delle vie legali, che, ponendosi come ‛rivoluzionario', segnerebbe altresì e per ciò stesso l'estinzione del sistema; ammissibile, all'inverso, qualsiasi mutamento, per profondo che sia, se e in quanto riconducibile alla medesima Grundnorm, ipotizzata al vertice dell'ordinamento, e cioè attuato dagli organi competenti e nelle forme e con i procedimenti prescritti; laddove, alla stregua delle concezioni che, coerentemente con il modo di considerare la costituzione materiale ad esse proprio, i limiti alla revisione fanno consistere in elementi, per dir così, contenutistici (valori e principi politici ‛di regime', forma di Stato, decisione fondamentale, ecc.), nemmeno attraverso le forme legali sarebbe giuridicamente consentito superarli.
In breve: per la dottrina pura del diritto, decisivo è ‛il modo' (legale o illegale) del mutamento; mentre, per le dottrine a indirizzo politico-sociologico, decisivo ne è ‛l'oggetto' a seconda che, per la sua necessaria inerenza alla costituzione materiale, sia oppur no assolutamente sottratto a revisione (anche attraverso le procedure a tal fine apprestate).
Contro la prima impostazione è stato osservato (v. Ross, 1929, p. 366) che, dovendo la Grundnorm essere adeguata all'esperienza giuridica reale e in grado di giustificarne sempre la validità poiché altrimenti si ridurrebbe a mera fantasticheria), dovrà ritenersi essa stessa sottoposta a continue, anche se impercettibili, variazioni in relazione alla progressiva evoluzione dell'ordinamento complessivo: logicamente irrilevanti essendo le differenze tra mutamenti legali e illegali, poiché, nell'una e nell'altra ipotesi, se qualcosa è veramente cambiato, sarà pur sempre necessario ipotizzare una diversa Grundnorm capace di ricomprendere e legittimare il mutato sistema, in tutte le sue parti.
Rilievi sostanzialmente analoghi possono opporsi alla seconda impostazione, contenutistica, del problema, perché una costituzione è in continuo divenire e non è escluso, pertanto, che gli assunti limiti alla revisione, anche se, talora, espressamente risultanti dalla costituzione formale, siano tacitamente superati in via di prassi, senza che sia dato ‛situare' il fenomeno dell'intervenuto mutamento in un preciso momento del tempo. Si pensi, ad esempio, all'evolversi, nel senso di un progressivo accentramento, di Stati federali, originariamente articolati secondo criteri di larghissimo decentramento; o al variare dei rapporti tra organi concorrenti all'indirizzo politico senza che sia mutata una virgola dei testi costituzionali che li disciplinano, in forza semplicemente di ‛convenzioni' costituzionali, stabilizzatesi poi in vere consuetudini.
D'altro lato, le concezioni rientranti in questo secondo orientamento dottrinale incorrono, quale più quale meno, nell'obiezione della estrema genericità e fumosità dei criteri che assumono per individuare la costituzione materiale strettamente intesa, e perciò anche i limiti che da essa deriverebbero al potere di revisione, rendendo così impossibile affermare con sufficiente sicurezza se siasi verificato un mutamento ‛rivoluzionario' (nel senso, appunto, di illegale o comunque non consentito) e quindi, stando alla tesi, se si abbia frattura della continuità dello Stato. Valgono al riguardo i rilievi critici, solo in apparenza tra loro contraddittori, rivolti, ad esempio, alla teoria dello Schmitt. Per un verso, infatti, si è sottolineato (v. Balladore Pallieri, 1964, p. 150) l'eccessivo schematismo delle ‟scarne formulette" che dovrebbero designare il contenuto della ‟decisione politica fondamentale" (monarchia, democrazia, diritti dell'uomo, ecc.), mentre la realtà vera (a considerare le cose storicamente) è ben più complessa, articolata, sfumata (tant'è che lo stesso Schmitt deve specificare il riferimento alla monarchia aggiungendovi l'attributo ‛pura'...); per altro verso, si è osservato (v. Mortati, 1940, p. 161, pur sostenitore egli stesso di concezioni analoghe e suscettibili di essere analogamente criticate) che, quando lo Schmitt vuole uscire dal generico e passa ad esemplificare casi concreti di decisioni politiche costituenti, finisce per intenderle in modo tale da riflettervi le svariate particolarità organizzative della costituzione formale. Di guisa che, delle due l'una: o il preteso limite logicamente necessario e assoluto rimane vago e inafferrabile e dipende, in ultima analisi, dalla valutazione politica soggettiva dell'interprete; oppure, al contrario, vi rientrerebbe la maggior parte delle norme della costituzione formale, della quale tutto o quasi diverrebbe immodificabile.
Il vero è che problema dei limiti alla revisione e problema della identità-continuità dello Stato non sono, come molti reputano, interdipendenti, ma distinti e suscettibili di soluzioni diverse.
Quanto al primo, fermo restando quel che si è qui avuto occasione di rammentare in tema di flessibilità o rigidità costituzionale (v. sopra, cap. 4), i soli limiti di oggetto che giuridicamente può incontrare il potere di revisione sono quelli che siano positivamente prescritti (espressamente o anche implicitamente) dai testi costituzionali (come avviene, ad esempio, nella Costituzione italiana per la intangibilità della forma repubblicana: art. 139), nonché, come ha visto benissimo il Kelsen, quelli consistenti nelle procedure che devono essere seguite per modificare le norme costituzionali (limiti, cioè, di ordine meramente formale). Con l'avvertenza, tuttavia, che, ove il mutamento vietato riuscisse egualmente ad affermarsi in fatto, a nulla varrebbe proclamarne l'illegalità, poiché esso si giustificherebbe da sé in forza del principio di ‛effettività': il ‛colpo di Stato' o la ‛rivoluzione' vittoriosa creano nuovo diritto e perciò innovano all'ordinamento costituzionale, a dispetto di ogni limite legale; né su questo punto esiste in dottrina alcun serio dissenso. Ma eventi del genere non incidono sul diverso problema della identità-continuità dello Stato. Le trasformazioni costituzionali, consentite o vietate che siano dall'ordinamento in vigore, non implicano che, a seguito e per effetto di esse, lo Stato si estingua.
Di estinzione dello Stato può parlarsi soltanto quando vengano meno gli elementi essenziali, nel concorso e reciproca correlazione dei quali sussiste il fenomeno statale: e dunque, quando vi sia disgregazione del vincolo politico unitario che faceva di una collettività umana il popolo di uno Stato, ovvero perdita definitiva dell'indipendenza.
La mente corre subito ai casi di ‛incorporazione' (annessione totale ad altro Stato), ‛fusione' (dove si ha, invece, simultanea estinzione dei due o più Stati che tra loro si fondono), ‛smembramento' (o frazionamento): casi, tutti, qualitativamente diversi dalle ipotesi (che sole qui interessano) di mutamenti costituzionali illegali (per l'oggetto o per il procedimento). Nelle quali ultime non viene meno il vincolo politico unitario, pur se di questo risultino trasformati i modi e le formule organizzative: la stessa idea di ‛mutamento' implica che quel che muta ‛continui, sebbene mutato', ed è perciò in contraddizione con l'idea di ‛estinzione', la quale evoca immediatamente qualcosa, non tanto ‛di più', quanto proprio ‛di diverso', dal semplice ‛mutamento'. Sono perciò nel vero la prassi e la prevalente dottrina internazionalistiche, orientate nel senso della identità-continuità degli Stati indipendentemente dalle trasformazioni costituzionali interne, come pure dalla loro legalità o meno, dal punto di vista dei rispettivi ordinamenti (mutata forma regiminis non mutatur et ipsa civitas).
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Costituzione italiana di Aldo M. Sandulli
sommario: 1. La base storica della Carta. a) La fonte del potere costituente. b) Le forze politiche all'Assemblea costituente: c) Gli orientamenti dei partiti in ordine alle principali scelte costituenti. 2. I valori consacrati nella Carta. a) Libertà e lavoro come pricipî cardinali. b) Il conseguimento di un'effettiva uguaglianza come impegno dello Stato. c) La proprietà e l'impresa in ‛funzione sociale'; il principio di solidarietà. d) Stato sociale e Stato di diritto; solidarietà e libertà. e) Pluralismo economico, sociale e politico; le comunità intermedie. 3. La Costituzione formale. a) La forma parlamentare e i suoi temperamenti. b) Taluni punti deboli del potere esecutivo. c) Il sistema elettorale proporzionale. d) La posizione del potere esecutivo. e) Le autonomie regionali; le forme di democrazia diretta. f) I partiti. g) I sindacati e il CNEL. h) Il presidente della Repubblica. i) Le garanzie della legalità; i giudici e gli organi ‛ausiliari'. l) La Corte costituzionale. 4. La Costituzione reale. a) Le ‛aperture' e le ‛incompiutezze' della Carta. b) Il lento avvio all'attuazione della Costituzione (1948- 1963): la riforma fondiaria; la nascita della Corte costituzionale, del CNEL, del Consiglio superiore della magistratura; c) il periodo del ‛centro-sinistra' (1963-1972): la legge sul referendum, la nascita delle Regioni, la legislazione sociale. d) L'involuzione istituzionale ed economica indotta dal massimalismo. I perduranti ritardi nell'attuazione costituzionale. Le distorsioni nel servizio dell'informazione. e) Sintesi. 5. Un bilancio. a) Le ragioni di talune distorsioni del sistema. b) La fase di prevalenza dei partiti (1948- 1968). c) La fase attuale e le sue difficoltà. d) Il ruolo silente della presidenza. e) Carenze di rappresentatività. f) Le ragioni dell'instabilità e dell'inefficienza governativa. g) Le condizioni perché la democrazia sopravviva. □ Bibliografia.
1. La base storica della Carta
a) La fonte del potere costituente
Nell'estate 1943, alla caduta del fascismo, fu subito chiaro che per le istituzioni della monarchia risorgimentale i ventun anni del regime abbattuto non sarebbero rimasti senza conseguenze (su queste vicende v. Mortati, La Costituente, 1972, pp. 204 ss.; v. Di Meo e altri, 1958; v. Valiani, 1955).
Era illusorio il pretendere di cancellarli con l'emanazione di un decreto legge, come quello del 2 agosto 1943, che prevedeva l'indizione delle elezioni per la Camera dei deputati (la vecchia Camera statutaria) entro quattro mesi dalla fine della guerra: come se il 25 luglio 1943 fosse stato l'indomani del 27 ottobre 1922, il giorno seguente non alla drammatica notte del Gran Consiglio, ma a quella concitata e confusa del decreto dichiarativo dello stato d'assedio, affisso per qualche ora alle cantonate della capitale e poi ritirato. Era anche chiaro che le istituzioni che avevano convissuto con e nel fascismo si erano contaminate della caratteristica sostanziale del regime: la non rappresentatività. Del resto, lo stesso regime preesistente al fascismo aveva avuto le sue colpe di ordine sociale, politico, istituzionale e proprio l'instaurazione del fascismo aveva segnato la sua condanna.
Affiorò dunque immediatamente, fin dall'estate 1943, nonostante le gravi difficoltà dell'ora, la rivendicazione di ben diversi obiettivi, l'aspirazione alla instaurazione di una democrazia che fosse non solo libertaria, ma anche sociale, che superasse lo schema del mero Stato di diritto. In tal senso apparvero subito orientati i partiti di massa, allora riemersi dalla clandestinità: comunisti, socialisti, democristiani, quegli stessi partiti che erano rimasti fuori dello Stato prefascista.
Essi confluirono, unitamente ad altri tre raggruppamenti che alla prova elettorale avrebbero rivelato poi meno profonde radici (Partito Liberale, Partito d'Azione, Partito Demolaburista), nel Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.), costituito al fine di condurre la lotta armata nei territori occupati e di ispirare l'azione di governo nei territori liberi, in attesa e in preparazione di un nuovo assetto costituzionale (sui programmi di allora di ciascuno dei sei partiti del C.L.N., v. Valiani, 1955, pp. 17 ss.). Con la liberazione di Roma nel giugno 1944 i partiti del C.L.N., ottenuta - in base a un compromesso negoziato (v. De Cesare, 1969, pp. 159 ss.) - l'abdicazione del re e la luogotenenza, andarono al potere. Era una prima rottura col passato e una prima apertura al domani.
Fu appunto quel primo governo C.L.N. a stabilire immediatamente, con un decreto legge del 25 giugno, che subito dopo la liberazione il popolo - sciolto da ogni vincolo con il passato - avrebbe scelto liberamente le nuove forme istituzionali attraverso un'Assemblea costituente. Era l'affermazione della assoluta originarietà della nuova fonte costituente. Per la prima volta nella sua storia il popolo italiano avrebbe effettuato da solo le scelte fondamentali. Intanto si instaurava un regime provvisorio e una tregua istituzionale.
Una Consulta nazionale, costituita su base rappresentativa in coincidenza con la liberazione dell'intero territorio nazionale nel 1945, predispose quel decreto legislativo che nel marzo 1946 stabilì che la forma istituzionale dello Stato sarebbe stata determinata direttamente dal popolo attraverso un referendum e definì il regime di transizione durante il periodo della costituente. Periodo che, previsto originariamente in otto mesi, si protrasse poi fino al maggio 1948.
b) Le forze politiche all'Assemblea costituente
Il referendum del 2 giugno 1946 sanzionò l'instaurazione della Repubblica, la quale poté, per fortuna, realizzarsi sostanzialmente nell'ordine. Il risultato (proclamato il 10 giugno) fu favorevole (per circa due milioni di voti) alla forma repubblicana, anche se in sede di proclamazione dei risultati fu necessario superare alcune perplessità inerenti al valore da attribuire all'elevato numero delle schede bianche e nulle.
L'Assemblea costituente (556 deputati), eletta contemporaneamente al referendum, risultò composta per circa due quinti da democristiani, per altri due quinti dalle sinistre (poco più socialisti che comunisti; ma i primi presto si sarebbero scissi). Dei rimanenti 128 deputati, una ottantina erano di destra (liberali, qualunquisti, monarchici e altri), una trentina laici di centro-sinistra (demolaburisti, repubblicani e altri), una decina o poco più appartenevano alla sinistra.
Era chiaro dunque il grande ruolo che nelle decisioni costituenti avrebbe giocato il partito cattolico (DC), allora assai più solido di oggi, sotto la guida di un leader accettato da tutti come capo, De Gasperi. La voce del partito cattolico sarebbe stata determinante, disponendo esso della possibilità di operare sulle due ali dello schieramento dei partiti a seconda degli oggetti in discussione, e di far prevalere, di volta in volta, l'istanza liberale o quella sociale. La funzione mediatrice emergeva anche dalla posizione dominante del partito nella coalizione centrista di governo formatasi dopo la scissione tra i socialisti di Palazzo Barberini (1947). La ricerca di compromessi tra le varie tesi avrebbe avuto nella DC l'ago della bilancia, ma avrebbe trovato in essa anche, dato il carattere composito di quel raggruppamento politico, la fonte di non poche delle ambiguità oggi riscontrabili nella Costituzione.
I lavori dell'assemblea (v. Sandulli, 1974) furono animati da un'ardente passione e da un'alta tensione morale, dominati come erano dall'intento dei più di portare avanti quell'opera di edificazione di una nazione libera e civile che gli uomini che avevano fatto l'unità avevano lasciato a mezzo. Ispirati ciascuno dalla propria diversa fede, uomini di varia estrazione sociale e ideologica si incontrarono e si scontrarono in accesi dibattiti, tenuti a un livello politico e culturale destinato a non esser poi superato nelle aule parlamentari. Non che l'atmosfera fosse concorde: le disparità ideologiche e la rottura tra i partiti di massa seguita alla scissione di Palazzo Barberini certo non potevano contribuire all'unanimità. Anche se l'ordine dei lavori non fu sempre perfetto, tuttavia la tensione morale fu altissima. Tutte le parti non solo si mostrarono, ma furono unite in ordine a taluni punti di riferimento essenziali, e prima di tutto in ordine alle libertà fondamentali, nelle quali tutte si sentivano ferite dalla recente, bruciante esperienza.
c) Gli orientamenti dei partiti in ordine alle principali scelte costituenti
L'elaborazione della Costituzione, specie quella delle parti più innovatrici, fu spesso assai tormentata. I più numerosi furono gli emendamenti relativi ai poteri delle Regioni. Gli interventi sul testo della Costituzione furono ben 1.090.
Si trattava di ripensare ex novo un ordine costituzionale, senza poter contare su esperienze passate che non fossero negative. Né le costituzioni europee dell'altro dopoguerra, ‟tutte dottrinarie e razionali", potevano rappresentare un valido modello, poiché erano state esse stesse ‟niente altro che delusione e preludio di dittature" (v. Maranini, 1967, p. 318). Né era possibile calare puntualmente nella realtà italiana forme politiche radicate in assai diverse tradizioni. D'altro canto, molto differenti tra loro erano gli obiettivi ‛finali' delle due più grosse matrici ideologiche rappresentate nell'assemblea.
Per converso, proprio l'incertezza degli attuali equilibri e la preoccupata vigilanza reciproca delle parti si traduce- vano in istanze per il potenziamento delle salvaguardie. Ciò contribuì sicuramente a rafforzare quella convergenza sui temi delle libertà e delle guarentigie, che già aveva una sua solida base nella comune matrice antifascista e nella recente solidarietà della stragrande maggioranza degli uomini della Costituente nella lotta di liberazione.
Gli scontri più animati ebbero piuttosto a oggetto - come era naturale - i rapporti familiari (parità dei coniugi, dissolubilità del matrimomo, filiazione naturale) e quelli economici (in proposito, come pure in ordine agli altri schieramenti delle parti di cui è cenno appresso nel testo, v. Sandulli, 1974). Era in ordine ad essi che le rotture col passato avrebbero potuto maggiormente incidere nel tessuto della società. Quella dei rapporti economici fu sicuramente la materia dove maggiore si rivelò l'antitesi tra le sinistre e le destre, e quella dove maggiormente il partito cattolico, col suo carattere composito, i suoi interni travagli e la sua ascendenza confessionale, poté svolgere un'efficace e decisivo ruolo di mediazione. Non è un caso che proprio questa sia, nella Costituzione, la materia più ricca di formule ambigue, polivalenti e alternative, destinate ad esser riempite dalla storia.
Animati ed elevati furono pure i dibattiti sulla laicità dello Stato e la libertà scolastica, entrambi risolti, di misura, in favore delle tesi cattoliche.
Quanto all'ordinamento della Repubblica, il terreno degli scontri più accesi fu quello delle Regioni, avversate, specialmente in principio, non solo dalle destre ma anche dalle sinistre, convertitesi poi solo dopo l'allontanamento dal governo seguito alla scissione socialista. Pure il bicameralismo fu avversato dalle sinistre, le quali furono disposte ad accettarlo solo quando riuscirono a ottenere che la seconda camera non avesse base territoriale e corporativa, e quindi non si differenziasse sostanzialmente dalla prima. Animate dalla stessa avversione per ogni limitazione della portata della più immediata espressione della volontà popolare, esse avversarono anche la Corte costituzionale. Vi contribuì però anche la prevenzione (espressamente dichiarata da Togliatti) verso la provenienza della categoria dei giuristi dalla ‛classe capitalista'.
Maggiore fu invece la concordia in ordine all'opzione per una forma di governo di tipo parlamentare, la quale, accompagnata dalla sottintesa, dominante previsione di un sistema elettorale proporzionale (nonostante che questo non fosse canonizzato nella Carta), era destinata, con là fragilità dell'esecutivo, a rassicurare tutte le parti politiche contro il consolidamento (da tutti allora paventato) del potere altrui, ma anche a privare purtroppo il paese di una guida stabile e valida e a costituire il tallone d'Achille del sistema. Indubbiamente le garanzie costituiscono un punto cardinale di ogni ordine democratico; ma qualsiasi ordine costituzionale, e perciò anche un ordine democratico e con esso le libertà individuali, rischia di esser messo a repentaglio (come l'esperienza weimariana e la fine della Quarta Repubblica provano) dalla mancanza di stabilità, e dunque di efficienza, nel reggimento politico, e quindi da quegli eccessi di garantismo formale consistenti nella concentrazione di poteri decisionali e condizionanti nelle assembleee. Essi mettono infatti queste ultime nella condizione di minare, col gioco non sempre manifesto e sempre incontrollabile delle fluttuazioni delle loro varie componenti, la stabilità dell'esecutivo. Non è senza significato il rimpianto per la mancata attribuzione all'esecutivo di strutture più stabili, che affiora nella più recente produzione di C. Mortati (v., La crisi del Parlamento, 1972, p. 167 e La Costituzione nel pensiero di Calamandrei, 1972, pp. 271-272) il quale fu uno dei più autorevoli costituenti ed è oggi il maggiore dei costituzionalisti italiani.
2. I valori consacrati nella Carta
a) Libertà e lavoro come principî cardinali
Conviene però a questo punto passare dai sommari cenni dedicati alla genesi della Carta costituzionale, ai suoi contenuti: ai valori in essa consacrati e alle strutture cui essa ha voluto commettere la conservazione e il potenziamento. In testa alla Costituzione si legge, nel suo primo articolo, che l'Italia è ‟una Repubblica democratica, fondata sul lavoro". A tale proposito ricordiamo che l'Assemblea costituente rifiutò invece la formula ‟Repubbllca democratica di lavoratori" proposta dai comunisti e sostenuta da tutte le sinistre, dai repubblicani e dai partiti intermedi (per il raggruppamento dei quali ultimi parlò il repubblicano on. Pacciardi negando il significato classista dell'espressione). La formula approvata, proposta dall'on. Fanfani, mira - secondo le parole di quest'ultimo - ad escludere che il sistema vigente possa considerarsi basato ‟sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui": esso si fonda invece ‟sul dovere, che è anche diritto a un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale": ‟la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune" (cfr. il resoconto della seduta pomeridiana del 22 marzo 1947 dell'Assemblea costituente).
La disposizione secondo cui la Repubblica è ‟fondata sul lavoro" (per una visione d'insieme degli scritti che si sono occupati di questa formula: v. Bigi, 1973; v. Scognamiglio, 1972, pp. 9 ss.; v. Mazziotti, 1973, pp. 338 ss.) vuole riassumere, in somma sintesi, i caratteri essenziali della società politica e dello Stato: la derivazione del potere dagli stessi governati (il medesimo articolo aggiunge subito che ‟la sovranità appartiene al popolo", anche se questo ‟la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione": onde è nel popolo e, derivativamente, nella sua rappresentanza elettiva, che ogni pubblico potere deve trovare l'ascendenza e la fonte prima) e la elevazione del lavoro (inteso peraltro - come viene spiegato nell'art. 4-nel senso di ogni ‟attività" o ‟funzione" che, liberamente scelta, ‟concorra al progresso materiale o spirituale della società") a supremo valore sociale, a fattore essenziale della ‟dignità" del cittadino e del suo ‟posto nello Stato" (chi non svolge un'‟attività" o una ‟funzione" nel senso anzidetto trasgredisce infatti un dovere, il quale sicuramente si colloca tra i ‟doveri di solidarietà sociale", ove si consideri che senza operosità le fonti del benessere si inaridirebbero, e con esse le stesse fonti di una valida solidarietà: artt. 2 e 4), a titolo per la ‟effettiva partecipazione" alla ‟organizzazione politica, economica e sociale del paese" (art. 3).
Nella sua concisa formula si può dire che la definizione (la quale non fa più leva sul binomio ottocentesco ‛libertà e proprietà', ma sull'altro ‛libertà e lavoro', equivalente a quello, effettivamente impiegato nell'art. 1, ‛democrazia e lavoro') riassuma tutta la Costituzione; onde le successive disposizioni assumono il carattere di svolgimento di essa (v. Bonifacio, 1969, pp. 11 ss.). In essa già si leggono, se non gli elementi della forma di governo (v. invece Mortati, 1962, p. 214), sicuramente quelli della forma di Stato, e si colgono gli aspetti essenziali di questa: non solo i caratteri ‛repubblicano', ‛democratico' e ‛laburista', ma quello stesso carattere ‛sociale' e ‛solidaristico', che è intimamente legato a quest'ultimo (e trova più ampia enunciazione nei tre articoli successivi), e altresì il carattere ‛legalitario' e ‛garantistico' (lo ‛Stato di diritto'), indivisibile come questo è dalla presenza delle libertà (e perciò della democraticità) e necessariamente implicante la divisione dei poteri (esso riecheggia nelle numerose riserve di legge, nell'affermazione di inviolabilità di tutte le libertà e nelle garanzie dettate a salvaguardia di ciascuna di queste, nei principi del diritto di difesa, del giudice naturale, della legalità e irretroattività delle pene, della responsabilità dei funzionari, dell'indipendenza dei giudici e degli organi ausiliari posti a presidio della legalità, nell'esclusione di giudici straordinari e speciali, nell'inammissibilità di eccezioni alla regola della giustiziabilità dell'operato dell'Amministrazione, nella istituzione di una giustizia costituzionale).
b) Il conseguimento di un'effettiva uguaglianza come impegno dello Stato
Ma una democrazia ‟fondata sul lavoro" significa ancora di più. Essa significa altresì (e lo leggiamo negli articoli immediatamente successivi al primo) il superamento del concetto meramente formale della libertà (intesa come complesso delle singole libertà) e l'accettazione ormai di essa ‟come strumento e simbolo di rinnovamento sociale, di partecipazione più larga delle masse ai benefici della comune vita nazionale, come sinonimo, insomma, non solo e non più verbale soltanto, ma sostanziale e storico di democrazia" (v. Romeo, 1964, p. 285; v. anche Galasso, 1972, p. 588) e perciò, a un tempo, come bene del quale tutti, e non solo alcuni, e specialmente quelli che non dispongono di alcuna altra fortuna che le proprie braccia e il proprio cervello, debbono esser messi in condizione di godere effettivamente. Un bene, quindi, della cui concreta utilizzabilità in tutte le sue varie manifestazioni è lo Stato (non più, perciò, astensionista e neutrale, e neppure semplice mediatore, ma interventista a fini soprattutto di perequazione) che deve occuparsi e farsi non solo garante, ma addirittura promotore e, ove necessario, diretto operatore; sì da assicurare concretamente (e non a parole) a tutti non solo ‛pari dignità sociale', ma anche uguali posizioni di partenza e uguali occasioni per far valere (senza che peraltro siano trascurati i meriti di ciascuno) i rispettivi talenti (cfr. specialmente l'art. 34, 3 e 4 comma).
Questo vuol dire l'assegnazione alla Repubblica del ‟compito" (e perciò del dovere giuridico) di ‟rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese" (art. 3).
Un principio cardinale (si tratta dell'articolo ‟più importante della Costituzione, il più impegnativo", secondo Calamandrei; v., 1969, p. 119), il quale implica l'esigenza di una politica capace di mettere tutti in condizione di inserirsi attivamente nel processo produttivo della comunità (e perciò ‟programmata" a tal fine); e si integra e fa corpo con quello che esige da parte di tutti (naturalmente in corrispondenza del rispettivo ‛posto nella società') ‟l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (art. 2) e con l'altro per cui ‟ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" (art. 4). Osserva M. Einaudi (v., 1949, p. 94) che in base a tale disposizione quei cittadini che non si impegnino in alcuna attività potrebbero esser privati dei diritti politici (v. però altrimenti Mazziotti, 1973, p. 341).
Anche l'ordine voluto dalla Costituzione vigente colloca dunque (come già faceva l'ordine liberale) l'uomo - con la sua personalità e dignità, le sue libertà, la sua capacità di esprimersi operando e di imprimere il vigore delle sue energie nelle cose del mondo - al centro del sistema. Ma essa (e non le costituzioni liberali) può dirsi ‛a misura d'uomo', configurando un uomo col quale tutti gli altri componenti della collettività debbono non solo proclamarsi e sentirsi uguali, ma esserlo realmente, e che deve egli stesso sentirsi ed essere realmente tale verso gli altri: un uomo perciò effettivamente (e non solo formalmente) uguale agli altri, così nei diritti come nei doveri. La Costituzione esclude che possa esserci posto per posizioni privilegiate, per uomini in grado di vantare verso la società solo e prevalentemente diritti. Ancor più essa esclude che vi siano ancora uomini per i quali sia aperto soltanto il libro dei doveri. Tutti essa vuole che siano chiamati - sia pure nelle loro differenziate posizioni - a partecipare alla costruzione comune, alla elevazione dell'intera comunità, alla conquista di un benessere per ciascuno e per tutti. Questa è la solidarietà sociale; e della realizzazione di essa lo Stato - uno Stato che, per la sua democraticità, deve essere espressione della comunità - deve farsi strumento: strumento di giustizia, di elevazione (art. 3: ‟È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana [...]").
c) La proprietà e l'impresa in ‛funzione sociale'; il principio di solidarietà
In questo quadro certe tradizionali posizioni soggettive patrimoniali - quella di proprietario, quella di imprenditore - hanno, sì, anch'esse diritto di sopravvivere, ma sempre che riescano tuttora ad assolvere realmente una ‟funzione sociale", ad essere ancora di ‟utilità sociale": sempre che possano essere tuttavia considerate ‟attive" (non soltanto per chi ne sia soggetto, ma soprattutto per la comunità); e, a parte ciò, sempre che altre esigenze di ordine ‟sociale" (di ‟interesse" o di ‟utilità" ‟generale", come si esprimono gli artt. 42 e 43.) non ne richiedano comunque l'avocazio ne (ammessa con maggior larghezza per i beni e, quando ricorrano particolari condizioni, per le imprese) alla comunità o ad altri soggetti qualificati (artt. 41-44). Queste posizioni giuridiche hanno perduto dunque, a livello costituzionale, quell'attributo di ‛inviolabilità', che in passato si soleva ad esse riconoscere (tanto che esse contribuivano a ‛imprimere il carattere' alle costituzioni ottocentesche). Un attributo che nell'attuale ordine costituzionale (per espresso o implicito riconoscimento) compete soltanto alle libertà (artt. 13 ss.), ai diritti fondamentali dei lavoratori (arg. ex art. 1) e ai diritti politici (idem), sicché un'incisione nell'essenza di queste ultime posizioni soggettive, data l'assoluta incompatibilità con l'ordine costituzionale, sarebbe da considerare non come meramente modificativa, ma addirittura come eversiva, e perciò assolutamente insuscettibile di formare oggetto di revisione costituzionale, a pena di incidere sulla forma di Stato (v. Grossi, 1972).
La solidarietà costituisce dunque uno dei pilastri sui quali la Costituzione esige che posi la società da essa configurata (v. Lombardi, 1967, pp. 45 ss.). E solidarietà significa prima di tutto partecipazione, col lavoro e con ogni altro mezzo di cui ciascuno disponga, allo sforzo di ideazione e produzione dei beni e servizi occorrenti per mantenere, preservare, sviluppare e far progredire la società e in essa i singoli, che appunto il principio di solidarietà vuole siano concepiti come un corpo unico (non nel senso che il singolo debba sentirsi egemonizzato o addirittura annientato nello Stato o nella nazione, intesi quali enti trascendenti l'individuo, come in altre ideologie e in altri sistemi politici, ma perché è nelle ‛formazioni sociali' che l'individuo riesce a espandere appieno la propria personalità, dando e ricevendo dagli altri vigore creativo, partecipando insieme ad essi all'edificazione comune).
È appunto nel quadro della solidarietà sociale che trovano collocazione quelle disposizioni costituzionali che si occupano della protezione dei lavoratori, della loro giusta retribuzione, della loro sicurezza fisica ed economica, della loro partecipazione alla gestione delle aziende, delle condizioni di favore per essi previste in ordine all'accesso al lavoro autonomo e nell'espletamento di questo (artt. 35, 38, 41, 44, 47).
d) Stato sociale e Stato di diritto; solidarietà e libertà
Detto ciò, bisogna però sottolineare che il carattere di ‛Stato sociale' non assume nella Costituzione rilievo e valore prevalente rispetto all'altro di ‛Stato di diritto'. L'attuazione del principio di solidarietà non deve nè può consentire la compressione delle libertà individuali. La Costituzione ha voluto essere ‛a misura d'uomo'; e questo significa anche e in primo luogo, accanto alla realizzazione della solidarietà, altresì la garanzia e la difesa delle libertà individuali. Se la Costituzione le ha volute ‛inviolabili', queste non possono cedere davanti ad alcun altro criterio, sia pure esso stesso primario. Solidarietà e libertà debbono coesistere dunque senza sopraffarsi reciprocamente ed elidersi, ma contemperandosi e integrandosi.
È vero che lo Stato sociale comporta necessariamente una dilatazione della sfera dei pubblici poteri e della discrezionalità amministrativa e può talvolta esigere la costrizione della sfera delle autonomie private. Ma l'allargamento dell'ambito dei pubblici poteri non potrà mai giungere al sacrificio delle libertà civili, e anzi neppure di quegli ambiti dell'autonomia privata che sono strettamente correlati alle libertà civili, rivestendo carattere strumentale rispetto a queste. Di qui, in via di principio, l'esclusione della possibilità di una riserva totale alla mano pubblica degli strumenti di informazione e dei mezzi di diffusione del pensiero, dei luoghi di culto e di riunione, delle istituzioni scolastiche, dei centri di attività culturale e artistica, delle imprese di trasporto e di trasmissione della corrispondenza.
e) Pluralismo economico, sociale e politico; le comunità intermedie
Con questi ultimi riferimenti abbiamo toccato anche, marginalmente, il campo del pluralismo nel settore dell'economia. In questo settore infatti la Costituzione ammette, in via di principio, a partecipare (secondo i criteri già ricordati) così la mano privata come quella pubblica, variamente articolate, nel quadro di un'‛economia mista', del quale è, peraltro lo Stato a fissare l'ordine, determinando (in vista degli obiettivi indicati nell'art. 3 e già sottolineati) ‟i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali" (l'art. 41 enuncia così il principio di una programmazione concepita dallo Stato e da esso guidata e controllata nella fase realizzatrice). Un insieme, nel quale viene visto con favore l'affiancarsi all'impresa tradizionale di imprese condotte da lavoratori consociati (artt. 43 e 45).
Ma il pluralismo rappresenta un'altra delle connotazioni più spiccate dell'ordine instaurato con la Costituzione. Una connotazione la cui presenza è ben più larga nel sistema. La Costituzione infatti incoraggia e valorizza il pluralismo così nella società, come nel sistema dei pubblici poteri.
Con riferimento al primo aspetto (ché del secondo ci occuperemo più avanti) va segnalato in particolare il rilievo che essa attribuisce alle ‟formazioni sociali", la valorizzazione delle quali poggia sul concetto che queste contribuiscono (anche attraverso la dialettica che si stabilisce nel vicendevole confronto) allo ‟svolgimento della personalità dei singoli" (art. 2). Il riconoscimento e la valorizzazione interessa poi così le consociazioni ‟naturali" - cioè le formazioni spontanee, quali la famiglia (art. 29), i gruppi linguistici (art. 6), le comunità locali (artt. 5, 114 ss.), le confessioni religiose (artt. 7 e 8) - come le consociazioni volontarie, finalizzate al raggiungimento di obiettivi di comune interesse - quali le associazioni culturali, professionali, sportive, di categorie economiche, ecc. (art. 18), e, accentuatamente, quelle sindacali (art. 39) e politiche (i partiti: art. 49).
La Costituzione si occupa comunque in modo particolare di quelle che ammette a partecipare dei pubblici poteri (le comunità locali) e di quelle destinate a esercitare un loro peso (assumendo in tal modo anch'esse rilievo in ordine al potere) nel campo dei rapporti economico-sociali (i sindacati) e di quelli politici (i partiti). E si dà, tra l'altro, pensiero che, appunto perciò, tutte queste consociazioni siano ordinate su base democratica, così dimostrandosi consapevole che alla democraticità di un ordinamento statale non basta che la democrazia sia realizzata a livello degli organi pubblici, ove sia assente nelle istituzioni sociali che di questi ultimi condizionano in un modo o nell'altro la vita e l'attività.
3. La Costituzione formale
a) La forma parlamentare e i suoi temperamenti
Per quanto riguarda l'‛ordinamento della Repubblica' la Costituzione - che se ne occupa nella parte seconda - ha realizzato una forma di governo ispirata al tipo ‛parlamentare', mentre fu quasi universale il rifiuto, alla costituente, del suggerimento della forma presidenziale (v. Crisafulli, Lo spirito..., 1958, p. 99, il quale sottolinea peraltro il carattere ‟non maggioritario" del sistema italiano; v. Biscaretti di Ruffia, 1969, pp. 39 ss.; sulla varia tipologia delle forme di governo parlamentare e sugli elementi comuni ai diversi tipi, v. Elia, 1970, pp. 642 ss.). In essa però la posizione e i poteri preminenti del Parlamento risultano attenuati dalla rigidità della Costituzione (e perciò dalla necessità, per la revisione di essa, di procedure nelle quali le minoranze hanno notevole voce, così in Parlamento come fuori del Parlamento: art. 138), dalla potestà legislativa del governo nei casi urgenti (condizionata peraltro dal successivo consenso del Parlamento: art. 77), dalla coesistenza col pluralismo regionalistico (v. infra), con un potere presidenziale di scioglimento non privo di una certa elasticità (art. 88), nonché da due strumenti idonei a correggere la volontà del Parlamento (rispettivamente per ragioni di merito e di legittimità): tali strumenti sono il referendum abrogativo (art. 75) e il giudizio sulla costituzionalità delle leggi (artt. 134 ss.).
b) Taluni punti deboli del potere esecutivo
Nell'adottare il bicameralismo, la Costituzione, contraddittoriamente, ha evitato (come già si è visto) una sostanziale differenziazione delle due Camere (artt. 55-57). Ispirata dall'intento di ridurre al minimo necessario l'esigenza (che i sistemi parlamentari comunemente ammettono) delle deleghe legislative al governo e di conferire perciò al Parlamento un più elevato potenziale nella legiferazione - secondo quelle che allo studioso anglosassone paiono ‟fool-proof answers to past mistakes" (v. Loewenstein, 19552, pp. 191 ss.) - essa ha previsto la possibilità della deliberazione delle leggi in commissione (art. 72): una sede che la realtà ha rivelato idonea a favorire, al riparo della pubblicità, maneggi e tresche con le opposizioni, eventualmente anche alle spalle dei partiti (v. Predieri, 1970, p. 33; v. Mortati, La crisi..., 1972, pp. 158 ss. e Considerazioni..., 1972, p. 198). La proposta del potere legiferante delle commissioni fu fatta dall'on. Mortati nella seduta del 26 ottobre 1946 della seconda sottocommissione e fu appoggiata dagli altri democristiani. In un primo tempo era previsto però che la votazione finale spettasse all'assemblea. Più prevenuti, i comunisti si espressero anzi (a mezzo dell'on. Laconi) nel senso che prima del voto finale dovessero essere ammesse, in assemblea, le dichiarazioni di voto. Nella sottocommissione passò appunto un testo in tal senso. L'innovazione nel senso che le commissioni parlamentari possano esse stesse approvare i testi legislativi fu introdotta in assemblea dietro proposta dell'on. Perassi, sostenuta dai democristiani e dalle sinistre.
Un ulteriore aspetto di prevenzione nei confronti del governo (e di indebolimento della posizione di questo e del sistema parlamentare) è rappresentato dalla esclusione di qualsiasi differenziazione e limitazione per materia del potere di iniziativa legislativa dei parlamentari rispetto a quello governativo (art. 71; v. Mortati, La crisi..., 1972, pp. 161-162, e Considerazioni..., 1972, pp. 186-187 e p. 197 nota 39): con la conseguenza, ad esempio, che, specialmente attraverso le leggi deliberate in commissione, non di rado riesce abbastanza agevole alle opposizioni intralciare la politica di spesa del governo e, per tale via, il programma della maggioranza al potere.
Ma un'altra notevolissima ragione di debolezza del governo in Parlamento risiede nel fatto che la Costituzione non impone il voto palese e i regolamenti parlamentari privilegiano (perpetuando così un precetto dello Statuto albertino) il voto segreto, esponendo in tal modo il governo ad ogni possibile imboscata (v. Mortati, La crisi..., 1972, p. 161; v. Hermens, 1964, tr. it., p. 607; v. Maranini, 1963, pp. 58 ss.). Il progetto di Costituzione predisposto dalla commissione prevedeva anzi, sulle orme dello Statuto albertino, la necessità del voto segreto per l'approvazione delle leggi. Tale soluzione, sostenuta in assemblea dai comunisti (i quali anzi chiesero e ottennero che in proposito si votasse a scrutinio segreto), fu contrastata però dai democristiani e dai socialisti e fu bocciata.
c) Il sistema elettorale proporzionale
Evitando di fissare essa stessa il sistema per le elezioni al Parlamento, la Carta ha lasciato che al riguardo provveda il legislatore. Né da alcuna delle sue disposizioni risulta che essa abbia necessariamente presupposto l'adozione del sistema proporzionale, anche se a questo la legislazione si è finora costantemente tenuta: non ‛scattò' infatti, e fu subito abrogata, la legge elettorale del 1953 che prevedeva un premio alle forze coalizzate che avessero conseguito la maggioranza dei voti (circa il senso e l'utilità del sistema proporzionale ‟dove nei vari gruppi politici non sia tenuto vivo il rispetto degli altri, né così radicato il senso del limite della propria azione, da non far avvertire il bisogno di congegni protettivi delle minoranze", v. Mortati, Il potere..., 1972, pp. 461 e 472 e La direzione..., 1972, pp. 491 ss.; sui vantaggi dei sistemi maggioritari, v. Hermens, 1964, tr. it., pp. 369 ss.; sui sistemi elettorali, v. Friedrich, 19502, tr. it., pp. 397 ss.). Del sistema elettorale si discusse, all'Assemblea costituente, nella commissione che si occupò dell'ordinamento dello Stato, nelle sedute del 6 e 7 novembre 1946 della seconda sottocommissione. Democristiani e comunisti (i quali si temevano e si sorvegliavano a vicenda) si espressero per il sistema proporzionale; ma si ritenne che la materia dovesse essere regolata dalla legge elettorale e non dalla Costituzione. Tuttavia fu approvato l'8 novembre un ordine del giorno, presentato dal democristiano on. Cappi, così concepito: ‟La seconda sottocommissione ritiene che la Camera dei deputati debba essere eletta col sistema della rappresentanza proporzionale".
d) La posizione del potere esecutivo
Quanto al potere esecutivo, la Costituzione, mentre ha tenuto fermo il principio (proprio della forma di governo parlamentare) della responsabilità politica del governo verso il Parlamento, con la soggezione del primo alla fiducia del secondo (art. 94), e quello della preposizione del governo alla determinazione, oltreché dell'indirizzo politico, anche di quello amministrativo (art. 95), mantenendo l'apparato amministrativo alle dipendenze del governo (ivi), si è preoccupata, da un lato, dell'imparzialità dell'amministrazione (prescrivendo che essa venga assicurata attraverso il modo di organizzarla: art. 97), e, dall'altro, di assicurare la legalità dell'azione governativa e amministrativa, apprestando, in relazione a questa, in primo luogo, organi consultivi e di controllo ex officio in posizione di indipendenza (Consiglio di Stato e Corte dei conti: art. 100), e, in secondo luogo, giudici indipendenti, destinati a garantire la difesa dei cittadini nei confronti dell'azione amministrativa su tutta l'area dei diritti e degli interessi legittimi, senza possibilità di eccezioni (artt. 24, 103, 113).
Attraverso il riconoscimento al presidente del Consiglio dei ministri di una posizione di preminenza rispetto ai singoli ministri ai fini della direzione della ‟politica generale" adottata dal Consiglio - posizione destinata a farsi valere mediante un'azione di propulsione e di coordinamento - (art. 95), la Costituzione si è poi proposta di consolidare l'unitarietà e compattezza dell'azione governativa (l'attribuzione di una posizione di preminenza al presidente del Consiglio fu contrastata, all'Assemblea costituente, dalle sinistre; v. riassunto della discussione in Di Meo e altri, 1958, pp. 117 55. e 238 ss.).
Escludendo che un semplice voto contrario in Parlamento comporti per il governo l'obbligo di dimettersi (art. 94), condizionando la caduta del governo a un voto di sfiducia in Parlamento, del quale è prescritta per di più (al fine di evitare manovre sottobanco non controllate dai partiti), la manifestazione palese (ivi), e ammettendo la possibilità, al limite, che il presidente scelga tra l'accettazione delle dimissioni del governo cui sia stata negata la fiducia e lo scioglimento delle camere (artt. 94 e 88), la Costituzione ha cercato infine di far fronte a quello che rappresenta il tradizionale punto debole dei governi parlamentari nei paesi a sistema elettorale proporzionale: l'instabilità governativa (v. Mortati, Considerazioni..., 1972, pp. 184 ss.).
e) Le autonomie regionali; le forme di democrazia diretta
Il quadro dei centri di indirizzo politico contemplati dalla Costituzione si completa con le Regioni e con le forme di democrazia diretta. Le venti Regioni - gli enti locali maggiori, tra i quali è ripartito l'intero territorio nazionale e ciascuno dei quali è espressione di una comunità caratterizzata dalla comune derivazione etnica e culturale - godono, nelle materie tassativamente indicate dalla Costituzione (in tutte le quali appaiono prevalenti gli interessi locali o assumono particolare rilievo le diversità locali: assistenza sanitaria, urbanistica, turismo, artigianato, agricoltura, caccia, pesca nelle acque interne, ecc.), e in quelle materie di competenza statale che eventualmente il Parlamento ritenga di delegare a tali enti, di un'ampia autonomia politica, legislativa e amministrativa (differenziata e più accentuata nelle regioni insulari e in quelle mistilingui), pur nel quadro dell'unitarietà dello Stato - cui sono riservati la legislazione di principio, gli indirizzi della programmazione economica e la funzione di coordinamento - (v. Paladin, 1973).
Con l'istituzione delle regioni il costituente si propose, da un lato, un avvicinamento del potere ai cittadini e perciò un'azione di governo più vicina ai vari interessi (e quindi più varia, snella e adeguata alle differenti esigenze), e, dall'altro, una maggiore partecipazione dei cittadini alla direzione della cosa pubblica, non più affidata localmente a organi della burocrazia statale comandati dal centro.
Per bilanciare le difficoltà finanziarie delle Regioni meno sviluppate, la Costituzione prevede (nel quadro del principio solidaristico) l'integrazione della loro finanza (la quale si basa, al pari di quella delle altre, su tributi propri e su quote di tributi erariali) con un contributo di solidarietà nazionale.
Quanto alla democrazia diretta, essa ha la sua maggiore espressione (scarsa consistenza e risonanza avendo avuto, almeno finora, l'iniziativa legislativa popolare prevista dall'art. 71) nei referendum, ammessi per le leggi di revisione costituzionale (quando esse non siano state approvate dalle Camere con la maggioranza di due terzi), per le variazioni territoriali degli enti locali e per l'abrogazione delle leggi statali (artt. 75, 132, 133, 138). Si tratta di un mezzo che dovrebbe consentire ai cittadini di ritrovarsi e di effettuare le proprie scelte al di fuori e al di sopra del Parlamento, ed eventualmente dei partiti, e dovrebbe rappresentare un contrappeso allo strapotere di questi e uno strumento di verifica della loro rappresentatività (v. Mortati, Il potere..., 1972, p. 473, La direzione..., 1972, p. 491, e Considerazioni..., 1972, pp. 202 ss. e p. 214). Oltreché a un certo numero di elettori (cinquecentomila), il potere di iniziativa dei referendum abrogativi (che appare quello più significativo) è riconosciuto a cinque consigli regionali.
f) I partiti
Pur dedicando ai partiti uno degli articoli relativi ai rapporti politici (art. 49), onde proclamare il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in essi ‟per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale", la Costituzione né istituzionalizza espressamente (cfr. peraltro gli artt. 72 e 82 che istituzionalizzano i gruppi parlamentari), né definisce esplicitamente il ruolo di queste consociazioni permanenti ordinate a mediare gli interessi settoriali, ad alimentare e tenere vivo il rapporto tra il paese e la sua rappresentanza politica negli intervalli tra le scadenze elettorali, a ‟integrare il popolo nello Stato" (v. Crisafulli, 1969, p. 34). Anzi (mostrando di attribuire, in caso di conflitto, maggior peso alla coscienza del singolo parlamentare, rispetto alle scelte degli organi di partito, nella valutazione degli interessi del paese da tener presenti nell'esercizio del mandato politico) si preoccupa, a un tempo, di preservare le determinazioni del singolo parlamentare da ogni impegno assunto al riguardo verso il proprio partito (art. 67).
Si discute se la prescrizione costituzionale, nella formula sopra riportata, del ‟metodo democratico" si riferisca soltanto al comportamento esterno dei partiti o anche alla loro organizzazione interna, e cioè se sia riconosciuto dalla Costituzione diritto di cittadinanza anche a quei partiti i quali si basino su un'organizzazione autoritaria (v. D'Antonio, 1958, pp. 209 ss.). L'argomento fu trattato in assemblea nelle sedute del 21 e 22 maggio 1947. Il dibattito è tutt'altro che chiuso. Sta di fatto però che un regime, nel quale i partiti giocano - come attualmente in Italia - un ruolo decisivo (in quanto è la loro gerarchia a formare le liste dei candidati al Parlamento e - anche e soprattutto - è la loro gerarchia a decidere della sorte dei governi), può essere considerato effettivamente democratico solo nella misura in cui esista e sia verificabile un'autentica corrispondenza tra elettorato e partito e tra base dei partiti e gerarchia, e in quanto il sistema dei partiti attuali non si risolva in un sistema chiuso, tale da precludere nella realtà effettuale, attraverso distorsioni nell'impiego dei mass-media (per es., limitazione dell'uso della radiotelevisione ai soli partiti già presenti in Parlamento) e attività non legali (per es. terrorizzando, ricattando o denigrando gli iniziatori di nuovi movimenti), il formarsi di nuovi raggruppamenti politici (v. Crisafulli, 1969, p. 13 e Aspetti problematici..., 1958; sul carattere oligarchico e autoritario dei partiti nell'Europa occidentale, per esempio, v; Friedrich, 19552; v. Loewenstein, 19552; per alcune sempre attuali considerazioni sui partiti politici italiani, v. Maranini, 1967, pp. 389 55., 407 55. e 498-499; v. Mortati La crisi..., 1972, p. 166).
g) I sindacati e il CNEL
Anche un altro importante aspetto della presente realtà politico-sociale non è stato ignorato dalla Costituzione, senza che peraltro essa abbia avuto la forza di risolverlo con incisività: quello della inserzione dei sindacati nel circuito istituzionale del potere.
La Costituzione contempla la possibilità che la legge imponga la registrazione ufficiale dei sindacati, disponendo che per essere registrati questi abbiano ‟un ordinamento interno a base democratica", e prevede il conferimento della personalità giuridica ai sindacati registrati, aggiungendo che questi possono, ‟rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti", stipulare contratti collettivi di lavoro aventi forza normativa per tutti gli appartenenti alla categoria (art. 39). Dichiara inoltre che spetta alla legge di ‟regolare" il diritto di sciopero e definire l'‟ambito" del suo esercizio (art. 40). All'Assemblea costituente, mentre nella prima sottocomissione per la Costituzione era stato approvato (su proposta del democratico on. Tupini) un testo che rimetteva alla legge la disciplina delle ‟modalità di esercizio" del diritto di sciopero, precisando però che esse avrebbero dovuto riguardare soltanto la ‟procedura di proclamazione", l'‟esperimento preventivo del tentativo di conciliazione" e il ‟mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva", nella terza sottocommissione era stato approvato un ordine del giorno secondo il quale la materia avrebbe dovuto esser rimessa interamente alla legge. Nella seduta del 19 gennaio 1947 la commissione (nella quale si manifestò qualche dissenso in seno al gruppo democristiano), caduta malamente una proposta (di parte sindacalista democristiana) nel senso che la materia non avrebbe dovuto esser trattata nella Costituzione, approvò (col voto delle sinistre e dei repubblicani, e col voto contrario di quasi tutti i democristiani, dei liberali e delle destre) un testo che si limitava a dire: ‟È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero". La necessità di limiti al diritto di sciopero fu ammessa però espressamente anche in quella sede dai socialisti (interventi degli onn. Ghidini e Basso). Il testo attuale fu adottato in Assemblea nella seduta pomeridiana del 12 maggio 1947 a seguito di una animatissima discussione (furono presentati ben 22 emendamenti). I sindacati del resto hanno fin dapprincipio resistito ad ogni ingerenza dello Stato nella loro naturale sfera d'azione (onde le disposizioni degli artt. 39 e 40 sono rimaste lettera morta). Ciò è dipeso dal fatto che le varie associazioni sindacali sono state ‟manovrate dai partiti e quindi distorte dal cammino loro proprio di elaborazione e attuazione di una politica sindacale, intesa quale visione organica dell'insieme degli interessi dell'intera classe lavoratrice" (v. Mortati, Considerazioni..., 1972, pp. 192-193). I sindacati sono così riusciti a diventare potentissimi centri di potere extraistituzionali proprio attraverso l'utilizzazione dell'arma dello sciopero, che la legge non ha avuto la forza di regolare (per una sintesi delle obiezioni all'attuazione dell'art. 39, v. Mazzoni, 1969, pp. 165 ss.).
Quanto alla tesi che intendeva canalizzare ordinatamente la forza politica delle categorie produttive in una assemblea legislativa rappresentativa degli interessi di categorie o di settore, essa ebbe poca fortuna già alla Costituente. Al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (art. 99), nel quale una rappresentanza di tali interessi è contemplata (ma non a base elettiva), furono infatti riconosciuti nella Carta solo compiti consultivi e di iniziativa legislativa, compiti che esso, del tutto negletto dai sindacati e intrinsecamente debole, non è stato sostanzialmente in grado di esercitare, mancando di assolvere nella vita economica e politica del paese un qualsiasi ruolo.
h) Il presidente della Repubblica
Un ruolo di alto rilievo, anche se non preminente, è affidato dalla Costituzione al presidente della Repubblica (v. Crisafulli, Aspetti problematici..., 1958). Eletto da un'assemblea composta dai membri delle due Camere, integrata con la partecipazione di una rappresentanza delle Regioni (pari a poco più del cinque per cento dell'assemblea), il presidente non ha un'investitura popolare diretta, non partecipa del potere esecutivo, nè dispone di potestà di emergenza. Nondimeno, non è organo di mera rappresentanza, disponendo di caratteri e potestà, che ne fanno un potere autonomo, non privo di peso.
A parte il suo ruolo di magistrato ‛di influenza' e ‛di vigilanza', il quale si manifesta nella possibilità di inviare messaggi alle Camere, come pure di convocarle in via straordinaria e di rinviare ad esse, per un riesame, le leggi trasmessegli per la promulgazione, nella partecipazione ai più importanti atti governativi (tra i quali quelli normativi), nell'autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge d'iniziativa governativa, nella partecipazione al ‟potere estero" e al ‟potere militare" (egli ‟ha il comando delle forze armate" e presiede il consiglio supremo di difesa, che è un comitato di ministri), il presidente dispone di taluni importanti e autonomi poteri di decisione. Spetta a lui (lo abbiamo già visto) di risolvere le crisi di governo e di decidere lo scioglimento delle Camere. Spetta del pari a lui di nominare un terzo dei componenti della Corte costituzionale.
Risultando, dalla posizione fatta al Parlamento e al governo, che sono questi gli organi cui compete la determinazione e l'attuazione dell'indirizzo politico, è chiaro che il ruolo del presidente è ben altro: è quello di custode della Costituzione e degli interessi permanenti (espressi anch'essi nella Costituzione) del paese, inteso nella sua unità e nella sua continuità storica (egli ‟rappresenta l'unità nazionale"); ed è chiaro perciò che la sua cura, così negli atti di partecipazione e intervento in poteri altrui, come in quelli inerenti ai poteri decisionali suoi propri, deve esser tutta rivolta a che i massimi rotismi dell'organizzazione dello Stato si muovano e operino secondo l'ordine voluto dalla Costituzione e nello spirito di questa, e a ricondurli, quando occorra, a tale ordine. Di qui l'esigenza che egli (proprio perché ‟rappresenta l'unità nazionale") si tenga costantemente al di sopra delle parti e ispiri a questa direttiva d'obbligo (un obbligo che viene a legittimare l'irresponsabilità, salvo che nei casi estremi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione) tutti i suoi atti. Di qui anche quelle disposizioni che lo chiamano a presiedere il Consiglio superiore della magistratura, a partecipare (in posizione che non può non esser considerata preminente) della potestà di conceder grazia ai condannati nei casi singoli, e di quella di conferimento delle onorificenze (né lo jus clementiae né lo jus honorum dovrebbero essere infatti utilizzati secondo ispirazioni politiche). Di qui infine il potere a lui conferito di premiare cinque cittadini altamente meritevoli, benemeriti della comunità nazionale, con l'onore di entrare a far parte a vita del Senato.
i) Le garanzie della legalità: i giudici e gli organi ‛ausiliari'
Il quadro dell'ordinamento costituzionale si completa con gli organi di garanzia giuridica, i quali delineano quegli aspetti che imprimono al sistema il carattere di ‛Stato di diritto' (sugli aspetti garantistici della Costituzione italiana insiste particolarmente Maranini: v., 1967, pp. 332-333, 365 55., e 451 ss.).
L'apparato giurisdizionale è costituito dai giudici ordinari e da quelli amministrativi facenti capo al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti (nei confronti degli altri giudici speciali la Costituzione si è mostrata non a torto prevenuta, vietando di istituirne altri e prescrivendo la ‟revisione" di quelli preesistenti; artt. 102-103 e 125, e disp. finale VI). Della imparzialità e della indipendenza dei giudici dal potere politico (anche e soprattutto a garanzia dei cittadini nei giudizi contro la pubblica amministrazione) il costituente si è dato particolare cura. Sotto il profilo dell'imparzialità va ricordato che l'art. 98 ammette che ai magistrati possa esser vietato di militare in partiti politici, mentre l'art. 101 dispone che i giudici ‟sono soggetti soltanto alla legge": entrambe le disposizioni sottolineano con particolare nitore l'esigenza che i giudici non si discostino, nelle loro pronunce, dall'ordinamento giuridico, quale risulta dal corpo delle leggi (nelle quali è tradotta la volontà della rappresentanza popolare), e non si mettano a ‛fare politica' (essi che non hanno una investitura politica) nelle sentenze. Ciò viene riconosciuto anche da scrittori insospettabili di spirito conservatore (per es. v. Ambrosini, 1972, p. 392).
Sotto il profilo dell'indipendenza (che è la prima condizione dell'imparzialità) va ricordato che la Costituzione ha istituito, per il governo della magistratura ordinaria, un apposito organismo (il Consiglio superiore della magistratura) presieduto addirittura dal presidente della Repubblica (espressione dell'unità nazionale) - composto per la più gran parte da magistrati (quasi tutti eletti dallo stesso ordine giudiziario) e per meno di un terzo (allo scopo di evitare che la magistratura diventi una casta chiusa) da membri eletti dal Parlamento con esclusione di ogni ingerenza governativa (art. 104), e ha previsto per le rimanenti giurisdizioni l'apprestamento da parte del legislatore di idonee garanzie di indipendenza (artt. 100 e 108).
Il quadro degli organi di garanzia si completa con quegli organi ‛ausiliari' - Consiglio di Stato in sede consultiva, Corte dei conti in sede di controllo (art. 100) - cui, come già si è visto, è demandato il compito di contribuire ad assicurare la legalità dell'azione amministrativa indipendentemente dall'insorgere di una controversia.
l) La Corte costituzionale
Ma è proprio nel campo delle garanzie che la Costituzione ha introdotto una delle maggiori innovazioni, attraverso l'istituzione della Corte costituzionale, un corpo tecnico-politico composto di quindici giudici dotati della massima indipendenza, collocati in una posizione di estremo prestigio e altamente qualificati per preparazione giuridica, preposti all'ufficio per la durata di dodici anni (ridotti a nove nel 1967) e non rieleggibili. Essi vengono eletti per un terzo dal Parlamento, a maggioranza altamente qualificata, e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa, mentre l'altro terzo è di nomina presidenziale.
La Corte (alla quale non a caso è stata conferita una certa componente e una certa carica politica) è competente a eliminare dall'ordinamento, quando le ritenga illegittime, le leggi statali e regionali sospettate di incostituzionalità dai giudici comuni nel corso dei giudizi di loro competenza o denunciate dallo Stato o da una Regione in quanto lesive della rispettiva sfera legislativa. Inoltre essa conosce dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e tra gli enti costituzionali (Stato e Regioni), dei giudizi di accusa contro il capo dello Stato (per alto tradimento o attentato alla Costituzione) e i membri del governo (per i reati commessi nell'esercizio del potere) e dell'ammissibilità dei referendum abrogativi (art. 134 Cost.; LL. cost. n. 1/1948, n. 1/1953 e n. 2/1967). Quest'organo costituisce la massima garanzia istituzionale della preservazione (alla stregua di una interpretazione aggiornata alla luce della realtà storica) del vigente ordine costituzionale o della difesa di esso dalle tentazioni di prevaricazione in cui potesse essere indotta la maggioranza del momento.
4. La Costituzione reale
a) Le ‛aperture' e le ‛incompiutezze' della Carta
Quello fin qui descritto è il modello concepito dai costituenti e delineato nella Carta costituzionale: un modello non sempre dettagliato e talvolta aperto a soluzioni di tipo difforme e persino antitetico (sulle ‛ambiguità' e il ‛duplice volto' della Costituzione italiana, v. Crisafulli, Lo spirito della..., 1958, pp. 101-102; v. Treves, 1969, pp. 623 ss.). Ciò specialmente nel campo dei rapporti economici (v. Einaudi, 1949, p. 103; v. Pesenti, 1969, pp. 279-280), nel quale più sensibili furono le divergenze tra i maggiori gruppi politici rappresentati alla Costituente, potendo il principio di solidarietà - che rappresenta uno dei criteri ispiratori della Carta - essere attuato attraverso forme dell'organizzazione economica così prevalentemente individualistiche come prevalentemente collettivistiche, giacché la scelta deve essere guidata non soltanto dall'esigenza della ‟partecipazione di tutti i lavoratori", ma altresì da quelle del ‟pieno sviluppo della persona umana" e del ‟progresso" della società (artt. 3 e 4).
Anche nel campo dell'organizzazione dei pubblici poteri, però, il modello costituzionale appare aperto a soluzioni disparate proprio in ordine a punti di estrema importanza e delicatezza: basti qui ricordare che la Carta rimette alla legge la determinazione dei procedimenti elettorali; inoltre non specifica in alcun modo il carattere e le modalità di taluni importanti poteri presidenziali (e, tra gli altri, di quello importantissimo di scioglimento delle Camere). La stessa cosa è a dire per quanto concerne le modalità di esercizio della preminenza che viene riconosciuta al presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri.
Per un altro verso va tenuto presente che quello delineato nella Costituzione non era un disegno già per sé solo operante: gli organi, gli enti e gli istituti raffigurati nella Carta non erano tutti già esistenti (cosicché i responsabili del potere dovessero limitarsi a farli funzionare secondo le nuove previsioni costituzionali). Molti abbisognavano di essere creati ex novo o profondamente rinnovati attraverso l'opera legislativa. Quanto a quelli preesistenti, si trattava talvolta di farli vivere in modo assai diverso.
b) Il lento avvio dell'attuazione della Costituzione (1948- 1963): la riforma fondiaria; la nascita della Corte costituzionale, del CNEL, del Consiglio superiore della magistratura
D'altro canto, poiché al tempo delle prime elezioni, che si tennero immediatamente dopo l'entrata in vigore della Costituzione, uno degli emisferi della geografia politica (quello che aveva il punto di forza nel partito cattolico, il quale da solo riuscì ad assicurarsi la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento) appariva meno interessato a profondi rinnovamenti, tutto il periodo di quella legislatura - impegnato essenzialmente nell'opera di risanamento delle ferite della guerra, nella ripresa dell'economia del paese, nell'inizio di una politica meridionalistica - fu contrassegnato, sul piano istituzionale, da uno spirito più di assestamento che di trasformazione (sulle omissioni e i ritardi nelle attuazioni della Costituzione, v. Mortati, Considerazioni..., 1972, p. 173). Ciò anche in correlazione con la situazione internazionale (era il periodo della ‛guerra fredda'), la quale non mancava di accentuare nel paese la già profonda scissura tra gli altri schieramenti politici e quelli della sinistra marxista. Si continuarono ad applicare le leggi di polizia e i codici di procedura fascisti. Se una delle grandi ‛riforme' previste dalla Costituzione, quella fondiaria (art. 44), fu realizzata in quel periodo (1950), essa lo fu sotto la pressione di gravi agitazioni popolari e non si estese all'intero territorio nazionale (fu una ‛legge-stralcio').
Il periodo dell'attuazione della Costituzione, peraltro lungo e travagliato, cominciò soltanto con la legislatura successiva, dopo il fallimento del tentativo delle forze politiche, che avevano tenuto in pugno la legislatura precedente, di conservare (‛apparentandosi' tra loro) il predominio attraverso il ‛premio di maggioranza' previsto dalla legge elettorale (un compromesso tra sistema proporzionale e sistema maggioritario), approvata in un'atmosfera di tumulto in chiusura di quella legislatura (1953) e abrogata subito dopo il suo fallimento (v. Maranini, 1967, p. 493; v. Hermens, 1964, tr. it., pp. 615 ss.). De Gasperi si sarebbe più volentieri orientato per una riforma del sistema elettorale nel senso del collegio uninominale. Ma furono i tre partiti minori della coalizione governativa a sospingerlo verso la soluzione infelicemente adottata nel 1953.
Durante la legislatura 1953-1958 furono costituiti ed entrarono in funzione la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Specialmente il primo di tali eventi si rivelò di enorme peso: le sentenze della Corte hanno determinato infatti una svolta essenziale nella vita del paese, soprattutto per quanto riguarda la tutela dei diritti di libertà, le garanzie del processo, l'uguaglianza dei sessi, la protezione dei diritti dei lavoratori e in genere dei meno abbienti. La Corte ha preservato inoltre le due importanti riforme di struttura dell'economia (quella del 1950 sullo smembramento dei latifondi e quella del 1962 sulla nazionalizzazione dell'elettricità), affermando il principio che il diritto degli espropriati all'indennizzo, statuito nella Costituzione, non comporta necessariamente un ristoro totale del sacrificio subito. In tal modo essa ha secondato l'avanzata del paese verso una società dal volto più umano.
Di diverso segno sono stati gli apporti degli altri due organi di rilievo costituzionale di cui si è detto, il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, entrati entrambi in funzione nel 1958. Il secondo (come già si è accennato) è stato tagliato dal potere politico e dalle forze sindacali (anche per via della sua inadeguata rappresentatività) fuori da una incisiva partecipazione alle scelte decisionali. Il primo non può dirsi estraneo al fenomeno della corporativizzazione prodottasi nella categoria dei magistrati; condizionato esso stesso dalla intensa politicizzazione del corpo dei giudici (determinatasi specialmente nell'ultimo decennio), l'organo si è poi dimostrato inidoneo ad assicurare quella preservazione dell'ordine giudiziario da ogni contaminazione esterna che era nel disegno della Costituzione, tanto che a un certo momento, pur di garantire ai singoli magistrati una maggiore sicurezza, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover emettere nel 1969 una pronuncia - in astratto discutibile - la quale ha riconosciuto la legittimità della soggezione dei deliberati del Consiglio superiore al sindacato del Consiglio di Stato.
c) Il periodo del ‛centro-sinistra' (1963-1972): la legge sul referendum, la nascita delle Regioni, la legislazione sociale
Più lenta è stata però l'attuazione della Costituzione in altre direzioni. Solo nel 1970 è stata finalmente approvata (e quasi fortunosamente) la legge che regola i referendum popolari. Quanto all'ordinamento regionale, che costituiva una delle trasformazioni di maggior rilievo previste dalla Carta, va ricordato che all'entrata in vigore di questa esisteva una soltanto delle Regioni da essa previste (che allora erano diciannove, ma diventarono venti, nel 1963, col distacco del Molise dagli Abruzzi), e cioè la Sicilia (che aveva avuto il suo statuto fin dal 1946). Subito dopo (1948) furono istituite (dalla stessa Assemblea costituente) tre delle altre Regioni periferiche ad autonomia speciale (la Sardegna, il Trentino Alto Adige e la Val d'Aosta). Nel 1963 fu istituita l'ultima di tali Regioni, il Friuli-Venezia Giulia. Solo nel 1970-1972 il quadro fu però completato con l'istituzione e l'entrata in funzione delle quindici Regioni di diritto comune, realizzandosi in tal modo quella ripartizione del potere tra Stato ed enti territoriali, che è da considerare peraltro tuttora in fase di assestamento. Ciò è avvenuto soprattutto sotto la pressione delle forze politiche di sinistra, convertitesi, come si è già detto, al regionalismo dal momento in cui, nel 1947, erano rimaste escluse dal governo, e ritornate al potere nel 1963 con la partecipazione dei socialisti ai governi di centro-sinistra (ma già fin dall'anno precedente sostanzialmente partecipi della maggioranza).
Il periodo del centro-sinistra (1963-1972) è stato segnato da una netta inversione di tendenza della linea politica, specialmente a partire dal 1968, quando le forze politiche di sinistra hanno cominciato a esercitare - non solo dall'interno - una energica pressione sull'opera del governo, appoggiate da una azione incalzante dei sindacati e di altri movimenti, segnata da notevoli errori massimalistici.
d) L'involuzione istituzionale ed economica indotta dal massimalismo. I perduranti ritardi nell'attuazione costituzionale. Le distorsioni nel servizio dell'informazione
In questo periodo, accanto a leggi sociali degne dell'universale apprezzamento, ve ne sono state altre, le quali, congiuntamente a una contrattazione collettiva ultronea rispetto al livello della produttività, hanno bruscamente squilibrato (dal lato opposto rispetto agli squilibri del passato) gli assetti economici e sociali e, oltreché deviare dalla Costituzione per nuove strade, hanno indebolito (anche per via della conseguente ‛disaffezione' degli imprenditori e dei risparmiatori) il potenziale economico del paese, mettendolo in condizione di non utilizzare appieno le grandi energie di cui tuttora dispone e facendogli perdere il passo rispetto ai partners della Comunità europea (come anche le vicende monetarie hanno confermato). Sembrano scritte per tale realtà odierna le parole dedicate a quella degli anni che precedettero il fascismo da L. Valiani (v., 1955, p. 9), laddove si riferisce al socialismo di allora, che si ‟ubbriacava di vuota quanto entusiasmante fraseologia massimalistica e intanto puntava su rivendicazioni quotidiane, rapidamente neutralizzate poi dall'inflazione".
È chiaro che in questo clima - nel quale tuttora viviamo - era ed è tutt'altro che pensabile l'attuazione di quei precetti della Costituzione che ancora attendono di esser tradotti in legge: quelli relativi alla disciplina delle associazioni sindacali, della contrattazione collettiva del lavoro, del diritto di sciopero (artt. 39-40). Sono proprio le forze sindacali - le quali hanno acquistato di fatto nel paese uno strapotere, sostanzialmente politico (v. Predieri, 1970), che trascende la funzione ad essi garantita dalla Costituzione e stravolge il quadro istituzionale - a volere che la materia (dato che essi sono oggi in grado di operare efficacemente extra ordinem) non abbia quella disciplina giuridica che la Costituzione indica.
Un'altra legge in ritardo (nonostante i molteplici tentativi) - che in un periodo caratterizzato da maggioranze tutt'altro che compatte sarebbe illusorio considerare a portata di mano - è quella riguardante i poteri del presidente del Consiglio dei ministri, cui l'art. 95 della Costituzione commette il compito di ‟dirigere la politica generale del governo" e di ‟mantenere l'unità di indirizzo politico e amministrativo, promovendo e coordinando l'attività dei ministri" (per notizie circa i vari disegni di legge presentati in materia e non giunti in porto, v. gli autori ricordati da Paladin, 1970, p. 709, nota 164).
Non casuali debbono esser considerate altre inadempienze costituzionali: quelle relative all'assicurazione di una autentica indipendenza degli organi della giustizia amministrativa. Pure in occasione della legge del 1971, istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, il legislatore ha avuto scarso rispetto di quelle regole della Costituzione, che anche per i giudici speciali (e particolarmente per quelli che debbono giudicare l'operato della pubblica amministrazione) esigono l'indipendenza dal governo (v. Sandulli, 197311, pp. 123 ss.).
Esiste poi un ulteriore campo, di straordinario rilievo, nel quale i canoni costituzionali non sono riusciti a realizzarsi e hanno anzi addirittura subito una involuzione. Esso è quello del servizio radiotelevisivo, il quale nello Stato contemporaneo (e specialmente in Italia, dove il numero dei giornali venduti quotidianamente - vari di carattere e di tendenza - è pari al 10% della popolazione, mentre l'indice di ascolto del telegionale della sera si avvicina al 50%) è, tra i mass media, quello di gran lunga più influente. Riservato allo Stato e gestito in regime di monopolio, per concessione dello Stato, da una impresa privata a capitale pubblico, questo servizio, che prima veniva prestato con metodo paternalistico sotto l'ispirazione governativa, è diventato, nell'ultimo decennio, sede riservata a operatori che hanno fatto dell'informazione e dei programmi culturali strumento di politica di parte. Esso è venuto così meno a quei canoni di obiettività e imparzialità (da realizzare soprattutto assicurando la completezza dell'informazione e la compresenza delle varie voci), senza l'osservanza dei quali un monopolio del genere si pone in insanabile contrasto col principio costituzionale del libero accesso ai mezzi di diffusione del pensiero e con quello della libertà dell'informazione e, data la sua potenza suggestiva, rappresenta, con le sue degenerazioni e deformazioni, una delle cause della crisi istituzionale nel paese (sull'esigenza di osservare principi di obiettività e imparzialità nell'esercizio del monopolio pubblico radiotelevisivo, cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 1960; sull'importanza di una ‟informazione imparziale" in vista di una ‟più continuativa collaborazione popolare alla vita dello Stato", v. Mortati, La crisi..., 1972, p. 166 e Considerazioni..., 1972, p. 212).
e) Sintesi
Non si può negare che i meccanismi voluti dalla Costituzione repubblicana ed entrati in funzione hanno contribuito, in questi anni, a fare più posto all'individuo (a tutti gli individui) nella società, a livellare ed elevare la condizione umana, così sul piano delle libertà come su quello delle posizioni sociali. (Nondimeno appare esatta l'osservazione - v. Friedrich, 19552 - che in Italia e in genere nelle democrazie dell'Europa occidentale, l'individuo isolato ha perduto rilievo rispetto all'individuo associato; ne sono conferma le carenze nella materia della giustizia amministrativa, di cui si è accennato al paragrafo precedente). Sono caduti molti vecchi limiti; la società è diventata ‛affluente' e ‛permissiva' (forse anche troppo). Può dirsi realizzato il precetto dell'art. 34, per cui ‟i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi". Anche in questa direzione si è anzi ecceduto a discapito della selezione; e ciò ha avuto, tra l'altro, la conseguenza di non riuscire a dare ai veri meritevoli tutto quanto si sarebbe dovuto e altrimenti si sarebbe potuto. L'azione promozionale dei pubblici poteri si è mossa nel senso di alimentare le occasioni di lavoro non di rado al di là dell'utilità economica, e anzi talvolta mancando di soppesare adeguatamente, spesso per ragioni clientelari, l'utilità collettiva immediata e mediata. Le condizioni di vita delle categorie meno abbienti hanno guadagnato molti punti (e più ancora avrebbero potuto guadagnarne se alla demagogia non si fossero accompagnate troppe dilapidazioni).
Tutto lascia intendere però che a un certo momento è stato varcato il limite di rottura, che la sottoprotezione, anziché scomparire, ha cambiato area, donde la ‛disaffezione' per l'iniziativa privata (che pure ha la sua parte nel sistema) e lo stato enormemente critico nel quale l'economia del paese è venuta a trovarsi, raggiungendo nel 1974 punte drammatiche.
5. Un bilancio
a) Le ragioni di talune distorsioni del sistema
A partire dalla sua entrata in vigore, la Costituzione reale non ha coinciso dunque mai in Italia, né coincide attualmente, con quella formale. Ciò specialmente per quanto riguarda i poteri e il loro funzionamento. Né può dirsi che la graduale entrata in funzione degli organi, enti e istituti da essa previsti abbia consentito l'elisione del gap tra le intenzioni e la realtà (previsioni negative in ordine alla possibilità di una costituzione reale corrispondente a quella formale erano state fatte da studiosi stranieri fin da quando la Costituzione venne emanata; v. Friedrich, 19552; v. Loewenstein, 19552).
Come hanno vissuto, nei fatti, le istituzioni? Un bilancio di questo genere è indipensabile. Non è possibile parlare di un sistema costituzionale senza giudicarlo nella vita reale e alla prova dei fatti.
Al fine di spiegare come e perché il sistema ha funzionato e funziona in modo diverso da quello concepito dai costituenti è però indispensabile, a questo punto, accennare che esso risulta fortemente alterato dal fatto che tra le forze presenti in Parlamento ve ne sono, rispettivamente all'estrema sinistra e all'estrema destra, due - il Partito Comunista (PCI) e il Movimento Sociale (MSI) - che, per le loro matrici storiche e ideologiche e i loro metodi, vengono considerate dagli altri partiti (fatta eccezione per il PSI nei confronti del PCI) come forze antisistema (antidemocratiche), e perciò insuscettibili di essere accolte dalle altre in una coalizione di governo. Poiché tali forze sono di consistenza notevole (il PCI occupa attualmente circa il 30% dei seggi della Camera dei deputati e il MSI circa l'80%), l'esclusione di esse dall'area entro la quale è possibile muoversi ai fini della formazione delle (indispensabili) coalizioni governative viene a rendere l'area stessa (la cosiddetta ‛area democratica') assai ristretta ed estremamente ridotte le alternative di governo: i partiti tradizionalmente di centro (democristiano, socialdemocratico, repubblicano) - i quali nelle Camere elette nel 1972 non riescono, da soli, a formare maggioranza - non possono formare attualmente coalizione se non appoggiandosi (alla loro destra) ai liberali - formando in tal caso una maggioranza che si aggira sul 52% -, o (alla loro sinistra) ai socialisti - formando in tal caso una maggioranza che raggiunge il 58%.
Già questa estrema limitatezza di alternative e la presenza in Parlamento di imponenti forze politiche che, essendo escluse a priori da ogni possibilità di partecipazione governativa, sono fatalmente portate a un tipo di opposizione provocatorio e velleitario piuttosto che stimolante e correttivo, alterano fortemente il sistema. Ma a ciò si aggiunge il fatto che nessuna delle due uniche maggioranze attualmente possibili può vantare una sua saldezza. Da un lato, infatti, le profonde divisioni del partito cattolico, due terzi del quale simpatizzano per le formule orientate a destra e un terzo per quelle orientate a sinistra (questo schieramento spiega le maggioranze formatesi negli scrutini segreti svoltisi per l'elezione del presidente della Repubblica nel 1962 e nel 1971), mantengono in continua difficoltà ogni forma di coalizione e in particolare le coalizioni di centro, che dispongono di una maggioranza assai risicata; dall'altro le divisioni in seno al Partito Socialista (un terzo circa del quale suole collocarsi su posizioni massimaliste e filo-comuniste) rendono ancor più ardue le difficoltà delle coalizioni di centro-sinistra.
A tutto questo si aggiunge un ulteriore fattore di distorsione. Esso è rappresentato dal fatto che, per una sorta di convenzione costituzionale accettata per ragioni diverse, la forza politica di estrema destra, il MSI - pur non essendo stata finora definita come fascista ai sensi della legge 645 del 1952, emanata in attuazione della XII disp. finale della Costituzione - viene considerata da tutte le altre forze politiche, oltre che come antisistema, anche come fascista; con l'effetto che i suoi voti, pur essendo formalmente validi, non sono, se palesi, utilizzabili dalla maggioranza. L'‛ibernazione' dei voti di tale forza politica (passata dal 5 all'8% nelle elezioni del 1972 per via dell'apporto dei suffragi di una parte della piccola borghesia, delusa dagli atteggiamenti dei partiti di centro e contraria a certi massimalismi degli ultimi governi della precedente legislatura) mette infatti la sorte delle coalizioni di centro - le quali disporrebbero (come si è visto) di una sia pur risicata maggioranza (in realtà solo sulla carta) - alla mercé delle sinistre e consente così al Partito Socialista (il quale mantiene i contatti e, negli enti minori, anche le alleanze con i comunisti) di rincarare il prezzo per la partecipazione a coalizioni di centro-sinistra.
b) La fase di prevalenza dei partiti (1948-1968)
Nella vita politica italiana il ruolo dominante è stato giocato in un primo tempo, fino ai tre quarti degli anni sessanta, dai partiti: dapprima da quelli del centro; poi - dopo un certo periodo in cui il centro (notevolmente indebolito dai risultati elettorali del 1953) fu costretto ad avvalersi, pur di sostenersi, di appoggi (piuttosto estemporanei e non sempre palesi) sulla destra - dai partiti del centro-sinistra.
In realtà il Parlamento e il governo sono stati condizionati (ed esautorati) dai partiti, essendo questi ad esprimere i leaders, a formare le liste elettorali, a decidere le alleanze, a controllare i programmi di governo, a decretare le crisi governative e risolverle; è significativo che negli ultimi tempi è invalsa la prassi della diretta consultazione dei segretari dei partiti da parte del presidente della Repubblica. Si è constatato frequentemente che i sistemi proporzionalistici ‟pongono, più di ogni altro sistema elettorale, l'effettivo esercizio del potere politico nelle mani delle oligarchie di partito e delle loro burocrazie, che rimangono assolutamente sottratte a qualsiasi controllo popolare", secondo quanto dichiara Loewenstein (v., 19552), il quale ne ricava che conseguentemente i parlamenti, manipolati dai partiti, operano ‟nel vuoto politico" e scadono nel rispetto popolare e che ‟ormai la sovranità risiede nei partiti"; onde formule del tipo di quella dell'art. 1 della Costituzione italiana sarebbero bugiarde.
Nessun governo italiano è caduto a seguito di un voto di sfiducia in Parlamento (la cosa era stata, del resto, prevista dai costituenti: cfr. gli interventi degli onn. Calamandrei e Tosato nella seduta della seconda sottocommissione del 5 settembre 1946). Tutte le crisi di governo si sono verificate per dimissioni spontanee, sul presupposto del venir meno dell'appoggio di uno o più dei partiti della coalizione (o di singole correnti decisive) oppure dell'esigenza di una ‛verifica' della persistenza del loro appoggio. (Peraltro, sulla possibilità che, quando le ragioni della crisi non appaiano chiare, il presidente della Repubblica inviti il governo dimissionario a presentarsi alle Camere - ciò si è verificato, nel periodo 1958-1960, per i governi Zoli, Fanfani e Tambroni - v. Mortati, Considerazioni sui mancati adempimenti..., 1972, pp. 185-186).
c) La fase attuale e le sue difficoltà
In un secondo tempo - e specialmente a partire dalla legislatura 1968-1972-, non ostacolate e anzi (almeno dapprincipio) secondate dai partiti di sinistra (e non solo da quelli dell'opposizione) - i quali hanno ritenuto che i propri obiettivi politici potessero trarre vantaggio da simili sostegni esterni -, sono venute emergendo, nella vita e nella lotta politica, forze extraparlamentari: sindacati e raggruppamenti di lavoratori e (in vario modo e con varia vicenda collegati con questi) gruppi e movimenti politici (per lo più giovanili) di limitate e fluide dimensioni ma molto attivi e spregiudicati nei metodi.
Attraverso scioperi politici, occupazioni di fabbriche e scuole, manifestazioni e ‛contestazioni' di vario genere, forme di linciaggio morale e altri fatti intimidatori, adunate e sfilate, esse hanno tentato (e talvolta sono riuscite) ad imporre al Parlamento e al governo la propria volontà, non di rado mediante soluzioni di tipo assembleare (e perciò in contraddizione col sistema), realizzate sulla testa del maggior partito - quello cattolico - utilizzando votazioni nelle quali alle sinistre (governative e non governative) si sono aggiunti i consensi delle minoranze di sinistra di quel partito. Un fenomeno agevolato dai meccanismi sopradescritti, che sono propri del Parlamento italiano.
A questo punto (con una situazione caratterizzata dal- l'impotenza del maggior partito a mantenere la propria saldezza unitaria, essendo esso stesso attraversato dallo spartiacque degli indirizzi di fondo della politica economica e sociale), si è andati non solo oltre lo Stato ‛parlamentare', ma addirittura oltre lo Stato ‛di partiti'.
Da questa fase politico-costituzionale il partito cattolico ha cercato di uscire rendendosi promotore nel 1972 dell'anticipato scioglimento delle Camere e, sotto la pressione del proprio elettorato, di un ritorno al centrismo (estate 1972). L'entità delle forze di opposizione (40% sulla sinistra, 8% sulla destra) ha reso però estremamente facile alle minoranze democristiane contrarie al centrismo di imporre, dopo un anno di dimostrata ingovernabilità del paese in simili condizioni (poche assenze in Parlamento nei settori di maggioranza erano sufficienti a porre in difficoltà il governo), il ritorno al centro-sinistra (luglio 1973).
L'esperienza degli ultimi tempi ha dimostrato che, laddove non voglia e non riesca a contrattare con le sinistre (che dispongono del 40% dei seggi parlamentari), un governo di centro (formalmente maggioritario) non è in grado neppure di ottenere la conversione in legge dei propri provvedimenti legislativi d'urgenza (bastano poche assenze o una votazione segreta a impedirgli di operare), anche quando nessuno sia in grado di offrire una valida soluzione di ricambio. Può considerarsi esemplare quanto si è verificato al Senato ai primi di aprile 1973, quando, in due giornate consecutive, il governo centrista presieduto dall'on. Andreotti, dopo essersi visti bocciati a scrutinio segreto alcuni articoli di una legge riguardante l'istruzione secondaria, ha sfidato l'assemblea chiedendo per ben quattro volte la fiducia su altri articoli e sulla intera legge, e ottenendola sol perché essa comporta il voto palese.
Si sono indicate al paragrafo precedente le cause di tale situazione.
A livello governativo lo stato di disagio si è manifestato, in questa fase, prima di tutto sotto forma di instabilità e debolezza dei governi, così di centro-sinistra - per via della mancanza di omogeneità, spesso manifestatasi in incredibili episodi di mancanza di solidarietà governativa (ha teorizzato la possibilità di una maggioranza non omogenea G. Ferrara: v., 1973) - come di centro, per via della mancanza di una effettiva maggioranza. Di qui le continue scosse, il ripetersi di crisi e di ‛verifiche': ben quattro furono le crisi dei governi di centro-sinistra nei primi due anni della legislatura 1968-1972, fino al governo Colombo, costituito nell'estate del 1970 e rimasto in piedi per circa un anno e mezzo solo in forza della sua debolezza e cedevolezza (sul fenomeno della stabilità basata sulla debolezza, già segnalato da M. Duverger, v. Crisafulli, 1967, pp. 109-110); il governo Andreotti ha retto, a sua volta, per un anno, solo per mancanza di soluzioni di ricambio; in meno di un anno, subito dopo, sono entrati in crisi due governi Rumor.
d) Il ruolo silente della presidenza
Quanto all'ufficio del presidente della Repubblica, gli si è fatto giocare, nel primo venticinquennio di vita repubblicana, un ruolo più silente e meno incisivo di quello che la Costituzione scritta avrebbe consentito (un giudizio opposto viene formulato da Elia: v., 1970, p. 661); vi ha contribuito anche una sorta di intimidazione implicita nella postuma montatura di un preteso ‛tentativo di colpo di Stato' presidenziale nel 1964. Si contano sulle dita di una sola mano i messaggi presidenziali al Parlamento (l'ultimo risale al 1963). Dopo la presidenza Einaudi nessuna legge è stata rinviata alle Camere. Prima dell'attuale presidenza si è rifuggiti dal potere di scioglimento, pur quando tutto dimostrava che mancavano altre vie d'uscita.
In sostanza, fino al 1972 i presidenti si erano venuti gradualmente adattando a giocare un ruolo tutt'altro che decisivo nelle ore difficili. Tra le varie possibili, si erano per lo più rassegnati ad accettare quella interpretazione dei loro poteri che più ne limitava la consistenza. Se non fosse stato per la fermezza di Einaudi nel far valere il principio che nella scelta dei senatori a vita, di competenza presidenziale, il governo non dispone di potere di proposta (v. Biscaretti di Ruffia, 1969), probabilmente anche il potere di nomina dei cinque giudici costituzionali di sua spettanza sarebbe stato sottratto al presidente.
e) Carenze di rappresentatività
Nel complesso il sistema è stato incanalato verso il condizionamento dei poteri decisionali rappresentativi (Parlamento, governo, organi regionali) da parte di centri di cui non è dato verificare il grado di democraticità e rappresentatività (partiti, sindacati). Si tratta di un fenomeno comune alle forme di ‟governo parlamentare a multipartitismo esterno" (v. Elia, 1970, p. 654; circa l'infedeltà dei partiti, in siffatte forme politiche, al mandato degli elettori, cfr. ibid., p. 655 e nota 87 con riferimenti all'esperienza della Terza Repubblica francese; nel senso di un ‟difetto di vera rappresentatività dei partiti" - e del sistema -, v. Mortati, Considerazioni..., 1972, pp. 193-194 e 200).
Quanto agli altri poteri decisionali previsti dalla Costituzione, la tendenza è stata quella di smorzarne la portata. Oltre a quel che si è detto a proposito del presidente della Repubblica, sono particolarmente significative, in proposito, le lentezze e la macchinosità dei congegni (previsti dalla legge del 1970) per l'attivazione dei referendum popolari, attraverso i quali i cittadini possono contarsi su due scelte soltanto, al di fuori dei partiti (e dei sindacati), e verificare la credibilità di questi. È evidentemente contraddittoria la posizione di chi, pur dichiarando di riconoscere la ‛democraticità' dell'istituto del referendum e deplorando gli intralci posti dalla legge 25 maggio 1970 n. 352 sul suo cammino, si mostra preoccupato che esso possa essere utilizzato ‟per la realizzazione di fini conservatori e reazionari" (v. Ambrosini, 1972, pp. 394 e 397). A chi dovrebbe spettare di giudicare se le scelte della maggioranza siano o no ‛democratiche'? L'esperienza del referendum sul divorzio (12 maggio 1974), l'unico che finora si sia avuto, ha dato, del resto, conferma della validità democratica dell'istituto.
In sostanza, nel sistema dei poteri ufficiali, così come esso vive, i freni prevalgono sulle spinte. Anzi, al complesso dei freni contemplati dal sistema (le garanzie istituzionali), altri se ne sono aggiunti (inibizioni e impedimenti) estranei al sistema. Mentre così i centri dove le energie dovrebbero sprigionarsi nel quadro del sistema risultano oltremodo indeboliti, su di essi premono, e riescono a imporsi - fuori del metodo democratico - forze esterne, sottratte ai meccanismi delle garanzie istituzionali e la cui rappresentatività non è dato misurare.
f) Le ragioni dell'instabilità e dell'inefficienza governativa
È stato detto autorevolmente di recente, che i difetti della Costituzione italiana risalgono al fatto che essa fu scritta a caldo, nel clima della lotta al fascismo, con la preoccupazione di non cadere in nuovi autoritarismi. M. Einaudi (v., 1949) sottolinea, in proposito, la divergenza dei punti di vista, alla Costituente, dei democristiani e dei comunisti, orientati, questi ultimi, nel senso che la Costituzione dovesse contenere addirittura una dichiarazione formale di antifascismo.
Per fronteggiare i rischi di un nuovo ‛governo forte', la Costituente si preoccupò soprattutto di limitare i poteri dell'esecutivo, concentrò nel Parlamento tutta la potestà legislativa, accentuò tale concentrazione con l'elevato numero delle riserve di legge, con l'istituto della legiferazione in commissione, con l'illimitatezza della possibilità di iniziativa legislativa dei membri del Parlamento: in tal modo collocò il governo in una posizione di massima soggezione rispetto al Parlamento - un Parlamento nel quale l'opposizione è facilitata nell'esercizio di una funzione interferente, condizionante e preclusiva.
A ciò si è aggiunto un sistema elettorale in cui il meccanismo proporzionale non è attenuato in alcun modo, né attraverso premi di maggioranza, né attraverso l'esclusione dell'attribuzione di seggi a quelle liste che non abbiano conseguito una percentuale minima di suffragi (tra le grandi democrazie - Stati Uniti, Inghilterra, Germania Federale, Francia, Italia - il nostro paese è oggi il solo ad applicare il sistema proporzionale integrale).
Tale sistema ha alimentato il frazionamento delle forze politiche e non ha favorito la coagulazione delle forze affini (tra i critici del sistema proporzionale italiano v. Guarino, 1967, pp. 129-130). Un sistema elettorale proporzionale privo di correttivi porta infatti con sé, in consecuzione graduale e necessaria - specialmente laddove sulla carità di patria prevalgano, negli uomini della classe politica, gli interessi e le ambizioni personali o di gruppo -, la proliferazione dei partiti, la necessità di governi di coalizione, il mercato delle combinazioni, l'emergere delle correnti e dei personalismi (per lo più coincidenti) nei partiti maggiori a struttura non autoritaria, più ricchi di frange variegate proprio perché più numerosi e meno ferrei (per una diagnosi delle cause di proliferazione delle correnti nel Partito Democratico-cristiano, in chiave personalistica, v. Elia, 1970, p. 659), l'indisciplina nei partiti e la tresca delle loro correnti con altri partiti, la fluttuazione delle alleanze, l'inserimento delle opposizioni nella formazione delle leggi, il deragliamento dei programmi di governo, l'impossibilità, per i governi, di un'azione ferma e decisa, se non vogliono rassegnarsi a cadere verticalmente il secondo giorno.
Ma ulteriori, gravi ragioni sono alla base delle disfunzioni del sistema e consistono nella già rilevata estrema ristrettezza dell'‛area democratica' - la quale comprende oggi appena il 62% delle forze politiche presenti in Parlamento -, sicché le alternative di governo vengono a rimanere estremamente ridotte (v. sopra, § b).
A ciò si aggiunge, come pure si è visto, l'inutilizzabilità, per esigenze di principio, da parte di qualsiasi maggioranza, di un cospicuo numero di voti esterni, quelli ‛ibernati', i quali contano contro il governo, ma non in favore di esso (sulla necessità di venire a capo delle situazioni di ‛congelamento' dei voti, essendo esse destinate ad alterare il sistema, v., ma ad altro riguardo, Duverger, 1961; tr. it., pp. 73-74). L'impossibilità politica del rafforzamento di una eventuale maggioranza di centro sulla destra (così nel paese, guadagnando a sé i suffragi andati per protesta alla destra, come in Parlamento, utilizzando l'appoggio delle destre) si risolve in un anomalo e vistoso vantaggio per le altre opposizioni, che da ciò si sono viste incrementare il peso dei propri voti. Siamo così in presenza di un sistema parlamentare reso ancor più anomalo e zoppo, poiché in esso solo il 92% dei voti conta, ma la maggioranza ha nondimeno bisogno, per governare, di superare il 50%... È chiaro che simili condizioni, che privilegiano talune opposizioni, sia rispetto alle altre, sia rispetto alla stessa maggioranza, snaturano il sistema.
L'ulteriore riduzione delle possibilità del centro comprendente le forze politiche più omogenee dell'‛area democratica', deriva dal frazionismo del suo maggior partito (nel quale oggi si contano almeno sei correnti e, fino a ieri, se ne contavano nove).
Tutto ciò, oltre a ridurre a minimi termini le possibilità di alternative, mina concentricamente la stabilità e, con essa, l'efficienza dell'esecutivo; ed, essendo questo, per costruzione, il centro propulsore dell'azione politica e la guida del paese, ha posto in crisi l'intero sistema politico, economico e sociale.
g) Le condizioni perché la democrazia sopravviva
L'esperienza italiana - la quale fa seguito a quella di Weimar e a quella della Terza e soprattutto della Quarta Repubblica francese - rappresenta una conferma che nei grandi Stati le forme di governo di tipo parlamentare non riescono a funzionare quando non possono contare su una maggioranza salda e stabile, caratteri che presuppongono necessariamente un minimo di omogeneità politica. Friedrich (v., 19502; tr. it., p. 423) sottolinea l'importanza di tener distinti, al riguardo, i grandi dai piccoli Stati.
Laddove una maggioranza omogenea esista, basta una differenza di pochi voti per governare: lo ha dimostrato non solo il Regno Unito, le cui elezioni si svolgono in collegi uninominali a turno unico, ma anche la Germania Federale (che ha un sistema di elezioni proporzionali corretto dalla Sperrklausel, che comporta l'esclusione dell'attribuzione di seggi alle liste che non riescono a raccogliere un minimo abbastanza elevato - 5o% - di suffragi).
Laddove una maggioranza di tal fatta non esista e le forze dei partiti siano inquiete e fluttuanti, occorre cambiare il sistema elettorale, adottando un sistema idoneo a incrementare la consistenza delle maggioranze (a proposito del rafforzamento dei partiti di centro attraverso i sistemi elettorali maggioritari, v. Hermens, 1964; tr. it., pp. 369 ss.); oppure, quando non si voglia optare per una forma di governo di tipo presidenziale, occorre pensare a una soluzione che consenta un ‛governo di legislatura' - del tipo di quello ipotizzato da Blum e da Mendès-France e per il quale si batte ora con costante impegno Duverger (v., 1958 e 1961; per una rassegna di altri suggerimenti di riforma, v. Biscaretti di Ruffia, 1969, pp. 60 ss.).
Secondo le conclusioni di una tavola rotonda svoltasi per iniziativa della rivista ‟Gli Stati" l'11 novembre 1972 in Roma, alla quale hanno partecipato Crisafulli, Ferrari, Galeotti, La Pergola, Mortati, Sandulli, fungendo da moderatore Jemolo (v. Cangini, 1973), ove una forma di governo democratico non sia capace di risanarsi dall'interno, e cioè attraverso la consapevolezza degli elettori e la serietà dei partiti e dei loro leaders, allora la crisi è risolvibile solo operando sulla forma di governo (v. Duverger, 1961; tr. it., pp. 61-62), se si vuole evitare che sia travolta la stessa forma di Stato e cioè la democrazia (ibid., pp. 89-90, 95 55. e 122-123).
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