Costituzione
«Eccolo l’edificio che abbiamo costruito: la casa comune»
(Meuccio Ruini)
Transizione costituzionale
di
25-26 giugno
Esattamente a 60 anni di distanza dal giorno della prima seduta della Costituente, il referendum sulla riforma della parte II della Costituzione, licenziata dal Parlamento il 16 novembre 2005, dà esito negativo, bocciando il progetto di modificare in senso federalista e presidenzialista l’ordinamento dello Stato repubblicano previsto dalla Carta. Il risultato della consultazione pone fine per ora a un dibattito sulla necessità di riforma costituzionale, che è nell’agenda politica fin dai primi anni Ottanta.
Con transizione costituzionale qui intendiamo un lungo percorso di ipotesi progettuali per la riforma di parti della Costituzione repubblicana del 1948. La IX, l’XI e la XIII legislatura hanno avuto commissioni bicamerali, rispettivamente presiedute dagli onorevoli Aldo Bozzi, Ciriaco De Mita e Leonilde Iotti, Massimo D’Alema, incaricate di studi o di progetti; la XIII legislatura ha varato la riforma del titolo V su Regioni, Province e Comuni, con legge costituzionale 18 ottobre 2001, nr. 3; la XIV ha approvato un testo di legge costituzionale che estende la revisione a tutta la parte II della Carta costituzionale.
La Commissione Bozzi
Già nella Commissione Bozzi, che operò negli anni 1983-85, si pose l’alternativa di un sistema presidenziale, rispetto alla forma di democrazia parlamentare voluta dai Padri costituenti. La maggioranza dei commissari, pur rifiutando un mutamento tanto radicale della forma di Governo, non si nascondeva la sua lentezza nel guidare trasformazioni profonde della società e dell’economia del paese, intervenute dal 1946 all’inizio degli anni Ottanta. Si denunciavano fenomeni disgregativi all’interno della Costituzione, dovuti a tendenze localistiche e corporative, a contropoteri esterni e interni ai partiti, all’intreccio affari-politica-criminalità, all’insorgenza di poteri occulti, alla paralisi della pubblica amministrazione, alla crisi della rappresentanza democratica, al rifiuto della politica soprattutto tra i giovani. Il rapporto partiti-istituzioni dava luogo alla partitocrazia e alla lottizzazione delle cariche negli enti pubblici, cioè a un processo di occupazione. Le difficoltà di interlocuzione tra sindacati e partiti, e la segmentazione degli interessi, rendendo tardiva e non incisiva l’azione del Parlamento e del Governo, determinavano interventi di supplenza con la decretazione di urgenza, le sentenze manipolative della Corte Costituzionale, l’interpretazione evolutiva dei giudici ordinari. Non dandosi alternanza nel potere di nuovi schieramenti di forze politiche, né ricambio di classe dirigente, la fragilità di governi di breve durata si combinava con una continuità di linee di azione proprie di una democrazia bloccata. In un contesto contraddittoriamente caratterizzato da troppo Stato e poco Stato, si considerava opportuna una deregulation, che desse più libertà al cittadino e alle formazioni sociali, e attenuasse gli squilibri territoriali e sociali. Si proponevano nuove forme di referendum, l’istituzione di un difensore civico, la tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, una maggiore utilizzazione della petizione popolare, l’eliminazione dei residui normativi di discriminazione tra uomo e donna, l’accesso ai documenti delle amministrazioni pubbliche, il diritto alla riservatezza. I partiti avrebbero dovuto lasciare spazio ad associazioni, comitati, gruppi, leghe che nascessero nella società. Si voleva superare la confusione dei poteri, che aveva dato luogo a un Governo legislatore o a un Parlamento governante. Si tornò a discutere intorno a un Parlamento monocamerale, in cui non si sarebbero verificati gli inconvenienti del bicameralismo, la lentezza del processo legislativo, l’annidamento di interessi microsettoriali, la minore proficuità del circuito esecutivo-legislativo. Ma prevalse l’opzione per un bicameralismo differenziato, con riduzione del numero dei parlamentari, in corrispondenza con la delegificazione e la distinzione dei compiti di controllo e di collegamento con le autonomie locali. Da parte democristiana si ripropose il profilo, che era stato di Costantino Mortati in Assemblea costituente, di una diversa rappresentatività del Senato rispetto alla Camera, ora nel senso che i candidati senatori avessero esperienza negli organismi regionali e locali, quando non anche di appartenenza a categorie professionali. L’ispirazione mortatiana per una Camera delle aristocrazie tecniche sembrava suggerire l’elevazione a otto del numero dei senatori a vita, nominati dal presidente della Repubblica per altissimi meriti scientifici, letterari, artistici, sociali, per raccogliere quali senatori di diritto, oltre agli ex presidenti della Repubblica, anche gli ex presidenti delle Camere e della Corte Costituzionale. Quanto alla differenziazione delle funzioni, prevalente sarebbe dovuta essere quella legislativa per la Camera e di controllo per il Senato, salvo un elenco di materie per leggi bicamerali. Si affrontò il tema della crisi della legge, che aveva perduto i caratteri dell’astrattezza e della generalità per assumere quelli del provvedimento congiunturale e casistico, quando non apprestato per gruppi o persone, con le cosiddette leggi con fotografia. Si ritenne di lasciare al Parlamento la grande legislazione e il suo adattamento alla realtà sociale in mutamento, e di attribuire la normativa di dettaglio al Governo, alle Regioni, all’autonomia contrattuale dei privati e delle formazioni sociali.
Si auspicava la riduzione del numero dei Ministeri e dei ministri per restaurare la collegialità del Governo, snellire l’apparato delle amministrazioni, non intralciare le autonomie locali e la stessa attività parlamentare. Già allora si previde un consiglio di gabinetto che coadiuvasse il presidente del Consiglio nelle funzioni di indirizzo e di coordinamento nell’azione di Governo. Per la stabilità dei governi si propose un patto di coalizione, incentivato da un premio di maggioranza e dall’obbligo per il presidente della Repubblica di designare per costituire il Governo, dopo le elezioni politiche, la personalità indicata a tal fine nel patto della coalizione vincente. Quanto al presidente della Repubblica, si optò per la non immediata rieleggibilità, ricordandosi un disegno di legge Leone del 1963 e un messaggio del presidente Segni che escludevano del tutto l’iterazione dell’ufficio. Fu fatta una ricognizione attenta dei diritti di libertà e di partecipazione. Tra i problemi della giustizia spiccò la proposta del senatore Vassalli di separare nelle carriere i magistrati giudicanti da quelli inquirenti. Si denunciò l’eccessiva politicizzazione del Consiglio superiore della magistratura, la cui presidenza si propose che non spettasse più al capo dello Stato, ma a un membro elettivo. Nel riordino dell’esecutivo, si volle ribadire il principio che la pubblica amministrazione è al servizio dei cittadini, rispettando autonomamente legalità e imparzialità nel dare esecuzione alle direttive dei governi. Si raccolsero le più importanti proposte presenti nel Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato del ministro per la Funzione pubblica, Massimo Severo Giannini, discusso dal Senato nel luglio 1980, e nella relazione della Commissione Piga, del febbraio 1981, sulla ristrutturazione dei poteri centrali. In ordine al sistema delle autonomie, si ritenne irreversibile il disegno regionalistico della Costituzione, da perfezionare, non da stravolgere. Ma nella seduta conclusiva dei lavori della Commissione, il 29 gennaio 1985, il senatore Fosson presentò a nome dell’Union Valdôtaine un programma di riforma federale della Repubblica con una Camera eletta a suffragio universale e diretto, e una Camera composta da delegati di ciascuna Regione in pari numero, eletti dai rispettivi Parlamenti regionali, un Governo federale, un presidente federale, rappresentante della Federazione nelle relazioni estere e garante dell’unità della Federazione e del buon funzionamento delle istituzioni, giudici federali e regionali oppure magistratura unitaria con articolazioni facenti capo a Corti costituzionali regionali, le Regioni diventando enti politici equiordinati rispetto alla Federazione. Valutando molti commissari le profonde radici dell’ingovernabilità del paese nel governo dell’economia, si descrissero i lineamenti di una vera e propria Costituzione economica. Prima di terminare i suoi lavori, la Commissione discusse una proposta, presentata dai commissari Scoppola, Barbera, Giugni, Pasquino, Pontello, Lipari e Segni, per una riforma del sistema elettorale per la Camera, tale da rendere più immediato il rapporto fra elettori ed eletti e da sottoporre le scelte dei partiti a un più diretto controllo dell’elettorato. La Commissione concludeva sulla necessità di una revisione organica e realistica dell’intero impianto costituzionale, accantonando come oziosa la disquisizione tra grande e piccola riforma, e utopica la ricerca della migliore Repubblica possibile. La revisione delle regole del gioco sarebbe risultata in ogni caso vana, se i giocatori, cioè i partiti, non si fossero disposti a giocare con quelle regole.
La Commissione De Mita-Iotti
Dal settembre 1993 al febbraio 1994, operò nella XI legislatura la Commissione presieduta prima dall’onorevole De Mita e poi dall’onorevole Iotti, che presentò un progetto organico di riforma della parte II della Costituzione. L’esclusione della parte I volle segnare la continuità del regime costituzionale, considerandosi di mero rilievo giornalistico la locuzione ‘seconda Repubblica’, laddove appariva più corretto intendere come secondo tempo dell’ordinamento repubblicano la conciliazione dei principi della Carta del 1948 con la trasformazione della società italiana e l’ingresso dello Stato nella realtà sovranazionale dell’Europa. Nella relazione sulla forma di Stato del deputato Silvano Labriola era riaffermata l’unitarietà della sovranità popolare dello Stato democratico, incompatibile con le ipotesi di frazionamento della comunità nazionale. La crisi dello Stato era individuata nella moltiplicazione delle funzioni e dei poteri, cui corrispondevano inefficienza e trasgressione, in un contesto di mutamento di valori e modelli di vita sociale e di sviluppo politico. Il rimedio era indicato nella tassatività delle competenze statali attorno al quadruplice perno della bandiera (politica estera), della spada (politica militare), della toga (politica della giustizia) e della moneta (governo della finanza). Si allargavano così, per l’effetto sistemico della residualità, le competenze delle Regioni, si introduceva la legge ‘organica’ su iniziativa del Senato, per stabilire i «principi fondamentali delle funzioni che attengono alle esigenze di carattere unitario», che non costituiva diritto per la generalità dei cittadini e degli altri soggetti alla sovranità nazionale, essendone destinatarie soltanto le Regioni. Le Regioni di diritto comune acquistavano competenze legislative esclusive come quelle a statuto speciale. Veniva loro riconosciuto il potere di stabilire accordi con enti territoriali di Stati esteri e di dare attuazione a direttive della Comunità Europea nelle materie di propria competenza, senza interposizione di alcun atto dello Stato. Le Province e i Comuni erano definiti enti autonomi rappresentativi delle comunità locali, con autonomia statutaria e funzioni proprie nel quadro delle comunità nazionale e regionale, e ciò per neutralizzare tendenze neocentraliste delle Regioni di diritto comune, indotte dalla crescita delle loro autonomie. A queste d’altra parte, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, veniva dato il potere di scegliere la propria forma di Governo, con un sistema di elezione della rappresentanza diverso da quello stabilito dalla legge dello Stato. Si intendeva in tal modo dar compimento a un processo formativo di uno Stato regionale, evoluzione, non superamento della forma storica dello Stato nazionale. Se questa evoluzione, ostacolata nel periodo che va dal 1948 al 1970, quello definito dalla inattuazione costituzionale, non si fosse compiuta, si sarebbero potuti verificare eventi dissolutori dell’unità nazionale: lo Stato regionale, proprio realizzando la convivenza di una pluralità di enti autarchici territoriali dotati di autonomia politica, finanziaria, normativa e di governo, entro il quadro dell’unità nazionale, sarebbe stato in grado di neutralizzare i fattori di crisi derivanti dalla decadenza del principio della divisione dei poteri e dalla giustapposizione dei poteri di rappresentanza e di quelli di garanzia. Svalutando la distinzione tra Stato federale e Stato regionale a un profilo quantitativo piuttosto che qualitativo, si pervenne a una formula di regionalismo al limite del federalismo. Quanto alla forma di Governo, la relazione dell’onorevole Franco Bassanini diede conto della scelta della Commissione per la forma parlamentare, con esclusione netta di ogni modello presidenzialistico. Per il rafforzamento dell’esecutivo si proponevano governi di legislatura, la possibilità agli elettori di scegliere i programmi, coalizioni e maggioranze, indebolendo le segreterie dei partiti, maggiore incisività al ruolo del primo ministro, maggiore libertà agli eletti nei collegi uninominali nell’esercizio del mandato parlamentare, riduzione dell’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti e ridimensionamento delle pratiche spartitorie e lottizzatorie. Per la figura del primo ministro si escluse l’elezione popolare diretta e si optò per l’elezione in quanto leader o candidato della maggioranza, con investitura del Parlamento in seduta comune all’inizio della legislatura, e potere di nomina e di revoca dei ministri. Per questi e per i viceministri si proponeva l’incompatibilità con il mandato parlamentare. La forma di Governo parlamentare si rafforzava d’altra parte con l’istituto della sfiducia costruttiva.
La revisione del titolo V
Nella XIII legislatura, la Commissione bicamerale presieduta dall’onorevole D’Alema licenziò il 4 novembre 1997 un progetto di legge costituzionale recante una revisione della parte II della Costituzione in senso federalistico quanto alla forma di Stato, e semipresidenzialistico quanto alla forma di Governo, proponendosi l’elezione diretta popolare del presidente della Repubblica. L’esame parlamentare del progetto, iniziato nella Camera dei deputati nel gennaio 1998, si interruppe nel giugno dello stesso anno, né è stato più ripreso.
Quella legislatura si concluse invece con l’approvazione della sola maggioranza di Governo di una legge di revisione del solo titolo V della parte II della Costituzione, che reca in apertura la definizione della Repubblica come «costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Le competenze della legislazione esclusiva dello Stato sono elencate tassativamente secondo 17 gruppi di materia: a) politica estera e rapporti internazionali, rapporti dello Stato con l’Unione Europea, diritto d’asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea; b) immigrazione; c) confessioni religiose; d) difesa e Forze armate, sicurezza dello Stato, armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela della concorrenza, sistema valutario, tributario e contabile dello Stato, perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali, referendum statali, elezione del Parlamento Europeo; g) organizzazione e ordinamento amministrativo dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, esclusa la polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale, giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di Governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo, coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Oltre a un elenco di materie di legislazione concorrente, tutto ciò che non è espressamente riservato allo Stato è di competenza legislativa delle Regioni: con ciò rovesciandosi del tutto la logica della Costituzione del 1948, che attribuiva alle Regioni solo materie tassativamente elencate e ogni altra allo Stato.
La revisione della parte II
Nella XIV legislatura è stata approvata a maggioranza assoluta in seconda votazione una legge di revisione costituzionale che recava modifiche a tutti i sei titoli della parte II della Costituzione, perseguendo un disegno di superamento del bicameralismo perfetto, con una Camera politica e un Senato federale; di rafforzamento della figura del primo ministro; di devoluzione alla legislazione esclusiva delle Regioni dell’assistenza e organizzazione sanitaria, dell’organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche), definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione, della polizia amministrativa regionale e locale. Tra le modifiche dirette ad accentuare il carattere federale della Repubblica va ricordata la nomina di quattro giudici costituzionali su quindici da parte del Senato federale.
Il referendum celebrato il 25 e 26 giugno 2006, con la partecipazione di oltre la metà degli aventi diritto, ha visto la maggioranza di voti negativi, di gran lunga superiore ai voti asseverativi, e ha dunque avuto l’effetto di porre nel nulla la legge di revisione della parte II. È intuibile che gli elettori abbiano inteso rifiutare la trasformazione della forma di Stato, da Stato unitario (la «Repubblica una e indivisibile» dell’art. 5 della Costituzione) a Stato federale. Questo mutamento era implicito nell’istituzione di un Senato federale, presentato come superamento del bicameralismo perfetto, accanto alla Camera dei deputati, che sarebbe dovuta essere unica Camera politica e nazionale. In realtà la natura federale del Senato appariva del tutto fittizia, derivante dal fatto che i senatori, eletti su base regionale come nella Carta del 1948, lo sarebbero stati, con la riforma, in concomitanza con l’elezione dei Consigli regionali.
Il suffragio diretto non avrebbe privato questo Senato della natura di Camera nazionale, anzi l’avrebbe confermata. Quanto alla materia della legiferazione, la possibilità di essere rivendicata dalla competenza della Camera dei deputati, qualora si fosse rivelata la presenza dell’interesse nazionale, avrebbe determinato un intreccio di processi legislativi mono- e bicamerali, tali da complicare e non superare gli inconvenienti del sistema bicamerale. In più la devoluzione alla legislatura esclusiva delle Regioni delle materie della salute, istruzione e polizia amministrativa avrebbe minato il principio di uguaglianza dei cittadini, di cui all’art. 3.
Quanto alla forma di Governo, l’introduzione di un premier legittimato dall’elezione popolare, dotato della facoltà di sciogliere la Camera e sfiduciabile con conseguente scioglimento della Camera o costruttivamente con nomina di altro premier solo all’interno della sua propria maggioranza elettorale, la riduzione dei poteri del presidente della Repubblica privato del potere di sciogliere le Camere, sentiti i loro presidenti, e di autorizzare la presentazione dei disegni di legge del Governo, la nuova composizione della Corte Costituzionale, sempre più organo politico e meno organo di garanzia, sono tutti elementi che avrebbero concorso a far uscire la forma di Governo dal novero delle democrazie parlamentari per avvicinarla a quello delle democrazie autoritarie.
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La nascita della Costituzione italiana
Dalla Consulta alla Costituente
Con la caduta del fascismo, in Italia si aprirono contemporaneamente il problema costituzionale e quello istituzionale. L’idea di una Costituente, destinata sia a decidere se l’Italia dovesse essere una monarchia o una repubblica sia a elaborare la nuova Costituzione, si diffuse rapidamente e largamente dopo gli avvenimenti del 25 luglio e dell’8 settembre 1943, e fu sostenuta soprattutto dai partiti di sinistra, dichiaratamente repubblicani. Anche i partiti di centro e di destra erano nel complesso favorevoli all’idea della Costituente (i sostenitori di un ritorno allo Statuto albertino erano ormai una ridottissima minoranza), ma erano contrari ad affidare a essa la soluzione del problema istituzionale, da risolversi, piuttosto, mediante un referendum. La tesi favorevole ad affidare alla Costituente anche la scelta della forma istituzionale sembrò prevalere quando il Governo formato dopo la liberazione di Roma nel giugno 1944, presieduto da Ivanoe Bonomi e composto dai rappresentanti dei sei partiti del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), decise di dare la prima sanzione ufficiale alla Costituente con il decreto legge luogotenenziale del 25 giugno 1944, dove si stabiliva che «dopo la liberazione del territorio nazionale» le forme istituzionali sarebbero state scelte dal popolo italiano, che «a tal fine» avrebbe eletto, a suffragio universale diretto e segreto, una «Assemblea costituente per deliberare la nuova Costituzione dello Stato»; si stabiliva inoltre che la funzione legislativa sarebbe stata nel frattempo assunta provvisoriamente dal Governo. Più tardi, mentre duravano nell’Italia meridionale l’occupazione militare alleata e al Nord quella tedesca, nell’assenza di una rappresentanza popolare e nell’impossibilità di costituirla con libere elezioni, fu istituita, con decreto legge luogotenenziale del 5 aprile 1945, la Consulta nazionale, una sorta di Parlamento non elettivo, con funzioni puramente consultive, tenuta a dare pareri sui problemi e sui provvedimenti legislativi che a essa sottoponeva il Governo.
L’effettiva formazione della Consulta si ebbe solo dopo il 25 aprile 1945, con il primo Governo dell’Italia liberata, presieduto da Ferruccio Parri. In base al decreto del 22 settembre 1945, furono nominati dal Governo 440 consultori, scelti tra ex parlamentari antifascisti, appartenenti ai partiti del CLN, alle maggiori organizzazioni sindacali e alle associazioni di reduci, rappresentanti della cultura, delle libere professioni, dei tecnici dirigenti di aziende. In numerose sedute plenarie la Consulta si occupò della legge per l’elezione della Costituente e del problema istituzionale, per la soluzione del quale, nelle discussioni tenute nei primi mesi del 1946, si rafforzò e finì poi con il prevalere la tesi del referendum. Così, mentre il Ministero per la Costituente, istituito il 31 luglio 1945, predisponeva un vasto materiale di studio per la futura Assemblea, si giunse al decreto legge luogotenenziale del 16 marzo 1946, che sanzionò, a parziale modifica di quello del 25 giugno 1944, il principio del referendum popolare per la scelta tra monarchia e repubblica, fissando inoltre i limiti dei poteri della Costituente. In caso di vittoria della forma repubblicana nel referendum, il decreto stabiliva che la Costituente procedesse all’elezione del capo provvisorio dello Stato e che fosse delegato al Governo il potere legislativo per tutta la durata della Costituente stessa e fino alla convocazione del Parlamento: ciò al fine di alleggerire il lavoro dell’Assemblea, concentrandone l’attività nell’elaborazione della Carta Costituzionale. Lo stesso decreto fissava il tempo massimo di durata della Costituente in 12 mesi. Di fatto ne occorsero 19 perché i lavori giungessero a termine.
Le elezioni del 2 giugno
Il 2 giugno 1946 si tennero insieme il referendum istituzionale e le elezioni per la Costituente. Alla competizione elettorale parteciparono per la prima volta anche le donne, alle quali il decreto del Governo Bonomi del 1° febbraio 1945 aveva finalmente esteso il diritto di voto, mentre quello successivo del 10 marzo ne aveva sancito l’eleggibilità. Come emerse fin dalle prime comunicazioni parziali del Ministero dell’Interno, i risultati del referendum furono favorevoli alla Repubblica. Nella notte fra il 12 e il 13 giugno il Consiglio dei ministri, dopo consultazioni con il re Umberto II e con le autorità alleate, deliberò di affidare al presidente del Consiglio, il democratico cristiano Alcide De Gasperi, le funzioni di capo provvisorio dello Stato; lo stesso 13 giugno Umberto lasciava l’Italia, senza riconoscere il verdetto popolare, ma sciogliendo dal giuramento di fedeltà funzionari e militari. I risultati definitivi del referendum furono proclamati dalla Corte di Cassazione il 18 giugno: alla repubblica andarono 12.717.923 voti, pari a una percentuale del 54,3%, contro i 10.719.284 espressi per la monarchia, pari al 45,7%. Su scala regionale il voto favorevole alla Repubblica risultò così distribuito: 64,8% nell’Italia settentrionale (la percentuale più alta nel Trentino, con l’85%), 63,5% nella centrale, 32,6% nella meridionale e 36% nella insulare.
Le elezioni per la Costituente si svolsero secondo le norme stabilite dal decreto luogotenenziale del 10 marzo 1946, cioè con scrutinio di lista a base proporzionale. Il numero dei deputati, fissato dal decreto a 573, fu ridotto a 556 dal decreto di convocazione dei comizi elettorali, per l’esclusione dalle elezioni della provincia di Bolzano e del collegio Trieste e Venezia-Giulia, non essendo stato ancora definito il trattato di pace, ed essendo quindi ancora sub iudice l’esercizio della sovranità dello Stato su quelle regioni. I votanti furono 24.888.035, pari all’88% degli elettori iscritti. La fisionomia politica della Costituente, così come emerse dal voto, fu caratterizzata dalla netta prevalenza dei partiti di massa: il partito del presidente del Consiglio, la Democrazia cristiana, ottenne la maggioranza relativa (35,2%) e 207 seggi; al Partito socialista di unità proletaria andarono il 20,7% dei voti e 115 seggi; al Partito comunista italiano il 18,9% dei voti e 104 seggi. Complessivamente i primi tre partiti conquistarono 426 seggi. I rimanenti 130 toccarono agli altri sette gruppi: la maggior parte, 87, furono ripartiti tra l’Unione democratica nazionale, il movimento dell’Uomo qualunque e la lista monarchica del Blocco nazionale della libertà, mentre alle formazioni di sinistra laica furono assegnati complessivamente 35 seggi, di cui 23 al Partito repubblicano italiano (i cosiddetti repubblicani storici). Dei costituenti 21 erano donne.
I lavori della Costituente
L’Assemblea costituente aprì i suoi lavori con la seduta del 25 giugno 1946, eleggendo a proprio presidente Giuseppe Saragat, il quale però nel gennaio successivo, in seguito alla scissione dal Partito socialista e alla fondazione del PSLI (Partito socialista dei lavoratori italiani), rassegnò le dimissioni; al suo posto, l’8 febbraio 1947 fu eletto Umberto Terracini, che rimase in carica fino alla chiusura dell’Assemblea. A pochi giorni di distanza dalla prima seduta, il 28 giugno 1946, la Costituente elesse capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. I lavori costituzionali furono iniziati subito. Mentre infatti l’Assemblea si occupava dell’esame e dei pareri sui disegni di legge governativi e del controllo sull’attività del Governo, la preparazione del Progetto di Costituzione veniva affidata a una commissione, formata da 75 deputati e nominata dal presidente su designazione dei gruppi parlamentari, che vi furono rappresentati in modo proporzionale. Il lavoro della commissione – nota comunemente come Commissione dei Settantacinque e presieduta da Meuccio Ruini – fu a sua volta suddiviso, sull’esempio della Costituente francese, fra tre sottocommissioni: la prima fu incaricata di formulare gli articoli relativi ai «diritti e doveri dei cittadini (tranne gli economici)»; la seconda – poi suddivisa in due sezioni – quelli relativi all’«ordinamento costituzionale della Repubblica»; la terza quelli relativi ai «diritti e doveri nel campo economico e sociale». Le sottocommissioni lavorarono separatamente e portarono quindi le loro proposte alla Commissione dei Settantacinque, la quale, essendo risultate parecchie discordanze tra i testi, decise di nominare nel proprio seno un comitato di redazione di 18 membri, che poi rappresentò tutta la Commissione nella discussione generale.
Il progetto di Costituzione fu presentato all’Assemblea il 31 gennaio 1947 con una relazione di Ruini. Trascorso il mese di febbraio in discussioni di carattere politico, determinate dalla crisi ministeriale del gennaio, l’Assemblea poté iniziare soltanto il 4 marzo la discussione del progetto, alla quale vennero dedicate ben 170 sedute. Sui 140 articoli del progetto vennero presentati 1663 emendamenti, dei quali 292 furono approvati, 314 respinti e 1057 ritirati o assorbiti. Gli interventi nella discussione furono 1090 da parte di 275 oratori; 44 furono le votazioni per appello nominale, 109 quelle a scrutinio segreto. Particolarmente vivaci e talora accese furono le discussioni su taluni argomenti, quali la ratifica costituzionale dei Patti lateranensi, l’indissolubilità del matrimonio, la parità delle scuole statali e private, l’organizzazione sindacale, il diritto di sciopero, la composizione della seconda Camera, l’elezione e i poteri del presidente della Repubblica, l’autonomia regionale. Finalmente il 22 dicembre 1947, in una memorabile seduta, la Costituzione fu votata nel suo complesso con questi risultati: presenti e votanti 515, favorevoli 453, contrari 62. Cinque giorni dopo veniva promulgata dal capo dello Stato. Entrata in vigore la Costituzione il 1° gennaio 1948, la Costituente, dopo avere discusso gli statuti regionali e la nuova legge elettorale, chiuse definitivamente i suoi lavori il 31 gennaio 1948. L’ultimo giorno dei lavori, l’Assemblea approvò anche l’emblema della Repubblica e il disegno di legge costituzionale sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte Costituzionale
La Costituente svolse anche un notevole lavoro nel campo legislativo normale, sia attraverso apposite commissioni legislative, le quali esaminarono 828 provvedimenti presentati dal Governo, sia in sedute generali, nelle quali furono discussi 61 disegni di legge. Numerose sedute furono dedicate a discussioni di politica generale; particolarmente importanti quelle svoltesi dopo le crisi ministeriali del gennaio e del maggio 1947. Infine la Costituente procedette alla ratifica del trattato di pace, passata con 262 voti contro 68 e 80 astenuti, dopo un vivacissimo dibattito svoltosi nella Commissione per i trattati tra il 24 e il 31 luglio 1947.
repertorio
Struttura della Costituzione
Caratteri della Costituzione
L’elemento che caratterizzò in maniera chiara il patto costituzionale italiano, e si propose come momento unificante e di convergenza tra le diverse forze politiche, fu la comune volontà di porre in essere un’organizzazione statale nettamente contrapposta a quella dello Stato fascista. Questo intento comune a tutti i partiti presenti nell’Assemblea costituente permea il complessivo tessuto normativo costituzionale ed è indice di riconoscimento del sistema cui si intese dare vita. Come si espresse Ruini nella relazione al progetto, «vi è un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione: il pericolo di aprire l’adito a regimi autoritari e antidemocratici». Un ulteriore elemento che funzionò da modulo unificante va individuato nella volontà chiarissima nei partiti di sinistra, ma presente anche nelle forze democristiane, di allontanarsi dagli schemi organizzatori dello Stato prefascista e di dare vita a un modello differente.
La Costituzione italiana è una costituzione rigida, nel senso che le norme costituzionali sono sottratte, per esplicito dettato (art. 134), all’abrogazione o deroga da parte di leggi ordinarie. Tale rigidità comporta la necessità di ricorrere per la modificazione del testo costituzionale al procedimento «aggravato» previsto per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, mentre la legge ordinaria che collide con la normativa costituzionale viene a trovarsi in una situazione di illegittimità. La rigidità della Costituzione fu intesa a rispondere all’esigenza di preservare il testo, che è l’espressione di principi e di valori guida di una determinata esperienza statuale, da quelle modificazioni che possono derivare da maggioranze contingenti. È proprio per garantire la Carta costituzionale nei valori espressi dalle sue prescrizioni che, superando le contrastanti opinioni manifestate nell’Assemblea sulla opportunità di un organo siffatto, fu prevista la Corte Costituzionale, cui è affidata la funzione di assicurare, in via giurisdizionale, il rispetto della Costituzione.
Come le altre Costituzioni moderne, la Costituzione italiana è una costituzione lunga, perché vi è un ampliamento degli scopi e degli obiettivi che l’ordinamento statale si prefigge di conseguire. È lunga sia per l’estensione dei settori materiali disciplinati, sia per la disciplina puntuale e dettagliata di molte parti, in modo da creare vincoli ben precisi nella fase applicativa. Va inoltre sottolineato che la disciplina ritenuta meritevole di una precisa caratterizzazione costituzionale non è interamente contenuta nel testo della Carta, ma vi è il rinvio a successive leggi costituzionali cui è riservata la competenza esclusiva a intervenire. La Costituzione, cioè, individua un ‘valore’ e, non apprestando la disciplina dettagliata, lo preserva, affidandolo al potere di legislazione costituzionale che, pur geneticamente diverso da quello costituente, consente di sottrarre la materia alla semplice maggioranza parlamentare.
La Costituzione italiana è una costituzione programmatica, nel senso che la portata del dettato va colta non soltanto nel sistema complessivo delle garanzie positive, ma anche negli obiettivi ai quali deve tendere.
Tale caratterizzazione programmatica deriva dalla consapevolezza che esistono nella società profondi squilibri e oggettive difficoltà per la piena e concreta realizzazione dei principi di eguaglianza e libertà, squilibri da rimuovere per garantire soprattutto, come si esprime l’art. 3, «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». Nel programma costituzionale sono dunque fissati gli obiettivi da conseguire, che si propongono come valori guida dell’azione dei pubblici poteri. È evidente che le norme con le quali si individuano i risultati da conseguire e i valori da tutelare sono condizionate per l’attuazione al successivo intervento del legislatore.
Impianto della Costituzione
La Costituzione è divisa in due parti: la prima si occupa dei Diritti e doveri dei cittadini, la seconda dell’Ordinamento della Repubblica. Le due parti sono precedute da un complesso di norme intitolate Principi fondamentali (artt. 1-12), che per il loro carattere generale delineano, nell’espressione di Ruini, «il volto della Repubblica». Nel progetto approvato dall’Assemblea tali norme erano denominate «disposizioni generali» e comprendevano sette articoli; in sede di revisione finale si adottò l’espressione «principi fondamentali», considerata più adatta a mettere in evidenza la funzione che si intese affidare loro: tracciare le linee direttive del disegno svolto nelle parti successive, fornire il criterio generale di interpretazione e segnare i confini invalicabili a ogni mutamento costituzionale. Da questa caratteristica di essere il fattore di riconoscimento e di identificazione della forma dello Stato consegue che i principi fondamentali costituiscono un nucleo immodificabile: qualunque, anche parziale, intervento su di essi determinerebbe l’alterazione del sistema complessivamente delineato nella Carta. Non possono pertanto essere modificati con il procedimento di revisione costituzionale, che, finalizzato ad adeguare le prescrizioni della Carta a mutate esigenze, deve sempre rispettare i tratti che connotano il patto costituzionale. Da questo loro carattere consegue anche che i principi fondamentali si impongono come parametri per valutare la legittimità dell’intervento dei pubblici poteri e come criterio guida nella interpretazione delle medesime disposizioni costituzionali, delle quali va privilegiata quella più conforme e vicina all’ispirazione dei principi stessi.
La normativa della Parte I, Diritti e doveri dei cittadini (artt. 13-54), si ispira al criterio della cosiddetta «socialità progressiva», che si può cogliere nel fatto che dal titolo I al titolo IV vi è un progressivo ampliamento della persona sociale. Dalla considerazione del singolo individuo, nelle norme concernenti i rapporti civili (titolo I) che privilegiano soprattutto il momento della garanzia, si passa al contesto più ampio della famiglia e della scuola che sono contemplate nel titolo II, dedicato ai rapporti etico-sociali. Nei titoli III e IV, ancora con criterio progressivo, si disciplinano, rispettivamente, i rapporti economici e i rapporti politici. Proprio la disciplina dei rapporti politici – prima fra tutte quella sui partiti politici (art. 49) – costituisce il modo di coordinare questa prima parte alla parte seconda, dedicata alla definizione dell’ordinamento dello Stato.
Il modo in cui la normativa della Parte II, Ordinamento della Repubblica (artt. 55-139), si sviluppa con la caratterizzazione dei singoli poteri esprime con chiarezza le idee guida dei costituenti sull’intero disegno. Appare evidente la volontà di dare completa e coerente attuazione al principio della sovranità popolare contemplato nell’art. 1, conferendo il dovuto rilievo al Parlamento, quale organo di diretta promanazione popolare. La posizione dell’organo rappresentativo costituisce il punto di partenza della complessiva organizzazione statale per configurare il ruolo, e conseguire l’equilibrio, di tutti gli organi previsti dalla Costituzione. Questo è l’elemento che caratterizza l’organizzazione statuale, ma l’innovazione principale introdotta dalla Costituzione consiste nell’ordinamento strutturale dello Stato su basi di autonomia. Infatti il titolo V (seconda parte) è interamente dedicato alla disciplina di un articolato sistema di autonomie territoriali, fra le quali particolare rilievo assume l’istituzione della Regione, con forme di autonomia fissate dalla medesima Carta Costituzionale.
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