Costruzione del corpo
Luogo di libertà o di coercizione?
La costruzione del corpo accompagna la storia dell’umanità, conosce finalità e modalità diverse. Si riflettono in essa volontà individuali, condizionamenti e anche violenze sociali. Si colgono così i diversi poteri che si esercitano sul corpo: della persona, che vuole disporne liberamente, e dei diversi soggetti, pubblici e privati, che se lo contendono, che vogliono impadronirsene e regolarlo. Il corpo come luogo della libertà o della coercizione?
La seconda parte del 20° sec. ha conosciuto una progressiva riscoperta del corpo, posto al centro di una riflessione che ha coinvolto le attività e le discipline più diverse. Biopolitica, bioetica, biodiritto sono parole che descrivono questo nuovo clima culturale e politico, fortemente segnato da una continua e profonda innovazione scientifica e tecnologica, che ha messo radicalmente in discussione il rapporto tra l’uomo e la natura, persino l’antropologia del genere umano. E ha portato a chiedersi che cosa sia un corpo e quali le regole che ne definiscono lo statuto. Fino all’interrogativo radicale: il corpo è superato, sta diventando superfluo?
Queste domande rinviano a diverse possibili risposte, impongono distinzioni, esigono comparazioni. Il corpo è sempre stato oggetto di una costruzione che rispondeva a bisogni individuali, a pratiche religiose e sociali, a modelli culturali, a finalità di ricerca scientifica. Ma i diversi modi di costruirlo non hanno seguito tragitti lineari, si sono tradotti in scelte libere, in vere e proprie manipolazioni, in mutamenti delle sue presenze simboliche. Così il corpo non è mai stato percepito solo nella sua materialità, ma nelle sue diverse rappresentazioni, come centro di riferimento di una molteplicità di relazioni, che lo portavano fino a sdoppiarsi, a moltiplicarsi, come avveniva con ‘il doppio corpo’ del re. È stato e rimane oggetto di interventi che vogliono riconciliare materialità e spiritualità, fisicità e virtualità.
Luogo sia della vita sia del potere, il corpo individua uno degli atti fondativi della stessa civiltà giuridica, che da esso muove per costruire la libertà della persona. Ce lo ricorda la vicenda storica dell’habeas corpus, che rimane la traccia ancor oggi più eloquente della Magna carta del 1215: «39. Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, privato dei suoi diritti, messo fuori legge, esiliato o in alcun modo aggredito e distrutto, e non metteremo mano su di lui, né permetteremo che altri lo faccia, se non in virtù d’un giudizio legale dei suoi pari o secondo la legge del paese» (per il testo originario e la sua traduzione si è in parte seguito F. Battaglia, Le Carte dei diritti, 1946, p. 13). La storia politica e giuridica dell’habeas corpus, già solidamente fondato nella pratica penale britannica dalla fine del 13° sec. grazie a uno specifico strumento giuridico (writ), conosce traversie, cadute e resurrezioni, è persino accompagnata dal dubbio che quella proclamazione abbia davvero prodotto, nella realtà, tutti i grandi effetti che le sono stati attribuiti (Inchauspé 1999, pp. 7-12). È certo, in ogni modo, che poche formule giuridiche hanno acquisito la forza simbolica via via assunta, e mantenuta nel tempo, dall’affermazione dell’habeas corpus, perché qui le dimensioni della vita, della politica e del diritto si congiungono profondamente. La sottrazione del corpo all’arbitrio del potere altrui rimanda alle radici l’esistenza. La libertà personale è stata e, ancora, rimane la richiesta primigenia e radicale quando si parla di diritti.
Il corpo intoccabile
Lungo questo cammino s’incontrano vicende che sono contraddittorie, cadute e resurrezioni, inni al corpo e aggressioni brutali. Non è certo un caso che il Traité sur la tolérance (1763) di Voltaire e Surveiller et punir, naissance de la prison (1975) di Michel Foucault si aprano con una descrizione di corpi, del supplizio di Jean Calas e dell’esecuzione di Damiens. Sono tragiche le immagini che inducono a riflettere sul corpo, «docile», «analizzabile», «manipolabile», «utile», «intelleggibile», «neurologico», come lo descriverà appunto Foucault (trad. it. 1976, pp. 176 e sgg.; sulla particolare figura del corpo neurologico: Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France (1973-1974), 2003; trad. it. 2004, pp. 254-81). Ma quelle immagini oggi si moltiplicano, e presentano il corpo in mille sfaccettature e scomposizioni, in forme che modificano la percezione del sé e il rapporto con gli altri. Di queste immagini si può proporre una classificazione, per valutare le reazioni sociali e istituzionali, e dunque la stessa propensione della ‘regola’ a impadronirsi del corpo e dei processi che esso genera. Le rappresentazioni del corpo hanno sempre giocato un ruolo essenziale nel determinarne la disciplina (Borgna 2005; Le Breton 20054; Santosuosso 2001). Un processo, questo, ben visibile nella considerazione del corpo della donna come ‘luogo pubblico’, dunque liberamente appropriabile da chi vuol farne oggetto di regole costrittive, di interdetti feroci, negandogli la natura stessa di elemento costitutivo della differenza che caratterizza il genere umano.
Proprio la consapevolezza di questa debolezza del corpo di fronte al potere spinge a cercar di segnare i limiti degli interventi esterni, per renderlo intoccabile dagli altri e affidarlo alla libera scelta dell’interessato. Ma questa è vicenda lunga, e mai conclusa, di cui tuttavia conviene indicare qualche momento saliente, come quello che si coglie all’indomani della Seconda guerra mondiale. Il processo ai medici nazisti approda al Codice di Norimberga del 1946, che si apre con le parole «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario», seguite da una serie di specificazioni che indicano le condizioni essenziali perché il consenso possa essere considerato valido. L’affermazione di una radicale libertà e autonomia del soggetto costituiva una reazione alle terribili pratiche di sperimentazione accertate nel corso di quel processo (De Franco 2001; P. Weidling, Health, race and German politics between national unification and nazism, «Bulletin of medical history», 1991, 2, pp. 273-304). Ma il principio era destinato a estendersi all’intera materia dei rapporti tra il paziente e il medico e, infine, al riconoscimento alla persona del diritto al governo della propria vita, al pieno esercizio della sovranità sul proprio corpo (Zatti 2007). La ‘rivoluzione’ del consenso informato (Il consenso informato, 1996) modifica le gerarchie sociali ricevute, dando voce a chi era silenzioso di fronte al potere del terapeuta, e definisce una nuova categoria generale costitutiva della persona. Così consentire equivale a essere (Marzano 2006). Non a caso il rovesciamento della relazione medico-paziente, fondato sulla nuova disciplina del consenso, è stata descritta come nascita di un nuovo ‘soggetto morale’.
Questa vicenda ha avuto ricaduta particolarmente significativa nel sistema giuridico italiano con l’art. 32 della Costituzione. Dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell’individuo, si prevede che i trattamenti obbligatori possano essere previsti soltanto dalla legge, e tuttavia «in nessun caso» possono violare il limite imposto dal «rispetto della persona umana». È, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’art. 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’art. 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato.
Siamo di fronte a una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, a una autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, l’antica promessa che il re, nella Magna carta, fa a ogni «uomo libero»: «non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese». Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale «in nessun caso» si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, un’assemblea costituente, rinnovano la promessa di intoccabilità a tutti i cittadini. Anche il linguaggio esprime la singolarità della situazione, poiché è la sola volta in cui la Costituzione qualifica un diritto come ‘fondamentale’, abbandonando l’abituale riferimento all’inviolabilità. Ed è significativo che i costituenti, che in un primo momento avevano definito il limite invalicabile attraverso il riferimento alla dignità, abbiano poi ritenuto più forte quello legato al rispetto della persona umana.
Il corpo elettronico
Questo processo di costituzionalizzazione trova una conferma eloquente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000, dov’è proprio una nuova costruzione del corpo a dare particolare evidenza al modo in cui la persona entra nella dimensione del diritto. Infatti, affrontando il tema dell’integrità, la Carta non la considera solo dal punto di vista fisico e psichico, ma attribuisce rilevanza anche alla dimensione del ‘corpo elettronico’. Se risulta certamente riduttivo, e pericoloso, affermare che ‘noi siamo i nostri dati’, è pur vero che la nostra vita sta ormai diventando uno scambio continuo di informazioni, che viviamo in un flusso ininterrotto di dati, sì che costruzione, identità, riconoscimento della persona dipendono in maniera sempre più inestricabile dal modo in cui viene considerato l’insieme dei dati che la riguardano. Ma qui non vi è astrazione dal reale, attrazione nella pura virtualità. Nella dinamica delle relazioni sociali, e pure nella percezione di sé, la vera realtà è quella definita dall’insieme delle informazioni che ci riguardano, organizzate elettronicamente. Questo è il corpo che ci colloca nel mondo.
La lenta nascita di questa consapevolezza ha trovato in molti documenti interni e internazionali, e con particolare evidenza appunto nella Carta dei diritti fondamentali, una legittimazione sempre più netta attraverso il forte riconoscimento della protezione dei dati personali come autonomo diritto fondamentale, che consente a ciascuno di seguire i propri dati nella loro circolazione. Il problema non è più solo quello di una persona che vuol tutelare da interferenze esterne una sfera privata chiusa. Diventa quello di non affidare unicamente la costruzione della nostra persona ad altri, che organizzano i nostri dati secondo i loro fini, espropriandoci del diritto di mantenere il controllo su questo nuovo corpo. Il riconoscimento della protezione dei dati come diritto fondamentale realizza proprio l’obiettivo di mantenere il rapporto tra la persona e il suo corpo, non più racchiuso nei confini della fisicità e nel segreto della psiche, ma davvero sconfinato, affidato alle infinite banche dati che dicono al mondo chi siamo. Il fatto che altri disponga legittimamente di una quota maggiore o minore di nostri dati non gli attribuisce il potere di disporne liberamente. La sovranità sul corpo si concreta nel diritto di accedere ai propri dati ovunque si trovino, di esigere un loro trattamento conforme ad alcuni principi (necessità, finalità, pertinenza, proporzionalità), di poterne ottenere la rettifica, la cancellazione, l’integrazione.
Il corpo elettronico e la sua gestione devono rimanere nell’ambito dei poteri di decisione del soggetto. La costituzionalizzazione della persona si compie così anche attraverso la rilevanza attribuita a un corpo di cui viene ricostruita l’unità proprio perché la persona possa essere garantita nella sua pienezza. Non siamo soltanto di fronte a una semplice regola di convivenza tra tre dimensioni – fisica, psichica, elettronica. Si individua un sostrato che reagisce sulla costruzione stessa della nozione di persona.
L’inviolabilità della dignità umana e il mercato
Il governo del corpo, e quindi la possibilità di costruirlo liberamente, è così affidato alla volontà dell’interessato, al suo consenso informato, in definitiva alla sua libertà di scelta. Ma, muovendo da questo principio fondativo, si individua poi una serie di riferimenti che hanno una duplice funzione: garantire l’effettivo esercizio di quella libertà, così ‘presidiata’ dalla legge, e individuarne gli eventuali limiti.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sintetizza efficacemente gli orientamenti in questa materia nell’art. 3, significativamente intitolato Diritto all’integrità della persona:
«1. Ogni individuo ha diritto alla propria identità fisica e psichica.
2. Nell’ambito della biologia e della medicina devono essere in particolare rispettati il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge;
– il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone;
– il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro;
– il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani».
Vengono in tal modo individuati quattro principi, che riflettono orientamenti largamente diffusi e riconosciuti da numerosi documenti internazionali: consenso dell’interessato, divieto di fare del corpo oggetto di profitto, divieto dell’eugenetica di massa, divieto della clonazione riproduttiva. Secondo queste indicazioni, dunque, l’umano sarebbe incompatibile con la serialità, irriducibile alla logica di mercato e, soprattutto, esigerebbe piena autonomia di decisione da parte di ciascun interessato.
La portata di questi principi, tuttavia, viene limitata all’«ambito della biologia e della medicina», limitazione dovuta alla volontà di consentire alcune specifiche forme di utilizzazione economica del corpo – l’attività sportiva e la prostituzione. Si vedrà più avanti come lo svolgimento di attività sportive ponga comunque delicati problemi. Per quanto riguarda la prostituzione, peraltro, si rivolgono fondate critiche a una sua assimilazione a qualsiasi altra attività economica, considerandola una prestazione di servizi tra le altre. Questa conclusione può essere ricondotta a una delle tante letture volgari della più nota teorizzazione del rapporto tra corpo, proprietà e lavoro, che si trova nel Second treatise of government (1690) di John Locke. Qui si afferma che «ogni uomo ha la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritti se non egli stesso. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani, per così dire, sono propriamente suoi»; si aggiunge, poi, che «il lavoro è indubbiamente proprietà del lavoratore», che può liberamente alienarlo (5° cap., par. 27). Elaborata per contrastare la schiavitù e per dare fondamento morale ai rapporti di lavoro, questa teoria, quale che siano le critiche che possono esserle rivolte, non può essere usata per giustificare modalità di disposizione del corpo che possano violare la dignità della persona.
Proprio l’affermazione che «la dignità umana è inviolabile», posta in apertura della Carta dei diritti fondamentali, si presenta come la ragione profonda che impedisce l’attrazione del corpo nel mondo delle merci (la stessa formulazione si ritrova nella Convenzione sulla biomedicina del Consiglio d’Europa e nella Dichiarazione universale sul genoma umano dell’UNESCO). Si giunge così a uno dei grandi interrogativi del nostro tempo, che riguarda ciò che può stare e ciò che non deve stare nel mercato. Vero è che studiosi dell’analisi economica del diritto hanno sottolineato come sia proprio il mercato a rendere possibile la migliore allocazione delle risorse, concludendo per l’ammissibilità della vendita degli organi. Ma la logica economica e la stessa libertà di ricerca devono trovare la loro misura nel rispetto dei principi di dignità e di libertà del consenso.
L’importanza di questi principi si coglie in modo più netto se si considerano le situazioni concrete e le esperienze dei luoghi dove già sono ammesse forme di commercializzazione del corpo. Chi è disposto a vendere? Chi si trova in situazioni di difficoltà economica. Non è certo un caso che, nell’area europea, l’unico Paese che consente la commercializzazione degli organi sia il più povero, la Moldavia. Diventa così chiara la conseguenza principale dell’ammissibilità del commercio del corpo, delle sue parti, dei suoi prodotti. La nascita di una nuova forma di società castale, di una nuova stratificazione di produttori e consumatori, dove i più ricchi (singole persone, società farmaceutiche, centri di ricerca) comprano pezzi del corpo dei più poveri. È storia ben conosciuta quella di costose cliniche dove è possibile approvvigionarsi di organi venduti da poveri turchi o pachistani. E i cataloghi statunitensi di ragazze pronte a vendere i loro ovuli o a dare il loro ‘utero in affitto’, compilati nel Paese più ricco del mondo e rinvenibili anche su Internet, lasciano intravedere storie di difficoltà personali, debolezze culturali. Non a caso, e non a sproposito, si è parlato di una ‘cannibalizzazione’ tecnologica, che attraversa il mondo e che non solo crea nuove forme di dominio dell’uomo sull’uomo, ma determina una radicale riduzione a merce del corpo dei più deboli.
A questa descrizione di quel che può accadere in un’organizzazione sociale quando il mercato pretende di penetrare in ogni sua piega, di sottomettere alla sua regola ogni momento della vita, si è obiettato che i divieti sono espressione di un inammissibile paternalismo, addirittura di un autoritarismo che vuole sostituire una regola proibizionista alla libera decisione di ogni persona. Ma si è davvero di fronte a una libertà di scelta? Che cosa risponderebbe l’immigrato clandestino al quale si chiedesse se preferisce lavorare in nero e rischiare la vita su ponteggi senza le protezioni necessarie per evitare infortuni mortali o vendere pulitamente un organo, con rischi ridottissimi per la sua integrità fisica, riuscendo così a vivere meglio per un certo periodo, libero dalle immediate angosce economiche? Sono proprio queste domande a mostrare che la tutela della libertà e dell’autonomia delle persone non passa attraverso il loro abbandono, obbligandole a ‘scelte tragiche’, in cui il dominio del bisogno è forte a tal punto da escludere ogni traccia di consenso libero.
Una società davvero rispettosa della dignità e della libertà della persona deve operare in modo da eliminare gli ostacoli di fatto che impediscono il libero sviluppo della personalità, come vuole la nostra civilissima Costituzione, non rendere i più deboli sempre più prigionieri della loro debolezza. Scegliendo questa strada, peraltro, non si cancella la possibilità di azioni solidali, dal momento che sono generalmente ammesse le cosiddette donazioni di organi e, nei Paesi che non le considerano in sé illecite, le maternità di sostituzione quando non vi sia un corrispettivo. È la logica del dono, che mette ciascuno nella condizione di usare liberamente il proprio corpo per alleviare le difficoltà altrui.
L’indisponibilità della vita
Equivoci pericolosi possono nascere dall’insistenza su formule come quella della ‘indisponibilità della vita’, quando le si voglia attribuire la specifica portata tecnico-giuridica di limitazione del potere di decisione della persona interessata, andando così oltre la forza simbolica che quell’espressione assume quando la si adopera per manifestare legittimamente una convinzione morale o religiosa. Dal punto di vista tecnico, di indisponibilità della vita si parla propriamente, e giustamente, per escludere la possibilità di disporre della vita altrui. Ma un vincolo alla libertà di decisione della persona interessata non può essere dedotto da nessuna norma costituzionale. Anzi, il sistema costituzionale, come già si è ricordato in precedenza, rimette proprio alla libera determinazione del soggetto il governo della vita anche attraverso le decisioni sul proprio corpo.
Questo orientamento si è venuto consolidando all’interno dei singoli Stati e nell’ordinamento internazionale soprattutto grazie al riconoscimento del rifiuto di cure, affidato alla decisione insindacabile dell’interessato. Manifestato ormai nelle situazioni e nei Paesi più diversi, questo legittimo rifiuto ha in molti casi portato anche alla morte della persona, mostrando così in concreto che la vita deve essere considerata ‘disponibile’ da parte dell’interessato. Il rifiuto, peraltro, si presenta come uno strumento per impedire appunto la costruzione del corpo da parte di altri, che vorrebbero imporre una vita in stato di menomazione fisica (amputazione di un arto), di dipendenza da apparati meccanici oppure da terapie farmacologiche. E dal momento che questa condizione potrebbe manifestarsi in un momento in cui il soggetto ha perduto la capacità d’intendere e di volere, si è prevista la possibilità di dare ‘direttive anticipate’ (espressione più corretta di quella, corrente, ‘testamento biologico’) per indicare appunto le situazioni nelle quali si vuole l’interruzione di qualsiasi terapia. La costruzione del corpo, una volta di più, si rivela come un dato culturale, in una situazione in cui la rivendicazione della libertà di scelta non può essere presentata come l’abbandono di una natura provvida, essendo invece lo strumento necessario per non divenire prigionieri di una crescente artificialità.
Le non sopite polemiche intorno a questo tema rivelano un conflitto tra poteri, quello proprio del soggetto e quello di poteri esterni, pubblici o privati, che vogliono imporre le loro decisioni. Si prospettano forzature interpretative, come quelle che vogliono intendere il riferimento all’«interesse collettivo», contenuto nel 1° co. dell’art. 32, come espressivo di un ‘dovere di curarsi’. Ma questo dovere è del tutto incompatibile con la situazione di libertà delineata appunto dalla Costituzione, incarna una logica autoritaria e lesiva delle dignità, che ha le sue radici nell’obbligo del suddito di non recare danno al sovrano, privandolo delle sue prestazioni. Logica oggi ancor più insidiosa quando l’interesse collettivo viene riferito non solo a rischi attuali per la salute pubblica (che è l’unica sua legittima interpretazione), ma a progetti generali di governo dei corpi che pretendono di imporre una morale e che, proprio per questa pretesa, riaprono la strada a interferenze di uno Stato che possono prevedere modelli di normalità genetica, quale che sia il modo nel quale vengono presentati.
Scelte procreative
Si iscrive appunto in questo quadro il riferimento a un ‘diritto di ereditare caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione’ come diritto fondamentale della persona, di cui v’è traccia fin dal 1982 nella raccomandazione n. 934/1982 del Consiglio d’Europa. Ma l’assolutezza dell’affermazione di principio è mitigata fin dall’origine nella stessa raccomandazione, dove si precisa che «il riconoscimento esplicito» di un diritto a un patrimonio genetico non manipolato «non deve contrapporsi al perfezionamento di applicazioni terapeutiche dell’ingegneria genetica (terapia dei geni), gravida di promesse per il trattamento e l’eliminazione di alcune patologie trasmesse per via genetica». Si delinea, dunque, un diritto di ricorrere a tecniche che evitino la trasmissione ai figli di malattie ereditarie, esplicitamente riconosciuto dall’art. 3 di quella che certamente è la legge più severa in materia, l’Embryonenschutzgesetz tedesco del 1990, dove si riconosce la legittimità della selezione degli spermatozoi quando ciò consenta di evitare appunto l’insorgenza di una malattia collegata al sesso del nascituro, limitatamente ai casi della distrofia muscolare o di altre malattie genetiche riconosciute «come affezioni gravi dalla autorità competente designata dalla legge dei Länder».
Una conferma ulteriore viene dalla Francia, dov’è stata esplicitamente riconosciuta la legittimità della diagnosi preimpianto, la cui funzione, tra l’altro, è appunto quella di rendere possibili accertamenti volti a evitare la trasmissione di malattie genetiche. Partendo da questa premessa, anche in altri Paesi, come la Gran Bretagna, è stata consentita la scelta del sesso del nascituro, seguendo una logica che ha anche la funzione di rassicurare i futuri genitori, eliminando le angosce su eventuali malformazioni del feto che spesso inducono a interrompere la gravidanza.
Il passo ulteriore è rappresentato da interventi attivi di terapia genica, come già comincia ad avvenire per evitare la trasmissione del rischio di cancro al seno. A questo punto, non solo la pretesa di affermare un diritto assoluto a ricevere un patrimonio genetico non manipolato entra in conflitto con il diritto fondamentale alla salute. Può capovolgersi nell’opposta prospettiva di un diritto di nascere liberi dai rischi genetici evitabili, che imporrebbe ai genitori di costruire il corpo del nascituro conformemente al rispetto di questa finalità. Prospettiva non fantasiosa o arbitraria, se si considerano, per es., le molte decisioni giudiziarie che hanno affermato un diritto della persona a essere risarcita dai genitori che non le hanno evitato «una vita dannosa», fino a configurare un diritto di non nascere.
Ma, in questa materia, il ricorso alla regola giuridica dev’essere molto prudente, per evitare che le decisioni procreative vengano trasformate in un calcolo di costi e benefici, e scoraggiate quando il rischio di una possibile responsabilità sia considerato troppo elevato. Altro, invece, è la promozione della consapevolezza pubblica delle opportunità offerte dalla scienza, che può essere resa più difficile proprio da incaute prospettazioni come quella sull’assoluta intoccabilità del genoma. Una tesi, quest’ultima, che non può trovare sostegno nell’art. 1 della Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo dell’UNESCO, dove si afferma che il genoma umano «in senso simbolico, è patrimonio dell’umanità», formula con la quale si è voluta contrastare ogni pretesa di interventi autoritari sul genoma, non certo precludere le opportunità offerte dalle ricerche scientifiche.
Patrimonio genetico
Un limite alle scelte procreative è individuato, inoltre, attraverso il divieto della clonazione riproduttiva, che costituisce la forma estrema di costruzione di un corpo. Variamente giustificato, e variamente criticato, questo divieto trova diverse motivazioni. Hans Jonas ha insistito particolarmente sul «diritto trascendente di ciascun individuo a un genotipo soltanto suo, non condiviso con altri, irripetibile», traendone la conseguenza che un individuo clonato è «leso a priori proprio in questo diritto». Siamo sul terreno dell’unicità, indissolubilmente legata a «un evidentissimo diritto di non sapere, insito nell’esistenza, negato a chi fosse costretto a sapersi copia di un altro» (Technik, Medizin und Ethic. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, 1985; trad. it. 1997, pp. 144-45).
Questo argomento, pur avendo una indubbia rilevanza, esige un approfondimento, soprattutto nella parte in cui si afferma il diritto a un genotipo irripetibile. Ora, a parte la difficoltà di trovare una fondazione non trascendente di tale diritto, in questo modo di costruire un diritto all’unicità si annida il rischio di un riduzionismo che risolve l’individuo nella biologia e trascura la biografia. Proprio la discussione sulla clonazione ha consentito di ribadire l’improponibilità di una «mistica del DNA», del trattare «il gene come icona culturale» (Nelkin, Lindee 1995). In sostanza, l’identificazione dell’individuo con il suo patrimonio genetico contrasta con una evidenza scientifica che mostra come la costruzione della personalità sia il risultato di una complessa interazione tra dati genetici e dati ambientali, sì che la situazione di diritto e la relativa garanzia dovrebbero riguardare piuttosto questo aspetto, e non la semplice salvaguardia di un dato biologico. Proprio la prevalenza della biografia sulla biologia, infatti, garantirebbe l’unicità della persona.
Ma unicità non equivale a identità. Questa si manifesterebbe «in modo visibile attraverso l’apparenza del corpo e del volto». Nel caso della clonazione, invece, «il valore simbolico del corpo e del volto umano, considerato come supporto della persona nella sua unicità, tenderebbe a scomparire» (Atlan 1999). E il conseguente rovesciamento dei rapporti tra identità genetica e identità della persona pregiudicherebbe i diritti dell’uomo e la sua dignità.
Il corpo in trasformazione
Tutto questo deve essere oggi considerato in un contesto nel quale il corpo umano è in continua trasformazione. Da tempo ha perduto la sua unità, si è scomposto nelle sue parti, nei suoi prodotti: organi, tessuti, cellule, gameti possono essere separati dal corpo d’origine, fatti circolare ed essere utilizzati anche in altri corpi. Ha poi conosciuto la crisi della sua materialità quando si è cominciato a contrapporre il corpo ‘elettronico’ a quello ‘fisico’. Ha ritrovato l’importanza della fisicità quando si è cominciato a ricorrere con larghezza sempre maggiore ai dati biometrici sia per la definizione sia per il riconoscimento dell’identità.
Si diffondono le banche dove si depositano parti o prodotti del corpo: gameti, sangue, tessuti, cellule, DNA. Tutto questo accresce la funzionalità del corpo, che può essere riparato o reintegrato in funzioni perdute. Si parte verso Paesi con sistemi sanitari non sicuri portando con sé un flacone del proprio sangue da utilizzare per eventuali autotrasfusioni; si depositano le cellule tratte dal sangue del cordone ombelicale; si può usare il seme depositato in una ‘banca’ per esercitare la funzione riproduttiva in caso di sterilità o addirittura dopo la morte. Il corpo, in tal modo, non è più soltanto riprodotto e moltiplicato. È distribuito nello spazio e nel tempo attraverso una sua incessante e consapevole costruzione.
Un caso tedesco può consentire un chiarimento della questione. Una persona apprende di avere un cancro alla vescica e decide di sottoporsi a un intervento chirurgico. Poiché questo avrebbe avuto come conseguenza l’impossibilità di generare, l’interessato decide, prima dell’operazione, di depositare il proprio sperma presso il dipartimento andrologico di una clinica specializzata. Due anni dopo, avendo problemi di spazi, la clinica chiede ai ‘depositanti’ di far sapere entro quattro settimane se vogliono che la conservazione del loro sperma continui. La persona risponde dopo cinque giorni, ma la lettera non è inserita nel suo dossier e, scaduto il termine, il suo sperma viene distrutto. Sposatosi nello stesso anno, l’interessato chiede alla clinica lo sperma depositato, per avere un figlio grazie alle tecnologie della riproduzione. Conosciuta la distruzione, chiede un risarcimento dei danni di 25.000 marchi in base al par. 823 del codice civile (BGB Bürgerliches Gesetzbuch). In primo e secondo grado i tribunali respingono la sua richiesta, sostenendo che non si è in presenza di una delle circostanze che rendono possibile il risarcimento. Mancherebbe, infatti, una «lesione del corpo» (così si esprime il par. 823), dal momento che una parte ormai separata da questo dev’essere considerata come una cosa soggetta a regole proprie, e diverse da quelle che regolano il corpo nella sua integrità.
Il Bundesgerichtshof (la Corte di cassazione), con una sentenza del 1993 (9 nov. 1993, Familienrecht, 1994, pp. 154-56), non contesta in via generale quest’ultima argomentazione. Introduce, però, una serie di distinzioni. Osserva, in primo luogo, che vi sono casi di separazione irreversibile, che si hanno quando un organo o un prodotto del corpo (sangue) sono destinati a far parte di un corpo diverso. In altri casi, invece, la separazione è soltanto temporanea, essendo le parti o i prodotti destinati a essere reintegrati nel corpo d’origine: questo avviene, per es., per i prelievi di sangue per autotrasfusione, per i prelievi di pelle o di ossa a fini di autotrapianto, per gli ovuli prelevati per una fecondazione in vitro nell’interesse della stessa donna dalla quale provengono. In tutte queste ipotesi viene mantenuta una ‘unità funzionale’ con il corpo d’origine, che non consente di qualificare le entità separate come cose definitivamente distinte e impone, quindi, di considerare come una lesione del corpo gli interventi che pregiudicano appunto questa nuova e diversa unità.
Lo sperma si presenta come un caso a parte, dal momento che alla sua separazione segue la destinazione a essere integrato nel corpo di un’altra persona. Ma osserva la sentenza: «da una parte, lo sperma è separato dal corpo del soggetto di diritto in maniera irreversibile; dall’altra, è destinato a realizzare una tipica funzione del corpo, quella della riproduzione. Anche se la conservazione dello sperma sostituisce la funzione riproduttiva, essa ha per l’integrità del soggetto di diritto e per la sua capacità personale di realizzazione e decisione la stessa importanza di un ovulo o di un’altra parte del corpo, protetti dai parr. 823 e 847 del BGB. Allo stesso modo dell’ovulo prelevato e destinato a essere reimpiantato dopo una fecondazione artificiale, nel caso considerato lo sperma rappresenta l’unica possibilità che il soggetto di diritto ha di procreare e di trasmettere ai figli le proprie informazioni genetiche».
Il corpo, dunque, è inteso e definito come unità funzionale, comprendente anche entità fisicamente collocate in luoghi diversi, che dev’essere protetta anche per consentire la realizzazione del diritto di ciascuno all’autodeterminazione. L’esistenza di questo vincolo funzionale fa sì che la violazione anche di una singola tra queste entità debba essere intesa come violazione del corpo nella sua totalità, attraendo così questo nuovo corpo ‘distribuito’ nell’area presidiata dalle regole sulla libertà personale. Ci troviamo di fronte a un corpo ‘distribuito’ nello spazio, condizione che, per es., ha consentito a un detenuto d’essere autorizzato ad avere un figlio dalla moglie lontana grazie alle tecniche di procreazione assistita. Al deposito del seme in banche specializzate, inoltre, si ricorre anche per rendere possibile la procreazione dopo la morte: così il corpo non è più soltanto distribuito nello spazio, ma pure nel tempo, e può continuare a esercitare alcune sue funzioni anche quando la sua esistenza complessiva è finita. Molti giovani americani, dai tempi del Vietnam fino all’ultima guerra irachena, sono partiti depositando il seme che le loro compagne avrebbero potuto utilizzare in caso di morte, dando concretezza al desiderio di una discendenza affidato alle nuove opportunità tecnologiche.
Per il corpo elettronico tutto questo è ancor più evidente. ‘Pezzi’ di ciascuno di noi sono conservati nelle numerosissime banche dati dove la nostra identità è sezionata e scomposta, dove compariamo ora come consumatori, ora come elettori, debitori, lavoratori, utenti dell’autostrada, e così via. Di nuovo, siamo distribuiti nel tempo e nello spazio. Ma questa, che per il corpo fisico rimane una situazione eccezionale, è ormai la condizione esistenziale di ogni persona. Si pone, dunque, il problema di quale debba essere il rapporto ordinario di ciascuno con la realtà di un corpo ormai istituzionalmente distribuito.
Nella dimensione sociale, questa nuova condizione ordinaria implica una vera e propria cogestione di questo corpo tra il soggetto al quale si riferiscono le informazioni, e che conserva il diritto di controllarle ovunque esse si trovino, e i soggetti che gestiscono le stesse informazioni. Nella dimensione individuale, invece, le domande possono porsi in modo ancor più radicale. Riesco davvero a ‘conoscere me stesso’ quando possono essermi ignoti i luoghi in cui sono presente con le mie informazioni? Anzitutto, dunque, bisogna mettere ciascuno in condizione di sapere dove si trovano parti del suo corpo elettronico e di avere accesso diretto alle proprie informazioni, quale che sia il luogo in cui sono conservate. Questa è la ragione che sta all’origine del riconoscimento della protezione dei dati personali come diritto autonomo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, nell’art. 8, afferma appunto che «ogni individuo ha diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica». La costruzione del corpo elettronico non può essere sottratta al potere dell’interessato.
Fra natura e cultura
La storia lunghissima della chirurgia e della medicina ci parla di una ininterrotta vicenda di interventi sul corpo, che così diventa protagonista di intrecci continui tra natura e cultura. Amputazioni, protesi, assunzione di farmaci sono tutte modificazioni volte a salvare o reintegrare un corpo o accrescerne la funzionalità, rendendo così migliore la vita, consentendo a ciascuno di stare bene con sé stesso. Il corpo modificato non rappresenta l’eccezione, fa parte della ordinarietà della vita.
L’espansione delle possibilità di interventi sul corpo appartiene a una fase storica nella quale la tecnica dei trapianti è quella che più ha messo in evidenza le inquietudini legate a una modificazione che diviene sostituzione, e per ciò pone seri problemi di identità. Un corpo incessantemente modificato, come la nave di Teseo nel suo lunghissimo viaggio, alla fine della vita sarà lo stesso del tempo della nascita?
Dell’integrità del corpo il diritto si è sempre occupato, ma quasi esclusivamente per le manifestazioni estreme, come, per es., le automutilazioni. Un’attenzione costante nasce proprio quando la possibilità dei trapianti obbliga a guardare alle modificazioni come a una vicenda ordinaria che, inoltre, impone di spingere lo sguardo ben oltre il corpo singolo. Espianto e impianto di organi ci rivelano corpi che entrano in relazione, che si parlano.
Siamo di fronte, come ben si vede, a esiti che non sono soltanto il frutto delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, ma di vicende culturali che impongono una considerazione della persona che ridisegna confini e contenuti della fisicità. Allargandosi la porzione di vita oggetto della possibilità di scelta, s’intrecciano ancora una volta l’ampliamento del potere individuale e le possibilità di assoggettamento a una regola.
Il percorso delle modificazioni si fa sempre più tortuoso. Modificazioni rientranti nella normalità e sicuramente transitorie, come quelle legate alla gravidanza, possono ricadere nell’illegalità quando la maternità di sostituzione è giudicata non già come una legittima manifestazione del potere di procreare, appannaggio esclusivo, perché naturale, della donna (C. Shalev, Birth power. The case for surrogacy, 1989; trad. it. Nascere per contratto, 1992), ma come un fatto in sé illecito o legittimo solo a condizione che in essa si manifesti una solidarietà tra donne, e non una transazione economica. Gli impianti elettronici nel corpo vengono sperimentati per permettere la reintegrazione di funzioni perdute, la conquista di possibilità mai possedute (interventi per rimediare alla cecità fin dalla nascita), l’intervento su condizioni patologiche, ma anche per espandere le possibilità fisiche e intellettuali con potenzialità finora sconosciute (The European group on ethics in science and new technologies 2005). Le terapie geniche germinali consentono modificazioni permanenti del genoma, con incidenza sui caratteri genetici trasmessi alla discendenza.
Valutando queste ipotesi, possono essere individuati alcuni criteri utili per fondare il potere individuale in un quadro di necessaria sobrietà legislativa. Rimane fermo il principio di incommerciabilità. Può diventare determinante, almeno in alcune situazioni, quello di reversibilità perchè, soprattutto per gli impianti elettronici nel corpo, evita che le modificazioni assumano carattere permanente. È rilevante il fatto che gli effetti delle decisioni si producano all’interno della sfera privata dell’interessato, riguardino la sua sola vita, oppure al contrario siano destinate a incidere sulla sfera privata di altri o sulla dimensione sociale dell’agire: l’assunzione di droghe è legittima se interessa solamente la sfera individuale, tanto che ne viene ammessa la detenzione in modiche quantità, ma è vietata se, nell’ambito delle competizioni sportive, fa venir meno la necessaria lealtà della competizione e ancor più se incide negativamente sulla salute dell’atleta.
Le modificazioni possono essere ritenute necessarie dall’interessato al fine di ‘stare bene con sé stesso’, sì che diventa legittimo attrarre questo profilo nell’ambito della libera costruzione della personalità. La conquista dell’identità passa attraverso un mutamento del corpo. Qui possono assumere rilevanza decisiva modelli culturali prevalenti che esasperano la funzione comunicativa del corpo e, per es., incentivano il ricorso alla chirurgia estetica, ma anche a interventi ordinari di ‘manutenzione’ del corpo. La mancanza della ‘bella presenza’, richiesta antica e sempre più insistita come un elemento essenziale per l’accesso al lavoro, può essere tecnicamente rimossa.
Rimane tuttavia centrale, e anzi si è fortemente rafforzata, la costruzione del corpo come strumento di comunicazione, per es., connotandolo attraverso tatuaggi, piercing e diversi altri segni d’identità (Le Breton 2002).
Altre rimozioni sono assai più problematiche, e drammatiche. In diversi Paesi viene ammessa la rettificazione dell’attribuzione di sesso (è questo il titolo della l. 14 apr. 1982 n. 164) che, tuttavia, richiede il mutamento chirurgico dei caratteri fisici come condizione necessaria per il mutamento dell’identità nei registri dello stato civile e, quindi, della possibilità di presentarsi socialmente facendo coincidere sesso legale, fisico e psicologico. Ma, per realizzare questa armonia tra vita, corpo e diritto, non sempre è necessario passare attraverso la dolorosa, irreversibile e psicologicamente pesantissima modificazione dei caratteri sessuali. Per la riconciliazione tra percezione del sé e identità sessuale può essere sufficiente una procedura soltanto giuridico-formale di mutamento del nome e del sesso nei registri dello stato civile, permettendo così di presentarsi socialmente in conformità con il sesso psicologico (è quel che prevedono le leggi inglese e spagnola). Un diritto mite al posto di un diritto crudele, che subordina il riconoscimento dell’identità sessuale al sacrificio di una parte del corpo.
Ben diversa è la situazione indicata con l’acronimo BIID (Body Integrity Identity Disorders). Qui la riconciliazione tra psiche e corpo sarebbe possibile soltanto rimuovendo una parte indesiderata del corpo. Il fenomeno è emerso negli Stati Uniti e, almeno in un caso, ha indotto un chirurgo ad accogliere una richiesta di amputazione delle gambe. Può questa richiesta esser ritenuta legittima in un quadro in cui integrità psichica e benessere psichico introducono in una dimensione della salute irriducibile al solo momento della fisicità, e il governo del corpo è attribuito alla decisione autonoma dell’interessato? Se l’interessato, rifiutando le cure, può addirittura decidere di morire, può negarsi legittimità a una mutilazione, pur pesantissima, che assolve alla funzione terapeutica dello star bene con sé stesso? Ma, in casi come questi, la risposta sociale non può limitarsi a registrare passivamente gli effetti di una condizione patologica, liberandosi frettolosamente di un problema drammatico. Deve piuttosto interrogarsi sulle ragioni esistenziali che inducono a quella richiesta e intervenire sulle cause della patologia. Ancora una volta i corpi parlano, e interrogano la società.
Dall’homme machine al corpo nanomachine
Il corpo è attualmente al centro di un’attenzione quasi ossessiva, che lo scompone e lo ricompone, lo considera da punti di vista diversi, ne ridisegna i confini, ne amplifica le funzioni fisiche e sociali, lo trasforma in una astratta password e nell’oggetto di una continua sorveglianza, in un caleidoscopio d’immagini che ci abbaglia, e che alla fine pone il problema se sia possibile ricomporre una unità. Torna l’antica immagine dell’homme machine (Punzi 2003) e a essa si affianca quella di un corpo come nanomachine. L’avventura del corpo sembra non avere mai fine, mentre si fa concreta l’ipotesi del cyborg, e comunque si compie una transizione che ne modifica i caratteri in forme che, non da oggi, fanno parlare di transumano o addirittura di postumano.
Questo è soprattutto l’effetto delle crescenti possibilità di modificare il corpo grazie all’inserzione di dispositivi tecnologici, che suscitano riflessioni sempre più larghe e tentativi di delineare un nuovo quadro di principi di riferimento, che si ritrova, per es., nel parere approvato il 16 marzo 2005 dal Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie, dedicato appunto agli Aspetti etici dei dispositivi ICT impiantabili nel corpo umano e che procede a una ricognizione puntuale delle diverse possibili modalità di intervento. Si individuano, infatti diverse categorie: «Dispositivi ICT: dispositivi che si avvalgono delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, solitamente basati sulla tecnologia dei chip di silicio. Dispositivo medico attivo: qualsiasi dispositivo medico il cui funzionamento si basa su una fonte di energia elettrica interna e indipendente, ovvero su una fonte di energia diversa da quella generata direttamente dal corpo umano o dalla gravità. Dispositivo medico attivo impiantabile: qualsiasi dispositivo medico attivo destinato a essere impiantato interamente o parzialmente mediante intervento chirurgico nel corpo umano, o mediante intervento medico in un orifizio naturale, e destinato a rimanervi dopo l’intervento. Dispositivi ICT passivi impiantabili: dispositivi ICT impiantabili nel corpo umano che utilizzano per il funzionamento un campo elettromagnetico esterno (si veda, per es., la Sezione 3.1.1. relativa al ‘Verichip’). Dispositivi ICT impiantabili online: dispositivi ITC impiantabili che utilizzano per il funzionamento una connessione (‘online’) con un computer esterno, o che sono interrogabili (‘online’) da un computer esterno (si veda, per es., la Sezione 3.1.2. relativa ai biosensori). Dispositivi ICT impiantabili offline: dispositivi ICT impiantabili il cui funzionamento non dipende da dispositivi ICT esterni (eventualmente dopo un’operazione iniziale di configurazione, come nel caso della stimolazione cerebrale profonda)».
Ci si chiede, infatti, «in che misura questi dispositivi sono da considerarsi parte di ciò che si potrebbe chiamare ‘progetto corporeo’, ricomprendendovi la personale e libera progettazione delle proprie abilità fisiche e intellettuali (eventualmente potenziate)». Per rispondere a questa domanda, si disegna un quadro che tiene conto del principio di precauzione e si articola ponendo accanto ai principi fondamentali (dignità, non discriminazione, autonomia, inviolabilità del corpo, privacy) altri principi che, una volta accertata l’ammissibilità in via generale di un intervento, rende possibile una valutazione della sua ammissibilità nei casi concreti (necessità, finalità, proporzionalità, pertinenza). Principi, questi ultimi, che rappresentano anche una sorta di precipitato storico dell’esperienza in materia di accettabilità delle innovazioni scientifiche e tecnologiche.
Così, in maniera sempre più marcata, il corpo si presenta come perennemente ‘incompiuto’, disponibile per una ininterrotta e sempre più incisiva attività di costruzione/modificazione. Su di esso è possibile intervenire per reintegrarne funzioni perdute o mai possedute (amputazioni, cecità, sordità) o proiettarlo al di là della sua antropologica normalità, rafforzandone le funzioni o aggiungendone di nuove, sempre in nome del benessere della persona, o della sua competitività sociale (incremento delle attitudini sportive, ‘protesi’ per l’intelligenza). Siamo di fronte a «repairing and capacity enhancing technologies», a una moltiplicazione delle tecnologie body-friendly, che dilatano e modificano la nozione di cura del corpo e annunciano l’avvento dei cyborgs, del corpo postumano. «Nelle nostre società il corpo tende a divenire una materia prima modellabile secondo l’ambiente del momento». Si allargano così le possibilità di intervento individuale, ma crescono anche le opportunità di interventi politici di controllo del corpo attraverso le tecnologie.
La totale riduzione del corpo a macchina non alimenta soltanto la propensione a trasformarlo sempre di più in strumento che rende possibile un controllo continuo della persona. Questa viene espropriata del proprio corpo e, attraverso ciò, della sua stessa autonomia. Il corpo passa nella disponibilità di soggetti diversi. Ma quale può essere il destino dell’individuo spossessato del proprio corpo? (Rodotà 2006)
Muovendosi in quest’area problematica, il Parere del Gruppo individua alcuni parametri significativi per la valutazione dell’ammissibilità di impianti elettronici nel corpo. I parametri indicati sono i seguenti:
«a) l’esistenza di un rischio riconosciuto attualmente come elevato, ma incerto, in relazione anche alle più semplici forme di dispositivi ICT impiantabili nel corpo umano, esige l’applicazione del principio di precauzione. In particolare, devono essere distinti gli impianti attivi da quelli passivi, quelli reversibili da quelli irreversibili, quelli che lasciano la persona offline da quelli che la mettono online;
b) il principio di finalità impone almeno una distinzione tra finalità sanitarie e finalità di altro genere. Tuttavia, anche le utilizzazioni mediche devono essere valutate con rigore e in modo selettivo, anche per evitare che possano essere poi invocate per legittimare altre forme di utilizzazione;
c) il principio di necessità porta ad escludere la legittimità di dispositivi ICT impiantabili volti unicamente alla identificazione dei pazienti, quando essi possono essere sostituiti da strumenti meno invasivi e altrettanto sicuri;
d) il principio di proporzionalità porta ad escludere la legittimità di impianti come quelli utilizzati, ad esempio, al solo fine di consentire un più agevole ingresso in locali pubblici;
e) il principio di integrità e inviolabilità del corpo esclude la possibilità di ritenere che il solo consenso dell’interessato sia sufficiente per rendere possibile qualsiasi tipo di impianto;
f) il principio di dignità si oppone alla trasformazione del corpo in un oggetto manipolabile e controllabile a distanza, in puro fornitore di informazioni».
Che cosa accade, però, quando da un miglioramento finalizzato al recupero di funzioni perdute o mai possedute si passa un miglioramento delle prestazioni del corpo ‘normale’? È questo, per es., il tema del doping sportivo, sanzionato da norme nazionali e internazionali perché mette a rischio la salute dell’atleta e altera la lealtà delle competizioni. Ma la storica assunzione di droghe da parte di scrittori, musicisti, pittori non ha mai provocato una reazione giuridica di tipo proibizionista per il fatto che, in questo modo, si altererebbe il naturale o normale procedimento di creazione artistica. Gli eventuali divieti, rilevanti anche per gli artisti, discendono da norme di carattere generale sull’uso delle sostanze stupefacenti, comunque temperate da riconoscimenti della legittimità di un loro utilizzo personale e in quantità modica. Lo sport è vincolato al caso, dalle cui ristrettezze l’artista può invece liberarsi?
Vicende recenti ci dicono che non è sempre così. Dopo una battaglia giudiziaria davanti alle corti sportive internazionali, Oscar Pistorius, un corridore sudafricano che, privo della parte inferiore delle gambe, le ha sostituite con impianti in fibra di carbonio, si è visto riconoscere il diritto di partecipare alle Olimpiadi dalla Corte arbitrale dello sport con una decisione del maggio 2008, che ha così respinto la tesi della necessità di vietare in ogni caso il ‘doping tecnologico’. Più in generale, questa decisione fa cadere la barriera tra ‘normodotati’ e portatori di protesi, e anzi prospetta una nuova nozione di normalità. La vera innovazione di quella decisione, infatti, consiste nel riconoscimento che la normalità non è più soltanto quella naturalmente determinata, ma pure quella artificialmente costruita. Prendendo spunto proprio dalla conclusione di questa vicenda, un’altra atleta paraolimpica, Aimée Mullins, ha affermato che «modificare il proprio corpo con la tecnologia non è un vantaggio, ma un diritto. Sia per chi fa sport a livello professionistico sia per l’uomo comune». La nuova dimensione dell’umano esige una nuova misura giuridica, che dilata l’ambito dei diritti fondamentali della persona e, con essa, amplia e legittima le scelte possibili per la costruzione del corpo.
Attraverso il corpo le persone si appropriano così della tecnologia, la riportano alla misura dell’umano, anche se rimangono aperte questioni legate alla distinzione tra repair ed enhancement, recupero e miglioramento. Questa distinzione, da alcuni fondata sostanzialmente su impieghi non terapeutici delle tecnologie, è stata variamente criticata, per il suo carattere astratto e, se usata con intenti normativi, per l’ingiustificato limite che imporrebbe soprattutto a politiche di cognitive enhancement che potrebbero produrre il massimo di benefici con il minimo danno.
La programmazione dell’essere umano
Qualitativamente assai diverse si presentano le nuove opportunità di una programmazione integrale degli esseri umani offerte dalla genetica. Qui la rottura con il passato assume caratteri radicali, e il mantenimento del caso viene indicato come la via obbligata per non soccombere di fronte a uno scientismo che travolgerebbe la dignità umana e prospetterebbe una visione tutta strumentale della persona.
Alla realtà di interventi puntuali, e rimessi a scelte individuali, si è venuta via via contrapponendo una prospettiva che mescola realismo e volontà di potenza e che propone di «riprogettare gli esseri umani» (Stock 2002; trad. it. 2004), di stabilire «regole per il parco uomini» (Sloterdijk 1999; trad. it. 2001, pp. 132 e sgg.). Ci lasceremmo così alle spalle «l’ultimo uomo» (è questo il titolo del capitolo iniziale del libro citato di Gregory Stock), passando «ad un’esplicita pianificazione delle caratteristiche individuali» grazie a una «antropotecnica» che «sarà in grado di realizzare a livello dell’intera specie il passaggio dal fatalismo della nascita all’opzionalità della nascita e alla selezione prenatale» (Sloterdijk 1999; trad. it. 2001, pp. 132 e sgg.). Si pone così il problema di una eugenetica migliorativa su scala di massa, anche se diversi sono i contesti all’interno dei quali ci si muove, poiché all’analisi di Stock è estraneo ogni progetto di ‘allevare’ una razza di superuomini più adatti a governare il genere umano, come invece fa Peter Sloterdijk.
Queste sono prospettazioni estreme, che rievocano un passato inquietante, semplificano in modo sovente inaccettabile e che, quindi, devono essere anzitutto sottoposte al vaglio di una rigorosa analisi scientifica. Esse, tuttavia, pongono un problema ineludibile, come riconosce lo stesso Stock quando si chiede se le richieste di miglioramenti farmaceutici e genetici troveranno davvero possibilità di resistenza nel «turbolento mondo reale» (Stock 2002; trad. it 2004, p. 233). Il tema dei limiti diventa essenziale, e non può essere solo il diritto a stabilire i confini.
Nell’indicare i rischi di una eugenetica liberale per allontanare i pericoli della prospettiva appena ricordata (Habermas 2002), l’accento torna a essere posto sulla necessità di rispettare la naturalità di processi già da tempo oggetto di ripetuti e consapevoli interventi dell’uomo. Proprio per questo la contrapposizione tra una natura dominata dal caso, nella quale non si deve interferire, e un mondo umano fatto di rapporti di comunicazione non offre un fondamento davvero solido a una posizione teorica che vuole porre un argine a una eugenetica positiva, tanto che lo stesso Jürgen Habermas finisce con il riconoscere la legittimità di interventi di terapia genica volti a evitare la trasmissione di malattie ereditarie (2002, pp. 45-70), anche se poi inclina pericolosamente verso l’ammissibilità di una imposizione politica della lista delle malattie da curare (p. 46; per una discussione delle tesi di Habermas, si veda, tra gli altri, Viano 2004, pp. 277-96).
Un nuovo oggetto sociale
Il trascorrere dal passato a un presente che è già futuro si può cogliere nel fatto che i collaudati controlli e condizionamenti esterni sono ormai accompagnati da una costruzione del corpo stesso in forme che possano renderlo compatibile con la società della sorveglianza. Il corpo controllato diviene un nuovo e diverso oggetto sociale.
L’interazione tra il corpo e le tecnologie si diffonde nelle aree più diverse, con vicende che consentono di cogliere anche alcune significative linee di tendenza. Davanti a noi sono mutamenti che toccano l’antropologia stessa delle persone. Siamo di fronte a slittamenti progressivi: dalla persona ‘scrutata’ attraverso la videosorveglianza e le tecniche biometriche si può passare a una persona ‘modificata’ dall’inserimento nel corpo di microchip ed etichette ‘intelligenti’ leggibili a distanza con le tecnologie delle radiofrequenze (RFID, Radio Frequency Identification), in un contesto in cui il corpo diviene una password e che sempre più ci individua come networked persons, persone perennemente in rete, via via costruite in modo da emettere e ricevere impulsi che consentono di rintracciare e ricostruire movimenti, abitudini, contatti, modificando senso e contenuti dell’autonomia delle persone.
Nel marzo del 2005 si è avuta notizia che, in una scuola californiana, ai bambini era stato imposto di portare al collo un medaglione contenente un piccolo chip elettronico che consentiva di seguire ogni loro mossa, segnalata da sensori collocati in tutti i locali scolastici, bagni compresi. La trasformazione tende a trasferirsi dall’esterno, dal mondo circostante, all’interno di ciascuno di noi. Non basta più mutare l’ambiente, per es., con strumenti di videosorveglianza, bisogna mutare le stesse persone. La marcia (irresistibile?) della tecnologia sembra esigere una nuova antropologia. Lo ha colto benissimo una bambina di quella scuola che, tornata a casa dopo essere stata ‘etichettata’, ha detto ai genitori: «Non sono un pacchetto di cereali». Non si poteva descrivere con più efficacia quello che sta davvero accadendo: la progressiva riduzione delle persone a oggetti, continuamente controllabili a distanza con le più diverse tecnologie, implacabilmente legate da un invisibile e tenacissimo guinzaglio elettronico. Gli esempi concreti sono sempre più numerosi. Sono ben noti i casi di lavoratori ai quali viene imposto di portare un piccolo wearable computer, che consente al datore di lavoro di dirigere, via satellite, il loro lavoro, indirizzarli verso i prodotti da prelevare, indicare i percorsi da seguire o le attività da svolgere, controllare ogni movimento del dipendente e individuare così in ogni momento dove si trova. In un rapporto del 2005 di Michael Blackmore dell’università di Durham, richiesto dal sindacato inglese GMB, si sottolinea che questo sistema riguardava già diecimila persone, trasformando i luoghi di lavoro in «battery farms» e creando le condizioni di una «prison surveillance». Siamo di fronte a un Panopticon su scala ridotta, che anticipa e annuncia la possibilità di diffondere su scala sempre maggiore queste forme di sorveglianza sociale. Risultati simili, anche se riguardanti la sola localizzazione all’interno dei luoghi di lavoro, sono ormai possibili grazie all’inserimento di un chip leggibile con la tecnologia RFID nelle tessere di identificazione dei dipendenti.
Queste diverse vicende mostrano come attraverso tecniche di costruzione del corpo si modifica l’organizzazione stessa della società. La sorveglianza sociale si affida a una sorta di guinzaglio elettronico, con un numero crescente di persone tagged and tracked, etichettato e seguito. Il corpo umano viene assimilato a un qualsiasi oggetto in movimento, controllabile a distanza con una tecnologia satellitare o utilizzando le radiofrequenze.
Naturalmente vi sono impieghi di queste tecnologie indubbiamente benefici soprattutto per alcune categorie di persone, come gli anziani, i bambini, i malati, i disabili. Questo implica una progettazione dell’ambiente in cui vivono tale da consentire una vita più sicura. Ma questo deve avvenire in forme che garantiscano il rispetto della loro dignità. I vari strumenti elettronici di telecare non debbono portare a costruzioni del corpo che, di nuovo, trasformino le persone in puri oggetti, affidati soltanto a una ‘cura’ tecnologica che, in nome dell’efficienza, giustifichi poi l’abbandono sociale, l’interruzione di ogni relazione personale, la configurazione dei servizi sociali come puri gestori di tecnologie. Anche qui l’ideologia della sicurezza e della logica economica può travolgere i diritti fondamentali, inducendo a dimenticare quel che si disse, per gli anziani, all’Assemblea generale dell’Onu nel 1991: «aggiungere vita agli anni che sono stati aggiunti alla vita».
Osservazioni conclusive
Le diverse modalità di costruzione del corpo sono sempre più legate agli intensi rapporti che si istituiscono tra persona e macchina. Questo è un punto ben colto da una sentenza del 28 febbraio 2008 della Corte costituzionale tedesca, che ha dichiarato illegittima la norma che consentiva senza limiti la possibilità di ‘perquisire’ i computer anche all’insaputa degli interessati. Per giungere a questa conclusione, i giudici tedeschi hanno creato un nuovo diritto fondamentale della persona, quello alla «riservatezza e integrità del proprio apparato tecnologico». Poiché si affidano alla macchina dati che riguardano la persona, bisogna aggiungere questa garanzia a quelle tradizionali per consentire il libero sviluppo della personalità.
Si riconosce che tra l’uomo e la macchina non vi è soltanto interazione, ma compenetrazione. È l’umano che ingloba in sé la macchina, non il contrario. Questo è un dato strutturalmente evidente, di cui viene riconosciuta la rilevanza costituzionale. Il diritto ristabilisce così la priorità dell’umano, ma manifesta la sua potenza dicendoci che nel mondo esiste una nuova entità, costituita appunto dalla persona e dall’apparato tecnico al quale essa affida i suoi dati. Tra persona e macchina si stabilisce un continuum: riconoscendolo, il diritto ci consegna una nuova antropologia, che reagisce sulle categorie giuridiche e ne modifica la qualità. La riservatezza e l’integrità, qualità dell’umano, si trasferiscono alla macchina.
Questa nuova forma di garanzia supera la dicotomia tra habeas corpus, legata al corpo fisico, e habeas data, concepito come estensione di quella garanzia storica al corpo elettronico. Non vi sono più oggetti distinti della tutela, ma un oggetto unico: la persona nelle diverse sue configurazioni, determinate dal rapporto con le tecnologie, non soltanto elettroniche.
Siamo di fronte a una ricostruzione dell’integralità della persona, analoga a quella realizzata attraverso il riconoscimento di una tutela unitaria della sua integrità, non più limitata soltanto a quella fisica, ma estesa fino a comprendere anche quella psichica e sociale, com’è esplicitamente detto nella definizione di salute elaborata dall’Organizzazione mondiale della sanità e poi ricevuta in una molteplicità di documenti giuridici (art. 3 della Carta dei diritti fondamentali della UE). Si potrebbe dire, con qualche enfasi retorica, che il diritto, dopo aver preso atto dell’inscindibilità di corpo e anima, fornisce con la sentenza tedesca del 2008 una sua versione dell’‘uomo macchina’. Si mantiene fermo l’accento primario sul dato umano, unica via per riconciliarlo con gli apparati tecnici che lo accompagnano, lo ristrutturano, lo invadono.
Al tempo stesso, però, le innovazioni scientifiche e tecnologiche annunciano la superfluità, anzi la scomparsa del corpo. Vanno in questa direzione le ricerche sull’utero artificiale e, soprattutto, le sperimentazioni sulle Brain-machine interfaces (BMIs) o Brain-computer interfaces (BCIs). La costruzione, in questi ultimi casi, non riguarda più il corpo, ma l’instaurarsi di un rapporto diretto tra il cervello e le macchine, senza più bisogno di quella mediazione corporea affidata al sistema muscolare. Da qui una idea diversa del corpo e della sua costruzione, addirittura la necessità di una ridefinizione dell’umano.
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