Costruzione dell’identità dell’Europa
Nel Novecento, sono stati i più tragici avvenimenti della storia europea a rendere consapevoli i governi e le opinioni pubbliche europei della necessità di interrogarsi sull’Europa, sugli europei, sul loro destino, sulla necessità di una forma di convivenza pacifica: dagli anni dei due dopoguerra alla caduta del muro di Berlino, alla fine dell’impero sovietico. L’idea d’Europa, l’aveva scritto M. Bloch alla metà degli anni Trenta, è una sorta di «nozione di crisi; una nozione di panico». Da queste «paure» però possono «nascere» – cosi scriveva Bloch – «i buoni europei» cioè quegli intellettuali e politici consapevoli della crisi profonda che l’Europa attraversa dall’inizio del sec. 20°. L’Europa può essere ed è stata, come scriveva a sua volta L. Febvre nel 1944, un’idea «rifugio» per chi credeva ancora, dopo le distruzioni e le infamie delle guerre mondiali, in una società rispettosa dei diritti dell’uomo e del cittadino e in un sistema pacifico di Stati nazionali. Un’idea «rifugio», un valore al quale l’opinione colta, le stesse classi di governo, gli uomini e le donne dei vari Paesi possono fare riferimento nei momenti di crisi, nella speranza di trovare nelle «radici» del loro essere europei una ragione di convivenza.
È naturale, dunque, che gli anni successivi al Secondo conflitto mondiale, gli anni della Katastrophe tedesca, della fine del fascismo italiano, della presa d’atto dell’enormità della Shoah, dell’avvio della cosiddetta Guerra fredda abbiano rappresentato uno scenario importante per la ripresa di un dibattito sull’identità europea che ha le sue radici nei testi dei grandi filosofi e storici del 18° e del 19° sec., da Voltaire a Robertson, a Gibbon, a Guizot e Burckhardt. L’urgenza di questo dibattito stava nel disegno dei Paesi del «blocco occidentale» di dare vita a forme di integrazione economica e politica nel contesto di una pacificazione europea che prendeva atto della cortina di ferro, pur non rinunciando all’obiettivo di una Europa unita dall’Oceano agli Urali, come disse C. De Gaulle.
Da questo contesto discendono il carattere e il tono «occidentali» di quasi tutto il dibattito europeistico dalla seconda metà degli anni Quaranta alla caduta del muro: un dibattito nelle sue linee di fondo di matrice intellettuale e politica liberale o cristiano-democratica, avversato da quelle famiglie politiche e culturali europee – i socialisti fino agli anni Cinquanta, i comunisti fino alla svolta eurocomunista dei primi anni Settanta – che videro nell’avvio del processo di integrazione il dispiegarsi di un disegno economico, politico, sociale, culturale filoamericano.
Momento fondante della riflessione sull’identità europea, nell’ambito delle istituzioni create nel dopoguerra, può essere considerato, a buona ragione, il dibattito organizzato nel 1953 dal Consiglio d’Europa su Il problema spirituale e culturale dell’Europa considerata nella sua unità storica, e i mezzi per esprimere questa unità in termini contemporanei. Il contesto politico e culturale era, ovviamente, quello della Guerra fredda e l’intento era quello di rafforzare il sentimento di appartenenza dei Paesi del blocco occidentale a comuni valori politici, culturali, economici e religiosi. A dare il tono della conferenza fu A. Toynbee, storico noto negli ambienti internazionali e consigliere assai ascoltato del Foreign office. Per «europei» lo storico inglese intendeva quelli che abitano la penisola nordoccidentale del Vecchio mondo e le isole adiacenti, cioè i cristiani del patriarcato di Roma, poi divisisi in cattolici e protestanti. Le radici di questa Europa stavano a Roma, nella Chiesa.
Quest’Europa aveva poi «perduto la sua unità storica quando, verso la fine del Medioevo, i lealismi locali prevalsero in modo decisivo sulla fedeltà alla comunità cristiano-occidentale». La ricostruzione dell’unità culturale e spirituale di questa Europa era, quindi, la condizione essenziale per qualsiasi progetto politico.
Il Consiglio d’Europa affidava allora al suo segretario, D. de Rougemont, la responsabilità di seguire i lavori di un comitato, guidato dallo storico inglese M. Beloff, che avrebbe dovuto redigere un rapporto sulla civiltà europea, sulla sua storia, sulle istituzioni politiche, sull’economia e le scienze. «Dobbiamo dimostrare» – raccomandava de Rougemont, ricalcando una nota espressione di Guizot – «la fondamentale unità dell’Europa nella diversità». La storia d’Europa non doveva essere intesa «come la somma totale delle nostre separate storie nazionali, ma […] come una storia comune degli europei».
«Il fenomeno nazionale non è un carattere primario o essenziale dell’Europa», ma un «fenomeno transitorio» e negativo per le sorti dell’Europa, al contrario del valore dell’idea di federazione. Nonostante queste indicazioni la discussione all’interno del comitato non fu facile.
Beloff non credeva affatto che il passato dell’Europa e la sua storia potessero legittimare quel che di nuovo si prospettava attraverso l’azione del Consiglio d’Europa. I secoli passati insomma non autorizzavano alcuna idea di federazione o unità europea. A Beloff la tesi di Toynbee – «la Russia non è Europa» – appariva una battuta buona per la propaganda politica, non certo il modo migliore per riflettere su un tema centrale per una discussione sull’identità europea. Né gli sembrava possibile scrivere una storia unitaria dell’Europa per la diversità delle storie delle varie regioni e per la difficoltà stessa di definire cos’è l’Europa. Se si voleva trovare un elemento di vera unità, questo andava cercato nella storia della cultura, nella storia di quei dibattiti e di quelle scienze che si erano sviluppati in un contesto veramente europeo.
Non sorprende allora la scarsa soddisfazione del Consiglio d’Europa nei confronti del volume Europe and the Europeans (1957), curato da Beloff.
Non a caso, dopo questo esordio, il Consiglio d’Europa si astenne dallo «scrivere la propria storia d’Europa». Nessuno storico ebbe mai più l’incarico di scrivere la storia d’Europa. Solo una sorta di riconoscimento ufficioso ebbe, infatti, una nuova storia d’Europa del 19° e 20° sec., diretta da un comitato internazionale di storici, tra i quali lo stesso Beloff. Era una storia d’Europa con una impostazione per larga parte dichiaratamente «europeista», tanto che a essa avrebbe collaborato lo stesso de Rougemont. L’idea-forza era che in Europa l’età delle nazionalità aveva raggiunto i suoi obiettivi e che essa rappresentava, quindi, il punto di partenza per nuovi sviluppi unitari. Era, comunque, un’opera per molti versi aperta e coraggiosa. In essa trovò posto un breve, incisivo scritto di L.S. Senghor, il teorico e cantore della négritude. Naturalmente, il senso dei sette volumi di questa storia dell’Europa non stava affatto nelle brevi, forti pagine di Senghor, ma nella fiducia di trovare nella storia europea dell’Europa del 19° e del 20° sec. la conferma della esistenza di una comune civiltà europea e una sorta di legittimazione di un processo politico che mirava alla costruzione di una Comunità Europea di Stati quale condizione indispensabile per la difesa della civiltà europea. Chi sono gli europei? Cos’è la civiltà europea? C’è una comune identità europea? Sono, queste, le domande alle quali le istituzioni europee si sentono obbligate a dare una risposta, per legittimare l’integrazione economica e politica di Paesi la cui storia è storia di guerre, di divisioni profonde, di odi fortemente radicati nelle coscienze collettive. Perché «è ovvio in questa prospettiva» che senza gli «europei» non può esistere l’«Europa» così tenacemente voluta dai politici e da quella parte dell’opinione pubblica più impegnati e fiduciosi nel rafforzare il processo di integrazione.
È questo il senso delle politiche messe in atto dagli organismi comunitari (dalla Costituzione a Roma, nel 1957, del Mercato comune europeo, all’Unione Europea, al Trattato di Lisbona del 2010) per sollecitare un più forte sentimento di appartenenza delle donne e degli uomini che vivono nei Paesi dell’Unione a un pezzo di mondo caratterizzato da un insieme di valori culturali e politici, di morfologie sociali, di modi di vivere, di modelli di rapporti personali che, per quanto diversi nei singoli contesti nazionali, hanno comunque elementi comuni. E tali da giustificare un progetto di integrazione che vuole sfociare nella costituzione di una unione politica. Si pensi all’uso ricorrente nei documenti dell’Unione Europea e, prima ancora, del Mercato comune europeo, della parola-chiave «patrimonio» – héritage – nel quale tutti i popoli di questa parte del mondo dovrebbero riconoscersi: un insieme di valori religiosi, culturali, politici, di beni immateriali, ma anche una storia per molti tratti comune, che finiscono per identificare appunto gli «europei».
Non sorprende che il dibattito abbia ripreso vigore e anzi acquisito nuovo senso dopo la caduta del muro, soprattutto negli anni nei quali si andavano preparando il cosiddetto «allargamento» – orribile espressione, che molto dice di una concezione dell’Europa che vede lo spazio a E della Germania come un’«altra» Europa, quella Europa che intorno alla metà del Settecento si è cominciata a chiamare appunto Oriente d’Europa – e si apriva il dibattito sulla cd. Costituzione europea, firmata a Roma nell’ottobre del 2004 e mai entrata in vigore per l’esito negativo dei referendum svoltisi in alcuni Paesi aderenti all’Unione. Proprio nei mesi nei quali il comitato guidato dall’ex presidente francese V. Giscard d’Estaing redigeva il testo «costituzionale», in un clima generale di speranza, la Commissione europea, allora presieduta da R. Prodi, dava vita a una tavola rotonda dedicata all’Europa di domani. A presiederla era D. Strauss-Khan, che presentava alla Commissione un rapporto dal significativo titolo di 50 Propositions pour l’Europe de demain. Otto tra queste riguardavano la necessità di rafforzare il senso di appartenenza all’Europa: dall’inserimento nelle scuole di un corso di storia europea alla costruzione di un museo d’Europa, all’incremento della mobilità studentesca tra le scuole e università europee.
La mancata ratifica della Costituzione del 2004, le difficoltà politiche vissute dall’Unione dalla guerra del Golfo in poi, la crisi economica iniziata nel 2008 certo hanno lasciato poco spazio a una politica identitaria delle istituzioni europee, che con Lisbona hanno rinunciato a quei simboli (l’inno, la bandiera, il motto) che, lo sappiamo bene, sono elementi imprescindibili di ogni costruzione identitaria. In questo contesto lo stesso progetto di un museo d’Europa sostenuto dal Parlamento europeo sembra arenarsi tra il disinteresse delle opinioni pubbliche e degli intellettuali europei. Certo, è possibile, e per alcuni auspicabile, che l’Unione Europea possa fare a meno di una forte costruzione identitaria, che, come tutti i processi identitari, serve a includere nella stessa misura in cui esclude: tanto più quanto il senso identitario nasce e si nutre della paura dell’altro, del non europeo. La storia dell’integrazione europea di questi decenni però mostra che il processo ha registrato i migliori successi in momenti in cui forte è stato nei popoli europei il sentimento di appartenenza a uno spazio comune di civiltà. Come in altri momenti difficili della storia europea, è possibile pensare che anche oggi i movimenti europeisti, le opinioni pubbliche, gli intellettuali più consapevoli dei pericoli di una disintegrazione dell’Unione sappiano trovare argomenti validi per una più partecipata identità europea.
Si veda anche Europa