Costume
Costume significa in primo luogo comportamento abituale, consuetudine, e di qui passa a indicare sia l'insieme delle usanze di un popolo o di una collettività sia il modo di vestirsi tipico di un gruppo, di un'epoca e di un paese. Nel suo primo significato il termine denota i fattori che garantiscono la coesione e la continuità dell'universo sociale, attraverso la trasmissione di generazione in generazione di usanze e abitudini. Il costume è oggetto di riflessione da parte delle discipline antropologiche, che mettono in risalto gli elementi normativi impliciti nella riproduzione delle consuetudini e il modo in cui gli individui intervengono nel modificare gli spazi sociali in cui si trovano ad agire.
l. Costumi e cultura
La nozione di costume, come quella di cultura, costituisce uno degli strumenti di lavoro dell'antropologia sociale e culturale. Il suo significato, le premesse teoriche sottese, le sue complesse implicazioni possono dunque essere colti ripercorrendo alcune delle formulazioni che ha conosciuto nella storia di questa disciplina. Erodoto e Montaigne, considerati alla stregua di precursori da alcuni antropologi contemporanei, fecero nelle proprie opere riferimento ai costumi, nell'accezione morale di usi, abitudini, tradizioni caratteristici di una data società o di una data cultura. Erodoto definiva νόμος la consuetudine, 'regina' di tutte le cose, e sosteneva che nulla è per una popolazione più importante delle sue usanze. Montaigne considerava il viaggio tra i costumi, cioè l'esplorazione della loro diversità e relatività, come la strada da percorrere per raggiungere la saggezza. Entrambi valorizzarono "gli orizzonti locali entro cui gli uomini organizzano le proprie azioni e le proprie idee" e, sottolineando la varietà di forme che essi comportano, ne sostennero l'imprescindibilità (Remotti 1990, p. 57). Fra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento gli sviluppi della nozione di cultura costringono sullo sfondo quella di costume. Quest'ultima, tuttavia, manterrà una posizione importante sul piano teorico e su quello metodologico. Se fino a questo momento i filosofi, i pensatori e i viaggiatori avevano posto l'accento sulla constatazione della pluralità degli usi e delle abitudini umane, con il costituirsi dell'antropologia quale disciplina scientifica, la riflessione si concentra sulla ricerca di leggi che ne spieghino la variabilità. Nella formulazione classica di E.B. Tylor (1871) la cultura, intesa quale insieme complesso di conoscenze e credenze, capacità artistiche e tecnologiche, stili di vita, abitudini e valori appresi dall'uomo in quanto membro di una società, ingloba al proprio interno i costumi, i quali, per quanto strani e bizzarri possano apparire, acquistano così ordine e fondamento. D'altro canto, la dimensione dell'esteriorità, già propria dei costumi, viene ereditata dal nuovo concetto: dagli abiti all'abitudine, dai costumi al costume ritorna, in una sorta di gioco di parole, l'idea che la cultura sia qualcosa che 'si indossa'. Già da queste brevi considerazioni emerge la linea sottile che separa il costume, nell'accezione sopra ricordata di stile di vita, dal costume inteso in senso fisico quale abito che copre il corpo. L'etimologia della parola rinvia al latino consuetudo, che dal verbo consuescere significa "abituarsi". Nel volgare consuetudo divenne costumen, ma piuttosto che una derivazione diretta è opportuno ipotizzare il passaggio attraverso il corrispettivo francese (coutume) o provenzale (costum). Dal francese, dove il suo uso è attestato intorno all'11° e 12° secolo, il termine passò nella lingua inglese (custom). Nelle sue occorrenze più antiche, la parola fa dunque riferimento alla sfera della condotta, del comportamento e dell'abitudine; nel Seicento e nel Settecento cominciò a essere utilizzata anche per indicare le fogge del vestire. Nonostante il linguaggio dell'antropologia privilegi proprio l'uso più antico, le due dimensioni - quella morale e quella materiale - continuano comunque a rincorrersi. I costumi costituiscono l'espressione visibile della cultura, sia quando denotano le consuetudini del vivere e del porsi in relazione agli altri, tipiche di una particolare società, sia quando, nella loro accezione di abiti, comportano l'implicito riferimento alla possibilità che il vestire costituisca il segno d'appartenenza a un gruppo o a una formazione sociale particolare (qualificandosi come elementi discriminanti nella costruzione dell'identità sociale e personale). Nella nozione di costume è infatti implicita l'idea di una trasformazione dei corpi, di un loro agire in virtù di modelli appresi quasi inconsapevolmente, come se le culture li ricoprissero di un manto invisibile che ne condiziona i movimenti, le posture e gli stessi comportamenti. L'atto di vestire il corpo non coincide allora solo con il porre sulla sua superficie ornamenti, indumenti o pitture, né si limita a quelle operazioni, quali, per es., la scarificazione, il tatuaggio, la circoncisione, che mirano a renderlo adeguato rispetto a un particolare ideale di umanità. Le culture intervengono nei ritmi del ciclo biologico individuale, stabilendo, solo per citare alcune possibilità, le modalità della veglia e del sonno, la frequenza dei pasti e il tipo di alimenti da consumare. Il corpo è il primo e il più naturale degli utensili umani e le abitudini che lo caratterizzano sono un prodotto sociale. Questo sosteneva M. Mauss (1936), il quale preferiva parlare di habitus piuttosto che di abitudine perché la radice stessa di questa parola, che dal verbo latino habeo significa sia "ciò che si è acquisito" sia un "modo di essere", ne sottolinea l'origine esterna rispetto ai corpi. Le considerazioni di Mauss sono state approfondite dal sociologo francese P. Bourdieu (1977), per il quale l'habitus, è un insieme di schemi di organizzazione del mondo, iscritto nei corpi attraverso i processi di socializzazione. I singoli individui, mettendo in opera questi stessi schemi, contribuiscono alla costruzione del proprio universo sociale. L'habitus è una padronanza pratica delle leggi che regolano la vita di un dato gruppo; implica una disposizione del corpo così come la presenza di categorie che permettono di valutare le situazioni e di agire di conseguenza. Nell'habitus trova espressione l'idea che costumi e cultura subiscano un processo di naturalizzazione: creazioni artificiali, sono parte di una concezione del mondo già data rispetto all'esistere dei singoli individui, che modella i loro corpi e viene appresa e riprodotta con le azioni prima ancora che attraverso le parole. È questo un principio valido universalmente, nei contesti studiati tradizionalmente dall'antropologia come nelle società dell'Occidente industriale di cui si occupa la sociologia (Bourdieu 1994).
Sul piano sincronico i costumi sono locali, mutevoli, variabili geograficamente. Le consuetudini dei greci e dei persiani nei confronti dei loro morti, sosteneva Erodoto, sono assai differenti, né gli uni potrebbero mai essere indotti ad adottare quelle degli altri. Sul piano diacronico, tuttavia, questa mutevolezza è contrassegnata dalla continuità. Il concetto di costume presuppone che, all'interno di un dato contesto, usi e abitudini presentino una qualche forma di regolarità tramandandosi fra le generazioni; ipotizza una sorta di ponte fra passato e presente; suggerisce l'idea che il singolo individuo aderisca alle norme e ai valori della società cui appartiene, contribuendo così alla loro riproduzione nel tempo. Dal primo al secondo dopoguerra, mentre i loro colleghi d'oltreoceano riflettevano sulla nozione di cultura, sviluppandone le implicazioni teoriche, gli antropologi britannici, formatisi nella tradizione teorica del funzionalismo (la prospettiva metodologica all'epoca dominante), preferirono utilizzare il termine custom per denotare l'insieme di consuetudini che caratterizzano una data società, conferendo a questa nozione anche una sfumatura giuridica. Le sue implicazioni sul piano normativo erano, e sono tuttora, considerate più forti rispetto a quelle del concetto di cultura, anche perché nella tradizione di pensiero occidentale la consuetudine, laddove manchi un corpus di leggi codificato o una documentazione storica scritta, può trasformarsi in fonte di diritto. Fanno parte dei costumi non solo le usanze sociali, cioè i modi di comportarsi caratteristici di un dato gruppo, ma anche le norme, nella prospettiva di A.R. Radcliffe-Brown (1952), le regole del comportamento che, se infrante, impongono l'applicazione di una sanzione. Simile era la posizione di B. Malinowski (1926a), quando sosteneva che nella cosiddetta società primitiva le regole del costume svolgono la funzione esercitata nella nostra società dal diritto. Egli precisava, tuttavia, che l'adesione ai costumi, da parte dei singoli individui, non doveva essere considerata automatica, anche se il rispetto per la tradizione, la tendenza a comportarsi come tutti gli altri, il desiderio d'approvazione costituivano elementi significativi nel determinarla. I fatti del costume dovevano essere inferiti a partire dalla quotidianità, piuttosto che raccolti facendo astratte domande agli indigeni. Malinowski, invitando a osservare il loro concreto dipanarsi nella vita sociale, poneva i presupposti teorici per coglierne sia le dimensioni discorsive, cioè il modo in cui le persone rappresentano le loro usanze attraverso la parola, sia quelle implicite, o meglio quegli aspetti del costume che informano il comportamento quotidiano senza che le persone coinvolte ne siano direttamente consapevoli (Malinowski 1926a). Fra le sue osservazioni ve ne erano alcune destinate a essere approfondite negli anni successivi. Quando, nella sua teoria del mito, lo studioso sosteneva l'esistenza di società i cui resoconti storici erano costruiti allo scopo di legittimare il presente, insinuava il dubbio che taluni costumi, piuttosto che eredità di un'epoca remota, fossero il risultato di un'invenzione contemporanea. Proiettarne l'origine nel passato - attraverso miti, leggende, tradizioni orali - era un'operazione che garantiva loro una maggiore solidità (Malinowski 1926b). La questione fu ripresa dall'antropologa americana L. Bohannan (1952) nella sua analisi delle genealogie tiv. Una genealogia è un tipo particolare di narrazione in cui vengono elencati tutti coloro che discendono da un comune antenato. I tiv sono una popolazione di coltivatori stanziati nelle regioni centrali della Nigeria, le cui genealogie erano state raccolte dai funzionari coloniali agli inizi del Novecento. Mezzo secolo dopo, nell'esporle nuovamente, i tiv introducevano consapevolmente dei cambiamenti e, quando veniva fatta loro notare la discrepanza con i resoconti precedenti, sostenevano che questi ultimi dovevano essere riscritti. Nonostante ciò, essi consideravano l'esattezza delle loro genealogie un articolo di fede. Emblematico è anche il caso degli nguni, una popolazione dell'Africa centromeridionale, presentato nello stesso periodo da J. Barnes (1951), che attirò l'attenzione sull'uso pragmatico che gli nguni facevano dei concetti di tradizione e costume. Le innovazioni a livello locale venivano spesso promosse sotto questa etichetta. Piuttosto che chiedere il permesso per concludere un'iniziativa al funzionario coloniale responsabile della loro regione, gli nguni preferivano dichiarare che da sempre si comportavano così. Sostenevano che le consuetudini dei padri costituivano la traccia dell'agire contemporaneo ma, di fatto, quest'ultimo rimodellava il passato legittimando qualsiasi innovazione come se esistesse da sempre. Quando intendevano resistere a una delle imposizioni del governo centrale, affermavano che, seguendola, avrebbero infranto la tradizione. Nel caso in cui la tradizione prevedeva qualche forma di sanzione religiosa, l'amministrazione britannica doveva considerare quali sarebbero state le conseguenze se avesse forzato la popolazione a commettere un sacrilegio (Colson 1971).
Barnes e Bohannan invitavano a considerare la continuità dei costumi come il risultato di particolari processi storici e sociali, piuttosto che come un dato di fatto; ma perché un'intuizione divenga oggetto di sistematica indagine talvolta è necessario attendere decenni. Nonostante l'interesse dimostrato dagli antropologi britannici per le tematiche del conflitto e del cambiamento sociale già a partire dal secondo dopoguerra, la nozione di costume fu ancora a lungo utilizzata per circoscrivere un insieme di regole, norme, valori fra cui era possibile stabilire connessioni significative, dotate nel tempo di un certo grado di continuità. Compito dell'antropologia non era scrivere una storia dei costumi, né inseguire la pluralità di situazioni entro cui venivano contestati e modificati, negoziati e legittimati, quanto cogliere la loro regolarità, identificando delle strutture. L'indagine etnografica - come aveva sostenuto Malinowski (1922) - doveva documentare le dimensioni stereotipate del comportamento, piuttosto che le infinite variazioni introdotte dai singoli individui. Solo così sarebbe stato possibile cogliere, nella ripetizione di gesti, atti e parole, la forma di quell'invisibile abito con cui le culture modellano i corpi individuali. La tesi di una malleabilità dei costumi comincia a essere sviluppata dagli storici dell'Africa coloniale negli anni Settanta del 20° secolo. Nello stesso periodo gli antropologi mostrano una crescente insoddisfazione per i modelli interpretativi ereditati dai propri predecessori. F. Barth (1967) individua nel concetto di custom uno dei principali ostacoli da superare nell'analisi del mutamento sociale. Studiare le dimensioni stereotipate del comportamento rende difficile documentare il modo in cui i singoli individui manipolano strategicamente l'ordine sociale. Quegli autori che, come M. Gluckmann, si interessano alle implicazioni giuridiche della nozione di costume sottolineano la flessibilità e la plasticità delle consuetudini (Allott-Epstein-Gluckmann 1969). Queste diverse tendenze confluiscono negli anni Ottanta in una riflessione critica sulla nozione di costume. Lo storico T.O. Ranger (1983), in un saggio destinato a trasformarsi in un classico degli studi africanistici, avanza l'ipotesi che l'Africa precoloniale non conoscesse la tradizione. Per lo meno non esistevano quel sistema chiuso di consenso collettivo e quell'insieme di norme secolari e immutabili di cui erano alla disperata ricerca i funzionari coloniali. Le consuetudini erano invece qualche cosa di molto più fluido "che consentiva adattamenti tanto spontanei e naturali da risultare quasi impercettibili" (Ranger 1983, trad. it., p. 237).
La loro codificazione produsse il risultato di reificare gli interessi di alcuni gruppi, ponendo gli altri in una posizione subalterna. Durante il periodo coloniale gli anziani fecero riferimento al costume per controllare il lavoro dei giovani, gli uomini si appellarono alla tradizione per restringere l'influenza economica e politica delle donne, i capi invocarono la consuetudine per meglio dominare i propri sudditi. Gli antropologi, dal canto loro, trasformano la nozione di costume da categoria metodologica a un vero e proprio argomento d'analisi etnografica, attirando l'attenzione sul modo in cui le società, di cui si occupa la loro disciplina, si sono appropriate di questo concetto. Il contributo più significativo è quello degli studiosi della Melanesia. Qui il termine pidgin di kastom traduce la nozione di costume, che, imposta dai colonizzatori, fu poi trasformata dalle popolazioni locali in un potente strumento di rivendicazione politica. Oggi, sostiene R. Keesing (Keesing-Tonkinson 1982, pp. 300-01), kastom è il simbolo delle culture indigene. "Ben prima che giungessero gli Europei gli ideologi melanesiani erano al lavoro creando miti, regole, culti segreti". Quando i modi di vita degli antenati divennero strumento di resistenza, soprattutto nelle comunità che rifiutavano il cristianesimo, il costume assunse un'aura di santità. Nella Melanesia contemporanea i significati che gli vengono attribuiti sono molteplici: politici cresciuti in città proclamano le virtù di tradizioni che non hanno mai conosciuto, gente che da decenni ha abbandonato la religione ancestrale dichiara la propria adesione al costume. Lo studio di questi aspetti dimostra il potere che dei simboli astratti acquisiscono proprio dalla loro vacuità. Il kastom è una sorta di contenitore vuoto entro cui si inscrivono gli interessi, le strategie e le aspirazioni di diversi soggetti sociali. Nonostante la sua origine esterna, la parola ormai conosce un uso tipicamente melanesiano, invitando a considerare i processi di autoriflessione attraverso cui le persone giungono a esteriorizzare il proprio modo di vita, considerandolo come un oggetto che può essere adottato o respinto. Keesing conclude sostenendo che la frattura fra i costumi e i soggetti che ne sono i portatori forse si originò proprio dall'esperienza della colonizzazione e della condizione di marginalità che da allora ha caratterizzato le regioni della Melanesia.
La storia della nozione di costume è piuttosto accidentata. Le formulazioni che ha conosciuto nel linguaggio dell'antropologia sociale e culturale mostrano il passaggio da un'interpretazione del costume come elemento vincolante del comportamento sociale a una che invece ne sottolinea le caratteristiche di creazione artificiale, risultato degli interessi, delle strategie e delle aspirazioni di diversi soggetti sociali. Il primo aspetto fu per l'antropologia quasi una sorta di eredità. Ben prima dell'esperienza coloniale, i diversi Stati europei avevano conosciuto la necessità di imporre una struttura giuridica e amministrativa centralizzata a situazioni locali fra loro differenti. La nozione di costume - nel significato di usi e consuetudini tipiche di una data popolazione o di una data regione - svolse un ruolo importante in questo processo (Falk-Moore 1978). In epoca coloniale il costume divenne oggetto di un'esplicita riflessione, in cui si trovò coinvolta una pluralità di soggetti, dai funzionari coloniali alle popolazioni locali, dai missionari agli antropologi. Le consuetudini furono valorizzate, denigrate, trasformate, studiate per dimostrarne l'interna coerenza. Discutendo di costumi furono costruite interpretazioni di quello che era stato il passato precoloniale. Fra queste la più potente fu sicuramente quella che rappresentava le società locali come universi originariamente strutturati e coesi, le cui dimensioni controverse erano il risultato degli effetti distruttivi della colonizzazione. Nell'opinione di T.O. Ranger (1983), gli antropologi diedero un contributo fondamentale alla creazione di un'immagine statica e astorica dei costumi e delle tradizioni africane. La questione resta alquanto controversa. Il colonialismo - sostiene T. Asad (1991) - fu parte integrante di quelle realtà che gli antropologi cercavano di comprendere. Individuando i fattori che garantivano la continuità dei costumi e descrivendo i diritti e i doveri che animavano la vita delle comunità locali, essi parteciparono di quella preoccupazione per l'ordine che accomunava fra loro le diverse amministrazioni coloniali. Il contributo degli antropologi, che in quello stesso periodo si dimostravano interessati, più che a ricostruire le società tradizionali, ad analizzare i mutamenti che stavano investendo l'Africa coloniale, spesso viene dimenticato. Del resto già in Malinowski si può riscontrare un atteggiamento critico di fronte alla presunta adesione degli indigeni alle prescrizioni del costume. Sostenendo che il presente rimodella il passato, egli intendeva allontanare l'analisi antropologica da qualsiasi coinvolgimento nell'indagine storica. Tuttavia la sua affermazione suggeriva un rapporto fra società, tradizioni e costumi assai più complesso di quello che la mentalità coloniale dell'epoca era propensa a ritenere. Furono così poste le premesse per considerare i fatti del costume, per l'appunto, alla stregua di 'fatti', cioè come il risultato di particolari processi storici e sociali, un'interpretazione che comincia a essere formulata negli anni Settanta del 20° secolo, quando l'interesse degli antropologi si sposta dall'analisi dei fattori che garantiscono la coesione e la continuità dell'universo sociale alla considerazione del modo in cui i singoli individui, nelle proprie azioni e nelle proprie scelte, costruiscono, riproducono e modificano gli spazi sociali in cui si sono ritrovati a vivere. Forse non è solo una coincidenza che proprio in questo periodo le società di cui l'antropologia si interessa comincino a emergere dall'esperienza coloniale. Se la tesi di una riproduzione acritica degli usi e delle consuetudini da una generazione a un'altra non è più sostenibile, dal lato opposto anche la loro negoziabilità conosce dei limiti: i fatti del costume "sono già dati ed esercitano una loro forza specifica. Sviluppano una propria autonomia in vista degli effetti di interdipendenza che esercitano gli uni sugli altri. Sono ben più che meri strumenti manipolabili dall'uomo" (Gluckmann 1965, trad. it., p. 353). Tale affermazione conserva un significato sul piano teorico. Gli antropologi contemporanei, tuttavia, preferiscono parlare di habitus piuttosto che di costume. Insistono sulle dimensioni silenti e incorporate della cultura, suggerendo che esistano dei livelli in cui l'agire dei singoli individui prende la forma di una disposizione del corpo e di un'abitudine. La nozione di costume si è invece trasformata in uno dei più vivaci ambiti d'analisi etnografica. Riflettere sulla pluralità di usi che essa ormai conosce porta a esplorare le relazioni che intercorrono fra le dimensioni vissute della cultura e le sue caratteristiche di discorso astratto. Invita anche a interrogarsi sul modo in cui i soggetti di cui si occupa l'antropologia, animati da una consapevole volontà di continuità, costruiscono, con il concorso o meno degli antropologi, immagini e interpretazioni autonome della propria cultura.
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