Costumi
Nello spettacolo i c. sono per loro natura drammaturgicamente 'espressivi'. Nell'atto primo di Amleto, Polonio afferma che "una delle prime qualità del vestimento è la sua espressività". Nel suo saggio The truth of masks (in Intentions 1891; trad. it. in Intenzioni, 1906, pp. 184-87) O. Wilde spiega che W. Shakespeare non pregiava le belle vesti in quanto aggiungono un elemento pittoresco alla poesia del testo scritto, ma sottolineava l'importanza del c. come mezzo per produrre, con assoluta funzionalità, effetti drammatici. E a tale proposito Wilde cita il fazzoletto di Desdemona, il severo c. del principe di Danimarca, le giarrettiere incrociate di Malvolio in La dodicesima notte. Questa qualità, così evidente in teatro, risulta ancor più accentuata nel cinema, proprio come conseguenza di un linguaggio che è prevalentemente visivo, e che si avvale di primi e primissimi piani (close-up), di dettagli che danno valore a un cappello, a un fiocco, a un guanto, a tutto ciò che nella rappresentazione teatrale non arriverebbe al pubblico con pari vivida eloquenza. Nel film, dunque, il c. non è soltanto un elemento decorativo che spesso si impone alla vista dello spettatore, ma diventa mezzo espressivo ed elemento della forma del racconto stesso.
Il filosofo inglese Th. Carlyle definiva il c. un'architettura; egli lo pensava quale parte della scenografia, quasi come vivente scenografia umana e riteneva che prolungasse i gesti e gli atteggiamenti di chi ne faceva uso come particolare segno e attributo. Un grande costumista italiano, Gino Carlo Sensani lo considerava addirittura una "seconda pelle dell'attore" e pertanto riteneva che il suo ruolo e la sua importanza venissero immediatamente dopo quelli dell'attore, di cui interpreta a sua volta la natura, la storia individuale, il carattere, gli atti e anche i propositi. Non a caso, nel film Richard III (1955; Riccardo III) di Laurence Olivier il protagonista porta c. che hanno come segno distintivo il colore rosso, ossia quello del sangue.Vi sono film dove il c. accompagna il racconto e ne segna alcune fasi essenziali: si prenda, per es., La chienne (1931; La cagna) di Jean Renoir. Il protagonista (Michel Simon) è presentato dapprima come un decoroso medioborghese, cassiere e pittore dilettante. Nel procedere dell'azione l'uomo si innamora di una donna equivoca, si allontana dalla moglie e dalle mura domestiche, ruba e uccide, il suo portamento diventa trasandato e scomposto. Nella fase finale del film l'ex impiegato non ha più casa, è un clochard sporco, respinto dalla società. Ed è il susseguirsi di c. così diversi che racconta con immediatezza, meglio che in qualsiasi altro modo, la degradazione del protagonista. Inversa invece è l'evoluzione dell'abbigliamento di Marlene Dietrich ‒ da ragazza di campagna a modella e dama elegante ‒ in Song of songs (1933; Il cantico dei cantici) di Rouben Mamoulian. Nel film-rivista di Lloyd Bacon 42nd street (1933; Quarantaduesima strada) le ballerine che provano una scena sono presentate con assoluta libertà, negli abbigliamenti più disparati e pressoché casuali. Ma con l'avvicinarsi del giorno della 'prima' l'eterogeneo gruppo raggiunge un'unità, anche nei c., e si snoda in un ordine perfetto. È invece il regista, impersonato da Warner Baxter, che, iniziate le prove ineccepibilmente vestito, mentre procede la preparazione dello spettacolo si altera, si scompone, presentandosi infine senza cravatta, con la camicia aperta, sudato e spettinato. Cosicché l'antitetica trasformazione dell'abbigliamento rende perfettamente il tormentato allestimento dello spettacolo. In Kameradschaft (1931; La tragedia della miniera) di Georg Wilhelm Pabst vi è un treno che sta per partire. La gente saluta, il convoglio si muove. Ma, da lontano, arriva la fumata di un incendio. Nelle vie la gente si mette a correre in un silenzio terribile (anche la colonna sonora tace). Una giovane donna, nel presentimento di un pericolo per i suoi congiunti, tenta improvvisamente di scendere dal treno in movimento. Apre lo sportello e salterebbe a terra se una misteriosa viaggiatrice vestita a lutto ‒ forse l'immagine stessa della morte ‒ non glielo impedisse. Lo sportello si richiude e il treno aumenta la sua corsa. Inutile discendere: la miniera ha già avuto le sue vittime. Il cinema sa ben ricorrere all'allusione, e ciò, beninteso, grazie anche alla scienza del costume.I dettagli del c. possono infatti acquistare valore nei loro minimi significati e stimoli. Nel film di Vsevolod I. Pudovkin Potomok Čingischana (1929; Tempeste sull'Asia o Il discendente di Gengis Khan) al giovane fuggiasco russo (Valerij Inkižinov), costretto a mettersi in salvo, i compagni dimostrano solidarietà regalandogli un paio di guanti e un berretto per ripararsi dal gelo invernale. In Les dames du Bois de Boulogne (1945; Perfidia) di Robert Bresson la caduta di un cilindro e di un c. da cabaret ricorda bruscamente a una fanciulla il passato che si era sforzata di dissimulare e nascondere. In Intolerance (1916), David W. Griffith fa esprimere con il gesto di una madre infelice, che stringe convulsamente un indumento della bambina che le è stata tolta dalle assistenti sociali, l'inconsolabile disperazione. In Der blaue Engel (1930; L'angelo azzurro) di Josef von Sternberg la ripetuta apparizione, senza parole, di un enigmatico clown, estraneo a ogni azione, esprime la minacciosa previsione del futuro del professor Unrath, interpretato da Emil Jannings, destinato a trasformarsi a sua volta in un pagliaccio. Il cappello è l'autentico protagonista di Un chapeau de paille d'Italie (1927; Un cappello di paglia di Firenze), allo stesso modo della giacca con il biglietto della lotteria in Le million (1931; Il milione), film entrambi diretti da René Clair.
Nel cinema primitivo, ancora povero di velati accenni e ammiccamenti, i c. non presentavano particolari problemi espressivi, se non quelli stessi degli spettacoli preesistenti su cui si basavano o della vita che riproducevano. Se un film era ispirato a un noto testo teatrale, in esso si riconoscevano i fondali, gli abbigliamenti e gli attori stessi del mondo del teatro, che appartenessero a complessi di categoria non eccelsa o a compagnie di maggior rilievo, e perfino alla Comédie française. Le attrici di prestigio indossavano c. sempre più pregiati, attingendo all'eccentricità e all'eleganza dell'ultima moda, mentre il film storico, o 'pseudo-storico', ricorreva alla cultura figurativa tradizionale, per la monumentalità e la pompa delle ricostruzioni dell'epoca grecoromana o delle corti rinascimentali.Alcuni registi degli anni Dieci prestarono sempre maggiore attenzione ai c. e Giovanni Pastrone per Cabiria (1914), coadiuvato da Camillo Innocenti e da diciotto disegnatori, decise personalmente i c. e le scene per il suo film cartaginese, anche visitando coscienziosamente i musei, mentre Griffith scelse i veli e i fronzoli in Orphans of the storm (1922; Le due orfanelle) per le sorelle Lillian e Dorothy Gish. Grande sensazione destarono i c. di Salomè (1923) di Charles Bryant indossati da Alla Nazimova e ideati da Natacha Rambova sulla linea liberty del grafico inglese Aubrey Beardsley.Se per i brevi cortometraggi del 1895 dei fratelli Lumière, fotografie in movimento, non si può parlare di c. cinematografici perché gli operai dell'officina (La sortie des usines Lumière), i viaggiatori di La Ciotat (L'arrivée d'un train en gare de La Ciotat), il giardiniere annaffiato (L'arroseur arrosé) venivano ripresi nel loro abbigliamento quotidiano, i comici di Mack Sennett erano dei clown, spesso con la faccia bianca (come Harry Langdon o Larry Semon, chiamato in Italia Ridolini), o pagliacci straccioni; Georges Méliès faceva invece appello alla fantasia con i suoi personaggi fiabeschi, diavoli, maghi, stelline che precorrono le Bathing Beauties di Sennett.Il nascente divismo (sia quello italiano, intriso di umori dannunziani, sia quello americano e quello francese) tese a stilizzare e a impreziosire il personaggio, mentre anche la scenografia subiva un'evoluzione grazie al coinvolgimento dei più famosi scenografi, come avvenne per Thaïs (1917) di Anton Giulio Bragaglia che ebbe come collaboratore Enrico Prampolini, e per L'inhumaine (1924; Futurismo) di Marcel L'Herbier che avrebbe fatto appello a Fernand Léger, Claude Autant-Lara, Robert Mallet-Stevens, Alberto Cavalcanti. I grandi stilisti americani ‒ come Adrian e Travis Banton ‒ dettero un notevole contributo all'elaborazione e alla caratterizzazione delle immagini di nascenti o affermate dive, il primo per i film della Metro Goldwyn Mayer e l'altro per le produzioni Paramount. Rivestono una grande importanza i c. in Queen Christina (1933; La regina Cristina) di R. Mamoulian, The painted veil (1934; Il velo dipinto) di Richard Boleslawski, Anna Karenina (1935) di Clarence Brown, Camille (1937; Margherita Gautier) di George Cukor, interpretati negli anni Trenta per la MGM da Greta Garbo e curati da Adrian, ma anche l'abbigliamento ideato da Banton per Marlene Dietrich, con caratterizzazioni erotiche, per Morocco (1930; Marocco) e Shanghai Express (1932) di von Sternberg, e per altri film della Paramount. A questi maestri dei c. si aggiunsero altri validi figurinisti, più o meno legati ai divi hollywoodiani: Walter Plunkett a Katharine Hepburn, Orry-Kelly a Bette Davis e Kay Francis, mentre a Dolly Tree venivano affidati i film d'epoca romantica come David Copperfield (1935) di Cukor. Oliver Messel fu invece, in Inghilterra, il costumista di Douglas Fairbanks per The private life of Don Juan (1934; Le ultime avventure di Don Giovanni) di Alexander Korda e, a Hollywood, di Romeo and Juliet (1936; Giulietta e Romeo) di Cukor; poi, tornato in Inghilterra, creò i c. di Caesar and Cleopatra (1946; Cesare e Cleopatra) di Gabriel Pascal.
Nel cinema inglese spiccano i contributi di Roger Furse per i film shakespeariani di Laurence Olivier, di Cecil Beaton per An ideal husband (1948; Un marito ideale) di A. Korda e Anna Karenina (1948) di Julien Duvivier, e del tedesco Hein Heckroth per The red shoes (1948; Scarpette rosse) di Michael Powell ed Emeric Pressburger. I c. cinematografici, come la scenografia, acquisirono spiccate caratteristiche nel cinema espressionista tedesco. I figurini venivano creati da autentici specialisti: Walter Reimann per Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Dott. Calligari o Il gabinetto del dottor Caligari) di Robert Wiene, in particolare quelli di Cesare, impersonato da Conrad Veidt, e quelli del dottor Caligari, ossia Werner Krauss; Ludwig Meidner per Die Strasse (1923; La strada) di Karl Grune; Robert Hertl e Walter Rohring per Zur Chronik von Grieshuus (1925; L'erede dei Grishus) di Arthur von Gerlach; Ernst Stern per Das Wachsfigurenkabinett (1924; Tre amori fantastici) di Paul Leni. In uno strano connubio, il film tedesco di Wiene, Raskolnikow (1923; Delitto e castigo) si avvale di scenografie espressioniste e dei c. realistici degli attori di Konstantin S. Stanislavskij chiamati a interpretare il film.Tra i costumisti di origine russa vanno ricordati Boris Bilinsky (in particolare per Casanova, 1927, di Alexander Volkov, e Mademoiselle docteur, 1936, di G.W. Pabst) e George Annenkov, il quale non soltanto collaborò con grandi registi come Max Ophuls, Abel Gance, Friedrich Wilhelm Murnau e Orson Welles, ma fu anche autore di un libro sull'argomento dal titolo En habillant les vedettes pubblicato nel 1955.
Il cinema francese, a partire dalla famosa maglia nera di Musidora in Les vampires (1915-16; I vampiri o I cavalieri delle tenebre) di Louis Feuillade, ha dato un notevole contributo all'affermazione del valore espressivo dei c. cinematografici con Jan Hugo, che collaborò con Carl Theodor Dreyer per Vredens dag (1943; Dies irae) enfatizzando il contrasto fra bianco e nero per i c. dei religiosi, con George Benda per i c. fiamminghi di La kermesse héroïque (1935; La kermesse eroica) di Jacques Feyder e per quelli tra il fantasioso e il popolaresco di Le million di R. Clair. Nei vaudevilles cinematografici di Clair spiccano infatti gli abbigliamenti dei personaggi tipici dei quartieri popolari parigini e le scintillanti uniformi degli ufficiali della belle époque che contribuiscono a comporre un variegato linguaggio cinematografico. Christian Bérard fu collaboratore di Jean Cocteau, con il quale, per i c. di La belle et la bête (1946; La bella e la bestia) e di Orphée (1950; Orfeo), lavorò anche Marcel Escoffier, che fu costumista, tra gli altri, di M. Ophuls e Christian-Jaque. Jacques Manuel, cui si deve anche una storia del c. nel cinema (Esquisse d'une histoire du costume au cinéma, 1949; trad. it. 1950), disegnò nel 1929 i costumi per L'argent di L'Herbier. Manuel nella sua storia scrive che "ogni sorta di vestito ha importanza di costume sullo schermo poiché, spersonalizzando l'attore, caratterizza l''eroe'" (p. 23). Come nella commedia dell'arte, così nel cinema il personaggio deve essere definito nel suo ruolo sin dalla prima apparizione. Il vestito in qualche modo fissa e distingue la personalità dell'individuo. Il creatore di questa "scenografia umana" ha un compito più complesso di quello del figurinista di alta moda o dello scenografo teatrale: "Egli deve unire le qualità dell'uno e dell'altro aggiungendovi una conoscenza quanto più precisa è possibile delle esigenze della fotogenia" (p. 23). Come il gran sarto, deve creare la moda, ma pur ispirandosi a quella corrente deve darne una "stilizzazione", una "trasposizione". Infatti, essendo la moda per sua natura provvisoria, se i c. la seguissero troppo pedissequamente, sottolinea Manuel, rischierebbero di far invecchiare subito i film.
Vi furono registi che, prima di essere tali, svolsero attività di costumisti, per es., Autant-Lara curò i c., tra gli altri, di Don Juan et Faust (1922; Don Giovanni e Faust) di L'Herbier e di Nana (1926; Nanà) di Renoir. Erich von Stroheim invece fu sempre estremamente attento all'espressività dei c. e disegnò personalmente quelli di The merry widow (1925; La vedova allegra) e Queen Kelly (1928): egli inoltre aveva un gusto particolare per le uniformi e perfino per le mostrine e le decorazioni militari, quasi animato da un attaccamento da collezionista. Nei film di von Sternberg, che ebbe per collaboratore T. Banton, risulta evidente, come già sottolineato, la voluta caratterizzazione erotica dei c. di Marlene Dietrich. Una coerenza nell'utilizzazione drammatica dei c. è palese in Ernst Lubitsch (che in origine fu regista di brevi film comici ambientati in negozi di abbigliamento) con le famose allusioni dovute al Lubitsch touch: per es., il rovesciamento psicologico in The merry widow (1934; La vedova allegra) è reso evidente quando la protagonista, dopo essere stata presentata con c. a lutto e cagnolino nero, improvvisamente dimostra il suo ritorno alla gioia della vita comparendo con un festoso abito bianco e un cagnolino dello stesso colore. In Ninotchka (1939) il cambiamento di umori della 'proletaria', impersonata da Greta Garbo, e dei suoi guardiani è dato anche dalla trasformazione dell'abbigliamento. Ma innumerevoli sono gli effetti di tipo drammaturgico che Lubitsch riesce a ottenere: servendosi proprio dei c., i commedianti di To be or not to be (1942; Vogliamo vivere!) si fingono tedeschi dando vita a innumerevoli avventure, e in The shop around the corner (1940; Scrivimi fermo posta) il protagonista (James Stewart) si fa riconoscere nel finale dalla sua ignara corrispondente (Margaret Sullivan) mostrando il particolare delle giarrettiere indossate sotto i pantaloni. Le possibilità plastiche offerte dai c. sono pressoché infinite, ma è rilevante sottolineare le soluzioni di figurazione e di racconto che i grandi del cinema possono trovare, offrendo riassuntive caratterizzazioni dei personaggi. Charlie Chaplin appare nel film The kid (1921; Il monello) disteso sotto una povera coperta. È il momento di alzarsi: Charlot tira a sé la coperta, passa la testa in un grosso buco che si trova esattamente al centro, e ne fa una vestaglia con la quale va e viene con la noncuranza di un dandy che ama le sue comodità; dunque, una pantomima pagliaccesca, con il c. che diventa puro linguaggio cinematografico.
Il cinema italiano ha potuto sempre contare su validi costumisti. Nell'epoca del muto, Duilio Cambellotti collaborò a Frate sole (1918) e Giuliano l'Apostata (1920) di Ugo Falena, e a Gli ultimi giorni di Pompei (1926) di Carmine Gallone e Amleto Palermi. Luigi Sapelli, cioè Caramba, oltre che regista, fu costumista di molti film: i più celebrati furono Il re, le torri e gli alfieri (1916) di Ivo Illuminati, Cirano di Bergerac (1922) di Augusto Genina. Con il sonoro, la personalità più eminente fu quella di G.C. Sensani, che esordì con Pergolesi (1932) di Guido Brignone, e successivamente disegnò i c. di Seconda B (1934) e Cavalleria (1936) di Goffredo Alessandrini, Teresa Confalonieri (1934) e Lorenzino de' Medici (1935) di Guido Brignone, Il cappello a tre punte (1935) di Mario Camerini. Firmò anche le collaborazioni per Il signor Max (1937) sempre di Camerini, e per Un'avventura di Salvator Rosa (1939), La corona di ferro (1941), La cena delle beffe (1942), tutti di Alessandro Blasetti. Si debbono ancora a lui i c. di Addio giovinezza! (1940), Gelosia (1942) e Sorelle Materassi (1944) di Ferdinando Maria Poggioli, Via delle Cinque Lune (1942) e La bella addormentata (1942) di Luigi Chiarini, Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati, La contessa Castiglione (1942) di Flavio Calzavara e Giacomo l'idealista (1943) di Alberto Lattuada. Alla sua scuola, presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma, si formarono Maria De Matteis, Dario Cecchi, Maria Baronj (attiva con Carlo Ludovico Bragaglia, Valerio Zurlini, John Huston, Renato Castellani, Luigi Comencini), e Piero Gherardi, che divenne uno dei collaboratori più importanti di Federico Fellini e Mario Monicelli.
Altri specialisti d'eccezione il cinema italiano ha avuto in Vittorio Nino Novarese per Ettore Fieramosca (1938) di Blasetti e Prince of foxes (1949; Il principe delle volpi) di Henry King, nonché per Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, realizzato a Cinecittà: il film gli fece vincere l'Oscar e l'affermazione ottenuta lo convinse a trasferirsi a Hollywood; in Virgilio Marchi, scenografo e costumista, tra gli altri, di I condottieri di Luis Trenker (1937); in Antonio Valente, scenografo e scenotecnico, ma anche costumista per i film di Gioacchino Forzano; in Mario Chiari (tra le sue collaborazioni, Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica); in Veniero Colasanti, la cui prestigiosa carriera si distingue per Les derniers jours de Pompéi (1950; Gli ultimi giorni di Pompei) di M. L'Herbier, Fabiola (1949) di Blasetti, La beauté du diable (1950; La bellezza del diavolo) di R. Clair, e i film di Carmine Gallone, Nicholas Ray, Anthony Mann, Vincente Minnelli; in M. De Matteis che disegnò i costumi di Zazà (1944) di Renato Castellani e, in collaborazione con M. Chiari, di Carosello napoletano (1954) diretto da Ettore Giannini. Il cinema italiano è stato dunque un vero vivaio, anche per la produzione straniera, di costumisti e scenografi (sia teatrali sia cinematografici) di talento, quali Pier Luigi Pizzi, presente in due film di De Sica (I sequestrati di Altona, 1962, e Caccia alla volpe, 1966) nonché di Giuliano Montaldo, Pasquale Festa Campanile, Mauro Bolognini; Lila De Nobili, della cui alta professionalità si professava debitore Danilo Donati; Milena Canonero, costumista, fra gli altri, di Stanley Kubrick (Barry Lindon, 1975), Francis Ford Coppola (The Cotton Club, 1984, Cotton Club), Sidney Pollack (Out of Africa, 1985, La mia Africa); Gabriella Pescucci, vincitrice del premio Oscar per The age of innocence (1993; L'età dell'innocenza) di Martin Scorsese e costumista di Once upon a time in America (1984; C'era una volta in America) di Sergio Leone e Der Name der Rose (1986; Il nome della rosa) di Jean-Jacques Annaud; Nanà Cecchi, che ha collaborato con Ettore Scola, G. Montaldo, Pupi Avati, e in sede internazionale per film interpretati da Richard Gere e Sean Connery; Ugo Pericoli, che ha collaborato con Steno, Luigi Zampa, Dino Risi, Ettore Scola; Gaia Romanini, presente nei film di Antonio Pietrangeli; Lina Nerli Taviani che ha disegnato i c. per i film di Paolo e Vittorio Taviani. Notevoli i contributi di costumisti italiani in film diretti da autori stranieri, come quello di Giancarlo Bartolini Salimbeni (offerto a Jean Delannoy, Robert Aldrich, Victor Tourjansky), Enzo Bulga-relli (per Raoul Walsh, Joseph L. Mankiewicz, Carol Reed), D. Cecchi, costumista in Italia di Lattuada, Camerini, Blasetti, ma anche di Christian-Jaque, Abel Gance, Stanley Kramer, Blake Edwards.Registi quali Luchino Visconti e Fellini si sono valsi nelle loro opere dei migliori costumisti italiani. M. De Matteis lavorò per Ossessione (1943), esordio di Visconti nella regia cinematografica; Piero Tosi disegnò i bozzetti di Senso (1954, in collaborazione con M. Escoffier), di Il Gattopardo (1963), Lo straniero (1967), La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973), Gruppo di famiglia in un interno (1974), L'innocente (1976), riu-scendo a far trasparire anche nei dettagli dell'abbigliamento l'atmosfera rarefatta e di elegante decadenza costruita dal grande regista. Tra i collaboratori di Visconti figurano anche Ferdinando Scarfiotti, Filippo Sanjust, L. De Nobili, Vera Marzot, autrice di bozzetti dei c. per La caduta degli dei e Gruppo di famiglia in un interno. Fondamentale il sodalizio stabilito con Fellini oltre che da P. Gherardi, da D. Donati. Il primo, che ha offerto il suo prezioso contributo alle opere del regista volte a cogliere il lato più 'grottesco' della società, è stato il costumista di La dolce vita (1960) e Giulietta degli spiriti (1965), quest'ultimo caratterizzato dal surrealismo borghese dei costumi. Donati (due volte insignito dell'Oscar) ha lavorato per Fellini Satyricon (1969), I clowns (1970, impreziosito dalla ricerca filologica per la ricostruzione dei c. originali), Roma (1972, con la celebre 'sfilata' dei c. ecclesiastici), Amarcord (1973) e Il Casanova di Federico Fellini (1976). E inoltre per La grande guerra (1959) di Monicelli, per Vanina Vanini (1961) di Roberto Rossellini, per Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e uccellini (1966), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974) di Pier Paolo Pasolini, nel 1968 per Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli, nel 1989 per Francesco di Liliana Cavani. L'ultimo film che lo ha visto all'opera è stato Pinocchio (2002) di Roberto Benigni.
Preziosa è stata inoltre la collaborazione di Donati con la 'officina' di Piero Farani, in grado di offrire un considerevole apporto ai film di Pasolini, che proprio grazie ai c. ebbe modo di accentuare il carattere 'arcaico' di certe sue opere. Vittorio De Sica poté avvalersi del contributo di P. Tosi per Ieri oggi domani (1963), Matrimonio all'italiana (1964, in collaborazione con V. Marzot), e Rossellini di quello di Marcella De Marchis per Era notte a Roma (1960), Viva l'Italia! (1961), e i film realizzati per la televisione nel decennio 1965-1975. Per Luigi Magni ha lavorato invece Lucia Mirisola per Nell'anno del Signore… (1969), La Tosca (1973), In nome del Papa re (1977) e La carbonara (2000), tutti ambientati nella Roma ottocentesca e papalina.Tra i costumisti collaboratori di Zeffirelli sono da ricordare Maurizio Millenotti (Otello, 1986; Hamlet, 1990, Amleto), P. Tosi (Storia di una capinera, 1993), Anna Anni (Pagliacci, 1981; Un tè con Mussolini, 1999; Callas forever, 2002). Carlo Simi ha lavorato costantemente per i film di Sergio Leone e in seguito con Carlo Verdone sul set di Un sacco bello (1980). A Francesca Sartori si devono i costumi del premiatissimo Il mestiere delle armi (2001) di Ermanno Olmi.I costumisti italiani hanno trovato validi e indispensabili collaboratori, oltre che in P. Farani, nella sartoria diretta da Umberto Tirelli (con la quale P. Tosi, in particolare, ha instaurato un proficuo rapporto di lavoro), nei laboratori per 'calzature di scena' di Carlo Pompei, e inoltre nelle ricche raccolte di materiali di abbigliamento offerte dalla sartoria Peruzzi, specializzata soprattutto nella realizzazione di opere liriche, drammatiche e cinematografiche.
M. Verdone, Espressività del costume nel linguaggio cinematografico, in "Bianco e nero", 1943, 5, pp. 20-28.
L'art du costume au cinéma, in "Revue du cinéma", 1949, 19-20 (con scritti di J. Auriol, M. Verdone, C. Autant-Lara, L.H. Eisner, J. Manuel).
La moda e il costume nel cinema, a cura di M. Verdone, Roma 1950.
G. Annenkov, En habillant les vedettes, Paris 1951 (trad. it. Milano-Roma 1955).
M. Verdone, Scenografia e costume nel film, Roma 1986.
S. Masi, Scenografi e costumisti, 2 voll., L'Aquila 1989.
Costumi per narrare. L'officina di Piero Farani, artigianato, cinema, a cura di B. Giordani Aragno, Milano1998.