Čovek nije tica
(Iugoslavia 1965, L'uomo non è un uccello, bianco e nero, 75m); regia: Dušan Makavejev; produzione: Avala Film; sceneggiatura: Dušan Makavejev; fotografia: Aleksandar Petković; montaggio: Ljubica Nešić; scenografia: Dragoljub Ivkov; musica: Petar Bergamo.
Jan, un apprezzato tecnico di mezza età specializzato in turbine, viene inviato in una città di provincia a migliorare il funzionamento di un'industria che trasforma materiale minerario. Qui prende in affitto un appartamento dai genitori di Rajka, parrucchiera giovane, graziosissima e molto corteggiata. La ragazza lo provoca e l'uomo, dopo qualche resistenza, ne diventa l'amante. Quando il padre e la madre di Rajka, rincasati all'improvviso, scoprono la relazione, vanno su tutte le furie. Jan compie con l'abituale scrupolo il suo lavoro. Intanto, in fabbrica si prepara un grande evento: l'esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven. Rajka comincia ad accettare le avances di un autista suo coetaneo, incallito dongiovanni o sedicente tale. Mentre l'orchestra e i cantanti eseguono l'Inno alla gioia, i due fanno l'amore nel camion. Jan se ne va.
Uno dei capolavori della cosiddetta 'onda nera', il nuovo cinema jugoslavo degli anni Sessanta che, per innovazione linguistica, sguardo critico sul sociale e personalità d'autore (basterebbero a illustrarla i nomi di Živojin Pavlović, Aleksandar Petrović e Želimir Žilnik), ha ben poco da invidiare alle coeve vagues europee. Il serbo Dušan Makavejev, alle spalle studi di psicologia oltre che di cinema, alcuni lavori sperimentali nell'ambito del kino-klub Beograd e qualche cortometraggio (citiamo per tutti Osmeh 61, 1961, e Parada, 1962), brillante, anticonformista e perciò da subito nel mirino del potere, ha esordito nel lungometraggio con questo film stupefacente. A colpire sono non solo il fangoso squallore della cittadina di provincia, l'occhio assai poco benevolo con cui viene descritta l'organizzazione del lavoro in fabbrica, la stessa propensione al furto di alcuni operai, in ogni caso sintomi del fallimento della cosiddetta autogestione. Il regista li usa come sfondo per una serie di elementi di contrasto che rappresentano le reali innervature della sua poetica, costanti che segneranno tutto il suo cinema a venire. Innanzitutto, le intrusioni stranianti e ribalde: un ipnotizzatore che dapprima espone e poi mette in pratica le proprie strampalate teorie, un circo di strada con donne ingoiatrici di serpenti in cui "nulla è illusorio, tutto è reale", un'orchestra sinfonica che esegue ‒ in serbo ‒ l'Inno alla gioia per gli operai, fatti sedere nel capannone per settori, a seconda di mansioni e qualifica. Più in generale, il controcanto dell'ironia e di un milieu picaresco, a sdrammatizzare ma, anche, ad aggredire: l'invettiva "Vi abbiamo affittato una stanza, non la figlia!" scagliata su Jan dai genitori di Rajka, l'operaio ubriacone che regala all'amante il vestito della moglie, il gadget dei due cani di piombo che si accoppiano attratti da un magnete… Infine e soprattutto, Čovek nije tica propone l'erotismo come grimaldello del sociale, con la coppia oppositiva classica principio di piacere e principio di realtà a ridicolizzare tutti gli schematismi, sociologici, politici e pseudoscientifici, secondo quella griglia di lettura reichiana che porterà Makavejev a realizzare il film-manifesto W.R., misterije organizma (W.R., il mistero dell'organismo, 1971): film i cui ennesimi problemi con la censura spingeranno il regista a emigrare in Occidente, dove, da Sweet Movie (1973) a Gorilla Bathes at Noon (Il gorilla fa il bagno a mezzanotte, 1993), rimarrà pervicacemente fedele alle proprie ossessioni, proiettandone la carica eversiva sul nuovo contesto.
Film d'amore, come recita, ironicamente ma non tanto, il suo sottotitolo, Čovek nije tica racconta la storia impossibile tra un reticente e malinconico 'uomo senza passato', ma comunque dalle radici ben piantate nel senso comune, e una giovane che incarna la solarità dell'eros e la sua deliziosa 'incoscienza'; in termini emblematici, registra l'epopea dell'incontro tra la leggerezza di un'impalpabile sottoveste nera e la ruvida severità di una canottiera bianca, affidando a una dissolvenza incrociata l'esplicita giustapposizione tra lo splendore del corpo di Milena Dravić e la tetraggine della fabbrica; celebra l'apoteosi dei sensi tra le note di Beethoven, i versi di Schiller e il più direttamente allusivo scrosciare del getto d'acqua che esce da una pompa. Dalla rigogliosa cantante dell'incipit agli zingari presenti nelle sequenze conclusive, sensualità e diversità appaiono il sostrato di tutta la vicenda, mistura esplosiva che si insinua irresistibilmente sotto le fondamenta del sociale e del 'normale'. Introiettandone con felicità le derive, Makavejev passa con la sfrontatezza degli iconoclasti d'istinto dalla mediocrità irrisa ma non umiliata del quotidiano alle esaltazioni del corpo, senza che il suo atteggiamento di eversore subisca le tentazioni di ingessarsi in un'altra ideologia. Nonostante l'aggressività di un patchwork in cui un montaggio caleidoscopico rimescola continuamente le carte introducendo elementi di alterità e spiazzamento, da questo film promanano il lirismo e la malinconia che sempre derivano dalla rivisitazione in prospettiva delle utopie, siano esse filosofiche, politiche o artistiche.
Interpreti e personaggi: Janez Vrhovec (Jan Rudinski), Milena Dravić (Rajka), Boris Dvornik (camionista), Stojan Arandjelović (Barbulović), Eva Ras-Balaš (moglie del camionista), Lepe Landek, Bosiljka Stojadinović, Dušan Bajcetić, Iva Raicković, Dušan Janićijević, Sreten Sonolov, Borivoje Perović, Sefket Šekirovski, Ilija Jovanović, Dušan Antonijević, Danilo Stojković, Pedrag Milinković, Milan Lugomirski.
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