Credere e spiegare
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I Romani credono all’esistenza degli dèi, alla loro superiorità e all’efficacia dei riti, ma non hanno un testo sacro di riferimento che ne fissi i principi dottrinali. Spiegano le pratiche della loro religione attraverso miti eziologici.
Ha senso parlare di “credo” nel contesto di una religione ritualista com’è la religione romana? Ha senso se a questo concetto non si attribuisce lo stesso valore che esso assume nelle religioni monoteistiche. I Romani infatti non hanno dogmi, né dottrine. Credono tuttavia nell’esistenza degli dèi, nella loro superiorità rispetto agli uomini e nell’efficacia dei riti. Credono di avere un rapporto privilegiato con gli dèi da cui dipende la grandezza e la forza di Roma, alla quale, gli dèi soddisfatti del culto che ricevono, accordano un’esistenza eterna. Quando il potere di Roma inizia a subire duri colpi a causa delle invasioni esterne e dei conflitti interni, anche la fiducia negli dèi tradizionali comincia a incrinarsi per lasciare spazio a credenze nuove strutturate su principi diversi, come il cristianesimo, che proprio per questo riuscirà a imporsi come religione di stato.
Tradizionalmente si è ritenuto che i Romani non avessero un vero sentimento religioso e che il loro “credo” fosse molto “opportunista”, un’idea spesso riassunta dalla formula do ut des, che significa letteralmente “ti do affinché tu mi dia”. Quest’espressione dovrebbe tradurre un rapporto con il divino di tipo “utilitaristico”, secondo la visione propria di chi critica la religione romana per la sua mancanza di spiritualità, considerandola meramente formale e incapace di far accedere l’individuo a un vero contatto con il mondo divino. Ma questa posizione è ormai obsoleta e certamente influenzata dal rapporto utilitaristico messo in atto nella pratica del voto. Il voto infatti è un rito in cui gli uomini promettono una ricompensa alla divinità qualora essa accordi il beneficio richiesto.
John Scheid (Leçon inaugurale al Collège de France del 2002, uscita per le Éditions Fayard) ha ritenuto più opportuno rovesciare la formula tradizionale in da ut dem “dammi affinché io ti dia”, rendendola più appropriata al sistema del voto romano. Effettivamente, nel voto l’offerta è data agli dèi solamente una volta che il dio ha esaudito la loro richiesta. Se qualcuno parte in campagna militare per esempio, può domandare a una divinità di accordargli di tornare vincitore e promettere in cambio la costruzione di un nuovo tempio. L’esecuzione della promessa avverrà solamente una volta che il generale è effettivamente rientrato vincitore. Il voto però non è la sola pratica religiosa e il suo carattere contrattuale non può essere considerato come rappresentativo di tutta la religione romana.
Tale carattere contrattuale della religione romana non deve essere considerato in antitesi a un vero sentimento religioso, al contrario: i Romani ritengono che gli dèi abitino nello stesso spazio civico e siano dei partner – benché considerati superiori agli uomini – con i quali eventualmente trattare gli affari di stato (John Scheid, Numa et Jupiter ou les dieux citoyens de Rome, in “Archives de Sciences Sociales des Religions” 59, 1985, pp. 41-53). Durante il regno di Numa, si racconta, Roma è minacciata dai fulmini che cadono incessantemente e costituiscono un pericolo per gli uomini. Per mettere fine a questo problema, Numa, re dei Romani, decide di incontrare Giove, sovrano degli dèi. Durante il loro colloquio egli riesce a farsi apprezzare dal dio per la sua capacità a trattare e per la sua intelligenza. I Romani raccontano in questo modo come sono state poste le basi per una relazione equilibrata tra uomini e dèi.
Ovidio
Fasti, Libro III, vv. 329-348
Si sa che tremò la cima del bosco aventino,
il suolo s’infossò gravato dal peso di Giove:
il cuore del re ha un soprassalto, gli sfugge il sangue
da tutto il corpo, e i capelli gli si drizzano sul capo.
Come riprese spirito: “Re e padre degli dei del cielo”,
disse, “se ho sempre toccato i tuoi altari con mani pure,
se anche la mia richiesta è avanzata con lingua pia,
dammi sicuri insegnamenti per scongiurare i fulmini”.
Giove assentì alla preghiera, ma celò il vero con oscura
Perifrasi e atterrì Numa con ambigue parole:
“Taglia una testa”, disse. “Obbedirò”, fu la risposta.
“Dovrò tagliare una cipolla cavata dal mio orto.”
Giove precisò: “Di uomo”. “La cima dei capelli”, rispose il re.
Ma Giove chiede una vita; e Numa dice “Di pesce”.
Giove sorrise, e soggiunse: “Con questi mezzi cerca
Di scongiurare i miei dardi, o uomo non indegno del colloquio con gli dèi.
Ma quando il dio Cinto domani avrà mostrato l’intero
Suo disco, io ti darò sicura garanzia della tua sovranità”.
Disse, e nell’aria sconvolta voltò con fortissimo fragore
Di tuono, lasciando Numa atteggiato in preghiera.
Ovidio, Fasti, trad. it. M. Fucecchi, Milano, BUR, 1998
Le religioni che ci sono oggi più familiari come il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam sono definite “religioni rivelate” perché si basano su dei testi sacri ritenuti ispirati direttamente da Dio i quali costituiscono il fondamento della dottrina. La Bibbia e il Corano sono i libri di riferimento per la credenza e per la pratica (per questo si parla di “religioni del libro”).
Nella religione dei Romani invece non esiste un libro che abbia valore di testo sacro. I testi religiosi che esistono nell’antichità romana, come quelli dei pontefici e degli àuguri, sono piuttosto raccolte di formule o rendiconti di modificazioni apportate nel corso del tempo ai differenti culti, mentre non esistono libri che trasmettono una dottrina capace di spiegare in modo univoco né la credenza né gli atti di culto. La trasmissione del sapere religioso avviene infatti oralmente di generazione in generazione: i genitori trasmettono ai figli il savoir faire essenziale per compiere i riti domestici, come i sacerdoti in carica fanno con i colleghi che entrano a far parte del loro collegio o del loro sodalizio (cfr. Francesca Prescendi, How do children acquire religious knowledge? An example of knowledge transmission within the family, in V. Dasen et Th. Spaeth ed., “Children, Memory and Family Identity in Roman Culture”, Oxford UP, 2010, pp. 73-93).
In una religione in cui non esistono né testi sacri né libri dottrinali, le ragioni per cui si compie un determinato rito sono libere e multiple. Ogni individuo può scegliere la spiegazione che gli sembra più giusta o crearne di nuove.
Alcune di queste spiegazioni sono state trasmesse dalla letteratura con il nome di “eziologie”, un termine moderno che deriva dal greco aition (“causa”) e logos (“discorso”) e significa “discorso sulle cause (originarie)”. Le opere eziologiche sono trattati in prosa o in poesia che riflettono non solo sulle origini dei fenomeni religiosi, ma anche di quelli culturali e fisici. Queste spiegazioni hanno un valore paragonabile a quello delle etimologie che, ricostruendo l’origine della parola, cercano di chiarirne il senso. Spiegazioni di questo tipo si trovano per lo più in opere dette “antiquarie”, cioè redatte da chi è iuris et litterarum et antiquitatis bene peritus (Cicerone, Brutus, 81, “esperto di diritto, letteratura e antichità”). Numerosi autori si sono dedicati a questo genere letterario: Varrone che ha scritto un trattato sulle antichità divine e umane; Ovidio con i suoi Fasti, un’opera poetica in cui descrive e riflette sulle feste del calendario romano; Plutarco con le Questioni greche e romane in cui analizza e compara usi e costumi dei due popoli; Macrobio con i Saturnalia, un testo che rappresenta un’indagine sulla festa romana dei Saturnali, ma che contiene anche ampi commenti su altri riti e pratiche antiche; i commenti di Servio alle opere di Virgilio che presentano spiegazioni storiche e culturali dei testi poetici. La lista delle opere cosiddette “antiquarie” potrebbe comprendere anche alcuni storici come Livio o Dionigi di Alicarnasso perché le loro opere sono ricche di excursus eziologici sulle pratiche rituali.
Le opere eziologiche non sono pervase dallo stesso spirito che anima i trattati scientifici moderni caratterizzati dalla ricerca di un’unica spiegazione che renda conto di un determinato fenomeno. L’antiquario s’interroga a partire dalla realtà che lo circonda per comprendere e far comprendere la sua o le sue possibili origini. In effetti, quello che interessa gli antiquari non è la ricerca della verità, ma la rete di relazioni culturali soggiacenti al fenomeno inquisito. Per questo le eziologie fornite sono un insieme di miti, riflessioni antropologiche e analisi sulle qualità fisiche di certi elementi che permettono di capire più in profondità i diversi aspetti della questione. Miti eziologici ed etimologie rappresentano insomma degli strumenti di ricerca: chi scrive non ripete solamente delle informazioni apprese altrove, ma fa le sue proprie scelte, interpreta, completa e, quando non ha sufficientemente materiale a disposizione, inventa senza porsi particolari problemi di “veridicità”. Quello che è fondamentale in questo processo esplicativo è che i nuovi apporti siano compatibili con la cultura in cui s’inseriscono. Si creano così nuovi miti che non sono sostanzialmente diversi da quelli che si sono creati in tempi più antichi: benché questi nuovi racconti siano il prodotto di uno scrittore invece di essere il risultato di una stratificazione di racconti orali, e benché siano creati ad hoc per spiegare un fenomeno culturale (un rito, una festa, il nome di un mese ecc.) invece di essere dei racconti autonomi, essi possono tuttavia avere lo stesso valore culturale dei racconti tradizionali nel definire l’identità dei Romani.
L’eziologia è dunque una riflessione intellettuale e artistica che gli autori praticano senza controllo da parte delle autorità religiose. Questo non significa che essa non abbia un rapporto stretto con l’oggetto religioso di cui costituisce l’esegesi. Spesso infatti i miti eziologici enunciano secondo il codice narrativo lo stesso messaggio che nei riti si esprime secondo il codice simbolico.